lunedì 8 agosto 2011

Repubblica 8.8.11
Il ritorno al pensiero forte
Dalla Germania all´Italia la nuova filosofia realista
 Si riabilita la nozione di "verità" che tanti teorici ritenevano esaurita e poco importante
di Maurizio Ferraris


Un convegno, con Eco e Searle, propone di riportare al centro del dibattito il mondo esterno e i fatti abbandonando il postmoderno
Tra i punti fondamentali il concetto di "ontologia" e quello di "critica"

Uno spettro si aggira per l´Europa. È lo spettro di ciò che propongo di chiamare "New Realism", e che dà il titolo a un convegno internazionale che si terrà a Bonn la primavera prossima e che ho organizzato con due giovani colleghi, Markus Gabriel (Bonn) e Petar Bojanic (Belgrado). Il convegno, cui parteciperanno figure come Paul Boghossian, Umberto Eco e John Searle, vuole restituire lo spazio che si merita, in filosofia, in politica e nella vita quotidiana, a una nozione, quella di "realismo", che nel mondo postmoderno è stata considerata una ingenuità filosofica e una manifestazione di conservatorismo politico. La realtà, si diceva ai tempi dell´ermeneutica e del pensiero debole, non è mai accessibile in quanto tale, visto che è mediata dai nostri pensieri e dai nostri sensi. Oltre che filosoficamente inconsistente, appellarsi alla realtà, in epoche ancora legate al micidiale slogan "l´immaginazione al potere", appariva come il desiderio che nulla cambiasse, come una accettazione del mondo così com´è.
A far scricchiolare le certezze dei postmoderni ha contribuito prima di tutto la politica. L´avvento dei populismi mediatici – una circostanza tutt´altro che puramente immaginaria – ha fornito l´esempio di un addio alla realtà per niente emancipativo, senza parlare poi dell´uso spregiudicato della verità come costruzione ideologica e "imperiale" da parte dell´amministrazione Bush, che ha scatenato una guerra sulla base di finte prove dell´esistenza di armi di distruzione di massa. Nei telegiornali e nei programmi politici abbiamo visto regnare il principio di Nietzsche "non ci sono fatti, solo interpretazioni", che pochi anni prima i filosofi proponevano come la via per l´emancipazione, e che in effetti si è presentato come la giustificazione per dire e per fare quello che si voleva. Si è scoperto così il vero significato del detto di Nietzsche: "La ragione del più forte è sempre la migliore". È anche per questo, credo, che a partire dalla fine del secolo scorso si sono fatte avanti delle rivendicazioni di realismo filosofico.
Il New Realism nasce infatti da una semplice domanda. Che la modernità sia liquida e la postmodernità sia gassosa è vero, o si tratta semplicemente di una rappresentazione ideologica? È un po´ come quando si dice che siamo entrati nel mondo dell´immateriale e insieme coltiviamo la sacrosanta paura che ci cada il computer. Da questo punto di vista, un primo gesto fondamentale è consistito nella critica dell´idea che tutto sia socialmente costruito, compreso il mondo naturale, e sotto questa prospettiva il libro di Searle La costruzione della realtà sociale (1995) è stato un punto di svolta. In Italia, il segnale è venuto da Kant e l´ornitorinco di Eco (1997), che vedeva nel reale uno "zoccolo duro" con cui necessariamente si tratta di fare i conti, portando a compimento un discorso avviato all´inizio degli anni Novanta con I limiti dell´interpretazione. Lo stesso fatto che, sempre in quegli anni, si sia tornati a considerare l´estetica non come una filosofia dell´illusione, ma come una filosofia della percezione, ha rivelato una nuova disponibilità nei confronti del mondo esterno, di un reale che sta fuori degli schemi concettuali, e che ne è indipendente, proprio come non ci è possibile, con la sola forza della riflessione, correggere le illusioni ottiche, o cambiare i colori degli oggetti che ci circondano.
Questa maggiore attenzione al mondo esterno ha significato, anche, una riabilitazione della nozione di "verità", che i postmoderni ritenevano esaurita e meno importante, per esempio, della solidarietà. Non considerando quanto importante sia la verità nelle nostre pratiche quotidiane, e quanto la verità sia intimamente connessa con la realtà. Se uno va dal medico, sarebbe certo felice di avere solidarietà, ma ciò di cui soprattutto ha bisogno sono risposte vere sul suo stato di salute. E quelle risposte non possono limitarsi a interpretazioni più o meno creative: devono essere corrispondenti a una qualche realtà che si trova nel mondo esterno, cioè, nella fattispecie, nel suo corpo. È per questo che in opere come Paura di conoscere (2005) di Paul Boghossian e Per la verità (2007) di Diego Marconi si è proceduto a argomentare contro la tesi secondo cui la verità è una nozione relativa, e del tutto dipendente dagli schemi concettuali con cui ci accostiamo al mondo. È in questo quadro che si definiscono le parole-chiave del New Realism: Ontologia, Critica, Illuminismo.
Ontologia significa semplicemente: il mondo ha le sue leggi, e le fa rispettare. L´errore dei postmoderni poggiava su una semplice confusione tra ontologia ed epistemologia, tra quello che c´è e quello che sappiamo a proposito di quello che c´è. È chiaro che per sapere che l´acqua è H2O ho bisogno di linguaggio, di schemi e di categorie. Ma l´acqua bagna e il fuoco scotta sia che io lo sappia sia che io non lo sappia, indipendentemente da linguaggi e da categorie. A un certo punto c´è qualcosa che ci resiste. È quello che chiamo "inemendabilità", il carattere saliente del reale. Che può essere certo una limitazione ma che, al tempo stesso, ci fornisce proprio quel punto d´appoggio che permette di distinguere il sogno dalla realtà e la scienza dalla magia.
Critica, poi, significa questo. L´argomento dei postmoderni era che l´irrealismo e il cuore oltre l´ostacolo sono emancipatori. Ma chiaramente non è così, perché mentre il realismo è immediatamente critico ("le cose stanno così", l´accertamento non è accettazione!), l´irrealismo pone un problema. Se pensi che non ci sono fatti, solo interpretazioni, come fai a sapere che stai trasformando il mondo e non, invece, stai semplicemente immaginando di trasformarlo, sognando di trasformarlo? Nel realismo è incorporata la critica, all´irrealismo è connaturata l´acquiescenza, la favola che si racconta ai bambini perché prendano sonno.
Veniamo, infine, all´Illuminismo. La storia recente ha confermato la diagnosi di Habermas che trent´anni fa vedeva nel postmodernismo un´ondata anti-illuminista. L´Illuminismo, come diceva Kant, è osare sapere ed è l´uscita dell´uomo dalla sua infanzia. Da questo punto di vista, l´Illuminismo richiede ancora oggi una scelta di campo, e una fiducia nell´umanità, nel sapere e nel progresso. L´umanità deve salvarsi, e certo mai e poi mai potrà farlo un Dio. Occorrono il sapere, la verità e la realtà. Non accettarli, come hanno fatto il postmoderno filosofico e il populismo politico, significa seguire l´alternativa, sempre possibile, che propone il Grande Inquisitore: seguire la via del miracolo, del mistero e dell´autorità.

l’Unità 8.8.11
Pro
La guerra al velo fa il gioco dell’ala dura del mondo islamico
Modernizzare non significa «svelare» le donne. Così si offre un pretesto e una bandiera ai settori più tradizionalisti delle società musulmane che hanno trasformato il corpo delle donne in una bandiera di autenticità
di Rubah Sali, antropologa

La commissione Affari costituzionali ha approvato nei giorni scorsi il disegno di legge della deputata del Pdl Souad Sbai sul divieto di coprirsi il volto nei luoghi pubblici. Dopo Olanda, Belgio e Francia, anche in Italia si apre dunque il dibattito sul confine tra libertà religiosa, diritti della donna e compiti della legge.

Anche in Italia, dopo Olanda, Belgio e Francia, un disegno di legge che vieta di coprirsi il viso nei luoghi pubblici si appresta ad arrivare in parlamento, dopo che la commissione Affari costituzionali della Camera ha approvato qualche giorno fa il disegno di legge proposto dalla deputata del Pdl Souad Sbai.
Secondo Sbai, le donne che si coprono il viso sarebbero, «donne segregate, umiliate e oppresse che ogni giorno aiutiamo a risorgere dal proprio triste destino. Questa legge vuole anche rendere chiaro a tutti coloro che le vorrebbero segregate, che un burqa non è un diritto di libertà, ma solo e sempre un’aberrante imposizione».
Non occorre grande acume o conoscenze per demolire queste superficiali dichiarazioni a favore del divieto. Basterebbe leggere qualche studio, o più semplicemente, avere osservato le piazze e le strade di Sa’na, dove i visi coperti non hanno certo impedito alle donne di partecipare massicciamente alle grandi manifestazioni di piazza per la democratizzazione del loro paese.
Prima di analizzare l’incapacità di queste obsolete rappresentazioni di leggere le trasformazioni del presente, mi soffermerei sulle retoriche populiste del disegno di legge, retoriche che a mio parere non paiono affatto più legittime se proposte da una parlamentare di origine marocchina, una tra le tante imprenditrici politiche di cui pullulano i partiti delle destre, anche xenofobe, europee.
Queste ultime confondono volutamente il burqa, indumento diffuso tra l’etnia pashtun in Afghanistan e in altre regioni dell’Asia sud occidentale, che tradizionalmente smboleggia la rispettabilità e la modestia femminile ma più recentemente associato nell’immaginario collettivo occidentale al repressivo regime talebano con il diverso niqab, il velo facciale, che ha ben altre genealogie.
Ma stupisce anche l’incapacità di superare l’antica rappresentazione coloniale, che ha mostrato esiti fallimentari durante l’intervento occidentale in Afghanistan, secondo cui modernizzare significa per forza di cose “svelare” le donne. Si continua a proporre rappresentazioni dove il velarsi e lo svelarsi sono assunti come «barometri del cambiamento sociale nel mondo islamico», e la cui conseguenza è stata che l’Europa e l’Occidente sono divenuti modelli da emulare o da rifiutare a spese dei corpi e dei diritti delle donne. Questa logica, come è noto, ha finito spesso per offrire terreno alle forze più conservatrici delle società islamiche, che hanno trasformato il corpo delle donne velato in una bandiera di autenticità culturale contro la penetrazione economica e culturale occidentale. Ma il punto principale su cui vorrei soffermarmi è che l’ostinazione delle destre, laiche e religiose, contro il velo facciale, il niqab, rappresenta oggi una grande contraddizione rispetto al principio della sacralità della libertà individuale, anche religiosa, che dovrebbe caratterizzare le culture liberali europee.
Il divieto del niqab parte dall’errata assunzione, smascherata da una pletora di studi socio-antropologici, secondo cui coprirsi il corpo, i capelli o il viso sarebbe simbolo di oppressione, specchio della incapacità di agire delle donne, e costituirebbe una limitazione della loro libertà individuale. Basta osservare le giovani donne per le strade di Londra, Roma, Istanbul, il Cairo o Sa’na per capire quanto sia arcaica questa associazione tra velo e oppressione comunitaria e religiosa e comprendere la molteplicipità di significati e pratiche che il velarsi assume oggi. L’uso del hijab, o del niqab, destabilizza e complica le idee che in Europa si hanno di emancipazioneoppressione, visibilità-invisibilità dei corpi femminili, laicità e religiosità, pubblico-privato, e soprattutto libertà di scelta e costrizione, autonomia personale e autorità religiosa. L’hijab, la pratica del coprirsi il capo, seppur estremamente eterogenea, serve in generale la funzione di disciplinare o modulare la soggettività della donna musulmana, senza impedirne la partecipazione alla sfera pubblica delle società contemporanee in cui vive. Ma si potrebbe dire che l’hijab è anche, e sempre più, espressione di una modernità halal, una moderna identità religiosa, dove si coniugano etica ed estetica, modernità e modestia, obbligo religioso e stile o addirittura fashion, separazione tra i generi e partecipazione.
Diversamente, il niqab nelle società europee è indossato da una esigua minoranza di donne, ed è, come dimostrano numerosi studi, frutto di una libera interpretazione su come aderire più fedelmente all’obbligo religioso di modestia e rispettabilità. Chi ha studiato i movimenti di proselitismo religioso o anche chi ha solo parlato con donne che indossano il niqab in Europa sa che esse rispondono contemporaneamente a un volere trascendente e a una scelta individuale che è indipendente dalle costrizioni e dalle tradizioni, anzi spesso si pone in contrasto con queste ultime. Queste donne rivendicano la propria volontà di scegliere come meglio assolvere all’obbligo religioso della modestia femminile e chiedono ai paesi europei, dove sono nate o emigrate, il diritto a esercitare non solo una scelta individuale, ma ciò che esse vedono come un obbligo.
La storia insegna che accanirsi nel divieto a simboli religiosi e culturali porta facilmente a stigmatizzare chi li indossa, a destabilizzarne e alterarne i significati, prestando il fianco a facili strumentalizzazioni, col rischio di contribuire a trasformare i corpi delle donne in bandiere, questa volta certamente inconsapevoli.

l’Unità 8.8.11
Contro
Ma la società aperta chiede riconoscibilità
Si può opporsi alle strumentalizzazioni, non negare il problema. La legge Reale del 1975, adottata negli anni della lotta al terrorismo, vieta l’uso di caschi o di qualsiasi mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona senza giustificato motivo
di Stefano Ceccanti

La riconoscibilità della persona in un luogo pubblico o aperto al pubblico è un bene da tutelare perché esprime la volontà di vivere insieme, di sentirsi interpellati dall’altro, senza che nessuno sia con questo obbligato a perdere la propria individualità e i propri riferimenti culturali. Per questo, cioè per un bene che esprime emblematicamente la scelta per una società aperta, la legge può stabilire dei limiti proporzionati a quel fine. Questo non per utilizzare i timori contro gli immigrati (tentazione di molte destre) non per un’ossessione contro simboli religiosi o culturali (tentazione di qualche sinistra), o per imporre alle persone un modello univoco di liberazione (tentazione bipartisan).
Si può certo opporsi alle varie strumentalizzazioni, ma il problema in Italia esiste davvero, non è creato da chi strumentalizza. Infatti la legge Reale del 1975, adottata durante gli anni della lotta al terrorismo, vieta l’uso di caschi o di qualsiasi altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona in luogo pubblico o aperto al pubblico qualora non sussista un giustificato motivo. A partire da essa ci sono state varie ordinanze restrittive di sindaci tese a vietare veli a copertura del volto, annullate poi dai prefetti che hanno ritenuto, non senza incertezze, che quello religioso e culturale potesse essere un valido motivo. Peraltro la questione si complica perché secondo alcuni, compresa l'antropologa Salih, in realtà la scelta di questi indumenti avrebbe un’origine etnico-culturale più che religiosa. Così come interessante è il caso di un giudice penale di Cremona che nel novembre 2008 ha assolto perché «il fatto non sussiste» la moglie di un Imam che si era presentata col niqab in Tribunale. Nella motivazione della sentenza si legge chiaramente che nel nostro ordinamento manca un’espressa norma di legge equiparabile a quella per l’uso del casco sulla quale possa fondarsi il divieto di indossare burqa e niqab. Insomma, allo stato attuale, non si sa univocamente come applicare la legge né sembra opportuno che si lasci una questione inerente libertà costituzionalmente garantite ad alterne decisioni delle autorità giudiziarie o amministrative. In sintonia con la linea equilibrata sostenuta alla Camera, in prima commissione, dai deputati del Pd, va quindi chiarito attraverso un intervento normativo semplice ed essenziale che, fatti salvi i luoghi di culto e le manifestazioni tradizionali o peculiari di carattere artistico o sportivo, né la religione né motivi culturali possono esonerare dalla riconoscibilità del volto, senza con questo far riferimento nella legge a particolari credenze o appartenenze, che sarebbe discriminatorio.
Non mi sembra neanche opportuno nominare esplicitamente alcun tipo di indumento, cosa che invece fa il testo della relatrice di maggioranza, che potrebbe apparire anch’esso discriminatorio, essendo più giusta e sufficiente la clausola generale di divieto a tutto ciò che impedisce la riconoscibilità, perno irrinunciabile della società aperta. Quella stessa che garantisce al massimo l’inclusione, la libertà religiosa e la libertà di espressione, e che talora ha bisogno di qualche limite, leggero, ragione-
vole e proporzionato. In altre parole si tratterebbe di proseguire nel solco di quanto contenuto, già nel 2007, nella Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione, adottata dal ministro dell’Interno pro tempore Giuliano Amato, dove si affermava non solo che l’Italia non pone restrizioni all’abbigliamento della persona, purché esso sia scelto in libertà e preservi la dignità dell’individuo, ma anche che non sono ammesse forme di vestiario che coprano il volto perché ciò impedisce il riconoscimento della persona e ne ostacola le relazioni interpersonali. Difatti, a salvaguardia della libertà individuale, andrebbe perseguito, come correttamente fa la Francia e anche il testo licenziato dalla Commissione, il comportamento di colui che obbliga una persona a coprire il volto (reato di «Costrizione all’occultamento del volto»).
Senza dubbio, volendo cominciare – finalmente – a intervenire in materia di accoglienza e integrazione, meglio sarebbe stato partire da tre altri interventi quali la riforma della legge sulla cittadinanza, il superamento della legge sui culti ammessi del 1929 attraverso una normativa generale in materia di libertà religiosa e il diritto di voto agli immigrati per le elezioni amministrative. I primi due temi avevano visto nella precedente legislatura, e parzialmente nella attuale, dei significativi passi in avanti in prima commissione alla Camera, ma questa maggioranza li ha ormai riposti in fondo alla lista delle proprie priorità, scegliendo di partire dall’intervento forse meno indispensabile di tutti gli altri. Allora, piuttosto che lasciare campo libero alle vuote “norme manifesto” di Pdl e Lega, bene hanno fatto i colleghi del Pd a Montecitorio a reagire, cercando di apportare dall’opposizione il proprio contributo in termini di competenza e ragionevolezza.

l’Unità 8.8.11
Tumulti scoppiati sabato sera dopo la protesta dei parenti di Mark Duggan al commissariato
L’origine sarebbe l’uccisione dell’uomo, 29 anni, di colore, fuggito a un posto di blocco
Guerriglia a Londra nel quartiere nero feriti 29 poliziotti
Una stazione di polizia assaltata, negozi saccheggiati, sassaiole, barricate: notte di fuoco e disordini a Tottenham, sobborgo nord di Londra. Finito con 42 arresti e 29 poliziotti feriti.
di Daniele Guido Gessa

Solo pochi mesi fa il primo ministro del Regno Unito David Cameron, in un discusso intervento, disse: «Il multiculturalismo ha fallito». E sabato notte il vanto della società britannica, l’esser riusciti a coniugare popolazioni provenienti dalle più diverse parti del mondo con successo, è stato messo seriamente a rischio dalle sommosse di Tottenham, sobborgo a Nord della capitale.
Tutto è nato dopo l’uccisione – la dinamica è ancora da accertare – da parte della polizia di Mark Duggan, 29 anni, padre di quattro figli, durante un inseguimento finito nel peggiore dei modi. Così, nella notte fra sabato e domenica, una vera e propria rivolta da parte di parenti, amici e sostenitori del giovane è andata in scena non lonano dallo stadio dell’Arsenal. Un autobus a due piani dato alle fiamme, due macchine della polizia incendiate, bombe alla benzina e veri e propri missili artigianali. Numerosi i negozi presi d’assalto, in quella che già si inizia a chiamare «la rivolta dei carrelli da supermercato». Sui quali si è visto di tutto, dalle televisioni agli strumenti musicali, alle derrate alimentari. Un saccheggio che ha riportato la memoria alle sommosse degli anni Ottanta, quando a finire sotto assedio furono tanti altri quartieri, soprattutto Brixton. Qui come a Tot-
tenham, la percentuale di popolazione di colore è altissima. E la rivolta di sabato è stata soprattutto una rivolta “nera”, a ricordarci che anche nella patria del multiculturalismo europeo le discriminazioni non sono mai finite, l’integrazione spesso riempie solo le bocche dei politici e tanta strada è da fare sul percorso della piena uguaglianza, che deve essere prima di tutto economica e sociale.
LA RIVOLTA
Tutto è iniziato al grido di «giustizia, giustizia!». Soprattutto per la famiglia di quel giovane ucciso che, dicono gli amici, magari non aveva la fedina penale pulitissima, ma non avrebbe fatto male a una mosca. Ora, il risultato fuoco, fiamme e cenere, con 26 poliziotti feriti, di cui 8 finiti in ospedale, 2 in gravi condizioni più 42 persone arrestate nei disordini e una situazione che, ancora ieri mattina, veniva definita «difficile da gestire».
Londra si conferma così come una città dove malessere sociale e discriminazioni non sono mai spariti. La questione razziale è esplosa nuovamente dopo che il giovane Duggan era stato ucciso, giovedì scorso, su un taxi che aveva preso per cercare di sfuggire all’arresto. E il fatto che fosse nero, secondo i suoi sostenitori che sabato hanno marciato contro una caserma di polizia, non avrebbe fatto che peggiorare il tutto. Una presa di coscienza mista a rabbia, e tanta, da parte del «popolo dei benefit», in italiano si direbbe gli assistiti dai servizi sociali.
IL QUARTIERE
A Tottenham, come in altri quartieri di Londra, la percentuale di persone che vivono grazie agli ormai miseri assegni sociali è altissima. Duecento sterline o poco più a persona, più il sostegno per l’abitazione. Pochi soldi che comunque fanno la differenza fra la fame o la pancia piena, soprattutto per giovani senza lavoro, ragazze madri, ragazzi “difficili” sempre in bilico fra la legalità e l’illegalità. E ora che è saltato fuori il morto, che si sono contati i feriti e che le fiamme hanno prevalso, il primo ministro David Cameron starà sicuramente ripensando a quella sua infelice uscita sul multiculturalismo, in una Gran Bretagna dove i sostenitori dell’English Defence League, il partito declamato e ammirato dal massacratore di Oslo Anders Behring Breivik, sono sempre di più, nell’ordine delle migliaia. E dove un morto è la scintilla per una sommossa che avrebbe potuto portare ad altri morti. 

l’Unità 8.8.11
Inferno carceri: l’emergenza non può aspettare
di Sandro Favi

Ho aderito con convinzione all’appello promosso da Rita Bernardini e da diverse associazioni per la convocazione straordinaria del Parlamento di fronte alla drammatica situazione delle nostre carceri, anche se è doveroso ricordarlo, Camera e Senato hanno per ben due volte discusso e approvato mozioni, di maggioranza e di opposizione, con impegni diretti e concreti ai quali, però, l’allora ministro Alfano non ha dato concretezza. Lo stesso Parlamento che ha già impegnato il governo a dare priorità alla ristrutturazione e alla messa a norma degli istituti penitenziari esistenti, a redigere la “black-list” di imprese e consorzi a rischio di inquinamento mafioso alle quali non potranno essere concessi appalti e subappalti, a considerare vincolanti le intese con i comuni per la localizzazione di nuove carceri. Sarebbe opportuno che il ministro Nitto Palma informi le istituzioni e il Paese su cosa è stato fatto. Dai dati che conosciamo veramente poco. Ci sono voluti quasi tre anni per
mettere in campo un Piano Carceri fatto di norme in successione, poteri commissariali sempre più estesi e reiterate ordinanze per uno stato di emergenza che dura da 20 mesi. Nulla di più di quello che l’ordinaria amministrazione non avesse già da anni avviato, in qualche caso anche in tempi più celeri. Solo che molti padiglioni detentivi costruiti sono rimasti vuoti, i nuovi istituti vengono aperti a porzioni o peggio ne vengono ritardati i tempi di consegna perché non si è in grado di redistribuire il personale o decidere quale livello di sicurezza dovranno assicurare. E una volta aperti i cantieri, anche il ministro Nitto Palma immagina di poter far passare sotto silenzio le condizioni disumane del sovraffollamento, il degrado delle strutture, le difficoltà e la frustrazione degli operatori?
Il governo vanta, dal fronte delle carceri, l’efficacia di una politica della sicurezza e della giustizia che avrebbe migliorato le nostre città e contrastato la diffusione dei poteri delle organizzazioni criminali. Le carceri sovraffollate del governo Berlusconi si sono piuttosto riempite delle povertà dei migranti e delle marginalità umane che popolano il degrado urbano, dell’abbandono dei tossicodipendenti e dei sofferenti psichiatrici, con i meccanismi di una giustizia implacabile con i poveri, quanto indulgente con i garantiti.
Un Piano Carceri serio andrebbe concepito non solo come aumento di celle, di vite isolate, segregate, quasi perdute ma come una nuova architettura umana e sociale.
Le carceri del 2011 sono luoghi in cui si esercita la potestà di uno Stato di diritto o si realizza violenza al senso di umanità e alla piena legalità della pena?
Il Pd non si è mai sottratto al confronto nonostante il tema del carcere sia stato solo affrontato con la “politica degli annunci”. Se il governo accetterà di venire in Parlamento per discutere e individuare soluzioni praticabili per risolvere i problemi che affliggono il carcere noi saremo attenti alle proposte che ci verranno avanzate e metteremo a disposizione di tutti le nostre proposte e le nostre idee.

Repubblica 8.8.11L´artista-dissidente cinese arrestato il 3 aprile e poi scarcerato descrive i suoi terribili 81 giorni in cella
Un memoriale pubblicato da Spiegel grazie a un suo amico: "Per grattarmi la testa dovevo chiedere il permesso"
Ai Weiwei: “Luce sempre accesa e minacce vi racconto le mie prigioni"
di Andrea Tarquini


Ogni secondo in quel posto era per me un dolore insopportabile
Mi dissero che era scoccata la mia ultima ora e che mi avrebbero piegato
Mi accusavano di farmi manovrare da una potenza straniera
Ma i carcerieri più giovani avrebbero voluto capire chi fossi veramente

BERLINO. Mai la vista della luce del sole. Una cella con la finestra oscurata, la lampadina accesa tutto il giorno. 24 ore su 24 sotto gli occhi dei carcerieri, interrogatori di continuo, minacce del peggio, e l´obbligo di chiedere loro ogni permesso, anche di potersi grattare la testa. Così l´artista critico cinese Ai Weiwei ha vissuto i suoi 81 giorni in prigionia. Li racconta un suo amico, lo scrittore emigrato Bei Ling, in un articolo uscito ieri su Der Spiegel. Proprio mentre Ai Weiwei, come informa la Bbc, torna a farsi vivo su twitter. Non parla di politica, perché in cambio del suo rilascio è tenuto al silenzio. Descrive però i suoi pranzi, e semplicemente scrive «sono qui, saluti». Dà insomma al mondo prove della sua esistenza.
«Dieci ravioli a pranzo, ho riacquistato tre chili di peso», "cinguetta" Ai Weiwei in uno dei messaggi, ricevuti nelle ultime ore. In un altro: «Cinque spicchi di aglio». Ha anche inviato a Google+ foto in bianco e nero dei suoi soggiorni a New York negli anni Ottanta e Novanta, insieme alla frase «Sono qui, saluti» e a una descrizione ufficiale di lui, «sospetto fan della pornografia ed evasore fiscale».
Evidentemente, Ai Weiwei vuole fornire prove di essere vivo e di sentirsi meglio. Il racconto della sua prigionia, le sue «prigioni», non lo ha scritto lui: se lo facesse, verrebbe di nuovo arrestato. Lo ha stilato Bei Ling, a quanto pare dopo contatti con familiari e amici dell´artista. Fa rabbrividire, più di "Buio a mezzogiorno" di Arthur Koestler o de "La confessione" di Artur London, celebri racconti delle carceri staliniane in Europa orientale, evoca pagine di Solzhenystin.
Fu arrestato il 3 aprile da poliziotti in borghese, lo ammanettarono e lo incappucciarono, lo portarono in un carcere fuori Pechino, scrive Bei Ling. La sua cella era di appena sei metri quadrati, e per unico mobile aveva una branda. Ogni angolo - della branda, e persino del rubinetto del lavandino - era smussato e imbottito, probabilmente nel timore che egli volesse togliersi la vita. La finestra era oscurata, la luce restava accesa giorno e notte. Lo svegliavano ogni mattino alle sei e mezza; i poliziotti che lo sorvegliavano senza pausa si davano il cambio ogni tre ore, non lo lasciavano solo un secondo. Lo accompagnavano anche alla toilette o alla doccia. Ha trascorso in quella cella 81 giorni, ha perduto 15 chili. «La mia vicenda è una storia semplice», ha detto Ai Weiwei secondo Bei Ling, «ma per me ogni secondo in quel luogo era un momento di dolore insopportabile». Non sapeva dove si trovasse detenuto, né se mai sarebbe tornato in libertà.
Non è stato mai percosso né torturato, ma sottoposto a pressioni psicologiche pesanti. I poliziotti gli vietarono di portare braccia e mani oltre l´altezza del suo torace. Doveva chiedere il loro permesso anche se voleva grattarsi la testa: «Prego la guardia di servizio di autorizzarmi a grattarmi sul capo», doveva dire. Uno dei guardiani gli disse: «Solo perché tu lo sappia, è previsto che i detenuti che violano queste regole siano costretti a restare in piedi assolutamente immobili. Alla fine ci implorano di sedersi anche per un solo istante».
Gli interrogatori erano continui, in totale sono stati almeno 52. Il personale cambiava di continuo. A volte non sapevano chi egli fosse, gli chiedevano quale crimine avesse commesso. Altre volte gridavano per intimidirlo: «Ai Weiwei, sei svergognato. Mettitelo in testa, la superbia precede la caduta! E lasciatelo dire, ti spezzeremo!». Oppure: «La tua ultima ora sta per scoccare, Ai Weiwei, dicci, chi vuoi vedere per ultimo?». Spaventato, egli rispose: «Mia madre». Altri poliziotti gli chiedevano confessioni: «Dietro a tutto c´è una potenza straniera, altrimenti non sfideresti di continuo il governo». Uno di loro si disse convinto che egli avesse tentato di rovesciare l´ordine costituito. Tra i carcerieri, i più curiosi sull´identità e la storia del prigioniero apparivano i più giovani. Avrebbero volentieri saputo qualcosa di più su di lui: come si chiamava, perché era stato arrestato. Ma quei giovani curiosi in uniforme non gli parlavano. Avevano probabilmente paura di finire davanti a un tribunale militare.
Oggi, davanti alla casa e atelier di scultore dove Ai è agli arresti domiciliari, gli agenti sorvegliano in permanenza: hanno installato telecamere su alti tralicci, per vedere e riprendere da dietro le finestre, e lo controllano dal comodo di una garitta costruita apposta per loro. Controllano i documenti di chiunque entri o esca.

Repubblica 8.8.11
 
È baby-boom: in 6 mesi i nati sono stati 25 mila e in Cisgiordania la popolazione araba supera i 4 milioni Mentre, senza una politica per la famiglia, in Israele è stallo demografico. E aumenta la paura del "sorpasso"
E ora la Striscia si affida ai bambini
Nei Territori sono migliorate le condizioni economiche e assistenziali
di Fabio Scuto

   
GERUSALEMME. La battaglia per la Palestina non si combatterà nella Valle del Giordano, sul Golan o lungo la frontiera con Gaza, ma in camera da letto come sostengono da anni i demografi più accreditati del Medio Oriente. La crescita della popolazione palestinese sia nella Striscia di Gaza che nella Cisgiordania supera in termini percentuali quella in Israele - attestata su una percentuale simile a quella dell´Europa - di diversi punti, e in un futuro non molto lontano i residenti palestinesi supereranno per numero i cittadini israeliani. Niente carri armati, niente aviazione, sono i bambini "l´arma del futuro". La bomba demografica viene definita dagli specialisti del ramo, con un sillogismo certamente poco felice, ma che riproduce esattamente la situazione sul terreno in Palestina e in Israele.
Il sostanziale stallo della crescita demografica in Israele viene attribuito alla mancanza di una politica a sostegno delle famiglie, alla crescita dei prezzi e al sostanziale blocco del reddito che porta le famiglie israeliane ad avere soltanto uno-due figli per coppia - dato che cresce solo per la parte ultraortodossa della popolazione. Dal lato palestinese si registra invece un vero e proprio boom delle nascite. Sostanzialmente le famiglie arabe sono sempre state piuttosto "numerose" - quattro-cinque figli per coppia - ma negli ultimi due anni la crescita è stata davvero considerevole. Le condizioni economiche migliorate specie in Cisgiordania - una realtà economica che cresce al ritmo dell´8 per cento l´anno - e il sistema sanitario certamente reso più efficiente, sono alla base della nuova spinta demografica. Situazione che anche a Gaza registra una vera impennata. Nella Striscia soltanto nei primi sei mesi del 2011 i nuovi nati sono stati 25mila. Numeri che in una realtà delicata come quella della Terra Santa sono destinati a incidere molto. Tra le tante chiavi di lettura del lungo conflitto tra israeliani e palestinesi c´è la demografia e gli scenari tracciati ruotano sempre attorno a una parola chiave: "il sorpasso", quello che prima o poi i palestinesi compiranno sugli israeliani, prima o poi.
I dati diffusi dall´Ufficio centrale di Statistica di Ramallah indicano che nei Territori la popolazione palestinese è arrivata a 4,17 milioni. L´ultimo studio sulla materia del professor Sergio della Pergola, il più accreditato demografo in Israele docente all´Università Ebraica di Gerusalemme e autore del libro "Israele e Palestina, la forza dei numeri (pubblicato in Italia da Il Mulino), ci dice che la popolazione ebraica è al momento di poco sopra i 5,2 milioni. Ma componente israeliana è piuttosto complessa perché è a sua volta composta da gruppi molto più eterogenei, per provenienza di origine, per differenziazione politica, etnica e religiosa: un quinto degli israeliani non sono ebrei, ma immigrati russi e arabi, in maggioranza musulmani.
La spinta palestinese intanto prosegue senza sosta, soltanto nella prima settimana di questo mese sono nati 1090 bambini, una media di 155 al giorno che - se rapportata alla popolazione - ci indica che nessun Paese al mondo in questo momento sta crescendo allo stesso ritmo. Funzionari della sicurezza israeliana - perché quello demografico è per Israele un problema di sicurezza e fonte di grande inquietudine - confermano che i dati forniti dall´Ufficio di Statistica di Ramallah sono molto vicini alle valutazioni fatte in Israele sul numero di residenti palestinesi nei Territori. La crescita stimata dagli israeliani era del 3% l´anno circa, ma i numeri diffusi già indicano che la soglia è già stata ampiamente superata. Inoltre il 40,8% della popolazione della Cisgiordania e di Gaza ha meno di 14 anni, e questo rende i palestinesi una delle più giovani popolazioni del mondo.
Lo storico israeliano Benny Morris è fra quelli convinti che la guerra in Israele si consumerà non sul campo di battaglia, ma in campo demografico, e ammette che gli arabi si sono già assicurati la vittoria. A questo ritmo nel giro di cinque-dieci anni gli arabi (gli arabi israeliani sommati a quelli che risiedono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza) formeranno la maggioranza della popolazione sui territori che si estendono tra il fiume Giordano e il Mediterraneo. E questo molti israeliani non fa dormire sonni tranquilli.

Repubblica 8.8.11
Se l’Onu riconoscesse lo Stato palestinese
di Antonio Cassese


Che la situazione Palestinese sia ad un punto morto, nessuno può negarlo. Si può perciò capire perché i palestinesi vogliono rompere lo stallo con una mossa dirompente all´Assemblea Generale dell´Onu. Il loro intento è duplice. Ottenere dalla maggioranza del 193 paesi membri il riconoscimento che in Palestina non vi è più una "entità", ma un vero e proprio Stato. Essere ammessi come membro delle Nazioni Unite, e non più come semplice "osservatore". Il secondo obiettivo è irraggiungibile, e i palestinesi ne sono consapevoli: infatti, per l´ammissione di nuovi stati all´Onu è necessaria non solo una maggioranza di due terzi all´Assemblea Generale, ma anche un voto favorevole del Consiglio di sicurezza. Ora, si sa già che gli Usa porranno il veto, bloccando qualunque ammissione.
Resta il riconoscimento della Palestina come Stato. Che valore ha, e quali possono essere le sue conseguenze pratiche? Prima di rispondere, riassumerò alcuni fatti di base.
La Palestina, si sa, è composta dalla Cisgiordania inclusa Gerusalemme est (circa 3 milioni di abitanti) e dalla Striscia di Gaza (1.600.000 di abitanti), due zone separate da territorio israeliano. Entrambe le zone dal 1967 sono sotto l´occupazione bellica israeliana, anche se da Gaza le forze armate israeliane si sono ritirate nel 2005 (ma controllano gli accessi alla Striscia, lo spazio aereo e le acque territoriali). Fatah domina la Cisgiordania, mentre Hamas domina Gaza: le due dirigenze palestinesi sono ai ferri corti, lacerate da dissidi ideologici e politici insanabili. In Cisgiordania l´Autorità palestinese è riuscita a costruire un´amministrazione pubblica e un sistema economico abbastanza efficienti, come attestato dalla Banca Mondiale e dall´IMF e ribadito giorni davanti al Consiglio di Sicurezza. Inoltre l´autorità palestinese controlla il territorio della Cisgiordania, almeno in parte, perché l´esistenza degli insediamenti israeliani e le truppe israeliane che li proteggono fanno sì che il 60% del territorio sia di fatto sotto il dominio militare israeliano.
La Cisgiordania costituisce uno Stato? Ritengo di sì, perché ha una struttura centrale organizzata (l´Autorità palestinese) che esercita un controllo effettivo su parte della popolazione stanziata nel territorio, anche se sotto occupazione bellica straniera e con confini incerti. Inoltre intrattiene regolarmente rapporti internazionali, concludendo accordi (il più famoso è quello di Oslo, del 1993) e inviando rappresentanze diplomatiche presso numerosi Stati (tra cui molti paesi occidentali, inclusa l´Italia, che ha elevato il rango del rappresentante palestinese a Roma a quello di ambasciatore). Dunque, la Palestina, finora riconosciuta da 122 membri dell´Onu, ha tutti i requisiti per essere considerata come un vero e proprio Stato.
Cosa cambia se a settembre l´Assemblea Generale dell´Onu approva una risoluzione che definisce la Palestina uno Stato? Beninteso, si tratterebbe di un risoluzione giuridicamente non vincolante. Nondimeno cambierebbero varie cose sul piano politico, e tutte a vantaggio della Palestina (e della messa in moto del processo di pace). Primo, il "riconoscimento" significa che sarà difficile d´ora in poi contestare il carattere statuale della Palestina. Certo, il riconoscimento come tale non "crea" la personalità giuridica internazionale; ma se è conferito da numerosi membri dell´Onu costituisce un´importante attestazione della statualità dell´ente riconosciuto. Secondo, presumibilmente la risoluzione affermerà che la Palestina esiste nei confini pre-1967 ed include Gerusalemme est, così ribadendo una tesi palestinese fortemente oppugnata da Israele. Terzo, la risoluzione non parlerà, si presume, di quella smilitarizzazione della Palestina, richiesta da Israele come condizione essenziale per qualsiasi accordo. Quarto, sarà più difficile per Israele continuare la sua pluridecennale e illegale occupazione bellica: si porranno le premesse per un ritiro di Israele almeno dalla Cisgiordania e da Gerusalemme est e per l´acquisto, da parte del governo palestinese, della piena sovranità sul suo territorio. Quinto, Mahmoud Abbas avrà in mano carte più forti per negoziare scambi di territori, mutamenti di confine o cospicui indennizzi, oltre a concordare lo status internazionale di Gerusalemme. Sesto, in seno all´Onu la Palestina diventerà uno "Stato osservatore", e quindi avrà una maggiore forza politica e morale. Settimo, il procuratore della Corte Penale internazionale, cui l´Autorità palestinese ha chiesto nel gennaio 2009 di accedere allo Statuto della Corte, non potrà più traccheggiare come ha fatto finora, e sarà costretto finalmente a rispondere sì o no. Se, come dovrebbe, risponde affermativamente, lo Stato palestinese può ribadire la richiesta che siano sottoposti alla giurisdizione della Corte tutti i crimini commessi sul territorio palestinese dal 2002, quindi anche i crimini attribuiti ad Israele da vari rapporti internazionali. Quest´ultima è un´arma possente, che Israele teme fortemente, e il cui possibile uso può indurre Netanyahu ad aprire negoziati sui vari problemi, incluso quello del ritorno dei profughi palestinesi nelle terre in cui vivevano prima di fuggire tra il 1948 e il 1967.
Naturalmente il successo della risoluzione pro-palestinese dipende dal modo in cui Abbas intende comportarsi nei confronti di Hamas. È un fatto che Hamas è politicamente allineata sulle posizioni dell´Iran e della Siria, non esita a lanciare indiscriminatamente razzi contro la popolazione israeliana e persegue una assurda volontà di distruzione di Israele. Perciò è stata definita sia da Gerusalemme sia da Washington «una organizzazione terroristica». L´Autorità palestinese sarebbe saggia se, chiedendo il riconoscimento collettivo dello Stato palestinese, si limitasse ad indicare la Cisgiordania e Gerusalemme est. Oramai Gaza è un´entità a sé, un "governo di fatto" che né l´Autorità Palestinese né Israele riescono a controllare politicamente e militarmente. È una spina nel fianco sia di Israele sia dell´Autorità Palestinese, e costituisce un grave problema di cui prima o poi dovrà farsi carico tutta la comunità internazionale. Molti Stati occidentali potrebbero votare a favore della risoluzione pro-palestinese se Gaza venisse lasciata fuori, a meglio sottolineare che Abbas è un moderato che persegue fini pacifici e non intende negare l´esistenza dello Stato di Israele e tanto meno compiere atti terroristici contro quello Stato.

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