Un'intervista a David Grossman sulla situazione israelo-palestinese
Liberation 20.8.11
«Dans cette région, tout vous pousse à ne pas penser, à agir instinctivement»
L’écrivain israélien David Grossman revient sur la situation de son pays à l’occasion de la publication d’«Une femme fuyant l’annonce»
recueilli par Natalie Levisalles a Jérusalem
quil’Unità 20.8.11
«Io, ragazza di vent’anni e il mio 25 aprile di rabbia»
Parla Anna, iscritta all’Anpi
di Enrico Rotelli
Resistenza, 25 aprile... «non se ne parla molto a scuola. Mi sto formando per conto mio» Anna ha 19 anni, una maturità classica appena passata «bene, e ora iscritta a lettere moderne». La sua formazione l’ha portata a seguire le iniziative dell’Anpi, dapprima viaggi sui luoghi della memoria, poi a iscriversi. «Quando ho saputo che volevano spostare il 25 aprile ho sentito molta rabbia. È un attacco a una festa che hanno sempre cercato di screditare». Anna Casadei è una ragazza «in autoformazione». Che ascolta un po' tutta la musica ma cita per primi cantautori come De André, Vecchioni, «ma anche gli attuali: conosce i Modena City Ramblers?». Un poco. Resistenza e 25 aprile. Dicevi che non sono argomenti di cui si parla molto a scuola...
«Non molto, mi sono formata per conto mio, attraverso i giornali, la tv, Annozero, Ballarò. Poi ho frequentato un collettivo studentesco, ho partecipato alla sensibilizzazione per i referendum. Ai temi della Resistenza ci sono arrivata attraverso il collettivo e frequentando il circolo di lettura della libreria Viale dei Ciliegi, dove abbiamo organizzato una gita a Marzabotto in collaborazione con l’Anpi di Rimini. A scuola si studia un po’ la Resistenza, però è un programma scolastico. Abbiamo approfondito più il Risorgimento, per il 150 ̊, mentre il 25 aprile abbiamo avuto un incontro sul ruolo delle donne partigiane. Credo sia stato faticoso per quelle donne trovare il coraggio di fare ciò che hanno fatto. Finché non ci sei non ti sembra possa essere vero. Magari erano spinte dalla libertà e hanno superato la paura. Adesso è facile dirsi antifascisti, non ci sono problemi gravi e contingenti che ti facciano rischiare la vita».
E a Marzabotto, cosa hai pensato?
«Mi ha colpito l'uomo che ci accompagnava, un ex internato, come mi ha raccontato quell'esperienza. Sorrideva. Quando gli hanno chiesto se perdonava ha detto che sì, perdonava. Io non riesco a concepire come sia possibile perdonare chi ti ha distrutto la famiglia, gli amici. Lui ha trovato il coraggio di perdonare e di raccontare ai giovani quel che ha vissuto. Molti non ce l'hanno fatta a diventare testimoni. È una cosa talmente inimmaginabile che non riesco nemmeno a mettermici con la fantasia».
Cosa vedi in questi interessi che stai coltivando? «Nel movimento partigiano vedo valori che sento molto profondi, come la libertà o il desiderio di democrazia. I valori della Costituzione ho cercato di approfondirli, perché li sento molti mie. E vedere che c'è un' associazione che li difende e li promuove mi ha interessato. Anche se i miei coetanei, sentendo parlare dell' Anpi, la ritengono qualcosa di inutile, con valori non più attuali e che hanno avuto un senso in quel contesto e oggi non più. Li vedo poco interessati, come se il movimento partigiano fosse legato solo al passato. Non ne comprendono l’attualità». E tu, come vedi l'attualità. Voglio dire, lo spostamento delle feste civili, ad esempio...
«Già sono feste che non vengono considerate, intendo tra i ragazzi: le vedono come un giorno da stare a casa da scuola e fine. Se vengono relegate a feste secondarie, verranno dimenticate. Quello che bisogna fare è valorizzarle. Parlarne a scuola. Mi piace anche come l’Anpi cerca di promuoverne i valori, con molte iniziative. Quando ho saputo che volevano spostarle ho sentito molta rabbia, perché quando c'è qualcosa da tagliare vanno a colpire ambiti invece da valorizzare. Mi sembra un attacco specifico a una festa che hanno sempre cercato di screditare. Lo vedo come il cercare di nascondere un passato storico, o quanto meno di far diventare meno importante un passato che è nostro, comunque. E che per qualcuno è scomodo. Ci credo poco che non l'abbiano fatto apposta, mi sembra più qualcosa di deliberato. Mi sembra una presa in giro. Il 25 aprile vedo che c'è sempre tanta gente, unisce molto. Spostarlo potrebbe lacerare o potrebbe spingere le persone a festeggiarlo di più, spinti della rabbia. Mi fa arrabbiare così tanto che avrei voglia di fare più rumore il 25 aprile per dimostrare che non siamo d'accordo. Ho vissuto l’ultimo 25 aprile in piazza a Rimini. C’erano i banchetti dell’Anpi, c'era Emergency, i ragazzi dei centri sociali che facevano i graffiti, è stato bello. Mi sono sentita vicina a tutte queste espressioni».
l’Unità 20.8.11
Il Guardian ha analizzato i dati dei 1300 arrestati registrati dai tribunali p Polemiche sulla severità delle sentenze: «No all’uso politico dei giudici»
Giovani, poveri e disoccupati L’identikit dei teppisti di Londra
Per Cameron erano solo criminali. Il Guardian però ha tracciato l’identikit degli arrestati durante le razzie a Londra, utilizzando i dati dei Tribunali. I teppisti è il risultato sono in gran parte giovani, poveri e disoccupati.
di Virginia Lori
David Cameron li ha bollati come criminali, gente senza etica né valori, giovani viziati incapaci persino di dare un colore politico alle nottate di fuoco di Londra ed ha promesso il pugno di ferro, chiamando come consulente di Scotland Yard il superpoliziotto americano David Bratton, quello della tolleranza zero. Mentre la Gran Bretagna ancora si interroga, il quotidiano Guardian è andato a spulciarsi i dati dei 1300 ragazzi arrestati durante i disordini e registrati presso i tribunali. Risultato? L’identikit del teppista medio è apparso sorprendentemente vicino a quello ipotizzato al primo manifestarsi degli incidenti, prima che il governo imbarazzato dalla lentezza della risposta, liquidasse la faccenda come semplice criminalità. Gli arrestati sono infatti soprattutto giovani, poveri e disoccupati.
L’approccio scientifico è merito anche del ministero della Giustizia, che ha concesso al quotidiano un accesso «senza precedenti» alle corti distrettuali, il livello più basso del sistema giudiziario britannico. In pratica i giornalisti hanno avuto nomi, cognomi, indirizzo, incriminazione e sentenza di tutti coloro che sono finiti in tribunale per reati connessi ai tumulti. Per adesso, quasi 1.300 persone.
Il risultato smentisce almeno in parte il giudizio del premier, i numeri raccontano un’altra storia. Incrociando tutti i dati è venuto fuori che la maggioranza dei teppisti proviene dai quartieri poveri: il 41% degli imputati fa parte del 10 per cento delle aree più depresse del Paese. Il 66% delle zone dove vivono gli accusati si è poi impoverito ulteriormente a partire dal 2007. Dall’inizio cioè della crisi. Quanto all’età nessuna sorpresa. Il 49% di chi è finito davanti al giudice ha tra i 18 e 24 anni e ben il 17% ha tra gli 11 e i 17anni. Appena il 6% ha oltre i 41 anni.
«I tumulti sono stati deplorevoli», ha detto Alex Singleton, uno degli esperti che ha collaborato con il Guardian in questa fase preliminare di analisi. «Ma se vogliamo che non accadano più, le condizioni di vita delle persone di certe aree devono far parte del dibattito. La “società spezzata” deve materializzarsi da qualche parte e la geografia conta».
La polemica continua anche sul fronte della severità mostrata dai tribunali, che si sono allineati alle indicazioni dell’esecutivo. I numeri sembrano confermare le indicazioni dei primi giorni: il 70% dei fermati è finito in galera, il 39% è stato trasferito alle corti penali per affrontare un processo davanti alla giuria. Le pene comminate sono superiori del 25% rispetto alla media di reati analoghi.
Fa discutere, ad esempio, la severità della pena inflitta a due ragazzi che avevano incitato alle razzie utilizzando Facebook. Jordan Blackshaw, 21 anni, e Perry Sutcliffe-Keenan, 22 sono stati condannati a quattro anni, con soddisfazione del premier David Cameron, convinto dell’utilità di inviare un «duro messaggio» ai teppisti. I conservatori però sono stati criticati anche all’interno della maggioranza governativa. «Con tutto il rispetto per il primo ministro, i politici non dovrebbero applaudire o fischiare le sentenze. Una parte importante dei nostri principi costituzionali è che l’influenza politica non sia diretta al sistema giudiziario», ha detto l'ex leader dei libdem Sir Menzies Campbell. Max Hill, vicepresidente dell'associazione delle camere penali, ha detto che le Corti d’appello confermeranno i verdetti più severi nel caso siano giustificate, ma in altri ci sarà «una revisione sostanziale».
l’Unità 20.8.11
Mosca 1991, e Gorbaciov si scoprì solo
La disgregazione dell’impero sovietico inizia il 19 agosto con uno strano golpe fallito dopo tre giorni, e giunge al termine in dicembre. Il leader della Perestrojka destituito, tutti i poteri a Eltsin... ma è ancora una storia da scrivere
di Bruno Gravagnuolo
Strano golpe quello del 19 agosto 1991 a Mosca, di cui in questi giorni ricorre il ventennale. Una sorta di azzardo malriuscito, non privo di venature goffe e farsesche, ambivalente, contraddittorio, e intriso di aspetti ancora oggi non del tutto chiariti. Come che sia un fatto è certo, il tentativo di una parte cospicua della nomenklatura al vertice dell’Urss, tra il 18 e il 21 agosto di allora, sortì l’effetto opposto di ciò che i cospiratori si proposero: non la salvaguardia dell’Impero sovietico, ma la sua disgregazione definitiva. Culminata infine il 25 dicembre di quello stesso anno con l’ammaina bandiera al Cremlino. I fatti. Il 19 radio e televisioni nazionali a reti unificate cominciano a trasmettere per ore lo stesso programma: Il Lago dei cigni di Ciaikovskij. Qualcosa non quadra. A metà mattinata il vicepresidente dell’Urss Ghennadij Jianaev, uno dei congiurati, prende la parola in tv, dopo un breve comunicato impersonale sul colpo di stato avvenuto. Discorso debole, di critica alla gestione di Gorbaciov, di appello al ristabilimento dell’ordine e alla slavaguardia dell’Urss, minacciata da disordine e dissoluzione. Parla a nome di un «Comitato generale sullo stato di emergenza», formato oltre che da Janaev vice di Gorbaciov dal primo ministro Valentin Pavlov, dal ministro della difesa Dimitri Jazov, dal capo del Kgb Wladimir Kryuchcov, dal ministro degli interni Boris Pugo, e dal capo della segreteria di Gorbaciov, Valeri Boldin. Oltre che da una serie di funzionari che si erano opposti dai primi di agosto alla firma del Nuovo Trattato dell’Unione.
Già, perché il punto fondamentale in ballo in quei giorni era proprio questo: la firma di un trattato in base al quale l’Urss doveva diventare una sorta di confederazione di stati relativamente sovrani, come in parte stabilito da un referendum del 17 marzo 1991. Quel trattato doveva essere firmato proprio il 19 agosto, giorno del golpe. E però solo 9 Repubbliche su 15 erano disposte a firmarlo, stante che le tre repubbliche baltiche avevano già dichiarato la secessione. E che Armenia, Georgia, Cecenia e Moldavia avevano boicottato il referendum a sostegno del Trattato. Dunque, situazione drammatica e impervia. Con i golpisti che avevano come primo obiettivo quello di impedire trattato e sue conseguenze: pacifiche o unilaterali che fossero. Ma Gorbaciov dove era? Era a Foros, in Crimea, in una sua residenza estiva, con la moglie e la nipote. Si preparava a partire per Mosca proprio il 19 agosto, dove era convinto di poter portare a casa il Trattato senza conseguenza tragiche, salvando in una nuova veste l’Urss. Convincimento opposto a quello dei golpisti, che lo bloccano in Crimea, isolandolo e impedendogli di raggiungere Mosca: diranno che aveva problemi di salute. Torniamo a Janaev e al golpe. Perché, a questo punto, accade l’impensabile. Deputati, giornalisti e folla (non tanta all’inizio) accorre alla Casa Bianca russa. Circondata da reparti dell’esercito, che però non interviene, né cannoneggia l’edificio. Eltsin, Presidente russo secondo molte testimonianze riluttante e brillo fin dal mattino giunge tranquillamente nell’edificio, e poi si lascia issare su uno dei carrarmati che avrebbero dovuto far regnare l’ordine. Alcune guarnigioni si rifiutano di eseguire i compiti assegnati loro dalla Difesa e dai generali, sicché truppe e generali si ribellano (almeno due divisioni si mettono a difesa della Casa Bianca). Ci saranno sei morti, pare. Tre tra i difensori della democrazia e di Eltsin, forse travolti non intenzionalmente dai carri verso i quali accorrevano. E tre tra i golpisti (tre suicidi a seguito della sconfitta). Ma quella del 20 è la giornata cruciale. Si capisce subito che il golpe non ha nessuna chance: troppo divisi e deboli i golpisti, quasi timidi e pentiti fin dall’inizio. Nessun rimpianto poi tra la gente per l’Urss di una volta. E nemmeno per l’Urss di quel momento, uscita da un inverno terribile e a corto di generi di prima necessità. Inoltre quasi subito l’esercito defeziona e non risponde. Meno che mai accetta di sparare sulla folla accorsa attorno a un Boris Eltsin attorniato da telecamere e fotografi. Così Gorbaciov viene liberato e fa ritorno a Mosca dalla Crimea, anche se la vera storia comincia solo adesso. Con Gorbaciov stesso costretto a giustificarsi, delegittimato da Eltsin, e di lì ad alcuni mesi costretto ad uscire di scena. Senza rimpianti tra gli ex sovietici ai quali aveva tentato di regalare un ordine sovietico riformato e post-comunista (parlava di cooperazione tra sistemi alla Sacharov, di interdipendenza e di socialismo democratico).
Ed ecco le tappe salienti che seguono il golpe fallito, dopo appena tre giorni, con tutti gli organizzatori arrestati, e Gorbaciov ridiventò per poco Presidente dell’Urss. Il 24 agosto Gorbaciov si dimette da segretrario del Pcus. Segretario diviene Vladimir Ivasko, fino al 29 agosto. Il primo dicembre un referendum vota al 90% per l’indipendenza delle singole repubbliche sovietiche. Il 25 Gorbaciov si dimette da Presidente dell’Urss e proclama abolita quella carica. Tutti poteri passano a Boris Eltsin e quella notte stessa la bandiera rossa che aveva sventolato sul Reichstag a Berlino nel maggio 1945 viene issata per l’ultima volta al Cremlino. Infine il 26 dicembre il Consiglio delle Repubbliche riconosce formalmente la dissoluzione dell’Urss. Fine dei giochi.
Alcune considerazioni conclusive. Innanzitutto una domanda: quale fu il vero ruolo di Gorbaciov in qui giorni di agosto? In molti, e tra questi Eltsin, lo accusarono di essere stato compiacente se non complice dei golpisti. In realtà, verosimilmente, Gorbaciov si era tenuto in bilico fino all’ultimo, puntando sul suo carisma. E sperando di poter navigare tra due opposte minacce: quella autoritaria e quella secessionista con inclusa guerra civile. Forse si era impegnato a garantire con la forza l’Unione, in caso di mancata firma dell’accordo da parte delle sei repubbliche ribelli. Ma così si era lasciato imbrigliare, lasciando spazio ai golpisti, molti dei quali si dichiaravano, ed erano parte integrante del suo entourage. Di qui l’azzardo e l’ambivalenza di un Gorbaciov protetto dai ribelli di vertice, ma tenuto in scacco e alla fine inerme dinanzi a Eltsin. Altra domanda, di fondo stavolta: quale la radice ultima e «strutturale» di tutto questo epilogo? Lo abbiamo accennato: il Trattato dell’Unione e le sue conseguenze. Che tuttavia presupponeva una disgregazione già in atto dell’Urss, sotto i colpi stessi della Perestrojka. Che cosa vuol dire? Questo: la riforma di Gorbaciov aveva innestato un processo economico e istituzionale che aveva fatto saltare il patto interetnico su cui si basava la riedizione bolscevica dell’Impero zarista a partire dal 1917. Da un lato le repubbliche reclamavano sovranità piena in mataria economica e di privatizzazioni. Rifiutandosi di pagare le entrate fiscali al governo di Mosca. Dall’altro si allentava il nesso tra elites locali ed elite russa centrale. Crollava il mosaico post-zarista delle nazionalità, ideato da Lenin e cementato con sangue e terrore da Stalin. Una costruzione blindata dalla grande guerra patriottica (con venti milioni di morti contro il nazismo) e rafforzata dal ruolo imperiale sovietico durante la guerra fredda. Poteva andare diversamente? Quel che a oggi possiamo dire, è che il post-comunismo ha conciso con disordine e grande ricomposizione dell’ordine mondiale. Con parte dell’est Europa divenuta elemento integrante dell’Europa (anche Nato). Con guerre civili nell’ex Jugoslavia, e un mix diffuso di populismo e democrazia. In Russia in particolare, (ri)divenuta attore internazionale, ha vinto una democrazia autoritaria. E un capitalismo formatosi in gran parte con la riconversione economica e privatistica di una nomenclatura che ha avuto un ruolo chiave nella privatizzazione dell’immenso complesso industriale e agrario dell’ex Urss. Perciò, stato forte e boiari economici, con al vertice un ex del Kgb. E nuove dinastie e grandi povertà, fuori dallo scintillio di Mosca e Leningrado (con un età media diminuita nell’ex Urss di quasi dieci anni). Gorbaciov fu il Lutero inconsapevole di tutto questo: un riformatore che polverizzò la sua fede e il suo regno, senza riuscire a farne la Riforma. Resta un gigante per quel che ha dato al mondo (la fine della guera fredda) e meritava miglior fortuna, malgrado gli errori. Ma soprattutto meritava di essere aiutato dall’Occidente. E non di essere archiviato e aiutato a sparire in fretta. Come di fatto è accaduto.
Repubblica 20.8.11
Cultura self service
L´estetica del "mi piace" che domina nella rete
di Stefano Bartezzaghi
Oggi ovunque siamo invitati ad esprimere opinioni e preferenze E sulla base di queste è possibile creare oggetti su misura dalle scarpe alle fiabe
Quando facciamo una scelta che sembra diversificarci e in questo modo costruiamo un prodotto fatto per noi in realtà entriamo in un profilo di consumatore
Libri, video, musica se tutto è personalizzabile
La funzione "mi piace" accompagna in rete ogni musica, video o testo; tutti ci spingono a esprimere le nostre preferenze e a comunicarle agli amici: è il segno di un´estetica individuale fondata sul gusto e non sul pensiero. Così i prodotti si adeguano: possiamo personalizzare non solo le magliette, ma anche le fiabe, i romanzi o le canzoni inserendoci i nostri nomi, scegliendo strofe e pagine. Un modo per costruire liberamente un sapere su misura o una semplice variazione del consumo?
C´è almeno un punto su cui George Orwell, Aldous Huxley e gli altri autori delle più cupe immaginazioni sul futuro hanno sbagliato. Il luogo comune delle utopie alla rovescia vuole che l´eguaglianza tra gli uomini (ottima cosa) sia ottenuta per riduzione di ogni diversità e tarpatura di ogni psiche (spavento). In quei mondi fittizi le manifestazioni di individualismo sono sintomi della peggior malattia, stigmi del peccato originale, prove del crimine più efferato: il pensiero personale.
Quel che è successo, o che sta succedendo, è l´esatto contrario. Il Potere, la Rete o qualsiasi altra istanza a cui assegnare il compito di Grande Formattatore del Reale e del Virtuale non ci chiede affatto di rinunciare a opinioni, gusti, orientamenti personali. Al contrario, ci invita a formulare la nostra opinione. Il suo messaggio principale è: «Di´ che ti piace prima di tutti i tuoi amici» (opzione ubiqua in tutta la Rete).
Il gusto, non certo il pensiero, è infatti il vento che dispiega e gonfia le vele del personalismo. Dall´adesione ideologica alla concupiscenza, alla semplice preferenza, al capriccio finiamo per aderire ai nostri gusti, a indossarli e anzi a incarnarli. Le nostre bacheche Facebook si riempiono di messaggi del genere: «A XY piacciono le melanzane alla parmigiana e Rainer Maria Rilke». La bizzarria degli accostamenti a volte è violenta; ma a essere bizzarra è già la cosa in sé. Roland Barthes, il finissimo critico e scrittore, giocò a «mi piace / non mi piace» nel 1975: elencò gusti («... il sale crudo, i romanzi realisti, il pianoforte, il caffé, Pollock...») e disgusti («... Vivaldi, telefonare, i cori bianchi, i concerti di Chopin, le serate con persone che non conosco...») per un libro intitolato Roland Barthes di Roland Barthes. Il gioco, allora, era riservato a pochi privilegiati: un semiologo raffinato, che si era conquistato il diritto di scrivere un libro a proposito di sé stesso. O anche il comico Woody Allen, con le sue famose «cose per cui vale la pena vivere» che, avendo raccolto un vasto pubblico di simpatizzanti attorno al proprio narcisismo, diventarono le «cose che vale la pena di mettere in un film». Una volta per decidere di dichiarare i propri gusti occorreva essere o diventare perlomeno gente come Lucio Dalla («La musica andina, che noia mortale»), Franco Battiato («Non sopporto i cori russi / la musica finto rock /la new wave italiana il free jazz punk inglese. / Neanche la nera africana»), Nanni Moretti (Sachertorte, scarpe, quartieri di Roma, Alberto Sordi, Lina Wertmüller...). Ora basta un blog o un profilo Facebook.
In moltissimi altri ambiti è consentito, incoraggiato, sollecitato o anche francamente richiesto il nostro intervento personalizzante. I bibliofili segnavano la proprietà della loro copia applicando l´ex-libris («Dai libri di»). Oggi esistono siti che personalizzano direttamente il testo, per esempio inserendo il nome di un bambino in una favola o quello di un adulto in una storia d´amore. Il vecchio «It´s you!», il dito puntato delle rockstar dal palco verso persone ognuna delle quali si sentirà la Prescelta, diventa così una reale possibilità. L´evoluzione degli apparecchi di riproduzione e registrazione hanno già fatto diventare un gioco da mano sinistra la produzione di compilation personalizzate di canzoni (quelle che un tempo prendevano ore e inficiavano il ripasso pomeridiano dei liceali). Ma ora esistono anche siti che a richiesta aggiungono nomi o modificano canzoni, procurando (a costi altini) l´equivalente in formato mp3 di una serenata.
È il trionfo della personalizzazione: aNobii mostra le nostre biblioteche personali e le incrocia con quelle altrui, per scoprire affinità tra lettori; social network affini esistono per la musica, il cinema, l´arte. Possiamo scegliere la colonna sonora di un videogioco, il carattere di lettura di un e-book, la successione dei capitoli di un libro come ci componiamo un menu al ristorante.
Nel mondo degli oggetti scegliamo non più l´abbinamento dei colori, ma anche la scritta sulla maglietta; non più il modello d´auto, ma anche il motivo decorativo del tettuccio. Valentino Rossi ha iniziato a decorare la sommità del casco a causa delle riprese televisive dall´alto, e noi lo imitiamo. Dal monogramma sulla camicia, il dominio della personalizzazione possibile si è esteso sino alle scarpe, su cui ora un´azienda salentina può stampare qualsiasi foto che gli venga mandata via Internet.
Non sarà forse inutile specificare che la carica negativa dell´utopia è tutt´altro che scongiurata dal topos in cui viviamo. La folla solitaria si è forse riappropriata di qualcosa? Con pennarelli, acqua ossigenata, forbici i ragazzi personalizzavano quelle borse e quei blue-jeans che oggi i loro figli acquistano già scarabocchiati, smacchiati, strappati nei punti giusti. Ad accorgersene per tempo è stato Walter Siti, con il memorabile incipit di Troppi Paradisi: «Mi chiamo Walter Siti, come tutti. Campione di mediocrità. Le mie reazioni sono standard, la mia diversità è di massa. Più intelligente della media, ma di un´intelligenza che serve per evadere. Anche questa civetteria di mediocrità è mediocre, come i ragazzi di borgata che indossano a migliaia le T-shirts con su scritto "Original"; notano la contraddizione e gli sembra spiritosa».
È come se si fosse risolta una contraddizione in termini, e si fosse quadrato il circolo dell´«artigianato industriale» o della «personalizzazione di serie». Una volta l´oggetto poteva essere modificato, ora viene prodotto già con la gamma delle sue variegature possibili. Inoltre, quando (quasi sempre) ciò avviene con un computer, ogni scelta personalizzante che compiamo ci iscrive automaticamente a un profilo composto dalle nostre preferenze, quindi in una categoria di consumatori.
Mentre viviamo il privilegio di scegliere lo standard a cui iscriverci, ci potremmo allora chiedere se i gusti che esprimiamo siano davvero nostri, o se invece non siano noi. E se quanto pensiamo lo pensiamo davvero o pensiamo di pensarlo. La risposta, almeno qui, è libera.
Repubblica 20.8.11Il bisogno di non essere confusi con la massa è sempre più evidente e diffuso
È la distinzione di cui parlava Bourdieu che però passa dalle classi ai singoli
Così la nostra individualità diventa solo una somma di gusti
di Franco La Cecla
Se, come sostiene Rem Koolhaas, architetto e teorico "a la mode", oggi l´unico spazio riservato alla cittadinanza è lo shopping, allora stiamo vivendo in una società in cui l´unico margine riservato alla libera espressione democratica è quello delle scelte "di gusto". Questo scivolamento dalla dimensione etica a quella estetica sembra essere l´ultima conseguenza del trionfo dell´individuo: a cui non interessa più ciò che è giusto e conveniente per se e per i concittadini, ma ciò che gli piace.
O meglio, direbbe Pierre Bourdieu, ciò che lo "distingue", una delle ossessioni classiche delle borghesia. Sembra che le reti che usiamo quotidianamente premino questo narcisismo in un modo parossistico, scambiando ogni nostro accenno per una tendenza , al punto da produrre effetti comici. Se cerchiamo su Google fonti sulla vita di Leopardi, spuntano i B&B (bed an breakfast) di Recanati, ma anche i rimedi per la gobba, oltre alle offerte scontate delle opere del poeta. Quelli del gruppo Ippolita che hanno scritto per Feltrinelli un ottimo testo per orientarsi nelle questioni politiche legate alle reti dicono che per quanto possiamo avere l´impressione di essere sorvegliati e conosciuti da un Super-Occhio in realtà se si mettono insieme i vari e discordanti profili che nascono dalle nostre tendenze vere e false di consumatori di noi si capisce davvero poco. Per un sito siamo dei patiti dello yoga, per un altro dei fan dello spritz, per altri ancora, per il solo fatto di essere uomini, delle persone che possono essere interessate all´allargamento del pene.
Sono profili che servono certamente a organizzare produzioni mirate, ma credere che ci sia qualcuno che mette insieme tutte queste informazioni per sapere chi siamo è una ideologia classica di chi amerebbe che fossimo davvero vittime del Grande Fratello. In rete c´è molta più anarchia, confusione e incertezza di quello che possiamo credere. In più se è vero che a molti di noi fa piacere essere consumatori personalizzati, appartenere a tribù di collezionisti di viaggi in oriente, wargames, mutande fatte a mano e cibo bio, però questa è solo una parte di noi. E le reti sono dirette dalle tendenze reali delle società e non il contrario. L´uso di twitter e di facebook nelle rivolte nord-africane e mediorientali ce lo insegna. Chi lavora nel campo della pubblicità sa bene che il consumatore passivo non esiste. La personalizzazione è una conseguenza di questa scoperta. E il fatto che l´offerta di pornografia online cerchi disperatamente di trasformarsi in consumo personalizzato senza molto riuscirci rivela che anche in queste nicchie (che non lo sono dal punto di vista economico) il consumatore è poco prevedibile. E´ un merito dell´antropologia avere svecchiato la visione meccanicista del consumo e quella cattolico-marxista del consumatore come stupida marionetta. E´ stata Mary Douglas in Inghilterra negli anni 70 a farci capire che la gente esercita delle scelte che diventano scelte di consumo, ma che ne presuppongono altre di valore. E dopo di lei un genio come David Miller ha inaugurato quelli che vengono chiamati "Cultural Studies" proprio partendo dall´analisi del ruolo del consumatore come innovatore. Famoso il caso della Coca Cola che nell´isola di Trinidad è diventata il simbolo di un riscatto dell´identità afro o nelle comunità del Chiapas è diventato liquido lustrale per i riti maya nelle chiese. Perfino uno strumento come la televisione si è rivelato in questa nuova ottica, nel lavoro dei "Media Studies" come qualcosa di cui gli utenti si servono per ridefinire la propria identità, da Al Jazeera alle tv kurde alle moltissime tv indigene. Con Stefano Savona lavorammo qualche anno tra gli squatters della Città dei Morti del Cairo per accorgerci di come i serial televisivi egiziani fossero fruiti ( spesso con i televisori messi sulle tombe) come conferme di una identità, ma anche come messa in discussione di essa. La tendenza alla personalizzazione non è solo una strategia di mercato, è l´effetto di un cambiamento generale. Non ci sarebbe se non ci fosse stata l´accelerazione della mondializzazione, gli enormi spostamenti di popolazione dovuti allo sconquasso del mondo, la mobilità accresciuta.
Tutto questo ha creato e provocato una nuova tendenza al localismo, all´identità parcellizzata, all´identificazione con una maniera di essere, un bisogno generale di non confondersi con la massa. Sono gli emigrati i primi a voler personalizzare il proprio consumo ed il simbolo ne sono le antenne paraboliche che compaiono sulle baracche più povere alla periferia delle grandi città. Questa trasformazione ha pro e contro, presta il fianco ai comunitaristi e ai fondamentalismi, ma anche alle dignità indigene, alla ripresa della propria storia personale e collettiva. Certamente ha un cotè "fashion" che tocca i ricchi, ma è solo la punta dell´iceberg. Se andate nel negozio costruito da Rem Koolhaas a Manhattan per Prada e scegliete un paio di mutande, poi nel camerino, allo specchio, vedete voi stessi e una simulazione di tutti i capi di vestiario che andrebbero bene per voi con quelle mutande. E´ il solito ritornello: se vi piace questo, allora vi piacerà anche……
Repubblica 20.8.11Luca ha dieci anni, rimane da solo e fa finta di niente Ma ci spiega quello che accade quando siamo abbandonati
Il bimbo narratore alla Safran Foer racconta il mondo
di Benedetta Tobagi
Luca è un bambino di nove o dieci anni - sappiamo che va ancora alle elementari dal sussidiario che, con La settimana enigmistica, è fonte prima delle sue nozioni del mondo - e vive solo con la madre, bionda e fragile, capace di tenerezza e fugaci allegrie, immensamente triste.
Il padre non c´è mai stato: è morto, o li ha abbandonati, Luca non sa e non chiede, perché nessuno ne parla. Soffre la vergogna terribile di essere orfano, dunque diverso dagli altri bambini, come portare sempre "un cappotto senza una manica". Soffre le crudeltà inconsapevoli dei compagni (soprattutto Antonella, di cui è innamorato in segreto) e le superficiali cortesie, involontariamente crudeli, dei grandi. C´è una nonna coi capelli viola, un po´ svanita, comunque lontana, l´amica-gallina della mamma, papà occasionali che mugolano un po´ dietro la porta della camera in fondo al corridoio e poi spariscono, un gattino chiamato Blu e nessun altro.
La prima vera bugia comincia come una storia di ordinaria infelicità, ma si trasforma ben presto nella cronaca dell´inimmaginabile. O di "un´enorme porca merda", direbbe Luca, puntiglioso esegeta delle parolacce e di tutti i bizzarri gerghi del linguaggio adulto da cui è investito.
Una mattina la mamma, a cui i sonniferi hanno rubato i sogni, non si sveglia. "Se le persone sono felici, non muoiono così, a caso" - la rabbia soccombe subito al senso di colpa - "Forse non sono stato capace di farla restare nella mia vita, di farla vivere almeno per me". L´orrore è inaffrontabile. All´incubo di essere diverso subentra il pericolo reale di finire in uno di quegli istituti visti nei film. Allora Luca sceglie la prima vera bugia: fare come se non fosse successo niente. Essere forte, d´altronde, è l´unica reazione possibile per un bambino precocemente adultizzato come lui, cresciuto nell´abbraccio di una madre depressa in cui non ci si può rifugiare né abbandonare, perché - sente Luca - è piuttosto come sostenere un peso. Nel mondo indifferente che lo circonda, tenere in vita un simulacro di normalità non è impossibile: basta evitare i dettagli sbagliati. Capelli in ordine, unghie pulite, compiti fatti, aggiungere al cestello della spesa assorbenti o lamette da barba: si applica ai dettagli con disciplina inflessibile.
Sono proprio i dettagli - crudeli, struggenti, sorprendenti - a rendere affilata e potente la prosa di Marina Mander. Non emula i virtuosismi linguistici e narrativi di Safran Foer col piccolo Oskar di Molto forte e incredibilmente vicino, né replica la morbosità rarefatta de Il giardino di cemento (ma pare un implicito tributo a McEwan la copia dell´Amore fatale che cade dal comodino della mamma morta).
La trama è scarna. Attraverso la voce asciutta del piccolo protagonista, le sue osservazioni lucide e involontariamente surreali, strazianti e talvolta esilaranti, senza concessioni al consolatorio né scivoloni nel patetico, l´autrice costruisce la cronistoria documentaria di un trauma, dall´interno. Come la mente di Luca cerchi di avvolgerlo, contenerlo, normalizzarlo, mimetizzarlo, contro lo tsunami della realtà che torna a perseguitarlo ogni mattina, quando sente suonare dietro la porta chiusa la sveglia della mamma cadavere.
Nella narrazione tesa ed essenziale prende corpo l´impotenza disperata dei bambini ("gli adulti, se vogliono, possono andarsene, io no") e la loro capacità di mobilitare risorse inimmaginabili, il panico dietro l´apparente libertà di bestemmiare o fumare una sigaretta, lo sfuggire a una realtà insopportabile con fantasie d´onnipotenza, sotto il cui peso crolleranno, "appassiti da un lato e ancora acerbi dall´altro, come un frutto esposto troppo presto al freddo del vento", come scrisse Irène Némirovsky di un´altra infanzia terribile.
Marina Mander, che si era già accostata con sensibilità originale al mondo dei bambini col racconto "Anosmia" della raccolta Manuale di ipocondria fantastica, riesce a raccontare con precisione e pudica tenerezza il dolore indicibile di Luca, i suoi cedimenti nella campagna militare contro i dettagli, il calvario di cui solo il gatto è muto testimone. Attraverso questa parabola estrema, dà voce ai troppi bambini a cui è negato il diritto di essere protetti e amati. Bambini a cui nessuno presta attenzione, perché chi c´è non è capace, perché ci sono problemi più grandi di loro.
Perché non si lamentano? Perché non parlano? Perché non danno segni di disagio? spesso se lo chiedono anche loro, cresciuti prigionieri dell´incantesimo dell´autosufficienza, senza potersi concedere di piangere un dolore mai detto, un male mai denunciato, segretamente accusando se stessi per non aver saputo essere adulti quando erano solo bambini. In questo romanzo breve c´è una chiave per intendere come paura e vergogna inchiavardino terribili segreti famigliari, perché un bambino possa tacere il dolore, lo sconcerto, l´orrore, nel disperato tentativo di mantenere una "normalità", l´unica che conosce. Questo libro toccherà con dita brucianti chi ha conosciuto, in qualunque forma, il dolore di Luca.
La prima vera bugia si legge d´un fiato, in apnea, scossi da folate di freddo, come il protagonista che trattiene il respiro nella casa vuota con le finestre sempre aperte. Come fanno i buoni libri, da una di queste finestre vi mostrerà un mondo, e non riuscirete facilmente a chiuderla, né a dimenticarlo.
La Stampa 20.8.11
Francesco Guccini
“Ma se io avessi previsto tutto questo”
Il cantautore: la prima cotta a 12 anni, quanti sbagli Poi tante altre storie, positive e negative. Sono cambiato
di Andrea Scanzi
Francesco Guccini, 71 anni, «sognatore, metereopata e soprattutto ansioso: per prendere il treno da Porretta Terme a Bologna arrivo sempre un’ora prima e chiedo conferma»
LA PRIMA MOGLIE ROBERTA Fidanzata storica, lasciata per andare in America «A lei ho dedicato “Vedi cara”»
LA SECONDA MOGLIE RAFFAELLA Sposata in aprile a 70 anni Per lei ha scritto «Vorrei» romantica e appassionata «Poi quell’amore alla fine reale/ tra le canzoni di moda e le danze (...) sembrava che non dovesse finire/ ma ad ogni autunno finiva l’estate»
Il Maestrone ha il tono burbero, sempre in bilico tra spigolosità ostentata e simpatia ruvida. Più la seconda. Settantuno anni, Francesco Guccini si è sposato la seconda volta ad aprile. Vedendo l’assembramento di fotografi davanti alla sala comunale di Mondolfo, il paese natale della moglie Raffaella Zuccari, rispose così a un reporter che gli diceva buonasera: «Buonasera un paio di palle!». Venne a tutti da ridere. Anche a lui, forse. Eppure l’amore, Guccini, l’ha cantato spesso. Soprattutto quello tormentato, incompreso, sul punto di finire. Da Vedi cara («è difficile capire se non hai capito già» 1970) dedicata alla prima moglie Roberta, a La canzone delle domande consuete («Tu lo sai, io lo so, quanto vanno disperse, trascinate dai giorni come piena di fiume tante cose sembrate e credute diverse, come un prato coperto a bitume» 1990). Ma anche passione travolgente come Vorrei («Perché non sono quando non ci sei» 1996) dedicata alla moglie Raffaella. E non manca nel suo canzoniere un amore estivo (da Canzone per Piero «Poi quell’amore alla fine reale, tra le canzoni di moda e le danze» 1974).
Il primo amore se lo ricorda?
«Avrò avuto 12 anni e sbagliai tutto. Ce ne sono stati tanti altri, di amori. Positivi e negativi. Il Guccini innamorato è cambiato molto, negli anni».
E a un certo punto ha scritto Farewell («Non pensarci e perdonami se ti ho portato via un poco d’estate con qualcosa di fragile come le storie passate» 1993): è dedicata ad Angela, la madre di sua figlia Teresa, giusto?
«E’ la storia di un amore che finisce. La feci sentire alla donna che mi aveva ispirato. Alla fine, freddamente, mi disse: “E ora che dovrei fare, piangere?”. Tornai a casa e gliene scrissi un'altra: un’invettiva, Quattro stracci ».
Quella in cui l’autore è «fiero del suo sognare» e la donna «casta che sogna d'esser puttana». Oltre che sognatore, Guccini è ancora senza patente e ansioso?
«Pure meteoropata, se è per quello. Ma soprattutto sono un ansioso. Quando prendo il treno da Porretta Terme a Bologna, arrivo sempre un’ora prima. C’è solo quello, impossibile sbagliare. Io però, ogni volta, chiedo in stazione: “E’ quello delle ore ‘X’ per Bologna?”. Non lo chiedo mica per sapere a che ora arriva: lo chiedo per sapere se arriva».
Sì, ma Guccini come sta?
«Come vuole che stia: male. Guccini sta sempre male (lo dice ridendo, NdA). Dopo due ore di concerto sono morto, ho la schiena a pezzi» Vasco Rossi si è dimesso da rockstar a neanche 60 anni. Lei ne ha qualcuno in più e fa ancora tournée.
«Macché tournée. Faccio scelte oculate, 4-5 serate l’anno. Di solito suono in palazzetti o capannucce. A Lucca il palco era smisurato e il camerino gigantesco: sembrava la tenda di Gheddafi. Pensavo arrivasse Berlusconi col bunga bunga. Vasco lo capisco, ma non ci monterei sopra un dibattito: non puoi cantare tutta la vita» Ritratti, l’ultimo disco di inediti, è di sette anni fa. Dopo un po’ la creatività evapora?
«Ho scritto soltanto tre canzoni nuove. La chitarra in mano non la prendo quasi mai. E’ faticoso e neanche ho tempo. Ci sono le interviste, quelli che mi vengono a trovare. Vedrà che prima o poi passa un altro pellegrino, ogni giorno è così a Pàvana».
Se le cerca: quando un artista incide un album che ha per titolo un indirizzo di casa, Via Paolo Fabbri 43, dà l’indicazione implicita di andare a trovarlo. Forse si diverte.
«Non userei una parola così impegnativa. Mi diverto quando dormo il pomeriggio, quando vado a pesca. Il resto lo faccio perché è meno difficile che comporre canzoni. Scrivere libri, ad esempio».
Perché la canzone è complicata?
«Devi ridurre tutto a 3-6 minuti e c’è la metrica. Passare dalle 2-3 pagine iniziali al testo finale è dura e di voglia ne ho poca».
Visti oggi, voi cantautori sembrate tutti poco indignati e molto quieti. L’ultimo Gaber sostenne che la vostra generazione aveva perso.
«Abbiamo fatto quello che potevamo e non puoi rimanere tutta la vita sopra la barricate. Con Giorgio parlavamo spesso, ma non ebbi con lui il tempo di confutare quella tesi. Almeno ci abbiamo provato, le generazioni successive non lo so. Poi, è vero, non abbiamo portato il Sol dell’Avvenire».
Riascolta mai qualche suo disco?
«Per carità. Se qualcuno mette una mia canzone per farmi un tributo, gli intimo di toglierla subito. Non mi sopporto e in generale non ascolto quasi nulla. Mi incuriosiscono solo i rapper: sono molto distanti da me musicalmente, ma abbastanza interessanti».
Non crede, musicalmente, che a volte i suoi testi meritassero vesti più coraggiose? .
«Mah. Faccio quello che so fare e non è del tutto vero che abbia sempre suonato la stessa canzone. Una volta un collega - non le dirò mai quale - mi accusò di scrivere brani con due accordi. Gli risposi: “'Menomale che ci sei tu che ne usi tre”. Per raccontare storie non devi essere virtuoso, il blues ha tre accordi ma esiste da una vita».
L imitata e sporadica, la depressione è esistita sempre, e con più nomi nominata: spleen, cafard, acedia, taedium vitae, etc. Oggi è epidemica, pandemica, colpisce chiunque. Dove ci sono molti libri, là ha un luogo di elezione, si fissa, non la mandi più via. Contro questo pervasivo malessere (mal-di-essere) non tengono benesseri sociali o personali, e i farmaci (psicofarmaci, antidepressivi, sonniferi, Prozac) alimentano una sterminata industria, interessata ad attenuarla senza guarirla: a creare e diffondere il morbissimo della Dipendenza.
Tutto l'Occidente, e ormai resta poco che non sia Occidente, è fondamentalmente depresso psichicamente: la condizione esistenziale delle città (e di non-città non esiste quasi più nulla, nemmeno i deserti) è generatrice incessante di ogni forma di depressione.
Ora, questo vomitare ininterrotto stampato e mediatico, economia-economia-economia, questo non occuparsi d'altro delle classi dirigenti, questo sparare addosso alla gente con fucili automatici che c'è una crisi inaudita, mai vista finora, colossale, irrimediabile, ovviamente planetaria, in quale ideale pattumiera finisce — se non l'anima umana, la sostanza mentale, il corpo eterico, col fine (forse è questo il suo fine, perché niente è pura superficie) di farli a brandelli? Siamo, ascoltando la radio, leggendo i giornali, un bugliolo tremante, un triste cesso dove si deposita il malaugurio — vedi i titoli, assorbi i commenti, crogiòlati negli approfondimenti...
E l'anima umana (se vuoi puoi chiamarla anche psiche, ma non ti permetto di chiamarla il Dna) piglia il nutrimento, come un eterno lattante, da quando esiste il linguaggio radicato nel pensare, dalle parole. Stiamoci attenti. Perché l'anima — quella che la Scrittura nomina come néfesh chàim, «anima-che-vive», non ente trascendente ma lo stesso respiro — accolga come vitale nutrimento le parole, carne del Logos trascendente, occorre che nessuna abbia riferimento a questo drago fumante che viene chiamato economia non osando guardarlo in faccia e ucciderlo. L'economia, nel linguaggio, è fecalità invasiva, bisognosa di purga drastica. Fa' che l'assorbiamo in quantità crescente da tutto quel che è parlante (scritto o audiovisivo, e ritengo che qui il mezzo più potente sia il radiofonico, tutte le sonorità più assassine l'universo umano le riversa nella penetrazione acustica) e vedrai in quale stato avrai ridotto questo tapino di inconscio, individuale e collettivo.
Il nostro rapporto col mondo numerico è fatto dalle piccole cifre. Anche un ministro dell'Economia, che ha la sartoria dei miliardi in dollari e in euro, quando spende da uomo qualunque conta i centesimi nel portamonete, può arrivare a cento euro quando gli si presenta un conto di ristorante. Per dei girasoli o una Provenza di Van Gogh, di valore spirituale immenso, senza corrispondenza monetaria, io troverei giusto non si spendessero più di otto-novecento sterline. Un'asta onesta dovrebbe partire da tre-quattrocento; bravo Sotheby, questi sono affari puliti! Il vero mercato, per tutta la gente comune, e nel mondo, bene è stato scritto, «non è se non vulgo», il mercato che lascia l'anima vivere, è il mercatino ortofrutticolo, o la fiera mensile dell'antiquariato. Le cifre spasmodiche delle Borse, invece, sono percentuali di morte, necroeconomia, come la definì la «Welt», al tempo ancora del marco in marcia dell'Aida. E dappertutto dove il leviatano fetentissimo della necroeconomia alza la testa spaventosa, la Depressione miete vittime a milioni. E non c'è difesa.
Repubblica 20.8.11
Cultura self service
L´estetica del "mi piace" che domina nella rete
di Stefano Bartezzaghi
Oggi ovunque siamo invitati ad esprimere opinioni e preferenze E sulla base di queste è possibile creare oggetti su misura dalle scarpe alle fiabe
Quando facciamo una scelta che sembra diversificarci e in questo modo costruiamo un prodotto fatto per noi in realtà entriamo in un profilo di consumatore
Libri, video, musica se tutto è personalizzabile
La funzione "mi piace" accompagna in rete ogni musica, video o testo; tutti ci spingono a esprimere le nostre preferenze e a comunicarle agli amici: è il segno di un´estetica individuale fondata sul gusto e non sul pensiero. Così i prodotti si adeguano: possiamo personalizzare non solo le magliette, ma anche le fiabe, i romanzi o le canzoni inserendoci i nostri nomi, scegliendo strofe e pagine. Un modo per costruire liberamente un sapere su misura o una semplice variazione del consumo?
C´è almeno un punto su cui George Orwell, Aldous Huxley e gli altri autori delle più cupe immaginazioni sul futuro hanno sbagliato. Il luogo comune delle utopie alla rovescia vuole che l´eguaglianza tra gli uomini (ottima cosa) sia ottenuta per riduzione di ogni diversità e tarpatura di ogni psiche (spavento). In quei mondi fittizi le manifestazioni di individualismo sono sintomi della peggior malattia, stigmi del peccato originale, prove del crimine più efferato: il pensiero personale.
Quel che è successo, o che sta succedendo, è l´esatto contrario. Il Potere, la Rete o qualsiasi altra istanza a cui assegnare il compito di Grande Formattatore del Reale e del Virtuale non ci chiede affatto di rinunciare a opinioni, gusti, orientamenti personali. Al contrario, ci invita a formulare la nostra opinione. Il suo messaggio principale è: «Di´ che ti piace prima di tutti i tuoi amici» (opzione ubiqua in tutta la Rete).
Il gusto, non certo il pensiero, è infatti il vento che dispiega e gonfia le vele del personalismo. Dall´adesione ideologica alla concupiscenza, alla semplice preferenza, al capriccio finiamo per aderire ai nostri gusti, a indossarli e anzi a incarnarli. Le nostre bacheche Facebook si riempiono di messaggi del genere: «A XY piacciono le melanzane alla parmigiana e Rainer Maria Rilke». La bizzarria degli accostamenti a volte è violenta; ma a essere bizzarra è già la cosa in sé. Roland Barthes, il finissimo critico e scrittore, giocò a «mi piace / non mi piace» nel 1975: elencò gusti («... il sale crudo, i romanzi realisti, il pianoforte, il caffé, Pollock...») e disgusti («... Vivaldi, telefonare, i cori bianchi, i concerti di Chopin, le serate con persone che non conosco...») per un libro intitolato Roland Barthes di Roland Barthes. Il gioco, allora, era riservato a pochi privilegiati: un semiologo raffinato, che si era conquistato il diritto di scrivere un libro a proposito di sé stesso. O anche il comico Woody Allen, con le sue famose «cose per cui vale la pena vivere» che, avendo raccolto un vasto pubblico di simpatizzanti attorno al proprio narcisismo, diventarono le «cose che vale la pena di mettere in un film». Una volta per decidere di dichiarare i propri gusti occorreva essere o diventare perlomeno gente come Lucio Dalla («La musica andina, che noia mortale»), Franco Battiato («Non sopporto i cori russi / la musica finto rock /la new wave italiana il free jazz punk inglese. / Neanche la nera africana»), Nanni Moretti (Sachertorte, scarpe, quartieri di Roma, Alberto Sordi, Lina Wertmüller...). Ora basta un blog o un profilo Facebook.
In moltissimi altri ambiti è consentito, incoraggiato, sollecitato o anche francamente richiesto il nostro intervento personalizzante. I bibliofili segnavano la proprietà della loro copia applicando l´ex-libris («Dai libri di»). Oggi esistono siti che personalizzano direttamente il testo, per esempio inserendo il nome di un bambino in una favola o quello di un adulto in una storia d´amore. Il vecchio «It´s you!», il dito puntato delle rockstar dal palco verso persone ognuna delle quali si sentirà la Prescelta, diventa così una reale possibilità. L´evoluzione degli apparecchi di riproduzione e registrazione hanno già fatto diventare un gioco da mano sinistra la produzione di compilation personalizzate di canzoni (quelle che un tempo prendevano ore e inficiavano il ripasso pomeridiano dei liceali). Ma ora esistono anche siti che a richiesta aggiungono nomi o modificano canzoni, procurando (a costi altini) l´equivalente in formato mp3 di una serenata.
È il trionfo della personalizzazione: aNobii mostra le nostre biblioteche personali e le incrocia con quelle altrui, per scoprire affinità tra lettori; social network affini esistono per la musica, il cinema, l´arte. Possiamo scegliere la colonna sonora di un videogioco, il carattere di lettura di un e-book, la successione dei capitoli di un libro come ci componiamo un menu al ristorante.
Nel mondo degli oggetti scegliamo non più l´abbinamento dei colori, ma anche la scritta sulla maglietta; non più il modello d´auto, ma anche il motivo decorativo del tettuccio. Valentino Rossi ha iniziato a decorare la sommità del casco a causa delle riprese televisive dall´alto, e noi lo imitiamo. Dal monogramma sulla camicia, il dominio della personalizzazione possibile si è esteso sino alle scarpe, su cui ora un´azienda salentina può stampare qualsiasi foto che gli venga mandata via Internet.
Non sarà forse inutile specificare che la carica negativa dell´utopia è tutt´altro che scongiurata dal topos in cui viviamo. La folla solitaria si è forse riappropriata di qualcosa? Con pennarelli, acqua ossigenata, forbici i ragazzi personalizzavano quelle borse e quei blue-jeans che oggi i loro figli acquistano già scarabocchiati, smacchiati, strappati nei punti giusti. Ad accorgersene per tempo è stato Walter Siti, con il memorabile incipit di Troppi Paradisi: «Mi chiamo Walter Siti, come tutti. Campione di mediocrità. Le mie reazioni sono standard, la mia diversità è di massa. Più intelligente della media, ma di un´intelligenza che serve per evadere. Anche questa civetteria di mediocrità è mediocre, come i ragazzi di borgata che indossano a migliaia le T-shirts con su scritto "Original"; notano la contraddizione e gli sembra spiritosa».
È come se si fosse risolta una contraddizione in termini, e si fosse quadrato il circolo dell´«artigianato industriale» o della «personalizzazione di serie». Una volta l´oggetto poteva essere modificato, ora viene prodotto già con la gamma delle sue variegature possibili. Inoltre, quando (quasi sempre) ciò avviene con un computer, ogni scelta personalizzante che compiamo ci iscrive automaticamente a un profilo composto dalle nostre preferenze, quindi in una categoria di consumatori.
Mentre viviamo il privilegio di scegliere lo standard a cui iscriverci, ci potremmo allora chiedere se i gusti che esprimiamo siano davvero nostri, o se invece non siano noi. E se quanto pensiamo lo pensiamo davvero o pensiamo di pensarlo. La risposta, almeno qui, è libera.
Repubblica 20.8.11Il bisogno di non essere confusi con la massa è sempre più evidente e diffuso
È la distinzione di cui parlava Bourdieu che però passa dalle classi ai singoli
Così la nostra individualità diventa solo una somma di gusti
di Franco La Cecla
Se, come sostiene Rem Koolhaas, architetto e teorico "a la mode", oggi l´unico spazio riservato alla cittadinanza è lo shopping, allora stiamo vivendo in una società in cui l´unico margine riservato alla libera espressione democratica è quello delle scelte "di gusto". Questo scivolamento dalla dimensione etica a quella estetica sembra essere l´ultima conseguenza del trionfo dell´individuo: a cui non interessa più ciò che è giusto e conveniente per se e per i concittadini, ma ciò che gli piace.
O meglio, direbbe Pierre Bourdieu, ciò che lo "distingue", una delle ossessioni classiche delle borghesia. Sembra che le reti che usiamo quotidianamente premino questo narcisismo in un modo parossistico, scambiando ogni nostro accenno per una tendenza , al punto da produrre effetti comici. Se cerchiamo su Google fonti sulla vita di Leopardi, spuntano i B&B (bed an breakfast) di Recanati, ma anche i rimedi per la gobba, oltre alle offerte scontate delle opere del poeta. Quelli del gruppo Ippolita che hanno scritto per Feltrinelli un ottimo testo per orientarsi nelle questioni politiche legate alle reti dicono che per quanto possiamo avere l´impressione di essere sorvegliati e conosciuti da un Super-Occhio in realtà se si mettono insieme i vari e discordanti profili che nascono dalle nostre tendenze vere e false di consumatori di noi si capisce davvero poco. Per un sito siamo dei patiti dello yoga, per un altro dei fan dello spritz, per altri ancora, per il solo fatto di essere uomini, delle persone che possono essere interessate all´allargamento del pene.
Sono profili che servono certamente a organizzare produzioni mirate, ma credere che ci sia qualcuno che mette insieme tutte queste informazioni per sapere chi siamo è una ideologia classica di chi amerebbe che fossimo davvero vittime del Grande Fratello. In rete c´è molta più anarchia, confusione e incertezza di quello che possiamo credere. In più se è vero che a molti di noi fa piacere essere consumatori personalizzati, appartenere a tribù di collezionisti di viaggi in oriente, wargames, mutande fatte a mano e cibo bio, però questa è solo una parte di noi. E le reti sono dirette dalle tendenze reali delle società e non il contrario. L´uso di twitter e di facebook nelle rivolte nord-africane e mediorientali ce lo insegna. Chi lavora nel campo della pubblicità sa bene che il consumatore passivo non esiste. La personalizzazione è una conseguenza di questa scoperta. E il fatto che l´offerta di pornografia online cerchi disperatamente di trasformarsi in consumo personalizzato senza molto riuscirci rivela che anche in queste nicchie (che non lo sono dal punto di vista economico) il consumatore è poco prevedibile. E´ un merito dell´antropologia avere svecchiato la visione meccanicista del consumo e quella cattolico-marxista del consumatore come stupida marionetta. E´ stata Mary Douglas in Inghilterra negli anni 70 a farci capire che la gente esercita delle scelte che diventano scelte di consumo, ma che ne presuppongono altre di valore. E dopo di lei un genio come David Miller ha inaugurato quelli che vengono chiamati "Cultural Studies" proprio partendo dall´analisi del ruolo del consumatore come innovatore. Famoso il caso della Coca Cola che nell´isola di Trinidad è diventata il simbolo di un riscatto dell´identità afro o nelle comunità del Chiapas è diventato liquido lustrale per i riti maya nelle chiese. Perfino uno strumento come la televisione si è rivelato in questa nuova ottica, nel lavoro dei "Media Studies" come qualcosa di cui gli utenti si servono per ridefinire la propria identità, da Al Jazeera alle tv kurde alle moltissime tv indigene. Con Stefano Savona lavorammo qualche anno tra gli squatters della Città dei Morti del Cairo per accorgerci di come i serial televisivi egiziani fossero fruiti ( spesso con i televisori messi sulle tombe) come conferme di una identità, ma anche come messa in discussione di essa. La tendenza alla personalizzazione non è solo una strategia di mercato, è l´effetto di un cambiamento generale. Non ci sarebbe se non ci fosse stata l´accelerazione della mondializzazione, gli enormi spostamenti di popolazione dovuti allo sconquasso del mondo, la mobilità accresciuta.
Tutto questo ha creato e provocato una nuova tendenza al localismo, all´identità parcellizzata, all´identificazione con una maniera di essere, un bisogno generale di non confondersi con la massa. Sono gli emigrati i primi a voler personalizzare il proprio consumo ed il simbolo ne sono le antenne paraboliche che compaiono sulle baracche più povere alla periferia delle grandi città. Questa trasformazione ha pro e contro, presta il fianco ai comunitaristi e ai fondamentalismi, ma anche alle dignità indigene, alla ripresa della propria storia personale e collettiva. Certamente ha un cotè "fashion" che tocca i ricchi, ma è solo la punta dell´iceberg. Se andate nel negozio costruito da Rem Koolhaas a Manhattan per Prada e scegliete un paio di mutande, poi nel camerino, allo specchio, vedete voi stessi e una simulazione di tutti i capi di vestiario che andrebbero bene per voi con quelle mutande. E´ il solito ritornello: se vi piace questo, allora vi piacerà anche……
Repubblica 20.8.11Luca ha dieci anni, rimane da solo e fa finta di niente Ma ci spiega quello che accade quando siamo abbandonati
Il bimbo narratore alla Safran Foer racconta il mondo
di Benedetta Tobagi
Luca è un bambino di nove o dieci anni - sappiamo che va ancora alle elementari dal sussidiario che, con La settimana enigmistica, è fonte prima delle sue nozioni del mondo - e vive solo con la madre, bionda e fragile, capace di tenerezza e fugaci allegrie, immensamente triste.
Il padre non c´è mai stato: è morto, o li ha abbandonati, Luca non sa e non chiede, perché nessuno ne parla. Soffre la vergogna terribile di essere orfano, dunque diverso dagli altri bambini, come portare sempre "un cappotto senza una manica". Soffre le crudeltà inconsapevoli dei compagni (soprattutto Antonella, di cui è innamorato in segreto) e le superficiali cortesie, involontariamente crudeli, dei grandi. C´è una nonna coi capelli viola, un po´ svanita, comunque lontana, l´amica-gallina della mamma, papà occasionali che mugolano un po´ dietro la porta della camera in fondo al corridoio e poi spariscono, un gattino chiamato Blu e nessun altro.
La prima vera bugia comincia come una storia di ordinaria infelicità, ma si trasforma ben presto nella cronaca dell´inimmaginabile. O di "un´enorme porca merda", direbbe Luca, puntiglioso esegeta delle parolacce e di tutti i bizzarri gerghi del linguaggio adulto da cui è investito.
Una mattina la mamma, a cui i sonniferi hanno rubato i sogni, non si sveglia. "Se le persone sono felici, non muoiono così, a caso" - la rabbia soccombe subito al senso di colpa - "Forse non sono stato capace di farla restare nella mia vita, di farla vivere almeno per me". L´orrore è inaffrontabile. All´incubo di essere diverso subentra il pericolo reale di finire in uno di quegli istituti visti nei film. Allora Luca sceglie la prima vera bugia: fare come se non fosse successo niente. Essere forte, d´altronde, è l´unica reazione possibile per un bambino precocemente adultizzato come lui, cresciuto nell´abbraccio di una madre depressa in cui non ci si può rifugiare né abbandonare, perché - sente Luca - è piuttosto come sostenere un peso. Nel mondo indifferente che lo circonda, tenere in vita un simulacro di normalità non è impossibile: basta evitare i dettagli sbagliati. Capelli in ordine, unghie pulite, compiti fatti, aggiungere al cestello della spesa assorbenti o lamette da barba: si applica ai dettagli con disciplina inflessibile.
Sono proprio i dettagli - crudeli, struggenti, sorprendenti - a rendere affilata e potente la prosa di Marina Mander. Non emula i virtuosismi linguistici e narrativi di Safran Foer col piccolo Oskar di Molto forte e incredibilmente vicino, né replica la morbosità rarefatta de Il giardino di cemento (ma pare un implicito tributo a McEwan la copia dell´Amore fatale che cade dal comodino della mamma morta).
La trama è scarna. Attraverso la voce asciutta del piccolo protagonista, le sue osservazioni lucide e involontariamente surreali, strazianti e talvolta esilaranti, senza concessioni al consolatorio né scivoloni nel patetico, l´autrice costruisce la cronistoria documentaria di un trauma, dall´interno. Come la mente di Luca cerchi di avvolgerlo, contenerlo, normalizzarlo, mimetizzarlo, contro lo tsunami della realtà che torna a perseguitarlo ogni mattina, quando sente suonare dietro la porta chiusa la sveglia della mamma cadavere.
Nella narrazione tesa ed essenziale prende corpo l´impotenza disperata dei bambini ("gli adulti, se vogliono, possono andarsene, io no") e la loro capacità di mobilitare risorse inimmaginabili, il panico dietro l´apparente libertà di bestemmiare o fumare una sigaretta, lo sfuggire a una realtà insopportabile con fantasie d´onnipotenza, sotto il cui peso crolleranno, "appassiti da un lato e ancora acerbi dall´altro, come un frutto esposto troppo presto al freddo del vento", come scrisse Irène Némirovsky di un´altra infanzia terribile.
Marina Mander, che si era già accostata con sensibilità originale al mondo dei bambini col racconto "Anosmia" della raccolta Manuale di ipocondria fantastica, riesce a raccontare con precisione e pudica tenerezza il dolore indicibile di Luca, i suoi cedimenti nella campagna militare contro i dettagli, il calvario di cui solo il gatto è muto testimone. Attraverso questa parabola estrema, dà voce ai troppi bambini a cui è negato il diritto di essere protetti e amati. Bambini a cui nessuno presta attenzione, perché chi c´è non è capace, perché ci sono problemi più grandi di loro.
Perché non si lamentano? Perché non parlano? Perché non danno segni di disagio? spesso se lo chiedono anche loro, cresciuti prigionieri dell´incantesimo dell´autosufficienza, senza potersi concedere di piangere un dolore mai detto, un male mai denunciato, segretamente accusando se stessi per non aver saputo essere adulti quando erano solo bambini. In questo romanzo breve c´è una chiave per intendere come paura e vergogna inchiavardino terribili segreti famigliari, perché un bambino possa tacere il dolore, lo sconcerto, l´orrore, nel disperato tentativo di mantenere una "normalità", l´unica che conosce. Questo libro toccherà con dita brucianti chi ha conosciuto, in qualunque forma, il dolore di Luca.
La prima vera bugia si legge d´un fiato, in apnea, scossi da folate di freddo, come il protagonista che trattiene il respiro nella casa vuota con le finestre sempre aperte. Come fanno i buoni libri, da una di queste finestre vi mostrerà un mondo, e non riuscirete facilmente a chiuderla, né a dimenticarlo.
La Stampa 20.8.11
Francesco Guccini
“Ma se io avessi previsto tutto questo”
Il cantautore: la prima cotta a 12 anni, quanti sbagli Poi tante altre storie, positive e negative. Sono cambiato
di Andrea Scanzi
Francesco Guccini, 71 anni, «sognatore, metereopata e soprattutto ansioso: per prendere il treno da Porretta Terme a Bologna arrivo sempre un’ora prima e chiedo conferma»
LA PRIMA MOGLIE ROBERTA Fidanzata storica, lasciata per andare in America «A lei ho dedicato “Vedi cara”»
LA SECONDA MOGLIE RAFFAELLA Sposata in aprile a 70 anni Per lei ha scritto «Vorrei» romantica e appassionata «Poi quell’amore alla fine reale/ tra le canzoni di moda e le danze (...) sembrava che non dovesse finire/ ma ad ogni autunno finiva l’estate»
Il Maestrone ha il tono burbero, sempre in bilico tra spigolosità ostentata e simpatia ruvida. Più la seconda. Settantuno anni, Francesco Guccini si è sposato la seconda volta ad aprile. Vedendo l’assembramento di fotografi davanti alla sala comunale di Mondolfo, il paese natale della moglie Raffaella Zuccari, rispose così a un reporter che gli diceva buonasera: «Buonasera un paio di palle!». Venne a tutti da ridere. Anche a lui, forse. Eppure l’amore, Guccini, l’ha cantato spesso. Soprattutto quello tormentato, incompreso, sul punto di finire. Da Vedi cara («è difficile capire se non hai capito già» 1970) dedicata alla prima moglie Roberta, a La canzone delle domande consuete («Tu lo sai, io lo so, quanto vanno disperse, trascinate dai giorni come piena di fiume tante cose sembrate e credute diverse, come un prato coperto a bitume» 1990). Ma anche passione travolgente come Vorrei («Perché non sono quando non ci sei» 1996) dedicata alla moglie Raffaella. E non manca nel suo canzoniere un amore estivo (da Canzone per Piero «Poi quell’amore alla fine reale, tra le canzoni di moda e le danze» 1974).
Il primo amore se lo ricorda?
«Avrò avuto 12 anni e sbagliai tutto. Ce ne sono stati tanti altri, di amori. Positivi e negativi. Il Guccini innamorato è cambiato molto, negli anni».
E a un certo punto ha scritto Farewell («Non pensarci e perdonami se ti ho portato via un poco d’estate con qualcosa di fragile come le storie passate» 1993): è dedicata ad Angela, la madre di sua figlia Teresa, giusto?
«E’ la storia di un amore che finisce. La feci sentire alla donna che mi aveva ispirato. Alla fine, freddamente, mi disse: “E ora che dovrei fare, piangere?”. Tornai a casa e gliene scrissi un'altra: un’invettiva, Quattro stracci ».
Quella in cui l’autore è «fiero del suo sognare» e la donna «casta che sogna d'esser puttana». Oltre che sognatore, Guccini è ancora senza patente e ansioso?
«Pure meteoropata, se è per quello. Ma soprattutto sono un ansioso. Quando prendo il treno da Porretta Terme a Bologna, arrivo sempre un’ora prima. C’è solo quello, impossibile sbagliare. Io però, ogni volta, chiedo in stazione: “E’ quello delle ore ‘X’ per Bologna?”. Non lo chiedo mica per sapere a che ora arriva: lo chiedo per sapere se arriva».
Sì, ma Guccini come sta?
«Come vuole che stia: male. Guccini sta sempre male (lo dice ridendo, NdA). Dopo due ore di concerto sono morto, ho la schiena a pezzi» Vasco Rossi si è dimesso da rockstar a neanche 60 anni. Lei ne ha qualcuno in più e fa ancora tournée.
«Macché tournée. Faccio scelte oculate, 4-5 serate l’anno. Di solito suono in palazzetti o capannucce. A Lucca il palco era smisurato e il camerino gigantesco: sembrava la tenda di Gheddafi. Pensavo arrivasse Berlusconi col bunga bunga. Vasco lo capisco, ma non ci monterei sopra un dibattito: non puoi cantare tutta la vita» Ritratti, l’ultimo disco di inediti, è di sette anni fa. Dopo un po’ la creatività evapora?
«Ho scritto soltanto tre canzoni nuove. La chitarra in mano non la prendo quasi mai. E’ faticoso e neanche ho tempo. Ci sono le interviste, quelli che mi vengono a trovare. Vedrà che prima o poi passa un altro pellegrino, ogni giorno è così a Pàvana».
Se le cerca: quando un artista incide un album che ha per titolo un indirizzo di casa, Via Paolo Fabbri 43, dà l’indicazione implicita di andare a trovarlo. Forse si diverte.
«Non userei una parola così impegnativa. Mi diverto quando dormo il pomeriggio, quando vado a pesca. Il resto lo faccio perché è meno difficile che comporre canzoni. Scrivere libri, ad esempio».
Perché la canzone è complicata?
«Devi ridurre tutto a 3-6 minuti e c’è la metrica. Passare dalle 2-3 pagine iniziali al testo finale è dura e di voglia ne ho poca».
Visti oggi, voi cantautori sembrate tutti poco indignati e molto quieti. L’ultimo Gaber sostenne che la vostra generazione aveva perso.
«Abbiamo fatto quello che potevamo e non puoi rimanere tutta la vita sopra la barricate. Con Giorgio parlavamo spesso, ma non ebbi con lui il tempo di confutare quella tesi. Almeno ci abbiamo provato, le generazioni successive non lo so. Poi, è vero, non abbiamo portato il Sol dell’Avvenire».
Riascolta mai qualche suo disco?
«Per carità. Se qualcuno mette una mia canzone per farmi un tributo, gli intimo di toglierla subito. Non mi sopporto e in generale non ascolto quasi nulla. Mi incuriosiscono solo i rapper: sono molto distanti da me musicalmente, ma abbastanza interessanti».
Non crede, musicalmente, che a volte i suoi testi meritassero vesti più coraggiose? .
«Mah. Faccio quello che so fare e non è del tutto vero che abbia sempre suonato la stessa canzone. Una volta un collega - non le dirò mai quale - mi accusò di scrivere brani con due accordi. Gli risposi: “'Menomale che ci sei tu che ne usi tre”. Per raccontare storie non devi essere virtuoso, il blues ha tre accordi ma esiste da una vita».
Corriere della Sera 20.8.11
Troppa economia ferisce la psiche
di Guido Ceronetti
L imitata e sporadica, la depressione è esistita sempre, e con più nomi nominata: spleen, cafard, acedia, taedium vitae, etc. Oggi è epidemica, pandemica, colpisce chiunque. Dove ci sono molti libri, là ha un luogo di elezione, si fissa, non la mandi più via. Contro questo pervasivo malessere (mal-di-essere) non tengono benesseri sociali o personali, e i farmaci (psicofarmaci, antidepressivi, sonniferi, Prozac) alimentano una sterminata industria, interessata ad attenuarla senza guarirla: a creare e diffondere il morbissimo della Dipendenza.
Tutto l'Occidente, e ormai resta poco che non sia Occidente, è fondamentalmente depresso psichicamente: la condizione esistenziale delle città (e di non-città non esiste quasi più nulla, nemmeno i deserti) è generatrice incessante di ogni forma di depressione.
Ora, questo vomitare ininterrotto stampato e mediatico, economia-economia-economia, questo non occuparsi d'altro delle classi dirigenti, questo sparare addosso alla gente con fucili automatici che c'è una crisi inaudita, mai vista finora, colossale, irrimediabile, ovviamente planetaria, in quale ideale pattumiera finisce — se non l'anima umana, la sostanza mentale, il corpo eterico, col fine (forse è questo il suo fine, perché niente è pura superficie) di farli a brandelli? Siamo, ascoltando la radio, leggendo i giornali, un bugliolo tremante, un triste cesso dove si deposita il malaugurio — vedi i titoli, assorbi i commenti, crogiòlati negli approfondimenti...
E l'anima umana (se vuoi puoi chiamarla anche psiche, ma non ti permetto di chiamarla il Dna) piglia il nutrimento, come un eterno lattante, da quando esiste il linguaggio radicato nel pensare, dalle parole. Stiamoci attenti. Perché l'anima — quella che la Scrittura nomina come néfesh chàim, «anima-che-vive», non ente trascendente ma lo stesso respiro — accolga come vitale nutrimento le parole, carne del Logos trascendente, occorre che nessuna abbia riferimento a questo drago fumante che viene chiamato economia non osando guardarlo in faccia e ucciderlo. L'economia, nel linguaggio, è fecalità invasiva, bisognosa di purga drastica. Fa' che l'assorbiamo in quantità crescente da tutto quel che è parlante (scritto o audiovisivo, e ritengo che qui il mezzo più potente sia il radiofonico, tutte le sonorità più assassine l'universo umano le riversa nella penetrazione acustica) e vedrai in quale stato avrai ridotto questo tapino di inconscio, individuale e collettivo.
Il nostro rapporto col mondo numerico è fatto dalle piccole cifre. Anche un ministro dell'Economia, che ha la sartoria dei miliardi in dollari e in euro, quando spende da uomo qualunque conta i centesimi nel portamonete, può arrivare a cento euro quando gli si presenta un conto di ristorante. Per dei girasoli o una Provenza di Van Gogh, di valore spirituale immenso, senza corrispondenza monetaria, io troverei giusto non si spendessero più di otto-novecento sterline. Un'asta onesta dovrebbe partire da tre-quattrocento; bravo Sotheby, questi sono affari puliti! Il vero mercato, per tutta la gente comune, e nel mondo, bene è stato scritto, «non è se non vulgo», il mercato che lascia l'anima vivere, è il mercatino ortofrutticolo, o la fiera mensile dell'antiquariato. Le cifre spasmodiche delle Borse, invece, sono percentuali di morte, necroeconomia, come la definì la «Welt», al tempo ancora del marco in marcia dell'Aida. E dappertutto dove il leviatano fetentissimo della necroeconomia alza la testa spaventosa, la Depressione miete vittime a milioni. E non c'è difesa.