domenica 28 agosto 2011

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l’Unità 28.7.11
Opposizione e comitati sul piede di guerra per far cancellare l’articolo 4 della Finanziaria
Annullerebbe il risultato di due mesi fa nei quali si espressero 30 milioni di italiani
Referendum, altolà delle opposizioni: scippo inaccettabile
Dopo la campagna lanciata dal nostro giornale sul colpo di mano del governo contro l’esito dei referendum, Pd e Idv annunciano battaglia. «Bene ha fatto l’Unità, si attivino pure gli altri organi di stampa»
di Luciana Cimino

Dopo la campagna lanciata dall’Unità contro il tentativo del governo di aggirare l’esito dei referendum di giugno, oltre alle associazioni e ai comitati promotori, continuano a farsi sentire le opposizioni. Inconcepibile usare la manovra finanziaria come grimaldello per scardinare la volontà popolare, che sulle privatizzazioni dei beni comuni si era già espressa con un risultato incontrovertibile. «Il Pd e tutte le opposizioni chiedano con forza l'abrogazione dell'art. 4 della manovra finanziaria, che di fatto annullerebbe il risultato dei referendum di due mesi fa la volontà di 30 milioni di italiani per i quali i servizi pubblici vanno gestiti come beni comuni» hanno dichiarato ieri Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, rispettivamente capogruppo e mebro della Commissione ambiente del Senato. «In base all'art. 4 osservano i parlamentari verrebbe vietato l'affidamento diretto a società pubbliche di tutti i servizi locali ad eccezione dell'acqua. Questa norma è palesemente incostituzionale e rappresenta in modo evidente uno scippo della volontà referendaria. È più che legittimo riorganizzare i servizi pubblici locali per renderli più efficienti, ma questo obiettivoconcludononon può che partire dalla indicazione dei referendum». Già venerdì era stata altrettanto netta la posizione del presidente Rosy Bindi e di Stella Bianchi (responsabile ambiente dei Democratici) che avevano parlato di «colpo di mano». La Bianchi aveva anche annunciato che la questione era già stata sottoposta al parere della Commissione Affari Costituzionali del Senato. Per Ermete Realacci, responsabile Green Economy del Pd, «gli allarmi che l'art. 4 della manovra possa essere usato come cavallo di Troia per stravolgere il risultato dei referendum vanno presi in seria considerazione. Ed è meritorio che un giornale come l'Unità dedichi pagine e speciali all'argomento. Il Pd vigilerà affinché la volontà popolare non sia disattesa e stravolta». Per l’esponente dei Democratici Raffaella Mariani «l'atteggiamento del governo in riferimento ai servizi pubblici locali mostra arroganza e ignoranza. Bene ha fatto quindi l'Unità a mettere in evidenza in questi giorni il problema e anche altri organi d'informazione dovrebbero evidenziare quanto l'art.4 della manovra, che fa riferimento ai servizi pubblici locali, sia incoerente con la volontà del 96% degli italiani». Anche l’Italia dei Valori, annuncia battaglia. «Il referendum dello scorso mese di giugno è da tutti riconosciuto come il referendum sull'acqua pubblica poiché, al di là del suo aspetto tecnico, così è stato vissuto da tutti gli italiani», afferma il presidente vicario del gruppo Idv della Camera, Antonio Borghesi. E il suo compagno di partito, Leoluca Orlando, non è meno deciso. «Con un colpo di mano il governo sta cercando di cancellare la volontà di 27 milioni di italiani che, con il voto dei referendum, hanno bocciato le politiche di questo esecutivo e detto chiaramente di voler mantenere pubblico un bene comune come l'acqua», dice il portavoce Idv che aggiunge: «Il governo compie l'ennesimo atto di arroganza. Con la manovra prova a prendere in giro gli italiani per l'ennesima volta. Daremo battaglia per bloccare questo scempio». E alle battaglia delle opposizioni si uniscono movimenti e comitati promotori che con la loro intensa attività a giugno avevano garantito il successo dei quesiti e che hanno annunciato di aver scritto una lettera in merito a Napolitano. «Ci rivolgiamo al Presidente della Repubblica scrive il Forum Italiano dei Movimenti per l’acqua affinchè, in aderenza al suo ruolo di garante della Costituzione, non permetta che siano riproposte leggi che violano l'esito dei referendum popolari».

l’Unità 28.7.11

Bersani «Non capisco la discussione nel partito. Ogni sindacato sceglie le forme di lotta che vuole»
Proteste Dalla mobilitazione Cisl e Uil al fermo Cgil: «Noi siamo con chiunque si batta per l’equità»
Sciopero Cgil «Il Pd con chi vuole un’altra manovra»
«Saremo in ogno luogo, sciopero, piazza, assemblea, dove si chieda più equità e crescita in questa manovra», dice Bersani, che difende «l’autonomia» della scelta della Cgil di andare allo sciopero contro il governo
di Simone Collini


Primo: la parola «autonomia» ha un significato ben preciso. Secondo: il Pd sarà ovunque ci sia un'iniziativa in cui si chiede al governo di cambiare profondamente questa manovra «iniqua e che non porta crescita». Pier Luigi Bersani vuole mettere fine al dibattito che si è aperto sullo sciopero generale indetto dalla Cgil per il 6 settembre. «Leggo anche in casa mia di una discussione che non capisco», dice ai giornalisti che lo incontrano al Meeting Cl di Rimini il giorno dopo che un gruppo di deputati quarantenni del Pd (a Misiani, Esposito, Boccia, Boccuzzi e altri si è aggiunto ieri il costituzionalista veltroniano Salvatore Vassallo) ha scritto un documento in cui si chiede a Susanna Camusso «un'ulteriore riflessione» sull'opportunità di organizzare la giornata di lotta non insieme a Cisl e Uil e mentre è in corso il dibattito parlamentare sulla manovra.
Bersani insiste soprattutto sul principio di «autonomia» delle forze sociali: «Tutti protestano per questa manovra, non ho sentito nessuno che sia d'accordo. Poi, c'è chi sceglie lo sciopero, chi le assemblee, chi le raccolte di firme e io dico che ognuno può scegliere in autonomia le forme che vuole».
Ma c'è anche un altro concetto che ribadisce Bersani. Se nel partito c'è chi apertamente chiede di «opporsi» allo sciopero (tra i primi a farlo è stato Beppe Fioroni, che ieri ha ribadito che i Democratici non devono «cavalcare la protesta» ma essere «centro dell'alternativa di governo») il leader del Pd assicura che il suo partito «sarà presente in tutti i luoghi, scioperi, assemblee e quant'altro, saranno organizzati da chi vuole chiedere più equità e crescita nella manovra correggendola» (esponenti del Pd saranno anche al presidio di Cisl e Uil davanti al Senato del 1 ̊ settembre). È il governo infatti per il leader del Pd il responsabile della lacerazione aperta tra le forze sociali che pure, unitariamente, il 28 giugno avevano firmato un accordo che ora con la manovra si vuole cancellare. Per questo Bersani replica al ministro Sacconi, che dopo aver appreso delle esternazioni del leader Pd lo accusa di essere schiacciato sulle posizioni della Cgil, che la realtà è un'altra: «Sono appiattito sulla positiva intesa del 28 giugno, che fu salutata da tutti come l'unica bella notizia dopo mesi e mesi di divisioni e conflitti. Un governo serio dovrebbe custodire e sostenere quell'intesa e non metterla a rischio. E se finalmente il governo e il ministro Sacconi, piuttosto che tenersela nei cassetti, pubblicassero doverosamente la lettera della Bce si vedrebbe bene che quell'intesa vi corrisponde in pieno». E per questo il Pd presenterà un emendamento che chiede lo stralcio dell'articolo 8 della manovra, che ha come conseguenza proprio quella di vanificare quell' accordo e di colpire l'autonomia delle forze sociali.

il Fatto 28.8.11
Enrico Rossi, governatore Toscana (Pd)
“Diciamolo: Penati non ha più niente a che fare con noi”
di Paola Zanca


 “Quando ho letto le dichiarazioni di Penati ho avuto una reazione spontanea: non si può di fronte a una modifica dell’accusa da concussione a corruzione cantar vittoria perché in questo modo si evita la galera. Come si fa a dire ‘si sgretola l’impianto, eccetera eccetera... ’ Calma, lo dovrai dimostrare”. Così, Enrico Rossi, governatore della Toscana ha acceso il computer e trasmesso via Facebook all’ex vicepresidente della Regione Lombardia Filippo Penati la sua “pena” e la sua “rabbia”.
 Possiamo chiamarli “anticorpi democratici”?
 Noi non abbiamo una differenza genetica, siamo uomini come tutti gli altri. Però, c’è un però.
 Quale?
 Possiamo adottare una serie di comportamenti che segnino la differenza.
 Primo.
 Qualsiasi amministratore pubblico coinvolto in vicende giudiziarie in attesa della sentenza non si opponga alla ricerca della verità.
 Tradotto?
 Penati avrebbe fatto meglio a stare zitto. Le sue parole mi sono sembrate quanto meno inopportune.
 Secondo.
 Dimettersi da qualsiasi incarico pubblico. Non basta prendere le distanze dal Pd, servono anche le dimissioni dal Consiglio regionale: lui è stato eletto nelle liste del Pd, che ha fatto dell’etica la sua ragione di vita.
 E se non se ne va?
 Se resta a fare il consigliere il partito deve fare in modo che sia chiaro che non ha più niente a che fare con noi.
 Finora il partito non lo ha detto.
 Serve che il Pd prenda le distanze in maniera molto forte. Le dichiarazioni che ha fatto Bersani mi pare che almeno in parte vadano in questa direzione.
 A Rimini Bersani ha anche detto di non avere elementi per dire se al posto di Penati rinuncerebbe alla prescrizione. Lei ne ha?
 La galera è una cosa seria, non chiedo a Penati di avvalersi della rinuncia alla prescrizione perché non so cosa farei al posto suo, bisognerebbe trovarcisi. Certo, un politico non è un semplice cittadino e avrebbe il dovere di assumersi delle responsabilità. Potrebbe scattare un meccanismo per cui “tanto più sono onesto, tanto più mi oppongo al fatto di essere arrestato”. Però qui mi fermo, perché è un tema che riguarda la coscienza personale.
 Quella del segretario Pd le sembra una risposta imbarazzata? Penati era capo della sua segreteria politica...
 Non mi pare che Bersani mostri imbarazzo, e questo mi fa confermare la fiducia in lui, mi fa supporre che non abbia niente a che fare con questa storia. All’epoca scelse Penati perché era un esponente di successo della sinistra al Nord.
 Sui guai giudiziari di alcuni esponenti democratici Bersani è arrivato a parlare di “macchina del fango”.
 Il problema è essere netti, e prima lo si fa meglio è. La questione morale bisogna che diventi una discriminante per tutti. Se il caso Penati deve essere una cartina di tornasole, però, mi pare che il Pd abbia adottato un comportamento serio, che Bersani non ne esca male.
 Felice Casson, ex magistrato e senatore Pd, però dice che quello di Penati non è un caso isolato, che vicende simili si sono svolte anche in altre regioni.
 È vero, ma parliamo di casi che non hanno nulla a che vedere con questo: qui la qualità e la quantità delle accuse è pesantissima, si arriva a inciuciare anche nella vita privata, se è vero il decadimento che sembra ci sia. Poi magari si scoprirà che è tutta una montatura, bene, ma io credo nella giustizia, magari ci mette tempo, ma alla fine rende onore. Se sarà tutto falso vorrà dire che ha avuto la pazienza di Giobbe, e io sarò il primo a dire che va riabilitato.
 Ma come ha fatto il Pd a non arginare questa deriva?
 La continuità tra politica e affari è intollerabile, e si verifica in particolare in quei settori come l’edilizia, l’urbanistica su cui da tempo la sinistra ha rinunciato a proporre una sua politica riformista.
 Dice che il malaffare è proliferato anche per la mancanza di idee?
 Una volta parlavamo delle ‘mani sulla città’, parlavamo di rendite... Nei Paesi dove le aree edificabili sono acquisite dal demanio e poi riassegnate, per esempio, l’interesse pubblico è più libero. Qui da noi si è teorizzata ‘l’urbanistica contrattata’ che fa proliferare quel tipo di rapporti assai discutibili dal punto di vista etico.
 Da dove si ricomincia quindi?
 La tenuta morale di una classe dirigente si costruisce in tanti modi. Con la passione ideale, la vigilanza, il controllo democratico, la partecipazione. Ecco io penso che ci vuole un partito strutturato, che selezioni la sua classe dirigente. Un partito dove in sezione sanno chi è Enrico Rossi, dove abita, cosa fa.
 Adesso non è così?
 Io mi ricordo una bellissima frase di Bersani: “Anche nel Pd bisogna stare con gli occhi aperti”. So anche che il nostro elettorato ci chiede molto di più.

Repubblica 28.8.11 Bersani: "Non riesco ancora a capacitarmi ma prima di tutto va protetto il partito"
Lo sfogo del segretario. E Prodi avverte: l´etica è politica
di Giovanna Casadio


Il leader Pd aveva un rapporto anche personale con l´ex capo della sua segreteria
"La telefonata per Gavio? Se qualcuno accosta il mio nome alla vicenda lo querelo"

«Sì, con Filippo c´era un rapporto personale. Ma questa è una roba inaspettata». Quasi mormora, mordicchiando il sigaro. Un boccone amarissimo la vicenda di Penati, l´ex capo della sua segreteria da cui ieri il segretario, per la prima volta in modo netto, prende le distanze. Una storiaccia che piomba in una Festa nazionale del Pd organizzata in grande stile, nel centro storico di Pesaro tra la Rocca Costanza, i cortili, le antiche porte accanto alle quali ci sono persino quattro panchine «parlanti». Uno si siede, e parte la registrazione, guarda il caso, delle Operette morali di Leopardi.
Bersani arriva a Pesaro a tagliare il nastro della Festa, e di tutto avrebbe pensato di parlare, fino a qualche settimana fa, che dell´espulsione dal partito di Filippo Penati. L´autosospensione non basta. Così ieri di buona mattina il segretario ha chiamato Luigi Berlinguer, il presidente della commissione dei garanti. «Il nostro tribunale interno», la definisce Bersani. Berlinguer ha telefonato a Penati e gli ha detto: «Filippo, ora porti tutte le carte dell´inchiesta alla commissione provinciale e il 5 settembre ti presenti a quella nazionale, a Roma». Mentre cammina tra gli applausi, le strette di mano, lo scricchiolìo di centinaia di scarpe sulla ghiaia della Rocca, il segretario ripete più volte: «E´ un caso doloroso certamente. La commissione di garanzia ha il compito di tutelare il partito. Quello che stiamo facendo convocando i garanti va sotto il titolo: garantire l´onorabilità del partito».
L´onorabilità del partito è del resto la cosa che più gli sta a cuore, sin da quando all´inizio di questa storia aveva immaginato una class action dei militanti democratici se si fosse messa in moto «la macchina del fango» contro il Pd. E va all´attacco quindi sulla sua personale onorabilità, Bersani. Poiché è stato chiamato in causa per una telefonata in cui metteva in contatto Penati e l´imprenditore Gavio. E allora si infuria: «Se qualcuno osa accostare il mio nome a queste vicende per una telefonata di un anno e mezzo prima, che era solo per stabilire un contatto, allora già ho detto che lo querelo».
No, non ha sentito Penati nelle ultime ore. Fa spallucce, Bersani, mordendo il sigaro. Si è consultato con gli altri leader del partito. Prodi consiglia una linea dura, perché «l´etica - ha detto parlando ad alcuni amici della vicenda - non è solo la via per conquistare la vita eterna, il paradiso. E´ uno strumento per vivere bene e in modo giusto su questa terra». Insomma «è politica». E quindi per il Professore «c´è un primato assoluto dell´etica nella prosperità dei Paesi e nelle prospettive e nella vita non solo degli uomini ma anche dei partiti che vogliono rappresentarli».
Bersani non intende entrare nel merito della prescrizione sì o no. Se Penati debba o meno rinunciare alla prescrizione, secondo la legge ex Cirielli, bene è «una decisione che spetta solo a lui, non c´entra con l´inchiesta interna al partito». Lui, Penati, da Milano fa sapere che «è d´accordo con quanto ha detto il segretario, sono pronto a mettermi a disposizione della commissione», andrà con le carte in mano dai garanti provinciali, da quelli romani. Ma aggiunge: «La decisione sulla rinuncia alla prescrizione è prematura, la valuterò con i miei avvocati». Agli amministratori spetta una responsabilità in più, rincara Bersani da Pesaro, durante il dibattito sul suo libro «Per una buona ragione» (Laterza), prima di vedere un pezzo di concerto di De Gregori. Scandisce: «Gli amministratori devono essere più che buoni cittadini».
In mezzo al guado della questione morale il Pd non ci vuole stare. Sono infastiditi i volontari. «Noi ci facciamo un mazzo così e vengono a guardare la nostra pagliuzza, mentre dall´altra parte, quella di Berlusconi, c´è una trave», si sfogano al ristorante Mare. Ecco, la diversità. Non ci vogliono rinunciare i vecchi militanti che ricordano Enrico Berlinguer. Ma la rivendicano pure i nuovi. Marco Marchetti, segretario provinciale del Pd, uno della generazione "TQ", trenta-quarantenni, apre la festa con le parole della canzone di De Gregori "La storia siamo noi": «... e poi ti dicono che tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera, invece noi siamo diversi perché abbiamo passione». De Gregori attacca a cantare puntuale alle 21 in piazza, anche la vecchia canzone sui ladri, la diversità e la partecipazione.
Ci sono i «Gd», i giovani democratici che hanno stampato sulle magliette una frase di Borsellino sulla legalità e l´altra di Guccini contro l´ingiustizia. «A me - chiarisce Betta - non mi piace una politica fatta di personalismi, tangenti e poltrone, noi dobbiamo cambiare la politica». Ammettono i «Gd» che c´è una certa amarezza, anche se «Penati ha lasciato tutti gli incarichi nel Pd, e di questo gli va reso merito», osservano Matteo e Mattia. Lo ha detto anche Bersani. Anche se ora non basta più. Dovrebbe dimettersi anche da consigliere Penati? Il segretario non risponde. L´istruttoria del Pd sull´ex capo della sua segreteria politica comunque durerà poco, non sarà trascinata per le lunghe.

il Fatto 28.8.11
Così la Lega ha legato l’Italia
di Furio Colombo


Il peggio della Lega (leggi “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania”, partito di secessione e di governo del Paese da cui si invoca la secessione) si vede nella caduta.
  AVVIENE nell’estate del 2011, parte del rovinoso crollo di Silvio Berlusconi, che ha campato di voti della Lega, ma li ha pagati, a scadenze fisse, carissimi, mantenendo l’alto tenore di vita di un partito quasi inesistente attraverso il governo, il potere e la vita facile dei gerarchi. Ma è anche la caduta interna di un partito privato e carismatico, nel momento in cui l’eccesso di potere e di pretese di altro potere non ha potuto più reggere lo squilibrio fra il disvelamento progressivo di idee ripugnanti, quasi tutte condivise con la peggiore estrema destra razzista d’Europa (dal “respingimento in mare” alla negazione del diritto d’asilo, dall’invenzione del reato di clandestinità alla detenzione arbitraria nei cosiddetti “centri di identificazione” , dalla caccia ai Rom alla tentata segregazione dei bambini nelle scuole) e l’eccesso unilaterale di potere in un governo composto da altre destre, fondate sul danaro, sulla occupazione (con profitto) dello Stato e su un bisogno apparente di “nazione” e “bandiera” continuamente contraddetto e disprezzato dall’interno dello stesso governo.
  Ma il punto di squilibrio più grave, deliberatamente tenuto in ombra ma non nascosto, non abbandonato, dai portatori del progetto padano, è la secessione, ideologia e politica praticata e predicata da un partito a cui è stata affidata la gestione della polizia e della politica interna italiana, ma anche della politica estera, attraverso il disegno e il controllo di tutta la politica dell’immigrazione, fino al trattato con la Libia. Certo ne ha segnato i suoi aspetti qualificanti e cruciali, un’Italia crudele, indifferente, cieca. L’Italia ha vissuto dunque la lunga e umiliante condizione di essere governata, in parti vitali e in funzioni essenziali, da un partito anti-italiano, che non si è mai neppure molto preoccupato di nascondersi e camuffarsi. Pensate che, da un lato, il portavoce autorevole della Lega Nord (tre ministri in posti chiave di governo) è un personaggio politico come Borghezio, “d’accordo al 100 per cento con l’assassino norvegese Breivik”. Borghezio è il capo delegazione della Lega Nord al Parlamento europeo. Ha provocato qualche rapido e furtivo dissenso, senza che sia stata chiesta alla Lega alcuna dissociazione formale, o che vi sia stata. E, dall’altro lato, il lato della finzione legale e del parlamentarismo regolare, il deputato Lega Nord Luciano Dussin, scrive il 23 agosto in un editoriale su La Padania: “L’Italia è una famiglia da cui bisogna uscire”. È importante tenere in vista e affiancate queste due facce del partito “Lega Nord per l’indipendenza della Padania” che si chiama così e giura così (ogni ministro giura sulla Padania prima di recarsi al Quirinale a giurare sulla Costituzione Italiana, ogni comizio del ministro italiano Bossi e del ministro italiano Calderoli si concludono con il grido “Padania libera!”) mentre governa la Repubblica Italiana, mentre disprezza il tricolore, mentre rifiuta, in modo formale e senza incontrare obiezioni istituzionali, ogni evento o celebrazione che abbia riferimento con l’Unità d’Italia.
  È NECESSARIO infatti respingere il gioco che vuole far apparire il pesante protagonista delle vicende della Lega Borghezio come un personaggio strano e marginale, quando invece quasi ogni immagine lo mostra accanto a Bossi tra i principali attori della politica leghista e degli stravaganti eventi di Pontida, con finti Templari e finti Crociati muniti di elmo e di spadone. È il partito che tende a usare o nascondere la bandiera secessionista a seconda delle dispute politiche interne alla maggioranza, senza mai però dismettere il disprezzo verso l’Italia e i suoi simboli. Il Dussin per bene e il Borghezio nazista ci servono per comporre un’unica immagine che è tetra e pericolosa persino al di là delle intenzioni di molti che partecipano o hanno partecipato alle avventure della Lega, vista spesso e soltanto come partito locale di ricordi e tradizioni, e barriera contro la paura.
  ECCO il grande collante, la paura. Consente, a Breivik come al leghista di campagna con la finta barba verde, al templare della domenica e al bevitore di ampolle di acqua del Po, di avere paura del passato (il disprezzo per l’Italia, la sua bandiera, la sua liberazione, il suo inno, troppi volti e nomi ed eventi sconosciuti) e – allo stesso tempo – paura del futuro, a cui, una volta caduti nel pozzo del provincialismo più stretto, locale e claustrofobico, è facile dare un volto: lo straniero. Il fenomeno non è solo italiano. Il New York Times del 25 agosto ha dedicato una pagina ai movimenti europei di destra xenofoba e razzista, dalla Svezia all’Ungheria. Non è un caso che la Lega Nord italiana non ci sia. Il camuffamento tiene grazie a due complicità . Una è quella della grande stampa Italiana. Ecco alcuni titoli di giornali italiani, mentre Bossi spiega che i giornalisti meritano legnate, che Casini è uno stronzo, che il ministro Brunetta è “il nano di Venezia”, che Tre-monti merita una pernacchia e mentre il ministro per la Semplificazione Calderoli precisa: “Questi scribacchini che rompono le palle sono stronzi e comunisti, ma la parola comunisti vuole anche dire stronzi”.
  VEDIAMO dunque i titoli, rispettosi e prudenti: “Bossi media con il Premier e attacca Casini” (Il Corriere della Sera, 21 agosto 2011); “Calderoli: capitolo chiuso, la previdenza non si tocca” (La Stampa, 22 agosto 2011); “Il Senatur non cede, Berlusconi trovi un’altra strada” (La Stampa, 21 agosto 2011); “Pernacchia di Bossi alla proposta di Alfano” (La Stampa, 22 agosto 2011); “Lega, secessione tattica per spostare sacrifici al Sud” (Il Corriere della Sera, 24 agosto 2011); “Padania, Berlusconi frena Bossi” (Il Corriere della Sera, 23 agosto 2011). Intanto si schiera Comunione e Liberazione e mette a disposizione del ministro dell’Interno, che ha appena aumentato la detenzione illegale dei migranti da sei mesi a diciotto mesi nei famigerati “centri di identificazione”, veri campi di concentramento per esseri umani colpevoli di essere scampati al mare e alla guerra, i suoi applausi appassionati, scroscianti e, si deve supporre, cristiani e autorizzati dai Vescovi. Applaudono, i bravi ragazzi di Comunione e Liberazione, evidentemente indottrinati a sottostare alla autorità, quando Maroni dice: “Spero che riprenda il Trattato con la Libia. Quando era in vigore aveva ridotto l’immigrazione del 90 per cento”. Applaudono i ragazzi di Rimini, come se non fossero in grado di capire che, per raggiungere la fermata quasi totale di migrazione in un mondo segnato da un immenso spostamento di popoli, occorre, affollare di cadaveri il fondo del mare, come facevano scrupolosamente i libici, con navi e armi e ufficiali italiani. Invano lo hanno testimoniato gli scampati e le Nazioni Unite. I ragazzi hanno applaudito, il ministro dei campi di concentramento italiani e degli abbandoni in mare, ha incassato.
  È LA STESSA persona che ha tenuto per tre mesi senza alcuna protezione da freddo, pioggia e vento, senza tende o acqua o cibo, migliaia di nordafricani fuggiti dalla guerra e approdati a Lampedusa tra marzo e maggio del 2011. Poi, in piena guerra e con l’inganno (la promessa era stata di permettere il transito verso altri Paesi europei) quei profughi sono stati rimandati verso i Paesi della fuga, luoghi di probabile pena di morte. Ecco, questa è la Lega, il punto generatore di cattiva politica e di sentimenti spregevoli. Ha occupato col peggio delle sue idee e della sua politica un pauroso vuoto di civiltà nella vita italiana.

La Stampa 28.8.11
Esenzioni fiscali, Cei contro evasori e Radicali
Staderini: inventano un attacco alla Chiesa per tutelare meglio i loro privilegi
di Giacomo Galeazzi


CITTA’ DEL VATICANO. In Cei lo ripetono da giorni: «E’ sbagliato confondere una tassa come l’Ici con l’otto per mille che è un’intesa tra lo Stato e le confessioni religiose». E una cosa è il Vaticano e un’altra le diocesi con le loro spese per culto e carità. Adesso la protesta esce dai Sacri Palazzi e diventa pubblica. Il quotidiano della Conferenza episcopale punta l’indice contro «Radicali, massoni e il potente partito dell’evasione». Nel pieno del dibattito sulla manovra-bis e delle polemiche per le «sacre» esenzioni fiscali, «Avvenire» denuncia una «impressionante campagna politico-mediatica» contro la Chiesa.
Il direttore del giornale dei vescovi, Marco Tarquinio, stigmatizza chi cerca di «far deragliare la richiesta cattolica di un fisco giusto, amico della famiglia e uguale per tutti». Tarquinio considera le richieste di abolizione dei presunti privilegi fiscali della Chiesa come una risposta all’appello anti-evasione fiscale e profamiglia lanciato dal cardinale Angelo Bagnasco. Appello che aveva subito raccolto le «immediate reazioni bipartisan favorevoli» di quanti «lavorano per un’equa correzione della manovra-bis d’agosto». Di fronte a questa proposta, si è assistito alla reazione del «potente partito dell’evasione, quella vera: grossa, grassa e sfottente per i milioni e milioni di dipendenti e anche per tutti quegli autonomi che s’arrabattano e quando evadono, poco o nulla, lo fanno per disperazione». Un partito «potente, secondo analisti e commentatori insigni, e intoccabile perché elettoralmente determinante». Aggiunge in un crescendo di toni il quotidiano Cei: «E’ potente e conta, scopriamo con crescente sorpresa, su alleanze insospettabili, sia nelle redazioni di vasti e radicati gruppi mediatici sia in quelle di giornali corsari». E anche se è difficile vedere coincidere il partitone dell’evasione con il partitino radicale, il direttore di «Avvenire» sottolinea un «retroscena per niente raccontato» che ha segnato la nascita della «contro-campagna mediatica» contro la Chiesa: la reazione simile alle parole di Bagnasco, prima del segretario radicale Mario Staderini, poi di Gustavo Raffi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia. «E’ l’ordine d’attacco - sintetizza Tarquinio - dev’essere detto che la salvezza dell’Italia in crisi sta nel colpire la Chiesa. Un film già visto. Ma vederlo di nuovo in circolazione con pronti e potenti strombazzamenti mediatici, un po’ di impressione la fa lo stesso».
Immediata e ironica la replica di Staderini: «Mi complimento con l’Avvenire per lo scoop di oggi: lo confesso, i mandanti del complotto masso-pluto-radicale contro i privilegi fiscali del Vaticano siamo il sottoscritto, in qualità di piccolo maestro, e il gran maestro della Massoneria». Ma «si sono dimenticati gli altri membri del clan: gatto Silvestro, Gargamella, lupo Ezechiele e la regina di Biancaneve. Bello il retroscena, con il d-day individuato nel 19 agosto. Peccato che tutto sia cominciato il 12 agosto quando su Radio Radicale proponevo a Tremonti il dimezzamento dell’otto per mille e la fine delle esenzioni su Ici e Ires». Dunque, «si inventano un attacco contro la Chiesa per meglio occultare l’assalto al denaro dei contribuenti. E gridano al complotto persino i telespettatori cattolici Aiart a loro volta finanziati con l’8 per mille».


Corriere della Sera 28.8.11
l’Ici no, ma la Chiesa qualcosa deve fare
di Alberto Melloni

Farebbero malissimo i vescovi a sottovalutare la richiesta che arriva da più parti e che riguarda i «sacrifici» che anche la Chiesa dovrebbe fare nell'indomabile montare della crisi.
È ovvio che in molti casi queste istanze nascondono la stessa faciloneria che ha convinto milioni di italiani che il problema dei debiti sovrani dipenda in Italia dai privilegi dei politici che esistono e sono odiosi ma non sono certo il cuore della cosa. E dunque potrebbe essere fortissima la tentazione di respingere al mittente tali istanze con argomenti tecnicamente e giuridicamente solidi.
Sui patroni basterebbe ammiccare ai sindaci e agli uffici scolastici per far sì che il calendario delle lezioni reintroduca dalla finestra festività che così verranno sottratte solo ai ceti operai e impiegatizi che non possono permettersi i ponti. Sulle festività che il concordato blinda ci si potrebbe limitare a richiamare la indisponibilità del tema (è la Repubblica che ha deciso insieme alla Santa Sede di mettere sotto l'ombrello di un trattato internazionale le feste dei dogmi di Pio IX e di Pio XII anziché il triduo pasquale: per cui, se ne ha voglia, porti la politica al Papa una legge con allegato il trattato sul triduo di Hans Urs von Balthasar). Sull'8 per mille, materia decisa dal concordato Casaroli-Craxi, i vescovi potrebbero ricordare agli smemorati radicali che gli accordi di Villa Madama prevedevano un riesame in commissione paritetica (nell'infondato timore che la quota stabilita non colmasse la «congrua») e che non è stato un ukaze Cei a impedirlo. Così pure sulle esenzioni Ici i vescovi potrebbero legittimamente rimandare ad una più attenta lettura all'elenco delle Onlus fra le quali (con esiti insostenibili dal punto di vista costituzionale) si chiede di discriminare quelle che hanno «fini di religione», declinati nella libertà della loro espressione.
Così facendo, però, verrebbero meno a quel dovere evocato dal presidente Napolitano nella sua orazione civica di Rimini, e che è una chiamata in attesa di reclute: porsi cioè al livello delle sfide che il Paese non può non affrontare. E qui i vescovi potrebbero cogliere in istanze vulnerabili o populiste una occasione. Il sistema dell'8 per mille, infatti, era stato inventato da grandi ecclesiastici (Casaroli, Silvestrini, Nicora) per dare alla Chiesa italiana, e non alla Santa Sede, una sua autonomia, specialmente rispetto alla politica: e quel sistema aveva una implicazione di parificazione fra Chiese e religioni che non è stato implementato dallo Stato che ne aveva il dovere. Se il miliardo e passa di entrate non basta a proteggere la Chiesa da una politica delle blandizie la questione, allora, è ancora più grande.
Il denaro dato alla Cei, infatti, è stato speso (quasi sempre) bene: ha rimesso in sesto un patrimonio che il Fondo edifici di culto del ministero degli Interni non poteva mantenere; ha finanziato tanta solidarietà. Non mancano le ombre: ha certo foraggiato sacche di interessi e comprato consensi in vendita, ha dato fiducia a mezze tacche della finanza o della cultura, ha coperto operazioni meschine (d'altronde, come spiegava un grande cardinale italiano, in fatto di denaro «i preti delinquenti si fidano sempre di delinquenti, perché sono anche loro delinquenti; i preti buoni si fidano dei delinquenti perché sono buoni»). Ma non è lo Stato che può dar lezioni di rigore, se non segna un punto e a capo per tutti.
Quel denaro però ha eroso qualcosa di assai più profondo per la Chiesa italiana: e cioè la sua fede nella povertà come via necessaria della Chiesa, secondo il limpido dettato della costituzione conciliare Lumen Gentium 8. Perché — come ha insegnato l'emersione dei crimini di pedofilia — ogni consiglio evangelico può essere vissuto in modo estrinseco o profondo: e come la superficialità esalta le turpitudini, la sincerità anche debole accresce la virtù. Così la scarsa fiducia, per dir così, nella povertà ha sottratto alla Chiesa una credibilità di cui oggi avrebbe bisogno, per essere nella svolta che stiamo vivendo fattore di unità profonda del Paese.
Con quella credibilità potrebbe affrontare tutte le questioni sul tappeto difendendo il diritto delle feste religiose di tutti, cercando un punto di ripartenza del senso civico di tutti, insegnando quel «linguaggio di verità», che il presidente ha evocato sul presente, sui vent'anni ultimi e che forse andrebbe spinto almeno indietro per poter produrre un rinnovamento vero della coscienza civica di tutti.
Qualcosa di limpido e impolitico come un tale atto di fede — con tutte le conseguenze di rigore e di trasparenza che esso comporta — darebbe ai vescovi o comunque accrescerebbe quella autorevolezza di cui hanno bisogno loro, spettatori di rimpianti e di lotte di carriera ecclesiastica spudorate: e di cui ha ancor più bisogno il Paese. Nei giorni più difficili della sua storia post-fascista — l'8 settembre del 1943, il 9 maggio del 1978 — l'Italia ha trovato nella Chiesa un sostegno infungibile e in quei gesti di coraggio la Chiesa ha guadagnato una credibilità capitalizzata per decenni. Nessuno può escludere che giorni, per fortuna diversi nella forma, ma non meno impegnativi nella sostanza, siano oggi innanzi al Paese.

Repubblica 28.8.11
La neo-Costituzione preventiva
di Stefano Rodotà


Immaginate una legge congegnata nel modo seguente: «Abbiamo una Costituzione. Ma vogliamo modificarla».
«E allora mettiamo da parte la Costituzione vigente e applichiamo subito una Costituzione ipotetica, incerta, giuridicamente inesistente, di cui si ignora se, come e quando verrà approvata».
Un colpo di sole, un effetto della calura agostana? No, questa linea compare nel decreto sull´emergenza economica fin dal suo primo articolo: «In anticipazione della riforma volta ad introdurre nella Costituzione la regola del pareggio di bilancio, si applicano le disposizioni di cui al presente titolo». E più avanti, in maniera ancor più sconcertante, si aggiunge: «In attesa della revisione dell´articolo 41 della Costituzione, Comuni, Province, Regioni e Stato, entro un anno adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l´iniziativa e l´attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge».
"In anticipazione", "in attesa"?
Se si rispetta la più elementare grammatica costituzionale, queste sono espressioni insensate, e pericolose. Prima di un cambiamento legislativo, le norme esistenti debbono restare ferme, soprattutto quando si tratta di norme costituzionali - fondamenta del sistema giuridico. Ma quegli articoli del decreto provano il contrario, sono la testimonianza della scomparsa del senso stesso di che cosa sia una Costituzione, manifestano una voglia di liberarsi delle regole costituzionali ignorando la procedura per la loro revisione e imponendo addirittura una radicale e rapidissima (un anno!) riscrittura dell´intero ordine giuridico dell´economia.
La via della "decostituzionalizzazione", già evidente nelle proposte di riforma della giustizia, si fa sempre più scivolosa, può portare ad un vero disordine giuridico. Considerate solo una ipotesi. L´annunciata riforma dell´articolo 41 non viene approvata in Parlamento o è bocciata dal voto dei cittadini, come accadde nel 2006 quando più di sedici milioni di italiani dissero di no alla riforma costituzionale del centrodestra.
A questo punto l´"attesa" sarebbe finita e, mancando il necessario appiglio costituzionale, verrebbe travolta l´intera nuova impalcatura giuridica approvata nel frattempo da Stato e sistema delle autonomie. E, al di là di questa ipotesi estrema, l´arbitrio del legislatore potrebbe già essere censurato dalla Corte costituzionale, alla quale è possibile che si rivolgano enti locali rispettosi della Costituzione vigente. Per evitare disastri del genere, un Parlamento serio dovrebbe cancellare quelle norme.
Il predicato rigore finanziario finisce così con l´essere accompagnato da un irresponsabile lassismo istituzionale, le cui tracce nel decreto sono molte, figlie di improvvisazione e incultura. L´improvvisazione è stata resa clamorosamente evidente dai litigi scoppiati nella maggioranza, e le ipotesi di modifica sono tante che ben possiamo dire che il decreto all´esame del Senato è stato svuotato di ogni senso politico e istituzionale, è ridotto a un canovaccio sul quale nelle prossime settimane si svolgeranno prove di forza tra gruppi in conflitto.
L´incultura traspare in molte norme e nella discussione che le accompagna, dove quasi non v´è traccia di capacità di analizzare i difficili problemi da affrontare. Nel momento stesso in cui i contenuti del decreto venivano annunciati, Tito Boeri, con l´abituale sua nettezza, metteva in evidenza come la riforma dell´articolo 41 fosse un diversivo, perché le difficoltà dell´economia non potevano in alcun modo essergli imputate; e come l´introduzione nella Costituzione della regola del pareggio di bilancio determinasse una rigidità rischiosa, ricordando gli effetti negativi che un vincolo del genere aveva appena prodotto negli Stati Uniti.
Molti hanno ripreso questi rilievi, ai quali tuttavia la discussione politica ha dedicato un´attenzione sommaria e disinformata, visto il modo in cui si è fatto riferimento agli articoli 41 e 81 della Costituzione. Posso sommessamente ricordare che alla genesi di questi due articoli ha dedicato studi penetranti uno studioso attento, Luigi Gianniti, e non sarebbe certo una perdita di tempo se qualche parlamentare desse loro un´occhiata?
Giuste e alte sono state le proteste contro l´iniquità del decreto, che diviene un moltiplicatore di quelle diseguaglianze che stanno distruggendo la coesione sociale, a parole tema di cui tutti si dicono preoccupati. Gli obblighi imposti dalla crisi finanziaria non sono colti come una opportunità per distribuire equamente il peso della manovra, per chiamare all´"adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale" (articolo 2 della Costituzione) i moltissimi che finora ad essi si sono sottratti. Leggendo il decreto, si coglie piuttosto la voglia di usare questa opportunità per una sorta di regolamento finale dei conti soprattutto con i sindacati, con l´odiata Cgil.
Alle letture consolatorie vorrei contrapporre l´impietosa analisi del nostro maggiore studioso di diritto del lavoro, Umberto Romagnoli, che ci ricorda che il lavoro non è una merce e la dignità del lavoratore non è negoziabile. E le infinite smagliature delle parti dedicate alle dismissioni di immobili, alla privatizzazione di servizi e beni pubblici? Si alimentano illusioni facendo balenare l´esistenza di un patrimonio immobiliare la cui vendita colmerebbe ogni voragine dei debiti pubblici. Ma quel patrimonio è al 70% nelle mani di enti locali e i veri esperti stimano che soltanto una quota oscillante tra il 5% e il 10% potrebbe essere proficuamente messa sul mercato. L´urgenza dovrebbe essere sfruttata per accelerare quel lavoro analitico sui beni pubblici invocato da vent´anni e per arrivare finalmente a una classificazione aderente alle loro funzioni (esistono già disegni di legge in materia), non per incentivare privatizzazioni scriteriate (non insegna nulla l´esperienza degli anni Novanta?), per fare cassa sacrificando beni e interessi collettivi.
Vi sono sicuramente beni che possono essere messi sul mercato, ma ancor più importante è stimolare le gestioni virtuose di quelli che possono garantire con continuità risorse al settore pubblico. Proprio in questi giorni si è messo in evidenza come vi siano frequenze digitali che possono assicurare un gettito di tre miliardi. E non dimentichiamo il colpo di mano, per fortuna sventato, con il quale si voleva fare un vero regalo ai gestori degli stabilimenti balneari, portando a 90 anni la durata delle loro concessioni. Traspare dal decreto un´altra voglia di rivincita, contro i 27 milioni di cittadini che, votando sì nei referendum sull´acqua come bene comune, hanno voluto dare una indicazione chiara per una gestione dei beni sottratta alle dissipazioni del pubblico e ai profitti dei privati. Sarebbe grave se il decreto servisse per archiviare uno dei pochi momenti in cui politica e cittadini si sono davvero riconciliati.

Repubblica 28.8.11
La ministra accusata di avere chiuso l´accesso all´insegnamento: "Vuole un paese per vecchi, era meglio Berlinguer"
La Gelmini bocciata da Cl: "Inqualificabile"
di Marco Marozzi


RIMINI - Mariastella Gelmini? No, proprio no. Ridateci quel «vecchio signore comunista di Luigi Berlinguer». Nell´implosione dei rapporti fra Comunione e Liberazione e alcuni esponenti del governo Berlusconi, viene travolta la ministra dell´Istruzione. Fra le decine di migliaia di giovani riuniti a Rimini, fra gli insegnanti ciellini è montata una campagna in pieno stile contro Mariastella Gelmini. Si sono raccolte firme, ci si è preparati alla mobilitazione alla riapertura settembrina. Contro la ministra cattolica che fu portata in trionfo nel 2008 e nel 2009 a Rimini come immagine del nuovo che avanzava. Poi nel 2010 i primi scricchiolii e l´assenza, ripetuta quest´anno.
Gli indignados ultracattolici accusano l´«ex loro» ministra di chiudere le porte delle scuole italiane a tutti quelli che si sono laureati e si laureeranno dopo il 2008. Di aver congelato di fatto i corsi di abilitazione indispensabili per accedere all´insegnamento. «Il suo comportamento è inqualificabile» si arrabbia Francesco Magni, presidente del CLDS, il Coordinamento Liste per il Diritto allo studio, la potente organizzazione universitario ciellina. «Si è genuflessa davanti ai sindacati per fare entrare solo quelli che l´abilitazione l´hanno già ottenuta e ha tagliato fuori tutti gli altri. Altro che nuova scuola. Adesso il tirocinio formativo è una beffa».
Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e fondatore della Compagnia delle Opere, la fortissima, ramificata confindustria ciellina socia d´affari delle coop rosse e dei privati, aggiunge: «È giusto assumere i precari e sbarrare le porte ai giovani? È un intervento statalista, in contraddizione con la natura di un governo che si dice liberale. Su questi temi si dialogava di più con un vecchio signore comunista come Luigi Berlinguer. Ora siamo alla guerra fra generazioni, alla santificazione di un paese solo per vecchi».
Il ministro di fatto ha bloccato i corsi di abilitazione, finché non saranno assorbiti i 230mila precari. «Così si perpetua un sistema che porta in cattedra per via evolutiva, a danno dei giovani» dice Gianni Mereghetti, professore al Liceo Bachelet di Abbiategrasso. «E senza nessuna valutazione del merito» aggiunge Giovanni Cerati, che insegna al liceo Tirinnanzi di Legnano. I ciellini accusano la già idolatrata Gelmini di ridurre le assunzioni a semplici numeri di una graduatoria, andando contro quella libertà di insegnamento e reclutamento predicato da Cl. E dalla stessa ministra. «Non possiamo continuare ad alimentare false speranze nei giovani. – dice la responsabile dell´Istruzione - Lo Stato non può più creare artificialmente posti di lavoro che non esistono, come ha fatto irresponsabilmente per decenni».
Giorgio Vittadini, che insegna statistica all´università Bicocca a Milano, non ci sta. «Dopo aver fatto scappare all´estero chi vuol fare un master e un dottorato, decisivi per la formazione del capitale umano, ora chiudiamo la stessa formazione degli insegnanti».

La Stampa 28.8.11
Dacci oggi il nostro Adorno
Oltre l’utilizzo salottiero c’è spazio per una creativa rivalutazione?
di Gian Enrico Rusconi


Theodor W. Adorno (1903-1969) visto da David Levine [© THE NEW YORK REVIEW OF BOOKS / DISTR. ILPA]

Nella stagione degli epigoni ricompaiono le offerte speciali dei cosiddetti libri-cult. In bella mostra, tra gli altri, ecco La dialettica dell’Illuminismo e i Minima moralia di Theodor W. Adorno. Chi l’avrebbe immaginato (più di) mezzo secolo fa, quando nella provincia italiana c’erano solo quattro gatti affascinati da quel modo di pensare radicale che spiazzava i buoni vecchi professori di filosofia, e irritava i maîtres-à-penser marxisti? Ricordo il sarcastico Lucio Colletti anche se poi, alla fine, avrebbe cambiato idea sul francofortismo.
«Dopo Auschwitz scrivere una poesia è barbarico». «Già il mito è Illuminismo e l’Illuminismo si rovescia in mito». «La maledizione del progresso incessante è l’incessante regressione». «L’industria culturale ha perfidamente realizzato l’uomo come esemplare del genere. Ognuno è soltanto chi può sostituire ogni altro. Fungibile, un esemplare. Lui stesso, come individuo, è l’assolutamente sostituibile, il puro nulla». «Non c’è vita vera nella falsa».
Chi non conosce oggi queste espressioni adorniane - penetranti, perentorie, enigmatiche? Chi resiste alla tentazione di citarle almeno una volta?
In realtà con il passare degli anni l’adornismo e il francofortismo sono stati adattati a un utilizzo salottiero, che li riduce a deposito di citazioni prêt-à-porter . I loro libri, oltre a riempire le buone librerie e le biblioteche, sono diventati pezzi di pregio dell’editoria e dell’industria culturale, ora gestita da chi dice di essersi formato sui testi che la denunciavano. Oggi gli studenti di filosofia portano all’esame con annoiata pazienza la Teoria critica che ha turbato profondamente alcuni della generazione di chi scrive. Ma poi la routinizzazione accademica e la nuova più sofisticata cultura di massa hanno raggiunto e ingoiato «l’uomo dagli occhi tristi che un po’ troppo enfaticamente esibiva la disperazione universale» (come diceva di Adorno maliziosamente Rolf Sternberger, un grande politologo e filosofo politico poco noto in Italia).
Con la loro Dialettica dell’Illuminismo Horkheimer e Adorno intendevano offrire un esempio radicale di autocritica della razionalità occidentale sotto il segno della tensione tra mito e ragione, tra «mito e illuminismo». Un radicalismo che ha insospettito il moderato illuminista Jürgen Habermas, a torto considerato dalla vulgata filosofica corrente l’erede legittimo dei maestri francofortese. Constatava con preoccupazione che il disvelamento della dialettica tra ratio , mito e dominio «portava al suo concetto il processo autodistruttivo dell’Illuminismo». In parole meno criptiche, contribuiva alla virtuale distruzione di «quel contenuto razionale della modernità culturale che è stato custodito negli ideali progressisti, borghesi». Con contraccolpi politici pericolosi, come mostravano i settori estremisti del movimento di protesta giovanile alla fine degli Anni Sessanta che, richiamandosi all’analisi spietata del «sistema capitalistico esistente» fatta dai francofortesi, ne traeva conseguenze eversivo-rivoluzionarie che non piacevano affatto ai maestri.
La prospettiva filosofica ultima adorniana infatti non era la rivoluzione politica. Come si legge nel finale dei Minima moralia : «La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi davanti alla disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce se non quella che emana dalla redenzione del mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica». È una prospettiva da «teologia negativa» laica.
Quanto alla Dialettica dell’Illuminismo , scritta con Max Horkheimer, è una grandiosa meta-narrazione della ragione occidentale in linguaggio filosofico. È una meta-storia da prendere con molta cautela critica proprio per il suo espressionismo mitico-oracolare, anche se è più penetrante di tante posteriori decostruzioni dell’Illuminismo fatte dai post-moderni.
Si è parlato di un «enigma Adorno», ultima icona di ciò che resta della «borghesia colta» tedesca di un tempo, trasmigrata in una insicura intellettualità di sinistra. Mi chiedo se si possa parlare oggi di una creativa rivalutazione del francofortismo e in particolare di Adorno, al di là di una puntuale esegesi accademica. O non ci si debba rassegnare a esserne solo gli epigoni.

Corriere della Sera 28.8.11
Le madri assassine in arrivo a Venezia
di Giuseppina Manin


MILANO — Clara ha annegato il suo bimbo in un laghetto. Eloisa ha soffocato il suo con un sacchetto di plastica. Rina ha spinto la testolina della piccola giù giù nella vasca da bagno. Vincenza ha infilato il suo bebè in lavatrice, e ha premuto l'avvio... Donne che uccidono i figli. Scene di horror familiare, cronache nerissime che affollano i giornali in ogni loro macabro dettaglio. Lasciando insoluta l'unica grande domanda: perché? Eppure le mamme assassine esistono. Squilibrate, stressate, depresse. Malate di «blues», stato d'animo triste e dissonante come la musica omonima. E Maternity Blues s'intitola il film di Fabrizio Cattani tra qualche giorno alla Mostra di Venezia in Controcampo. Protagoniste quattro donne, quattro attrici in gara di bravura, Andrea Osvart, Monica Birladeanu, Chiara Martegiani, Marina Pennafina, rinchiuse in un ospedale psichiatrico giudiziario per lo stesso, terribile, crimine: infanticidio. Tra quelle mura si dipana la condanna più feroce: fare i conti con il senso di colpa, tornare e ritornare su quel gesto fatale. Che ha cancellato una piccola vita e azzerato insieme un'altra, quella della sua carnefice. «Una madre che uccide la propria creatura è psicologicamente e culturalmente inaccettabile. Un grumo di violenza da rimuovere, da confinare nella categoria della pazzia», commenta Cattani. «Ma quel che affiora è solo la punta di un iceberg. Gli infanticidi sono in aumento, pochi gli acclarati, tanti i non registrati come tali. La struttura familiare è cambiata, la donna si ritrova a dover far fronte da sola allo stillicidio dei pianti notturni e delle pappe, succube di un esserino prepotente, usurpatore del suo tempo e del suo spazio». Basta poco per perdere il controllo, avvisa il regista che ha visitato l'ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere, unico in Italia a ospitare quelle donne disgraziate. «Chi arriva lì deve affrontare un percorso psicanalitico e farmacologico. Per una lenta presa di coscienza ma anche per sventare un suicidio sempre in agguato. Perché uccidere un figlio è come uccidere se stesse». Senza mai indulgere in effetti né dare giudizi, il film va a mettere il dito sul tasto più scottante: l'istinto materno. «Non esiste — sostiene Cattani —. Un mito da sfatare. La maternità non è solo “naturale”, bisogna tenere conto delle componenti culturali, psichiche. Di eventuali violenze e traumi subiti». Spesso la madre che uccide nega il crimine. «Si chiama "amnesia dissociativa". Quel che ha fatto è così spaventoso che lei stessa non può accettarlo. Il caso di Annamaria Franzoni è esemplare. I flash back sulla realtà a volte arrivano ma a volte no».

Il Sole 24Ore Domenica 28.8.11
Familismo morale
 
Grande Autore. Marco Bellocchio, 71 anni, riceverà da Bernado Bertolucci il Leone d’oro alla carriera il 9 settembre alle 17 in Sala Grande
Meritatissimo il Leone d’oro alla carriera che Marco Bellocchio riceverà al Lido
Autore di capolavori come «I pugni in tasca», ha avuto qualche caduta nel sodalizio con Fagioli
di Goffredo Fofi


Potrei dire, come Geppetto a proposito di Pinocchio, di aver «conosciuto un intera famiglia di Bellocchi», e potrebbe dire lo stesso qualsiasi assiduo spettatore dei film di Marco Bellocchio, il regista piacentino che ha spesso messo al cntro del suo cinema la famiglia, e in particolare, in modi a volte mediati e a volte diretti, la propria.
«Famiglie, vi odio» diceva Gide, «famiglie, siete la forza del mondo» continua a dire la Chiesa, ma tra odio e amore sta la parola dipendenza, e sta, almeno in Italia, una struttura sociale e culturale che fino ad oggi ha dimostrato di non saper fare a meno della famiglia. E tuttavia sarebbe riduttivo pensare a Bellocchio, cui il Festival di Venezia attribuirà tra poco un meritatissimo Leone d’oro alla carriera, come interessato solo a questo tema, anche perché lo ha declinato in due modi esemplari: quello della rivolta edipica - per la conquietsa dell’autonomia dell’individuo - e quello della rivolta al potere, alle strutture di una società che esaltando come suo nucleo la famiglia ha impisto su questa base molte altre cose, il perno della proprietà privata, l’esaltazione nazionalista, un’idea di religione, un preciso modello educativo.
Non sempre questo passaggio è stato convincente, e se lo è stato per esempio in Vincere, parlandoci Bellocchio del fascismo e del suo duce sulla storia di una donna che ne fu vittima, non lo è stato completamente in Buongiorno notte, parlandoci del confronto tra le Brigate Rosse e Moro nei termini di un conflitto “di famiglia” e trascurando gli scontri politici che quella vicenda metteva in gioco o mistificava, una scelta non ripetuta nel successivo Vincere. L’ambizione di affrontare così vari e cruciali argomenti è un segno dell’importanza di questo regista, non solo nel quadro del nostro cinema ufficiale, da decenni così asfittico. Dopo la generazione dei grandi - i Rossellini, Fellini, Antonioni, Visconti... - sono stati soltatnto lui e Bertolucci, il piacentino ostinatamente prosastico e “nazionale” e il parmense più internazionale ed elegante, a tenere alta la bandiera di un “cinema d’autore” in un’epoca dove i rari veri autori non sogggetti alle mode han fatto e fanno una gran fatica a mantenersi liberi e attivi. Quel che ha unito il piacentino e il parmense è il rispetto di un’appartenenza, il peso delle radici (il cinema migliore del parmense è quello più “locale” e sono i suoi film considerarti minori a vincere su quelli spettacolari e fastosi). La loro forza e il oro limite: il loro cinema sembra infatti avere dei ocnfini proprio fisici di un ambiente che è il nostro e da cui nasce la nostra antropologia; una storia chiusa entro le mura comunali come accade in tante opere dell’amato, da entrambi, Giuseppe Verdi. L’antico confronto tra I pungni in tasca e Pima della rivoluzione ha ormai un senso solo storico, e anche se continua a essere istruttivo confrontare quelle giovinezze con quelle di altrove e con quelle di oggi, è più utile inistere sul rigore e la fedeltà a se stesso del regista piacentino, la cui biografia è priva di elementi salienti ma è in quelche mdo esemplare, dettata da una coerenza sempre estranea alla mode.
Gli anni Sessanta della prima “mutazione” (in un dialogo intenso, tra gli altri, proprio con Pasolini), la fascinazione della politica presto sostituita - e forse non poteva essere altrimenti  - da quella della psicanalisi che gli ha dettato opere a volte dolorose, quelle più autonome, e altre più programmatiche e discusse, quelle nate dalla collaborazione con lo psicanalista Fagioli, la ricorrente tentazione della commistione tra le tematiche psicologiche e quelle politiche, la lodevole e insolita non curanza per la fama e il successo pur nell’orgolgliosa coscienza del prorpio valore, l’estraneità alle congreghe e ai salotti, il crescente ritorno ai luoghi delle origini (alla famiglia), l’alternanza di imprese ambizione e di piccole imprese “famigliari”, la difese di un’indipendenza che è inseieme cultrale e produttiva all’interno di un sistema cinematografico sballato, corporativo e clientelare. Altro si potrebbe e si dovrebbe dire, ma premeva soprattutto indicare in questo breve elogio e tentativo di bilancio il posto di Bellocchio in un cinema dove l’aurea capacità degli Autori classici, che sapevano dire cose profonde entro strutture codificate e banali, è stata sostituita dapprima dalla felice libertà di alcuni grandi dentro un’epoca di massimo cambiamento, e ha poi lasciato gli autori ancora degni di questo nome di fronte alla sempre maggiore difficoltà di essere se stessi e di imporre la propria personalità dentro una logica di super spettacoli drogati di fiction insulse, di autonomie fasulle, che condizionano e mai liberano. E potremmo concludere dicendo che i limiti “municipali” e “ famigliari” di Bellocchio - i cui capolavori sono forse i film che meglio li hanno trascesi, I pugni in tasca, Nel nome del padre (che da settembre torna in sala dstribuito da Cinecittà Luce, in versione rimonantata e tagliata dal regista stesso), Il principe di Homburg, Vincere e Matti da slegare - sono secondari di fronte a tanta persusione e a una così faticata ricerca di libertà e di coerenza, mentre restano da sottolineare (anche per Bertolucci) la chiusura egotistica e un’assenza di ansie, diciamo così e per restare alla provincia, leopardiane. E in qualche modo, la scelta di parlar molto di psiche e niente di anima.

Il maestro in cofanetto
In occasione della consegna del Leone d’oro alla carriera che Marco Bellocchio, dal 31 agosto sarà in vendita un doppio cofanetto DVD di Rai Cinema, distribuito da 01 Distribution, con otto titoli, che rappresentano le tappe fondamentali della carriera del regista piacentino. Oltre ai film e ai contenuti speciali, c’è un’intervista inedita all’autore.

i film contenuti nei due DVD:
I pugni in tasca
Addio del passato
Vacanze in Valtrebbia
Sorelle mai
L’ora di religione
Buongiorno, notte
Il regista di matrimoni
Vincere

sabato 27 agosto 2011

l’Unità 27.8.11
Otto deputati Pd firmano contro lo sciopero Cgil

Il leader: il partito ci sarà
Otto deputati quarantenni del Pd firmano un documento con cui chiedono alla Cgil di rinviare lo sciopero generale. Bersani insi ste sull’«autonomia» delle forze sociali. Fassina definisce l’inizia tiva un «grave errore politico».
di S.C.

«Invitiamo il segretario Susanna Ca musso e la Cgil ad un’ulteriore rifles sione sull’opportunità di proclamare uno sciopero generale per il 6 settem bre, proprio mentre si svolge il dibat tito parlamentare sulla manovra, ciò al fine di scongiurare il rischio che la mobilitazione finisca per venire stru mentalizzata, soprattutto da chi vuo le dividere il sindacato, cancellare l’intesa unitaria del 28 giugno ed iso lare la Cgil, perdendo così di vista il merito dei problemi». A firmare il do cumento con cui si chiede al sindaca to di Corso Italia di rivedere la deci sione presa sono otto deputati qua rantenni del Pd appartenenti a un po’ tutte le anime del partito: dal tori nese sì-Tav Stefano Esposito al teso riere dei Democratici Antonio Misia ni, dal lettiano Francesco Boccia al mariniano (nel senso di Ignazio) San dro Gozi, dalla piacentina Paola De Micheli al barese Dario Ginefra, dall’ex operaio Thyssen Antonio Boc cuzzi al responsabile Sicurezza del Pd Emanuele Fiano. Scrivono che lo sciopero generale è «uno strumento importante» ma che deve essere adoperato nel modo e momento giusto e per questo, pur rispettando l’«au tonomia» del sindacato, dicono che sarebbe meglio rinviare l’inizia tiva di lotta: «Potrebbe rappresenta re lo strumento finale della batta glia contro la manovra se rinviato alla fine della discussione parla mentare e se posto in essere dopo aver espletato un tentativo, certa mente difficile ma necessario, di re cupero di un percorso unitario con le altre organizzazioni sindacali».
Bersani, che già avrebbe fatto a meno della discussione tra quanti chiedono al Pd di aderire allo scio pero (Idv e sinistra radicale, men tre tra i Democratici c’è chi come i senatori Vita e Nerozzi aderisce a titolo personale e chiede «più corag gio») e quanti chiedono di «oppor si» (Fioroni), evita di commentare pubblicamente l’iniziativa. Ma a quelli con cui ha commentato la vi cenda ha espresso questa semplice considerazione: delle due l’una, o si riconosce l’autonomia del sinda cato o gli si chiede di rivedere le de cisioni assunte. Il Pd comunque, ha assicurato Bersani, il 6 come a tutte le altre mobilitazioni contrarie alla manovra, ci sarà. Dice il responsabi le economico del Pd Stefano Fassi na: «Il documento è un grave erro re politico, innanzitutto sul piano del metodo. Un partito non dice a un sindacato, quale che sia, ciò che deve fare. Se condivide gli obiettivi partecipa alla mobilitazione, altri menti no. L’autonomia funziona co sì».

Corriere della Sera  27.8.11
Abbattere statue: i vandali delle Rivoluzioni
Dai furori giacobini al bronzo del Duce: le capriole della Storia
di Luciano Canfora

I Romani furono grandi tagliatori di teste, ma di teste vere, non di marmo o di bronzo. Certo, ogni tanto si sfogavano anche su quelle. Ma il fatto più delicato è che quelle vere, come notò una volta Mao Zedong, non ricrescono, mentre quelle finte si possono, all'occorrenza, rimettere a posto o sostituire.
Quando Ottaviano (futuro Augusto), Antonio e Lepido, autonominatisi «triumviri per rimettere a posto lo Stato» lanciarono le proscrizioni per liquidare i loro nemici politici (43 a.C.) l'ordine agli sgherri che catturavano i proscritti era di tagliar loro la testa e di portarla ai triumviri come prova sicura dell'effettiva eliminazione degli avversari. Nell'occasione uno dei decapitati fu Cicerone. L'eliminazione o decapitazione delle statue esige un lavoro molto sistematico, perciò rimasero in piedi statue e busti anche di imperatori «maledetti» come Tiberio, il cui cadavere, appena pronto, fu trascinato con gli uncini fino al Tevere e scaraventato nel fiume, ma di cui tuttora abbiamo qualche bel busto.
La mania di distruggere statue e decapitarle si è sviluppata con le rivoluzioni moderne. È noto ad esempio che i depositi del Louvre sono strapieni di statue a pezzi o decapitate e di teste marmoree staccate dal tronco per effetto di quel fenomeno che gli storici della Rivoluzione francese e prima di loro già l'abate Grégoire, membro della Convenzione nazionale, hanno chiamato «vandalismo rivoluzionario». Principali vittime furono allora statue di re e di santi, di cui la Francia effettivamente abbondava. I lettori del Manzoni certo ricordano quel finale del capitolo XII dei Promessi Sposi dove Manzoni ironizza sulle traversie di una statua di Filippo II, opera di Andrea Biffi, che si trovava nella «nicchia dei dottori» in piazza dei Mercanti. Lì campeggiava il viso «serio, burbero, accipigliato» del sovrano spagnolo «che anche dal marmo imponeva un non so che di rispetto». Ma nel luglio del 1797, nella Milano giacobina, a quella statua «le fu levata la testa, le fu levato di mano lo scettro e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto». Così — seguita Manzoni — «stette forse un paio d'anni; ma una mattina certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù e le fecero cento angherie» e alla fine, ridottala a un «torso informe», la trascinarono per le strade «e la ruzzolarono non so dove».
Leonardo Sciascia ha osservato giustamente che, nel descrivere queste angherie, Manzoni era ancora sotto l'effetto del massacro del ministro Prina, trucidato a Milano, al momento appunto della cacciata dei Francesi.
Togliere la testa alle statue è forse un gesto liberatorio ancorché alquanto irrazionale. La pagina manzoniana è istruttiva perché aiuta a comprendere che una testa (marmorea) tagliata oggi, può (metaforicamente) rinascere domani.
Tutti hanno in mente la foto cento volte ripubblicata del testone bronzeo di Mussolini sbriciolato tra due presse, per iniziativa di popolo, nell'euforia del dopo 25 luglio 1943. Esplosione di una repressa rabbia popolare: per lo meno di una parte non piccola, allora, del popolo esasperato dalla guerra non voluta e imposta dall'appena congedato dittatore. Naturalmente le immagini ducesche incastonate in bassorilievi rimasero, e tuttora rimangono in certe strutture, per esempio dei palazzi dell'Eur che avrebbero dovuto essere teatro della glorificazione del «Ventennale». Poiché la storia è sempre più complicata di quanto possa apparire dal destino delle statue, non è superfluo ricordare che, allora, a sparare sulle manifestazioni di piazza inneggianti alla caduta del dittatore furono truppe agli ordini di coloro che quel dittatore avevano congedato, come avvenne ad esempio nell'eccidio di Bari del 28 luglio del '43.
Svolte contraddittorie di questo genere si sono verificate anche in occasioni successive. Meno presente alla memoria è la scena della demolizione della grande statua di Felix Dzerdzinski, fondatore della Ceka, antenata del Kgb, dopo che Eltsin prese il potere a Mosca nel dicembre 1991. Ma, in quell'euforia effimera, nessuno poteva prevedere che di lì a pochi anni Eltsin avrebbe fatto prendere a cannonate il Parlamento (gesto lievemente antidemocratico) e che, anni dopo, un militare formatosi nel Kgb sarebbe diventato il presidente della Russia, finalmente liberata dai «tiranni»...
Un'altra immagine molte volte vista è quella della colossale statua di Stalin abbattuta a Budapest nel corso della rivoluzione dell'ottobre 1956. Scena cui fa da contrappunto la statua di Stalin che giganteggia tuttora nella sua terra natale non lungi dalla sua casa-museo. E si ha un bel dire che Alessandro Magno fu sì un grande conquistatore ma almeno altrettanto grande come criminale (i congiurati della cosiddetta «congiura dei paggi» lo appresero sulla propria carne). Questo non impedisce all'odierna Macedonia, ridivenuta nazione indipendente dopo il caotico «riassetto» balcanico di questi anni, di onorarlo con una delle più alte statue equestri del mondo, commissionata a ditte italiane.
Hobbes diceva che il tiranno non esiste: è il sovrano nella definizione dei suoi nemici. Dell'alterna fortuna dei cosiddetti «tiranni» è emblema il caso del Bonaparte, del quale Manzoni diede un perplesso e rispettoso giudizio storico mentre i poco credibili «liberatori» inneggiavano, non proprio in buona fede, alla scomparsa (forse per veleno inglese) del «tiranno».

Corriere della Sera 27.8.11
Uno studio su quell’immagine istintiva, o allucinatoria, che precede l’ispirazione di scultori, pittiori, poeti e musicisti
Nella mente di ogni artista in principio c’è il «fasma»
di Gillo Dorfles
qui, segnalazione di Marcella Matrone

Corriere della Sera 27.8.11
La meglio gioventù era donna
Deaglio: il mio omaggio alla parte femminile del Sessantotto
di Ranieri Polese
qui

La Stampa 27.8.11
Così Thelma e Louise cambiarono le donne
Compie vent’anni il film cult di Ridley Scott con Geena Davis e Susan Sarandon in fuga on the road
di Roselina Salemi

Il debutto di Brad Pitt «Avevamo difficoltà a trovare il volto giusto per l’autostoppista dice Callie Khouri, che per la sceneggiatura vinse l’Oscar -. Un giorno Ridley Scott mi disse: “Hai visto il ragazzo che abbiamo selezionato?”. Quando comparve Brad Pitt, pensai che era carino e sarebbe andato abbastanza bene. In quella parte è stato un grande»

«Senti Louise, non torniamo indietro».
«Che vuoi dire Thelma?».
«Non fermiamoci». «Che vuoi dire Thelma, non capisco?».
«Coraggio... (indicando il Gran Canyon)». «Sei sicura?». «Sì». Vent’anni fa Thelma e Louise, dopo aver attraversato mezza America a bordo di una vecchia Ford Thunderbird, aver ucciso un uomo, rapinato un supermercato, fatto saltare un camion, chiuso un poliziotto nel bagagliaio, preferiscono morire pur di non farsi arrestare da Harvey Keitel. Sulla macchina lanciata a gran velocità verso il canyon dove scorre il Colorado, si guardano negli occhi, e tenendosi per mano, si lanciano nel vuoto. Quella scena, che non manca mai di far piangere, è l’epilogo di una gita, la trasgressione di due amiche in fuga dall’Arkansas: Louise (Susan Sarandon) cameriera in un fast food, e Thelma (Geena Davis) casalinga, quasi schiava del marito Darryl.
Il dibattito è stato, ai tempi, piuttosto accesso. Film femminista oppure no, visto il finale? Nel ‘91 c’erano già working girl e donne liberate. Erica Jong aveva scritto Paura di volare nel 1973, Cindy Lauper aveva cantato il diritto delle ragazze a divertirsi nel 1984. Perché allora un road movie rifiutato da Meryl Streep e Goldie Hawn è entrato in maniera così prepotente nell’immaginario collettivo? Ci sono citazioni ovunque, dai Simpson al video Telephone , con Lady GaGa e Beyoncè, ci sono parodie e canzoni, come Thelma & Louise di Giorgia. E sui giornali americani, ogni volta che una donna spara, ferisce, o pianta un tacco in testa a uno stupratore citano il film.
«Io me lo ricordo ancora - dice Lea Melandri, femminista storica, infaticabile (il suo ultimo libro, pubblicato con Bollati Boringhieri è: Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà ) -: ha dato voce al sogno di libertà delle donne, alla possibilità di correre nel mondo essendo semplicemente se stesse. Il viaggio è la vita, è la sfida, e più del volo finale, mi è rimasta negli occhi l’immagine di Thelma e Louise che cantano, con i finestrini abbassati, quel loro momento di perfetta felicità. Mi è rimasto un esempio di amicizia e di solidarietà femminile, contro il modello della rivalità. E un promemoria: se la libertà non l’hai conquistata, alla fine della strada c’è anche la fine del sogno». Curiosa coincidenza, il ‘91, oltre a essere l’anno di Thelma e Louise è l’anno di Naomi Wolf, che pubblica con enorme successo Il mito della bellezza , un saggio sulla nuova prigione delle donne, salvo poi invitarle, in Fire with fire (Fuoco contro fuoco) a «riappropriarsi del loro sex appeal». Esattamente quello che hanno fatto le eroine di Sex and The City che decidono senza troppi problemi di lasciare e prendere gli uomini, di giocare, di annoiarsi (ma è più facile a Manhattan).
Nel ‘96 arrivano i Monologhi della vagina di Eve Ensler («L’emancipazione delle donne è profondamente connessa alla loro sessualità: io sono ossessionata dall’idea di donne violate e stuprate»), e poi arriva il diritto che Thelma e Louise hanno esercitato in anticipo, con una certa esagerazione: rispondere alla violenza con la violenza. Combattere gli uomini che odiano le donne. L’icona delle ragazze toste adesso è Lisbeth Salander, consacrata dalla trilogia di Millennium : non è bella, e ha una storia tremenda alle spalle, ma è speciale, fragile eppure invincibile. «Io avrei potuto essere Thelma o Louise - confessa Lorella Zanardo, autrice dell’ormai famoso documentario sul corpo delle donne -. Le ho sentite sempre molto affini, e sono convinta, nonostante mi piacciano gli uomini, che una comunicazione così profonda sia soltanto al femminile. E’ questo che mi ha lasciato il film. Ma Lisbeth, con la sua rabbia, potrebbe essere figlia di Thelma e Louise. Potrebbero esserlo le ragazze incazzate che vedo, ascolto, e rispetto, piene di risentimento, a ragione, nei confronti di un mondo maschile che fa blocco, le esclude, le riduce a oggetti. Si incontreranno a Torino il 28-29-30 ottobre, cliccate su http://feministblogcamp.noblogs. org: il loghino che hanno disegnato piacerebbe a Lisbeth. Ma chissà se loro sono d’accordo...». Hanno una grossa responsabilità, le figlie (vere e immaginarie) di Thelma e Louise. Ma una cosa è sicura: non hanno nessuna intenzione di buttarsi giù. In tutti in sensi.
«Se la libertà non l’hai conquistata, alla fine della strada c’è la fine del sogno»

La Stampa TuttoLibri 27.8.11
Bauman
“Se non ti vendi la tua vita è miserabile”
di Andrea Malaguti

Nel piccolo giardino della sua casa di Leeds, una villetta a tre piani dipinta di bianco non troppo lontana dall’Università, il professor Zygmunt Bauman, filosofo e sociologo della società liquida, cammina fumando la pipa in mezzo alle piante che crescono selvaggiamente. «Solo questa quercia è arrivata prima di me. Ha 200 anni. Il resto l’abbiamo piantato io e mia moglie. Mi manca molto Janina, 63 anni di vita comune hanno dato senso a quello che sono». Un vestito scuro, il girocollo grigio, il viso scavato incorniciato dai capelli bianchi, gli occhi inquieti che la luce faticosa di questa mattina di agosto inglese rende ancora più profondi e mobili. E’ un uomo lungo, con mani sottili e pensieri rapidi. E’ invecchiato dolcemente, gestendo i suoi dolori. «Lascio che le piante si muovano come credono. Il mio giardiniere è Darwin. L’evoluzione è inarrestabile». Lui si occupa dell’evoluzione dell’uomo. Di come si organizza. Dalle rivoluzioni con la lancia a quelle con il computer. E’ stato un lungo viaggio.
Professore, ci sarebbe stata la primavera araba senza Facebook?
«No, ma mi pare che questa domanda ne pretenda un’altra».
Quale?
«Che ne è dell’estate araba? Qualcuno ne sa qualcosa?».
No, ma che cosa significa?
«Significa che ciò che si può fare attraverso i social network è spettacolare, impressionante, ma “so what?” Che cosa succede poi? Egiziani e tunisini hanno forse idea del loro futuro?».
Internet innesca meccanismi fuori controllo?
«Internet innesca meccanismi. Ma qual è la connessione tra quello che è successo e la forma che avranno i regimi di questi Paesi? Sospetto che sia parecchio debole. La rete lavora molto sugli effetti in termini brevi, ma in nessun modo sulla possibilità di costruire una nuova società in termini reali».
Ormai ci sono due mondi, uno «on line» e uno «off line».
«Esatto. Ma qualunque cosa tu faccia off line ha delle conseguenze, mentre le rivoluzioni via Internet hanno un inizio rapido e una fine altrettanto rapida».
Perché in Siria non ha funzionato?
«Perché la vita vera si muove in modo diverso. E per arrivare da qualche parte ha bisogno della politica. Ha bisogno di un progetto. La politica è decisiva. Ma la globalizzazione l’ha tagliata fuori. E’ urgente riconsegnarle un ruolo centrale».
Anders Breivik, il macellaio di Oslo e Utoya aveva anticipato il suo piano delirante su Internet. Perché nessuno l’ha fermato?
«Perché nessuno si è accorto di lui. Internet è solo uno strumento, non è né buono né cattivo. Come un rasoio. Lo puoi usare per tagliarti la barba, ma anche per tagliare le gole. Come ha osservato Josh Rose, dell’agenzia pubblicitaria Deutsche LA, Internet non sottrae la nostra umanità, la rispecchia».
Come ci cambia la rete?
«Ci mette in contatto più velocemente, ma ci rende più deboli. C’è un’espressione inglese che trovo molto efficace: nessun pranzo è gratis. Guadagni qualcosa, perdi qualcosa».
Che differenza c’è tra rete e comunità reale?
«La prima è il luogo della libertà. La seconda della sicurezza. Sulla comunità si può contare come su un vero amico. E’ più affidabile. Ma anche più vincolante. Ti controlla. La rete è libera, ma serve soprattutto per i momenti di svago. E per uscire dalle relazioni in fondo basta spingere il tasto delete. Però mi pare che siamo tutti d’accordo sul fatto che tra abbracciare qualcuno e “pokarlo” ci sia differenza».
In rete però si possono trovare anche 300 amici al giorno.
«Decisamente molti di più di quelli che io ho avuto nei miei 86 anni di vita. Robin Dunbar, che insegna antropologia evoluzionistica a Oxford, dice che la nostra mente non è predisposta per avere più di 150 rapporti significativi».
Come è cambiata la definizione di rapporto «significativo»?
«Secondo lo psichiatra e psicanalista Serge Tisseron i rapporti significativi sono passati dall’”intimità” a quella che lui chiama “estimità”. Volendo fissare un punto si può pensare a metà degli Anni Ottanta, quando a un talk show francese tale Vivianne dichiarò di non avere mai avuto un orgasmo perché suo marito era affetto da eiaculazione precoce. Non si trattava solo di rendere pubblici atti privati. Ma anche di farlo in un’arena aperta».
Su Internet puoi dire le stesse cose celando la tua identità.
«E’ vero. C’è una grande sensazione di impunità. Sono sicuro che ci sono migliaia di messaggi crudeli come quelli di Breivik in rete. Intervenire è impossibile, non possiamo leggere tutto. Ma se sei timido e cerchi una ragazza la rete è un dono di Dio».
Qual è il segreto di Zuckerberg?
«Immagino che molti dei suoi utenti non riuscissero a sfuggire alla propria solitudine. In più dovevano sentirsi penosamente trascurati. Zuckerberg li ha liberati».
Perché abbiamo bisogno di un confessionale virtuale?
«Siamo fatti così, ci serve la società per essere felici. Vogliamo essere individui speciali, diversi, con sogni unici. Ma quando abbiamo lavorato così duramente per creare la nostra identità dobbiamo andare in piazza e vederla confermata».
Mancanza di autostima?
«Natura. L’identità è un segreto e una contraddizione in termini. L’arena pubblica è l’equivalente dell’Agorà. Solo che adesso è popolata dal racconto di problemi privati. Il talk show è la piazza. E il nostro modello non sono i politici, ma le celebrità. E chi sono le celebrità? Persone conosciute per essere molto conosciute. Su Facebook c’è una rubrica specifica. Si chiama: “I like it”. Sono gli altri che esprimono il loro apprezzamento per quello che facciamo. E il numero delle persone che ci visitano definiscono il nostro successo. E’ la società dei consumi. Se non ti vendi sei destinato a una vita miserabile».

La Stampa TuttoLibri 27.8.11
Nella società “liquida” si vive di capricci
di Lelio De Michelis

Bauman. Tornano, aggiornati, i due celebri saggi del sociologo sulle crisi del «capitalismo parassitario» e sulla «Modernità»

È uno dei sociologi oggi più famosi. È celebre per alcune sue definizioni sulla condizione umana di questi ultimi decenni, prima fra tutte quella di «modernità liquida» - per questi nostri tempi in cui tutto è (purtroppo? per fortuna?) appunto liquido, mobile, sempre più veloce e immateriale, ma anche incerto, insicuro, precario. Il prossimo 2 settembre sarà al Festival della Mente di Sarzana per parlare di comunità, rete e social network.
Bene ha fatto allora Laterza a ripubblicare due suoi libri. Appunto Modernità liquida , libro del 2000. E il più recente (2009) Capitalismo parassitario (uscirà a giorni), ancora attualissimo visto che la crisi esplosa nel 2008 non si è ancora risolta, né i politici - se continuano a seguire le ricette neoliberiste che questa crisi hanno prodotto - potranno risolvere. Parassitario perché guidato da una finanza anch’essa liquida, compagna di un capitalismo che «offre il meglio di sé non nel risolvere i problemi, ma nel crearli», per effetto di quella «mentalità del cacciatore» (metafora di Bauman) ormai egemone, praticata da chi si preoccupa solo di cacciare e che, quando le «prede» (uomini e risorse) sono finite - perché ha distrutto ogni cosa si sposta verso altri terreni di caccia, e così all’infinito.
Un libro piccolo ma essenziale per capire perché questa crisi e perché continuiamo a credere in un sistema appunto parassitario (il capitalismo in sé), rinunciando a cercare alternative. Una crisi nata dalla moltiplicazione deliberata del debito, perché questo il capitalismo ci chiedeva e ci insegnava e questo volevano le banche per accrescere i loro profitti. Trasformando «un’enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una razza di debitori, con l’ulteriore indebitamento come unico realistico strumento di salvezza dai debiti già contratti». Il debito è come una droga, scrive Bauman che «dà dipendenza forse più di qualsiasi altra droga». Spacciata in questo caso dalle banche, con la complicità dello Stato.
Capitalismo parassitario, dunque. E Modernità liquida , che Laterza ripubblica con una nuova Prefazione dello stesso Bauman. Società «liquida» dei consumatori (che dopo avere soddisfatto i bisogni vive oggi di capricci e voglie di consumo), che ha preso il posto della vecchia società «solida» dei produttori (la fabbrica fordista, il «matrimonio di interesse» tra capitale e lavoro, le classi sociali).
Una società liquida in cui le «reti» si sono sostituite alle «strutture» di un tempo, dove l’idea di approfondire e definire è stata sostituita da «una serie di connessioni e disconnessioni senza fine». Dove il «matrimonio» tra capitale e lavoro si è trasformato nel «disimpegno» del capitale dal lavoro, producendo il «lavoro-campeggio» della flessibilità e della precarietà. Liquidità dove i «cittadini» si sono corrotti in «clienti». Dove la durata è stata rimpiazzata dall’istantaneità. Una società dove anche l’amore deve essere liquido, mentre la solidità «è vista come una minaccia». Dove domina il consumismo anche della conoscenza. Dove soprattutto, davanti alle difficoltà della vita non si deve contare sull’aiuto degli altri o dello Stato ma ci viene insegnato a cercare «soluzioni private a problemi sociali», ad essere imprenditori di noi stessi e quindi egoisti (questo mentre in rete, aggiungiamo, dovremmo invece «condividere» ogni cosa).
Si induce quindi una continua re-invenzione di se stessi e delle identità, in nome di una libertà illusoria che fa crescere un nuovo conformismo, magari nelle «comunitàgruccia», temporanee aggregazioni «attorno a un puntello su cui molti individui solitari appendono le loro solitarie paure individuali». Rendendo sempre più difficile essere cittadini non solo «de jure» ma soprattutto «de facto», ovvero di poter diventare «padroni del proprio destino e compiere le scelte realmente desiderate».
Tornare alla «solidità» di un tempo? No, però il capitalismo leggero e liquido di oggi (altra famosa metafora di Bauman) è come un aereo dove i passeggeri (noi) scoprono con terrore che la cabina di pilotaggio è vuota, che il pilota automatico (il capitalismo? la rete?) non dà alcuna informazione su dove si stia andando.
Il problema, in verità, non è il «pilota automatico»; siamo noi che abbiamo lasciato che lui prendesse il controllo dell’aereo.
Bauman interviene a Sarzana il 2 settembre (ore 21,15) «Sul concetto di comunità e rete sui social network e Facebook»
I cittadini si sono «corrotti» in clienti E per le questioni sociali si suggeriscono «soluzioni private» La finanza odierna «offre il meglio di sé non nel risolvere i problemi ma nel crearli»

La Stampa TuttoLibri 27.8.11
Irigaray, l’inconscio illuminato dal maestro yoga
di Alessandra Iadicicco

Il primo incontro fu tutt'altro che incoraggiante. Quando trent'anni fa la filosofa e psicologa parigina Luce Irigaray incontrò per la prima volta François Lorin, rinomato insegnante di yoga, non ne ebbe - o non gli diede - segnali di una possibile intesa. «Tutto può diventare cosciente», stava spiegando lo yogin ai suoi allievi concludendo la lezione. «Niente» ribatté lei tranchant quando poi, avvicinatosi con gentilezza, il maestro le chiese che cosa si aspettasse da lui. «Sono una psicanalista. Non credo che tutto possa diventare cosciente», fu la sua secca puntualizzazione da manuale. Da allora, in tre decenni di pratica della disciplina orientale, quella paladina dell'inconscio e della scienza occidentale dell'anima ha rivisto i suoi dogmi e ammorbidito la rigidezza delle sue convinzioni.
La prima a «sciogliersi» fu la sua schiena, affidata agli esercizi necessari a guarire i postumi di un incidente d'auto. Poi, via via, tutte le divisioni, schematizzazioni, contrapposizioni che caratterizzano l'atteggiamento tradizionalmente europeo rispetto all'attività della mente, alla funzione del corpo, alla relazione tra i due sessi, alla percezione di se stessi…
L'obiettivo perseguito attraverso tale lunga educazione fisica, ma costantemente accompagnata da una grande consapevolezza intellettuale era e resta per la pensatrice francese quello di «una nuova cultura dell'energia». È intesa l'energia vitale, che nel caso dell'animale uomo non scorre naturalmente, non si ricarica e consuma spontaneamente sotto forma di istinti, pulsioni e passioni. Ma, costantemente sorvegliata com'è, coltivata attraverso le generazioni, soggetta alle regole (spesso non-dette) della «cultura», rischia di essere soffocata da troppe griglie convenzionali. Per liberarla - avverte Irigaray sulla scorta di rivelazioni attinte con l'esperienza - basta un gesto semplicissimo. È il primo che compie un neonato per emanciparsi, con un grido di dolore e qualche lacrima, dalla mamma appena viene alla luce: il respiro. Imparare a respirare (ciò che, cantanti lirici e nuotatori a parte, in Occidente si dà per scontato) è la prima mossa per alimentare pensiero, potenza spirituale e sentimento della vita. Avvalersi del proprio patrimonio energetico, della propria vitalità - che è sempre sessuata, per questa teorica delle differenze - è poi il principio primo di una relazione proficua (se non geneticamente feconda) con l'altro. Sviluppare il sentimento dell'attenzione è infine l'antidoto più efficace contro ogni forma di egoismo ed egocentrismo: due ostacoli insuperabili sul cammino della conoscenza e della convivenza.
I motivi che Irigaray mette a fuoco in questo saggio dai chiari propositi pedagogici hanno tutti una forte coloritura etica ed esistenziale. A preservare l'autrice dal rischio di scivolare nel new age è l'approccio squisitamente epistemiologico al confronto tra Oriente e Occidente. Lavorando «al di là» delle due culture contrapposte a beneficio della sua «nuova» cultura dell'energia, la filosofa attinge alla ricchezza dell' una per compensare i limiti dell' altra. Il silenzio, il vuoto e l'ascolto orientali leniscono gli effetti di rumore, fretta, logorrea occidentali. D'altra parte la parola, la ratio, le finezze teoretiche e linguistiche del pensiero d'Occidente impediscono che la pratica assidua dello yoga si riduca a un mero apprendistato tecnico e ginnico.
Luce Irigaray parla il 4 settembre (ore 19) su «Salvare l’energia umana. il respiro: fonte di una condivisione universale»

La Stampa TuttoLibri 27.8.11
Reportage sentimentali
La poesia del freddo seduce Onfray al Polo Nord
di Carlo Grande

Iceberg azzurri, mineralità austere e sovrane, anime erranti di inuit travestite da foche e orsi bianchi: il Grande Nord di Michel Onfray è un Polo «paterno», è l’ultimo viaggio affrontato con il padre proprio là, nella terra di Baffin, oltre il Circolo polare artico, dove l’uomo aveva confessato al figlio ancora bambino che avrebbe voluto recarsi, qualora un mago avesse consentito un viaggio lontano da Chambois, paese della Normandia nel quale era nato e dal quale non si era mai mosso.
Il carnet di viaggio del filosofoscrittore ( Estetica del Polo Nord ) che trent’anni dopo ha accompagnato il padre ormai ottantenne fra gli Inuit, conduce a silenzi, magie e venti gelidi - «scultori di lacrime agli angoli degli occhi» – tra le mille declinazioni del freddo. Il Nord è una sorta di Paradiso che da secoli respinge e attrae i civilizzati, dagli echi dell’Agricola e del Germania di Tacito agli avventurieri di Jack London: il ghiaccio insegna a guardare, il silenzio ad ascoltare.
Ma quella del talentuoso affabulatore Onfray è anche testimonianza di dedizione filiale, e riflessione sul genocidio di popoli e culture operato della globalizzazione: molti degli Inuit, come i nativi d’America, appaiono slombati, schiantati dal cosiddetto «progresso». Tra loro – racconta Onfray trionfano ozio e alcolismo.
Così, alla voce del padre che si mescola allo sciabordio dell’acqua, al ricordo dei suoi scarni silenzi, si sovrappone spesso una nota amara, nella quale il Nord diventa una sorta di Eden corrotto, attraverso il quale non fuggirebbe più nessuno, nemmeno un Frankenstein qualunque.
Michel Onfray ESTETICA DEL POLO NORD Ponte alle Grazie, pp. 154, 14

venerdì 26 agosto 2011

Repubblica 26.8.11
Siamo ancora nell’era del pensiero debole?
A che punto è il pensiero? Debole, forte o esistenziale?
Postmoderno o neo-realismo? Su questo tema ecco le idee di quattro studiosi Per capire dove va la filosofia. E non solo
di Raffaella De Santis

Postmoderni o neorealisti? O anche: pensiero debole o pensiero forte? Interpretazioni o fatti? Sono alcuni degli interrogativi che stanno animando il dibattito filosofico, dopo la pubblicazione su Repubblica, lo scorso 8 agosto, del manifesto con cui Maurizio Ferraris ha presentato il New Realism, il "nuovo realismo" filosofico, con l´intento di sorpassare l´impasse del postmoderno e le sue "derive" ermeneutiche. Da quel primo intervento ne è scaturito un dialogo tra Ferraris e Gianni Vattimo, tra chi vuole riportare la concretezza della realtà al centro della riflessione e il padre del pensiero debole. Ed è allora partendo proprio da quel dialogo, pubblicato su queste pagine il 19 agosto, che abbiamo deciso di ospitare interventi di filosofi e studiosi. Scrive Paolo Legrenzi, psicologo cognitivo all´università Ca´ Foscari di Venezia: «Oggi il vento è cambiato. Due grandi tradizioni di ricerca, l´evoluzionismo e lo studio del cervello, stanno occupando la scena». E Petar Bojanic, allievo di Derrida, tra i fautori di un ritorno al realismo filosofico, mette in guardia dagli eccessi delle interpretazioni, perché in questo modo finisce che «anche il passato può essere riscritto». Così se Pier Aldo Rovatti ricorda l´inizio di quel percorso che trent´anni fa portò alla nascita del pensiero debole, difendendo l´anima "politica" delle posizioni di allora: «Nasceva come uno strumento di lotta contro ogni violenza metafisica», Paolo Flores d´Arcais rintraccia in Abbagnano, Bobbio e Geymonat i precedenti che hanno avuto il merito di riportare la filosofia su un terreno neo-illuminista.
Il New Realism sarà oggetto di una tavola rotonda il prossimo novembre a New York, all´Istituto Italiano di Cultura, mentre a primavera è previsto un convegno internazionale a Bonn, organizzato dallo stesso Ferraris insieme a Umberto Eco, John Searle, Markus Gabriel e Petar Bojanic.

Repubblica 26.8.11
La visione che ci restituisce il mondo
di Paolo Legrenzi

Nella psicologia è circolata per molto tempo l´idea che quel che conta sono le interpretazioni, e non i fatti. Anzi, sono le interpretazioni stesse a creare i fatti. In una variante di psichiatria sociale, il matto era, semplificando (ma non tanto), il risultato di chi lo classificava come tale. Cambiata la società, eliminata l´etichetta, trattati i matti da persone normali, il problema si sarebbe ridotto, se non dissolto. In forme meno grossolane, questa stessa idea permeava altre scienze umane.
Oggi il vento è cambiato. Due grandi tradizioni di ricerca, l´evoluzionismo e lo studio del cervello, anche grazie a nuove tecniche di osservazione, stanno occupando la scena. L´uomo è un pezzo della natura biologica, e non è poi così speciale. L´idea che sia lui a costruire il mondo, con le sue categorie di osservazione e d´interpretazione, è al tramonto. Si celebra così la fine del presunto primato dell´interpretazione sui fatti. Non ci si era mai spinti ad affermare che leggi scientifiche – come, poniamo, la legge dei gas –, fossero interpretazioni del comportamento dei gas. E tuttavia per le scelte individuali e le società era così. Circola poi, ancor oggi, una variante politica, nel senso che chi detiene il potere politico e i media può "costruire" la realtà. Era questo cui alludeva Donald Rumsfeld, il segretario alla difesa del secondo Bush, quando affermava, dopo la caduta del comunismo: «Ora il mondo lo facciamo noi».
Questa versione "forte" del credo "interpretativo" è fallita miseramente. I fatti si vendicano nella politica estera americana. I fatti presentano il conto. Il potere politico può, anche per molto tempo, far sì che l´opinione pubblica riconosca un fenomeno "da un certo punto di vista", ma non può fare di più.
Quando s´insegna psicologia, al primo anno di studi, si deve contrastare lo spontaneo "realismo ingenuo" degli studenti. Esso consiste nel pensare che noi vediamo il mondo così com´è, semplicemente perché è fatto così. In realtà il nostro sistema percettivo è un intreccio di meccanismi inconsapevoli che ci "restituisce" il mondo in seguito a una complessa elaborazione di ipotesi su quello che c´è là fuori. E anche il pensiero umano funziona così. Questo però non implica sposare la tesi che la mente crea il mondo. Al contrario, la mente dell´uomo e degli altri animali fa ipotesi su come funziona il mondo e le aggiorna continuamente perché l´azione umana cambia il mondo. Questa è la tensione che sbrigativamente si etichetta con il binomio natura/cultura.
Agli psicologi cognitivi piace che in filosofia stia emergendo una posizione chiamata "nuovo realismo". Non possono concordare né con il realismo ingenuo, né con la rozza idea che siamo noi a creare i fatti con le nostre interpretazioni. Per quanto concerne la versione politica, questa tesi si è sconfitta da sola.

Repubblica 26.8.11
Perché serve una prospettiva diversa
di Petar Bojanic

Nel gennaio scorso Ferraris e io eravamo a Parigi, e al termine di una sua conferenza sul futuro della decostruzione qualcuno gli ha chiesto: «Ma perché senti tutta questa necessità di richiamarti al realismo e ai fatti? In fondo, le interpretazioni possono dare libertà». Ferraris ha risposto: «È vero. Ma possono anche negare tutto, comprese le peggiori tragedie della storia». Ripensandoci, è lì che è nata l´idea di un convegno sul "New Realism".
Il realismo è la grande novità filosofica dopo trent´anni di postmoderno, ed è un punto a cui sono arrivato, per parte mia, lavorando su una "fenomenologia dell´istituzionale" che, rispetto a Ferraris, è più aperta alle proposte di Foucault. Sull´essenziale però siamo d´accordo. Derrida, il nostro comune maestro, ci ha resi attenti alla necessità di decostruire, di smontare, di non fermarsi alle apparenze (perché ovviamente non tutto quello che appare è reale, ci sono anche le allucinazioni, lo sappiamo bene). Ma di farlo con una prospettiva di speranza, la speranza, appunto, che la decostruzione potesse portare emancipazione e verità. Se trascuriamo questa circostanza, si finisce nel nichilismo, una posizione che costituisce un problema non solo dal punto di vista teorico (perché è una negazione del sapere) ma anche, e soprattutto, dal punto di vista morale, perché se si sostiene che tutto è fluido e tutto è interpretabile anche il passato può essere riscritto.
C´è un altro segnale importante che, secondo me, viene dal "Nuovo Realismo", e che è particolarmente significativo per chi, come me, si è trovato a vivere e a lavorare in situazioni culturali molto diverse e a volte contrapposte (dall´Inghilterra alla Francia alla Serbia). Il postmodernismo, malgrado la sua pretesa di cosmopolitismo filosofico, era in effetti una teoria che si limitava alla cosiddetta "filosofia continentale". Con la svolta realistica si sta facendo esperienza di un dialogo tra scompartimenti un tempo non comunicanti, per esempio fra temi che vengono da filosofi analitici, come Searle, e temi che vengono da filosofi continentali, come Derrida.
Questo aspetto non mi sembra puramente formale, e tocca la sostanza del lavoro filosofico. Perché "Nuovo Realismo" significa confrontarsi sulle cose, senza limitarsi a chiedersi l´un l´altro "da dove parli?", il gioco postmoderno che spesso riduceva i confronti filosofici alla deferenza nei confronti dei rituali della propria tribù di appartenenza.
(L´autore è direttore dell´Institute of Philosophy and Social Theory di Belgrado. Tra le sue pubblicazioni recenti: World Governance uscito nel 2010 per "Cambridge").

Repubblica 26.8.11
L´idolatria dei fatti
di Pier Aldo Rovatti

Il pensiero debole, nato 30 anni fa grazie a un reading curato da Gianni Vattimo e da me, ha avuto una imprevedibile diffusione internazionale. Certo, anche le sciocchezze possono andare in giro per il mondo e trovare ascolto. Non so se questo sia il caso, e comunque non mi affretterei a darlo per morto.
In autonomia dallo stesso Vattimo, con il quale tuttora condivido lo stile, la funzione e il senso di questo modo di pensare, e soprattutto la sua potenzialità emancipatoria, ci ho lavorato sopra da allora, puntando sui temi del gioco e del paradosso, senza di cui credo che si possa capire poco della difficile realtà in cui viviamo (e spesso ci dibattiamo).
L´amico Ferraris lavorava gomito a gomito con me e con Vattimo, poi ha ritenuto opportuno andare per la sua strada che oggi chiama "nuovo realismo". Ho letto con molta attenzione il suo dialogo con Vattimo e sono rimasto – come molti – alquanto perplesso. Vi ho trovato un´eccessiva semplificazione. Come accade quando si vuole tirare troppo la coperta dalla propria parte, si rischia di deformare un poco le cose.
Innanzi tutto, pensiero debole e postmodernità non possono essere sovrapposti. Forse la postmodernità ha fatto il suo tempo, mentre il pensiero debole era e rimane una maniera di leggere l´intera filosofia, mettendovi decisamente al centro la questione del potere. Nasceva infatti come uno strumento di lotta contro ogni violenza metafisica e di conseguenza sospettava di ogni fissazione oggettivistica della Verità (con la iniziale maiuscola). Non si presentava come un semplice discorso teorico, aveva una valenza esplicitamente "politica", e il carattere di una mossa etica che Vattimo chiamava pietas (cioè, sostanzialmente, un ascolto del diverso) e che per me era un contrasto tra pudore e prepotenza per guadagnare uno spazio di gioco nelle maglie strette dell´uso dominante della teoria.
Quando, oggi, si riduce tutto ciò a una querelle semplificata tra fatti e interpretazioni, si corre il pericolo di evacuare proprio questa sostanza etico-politica e di ridurre il pensiero debole a una specie di barzelletta. Non esistono fatti nudi e crudi che non abbiano a che fare con qualche interpretazione, questo è un fatto, così come sono fatti (duri e provvisti di effetti) le singole interpretazioni. Che oggi ci sia il sole o piova non mi dice niente sulla realtà in cui stiamo vivendo e nella quale temiamo di soccombere. Anzi, c´è da chiedersi perché qualcuno abbia bisogno di costruirsi questo paraocchi lasciando fuori dalla vista le cose più importanti. Il pensiero debole nasceva, poi, in una particolare consonanza con il pensiero critico di Michel Foucault e con le sue analisi del potere microfisico e della società disciplinare. Ora, che abbiamo potuto conoscere meglio le sue ultime ricerche, il debito si è allargato, e non è un caso che Foucault non trovi nessuna cittadinanza nel cosiddetto new realism di Ferraris.
Un punto fa da spartiacque, e riguarda la verità. Foucault ci ha insegnato, con un gesto nietzschiano, che la storia (sì, la storia!) è un susseguirsi di giochi di verità, il che significa che i valori del vero e del falso si trasformano, sono la posta in gioco di un pesante e determinato conflitto, vengono di volta in volta innalzati sulle bandiere dentro una lotta di posizioni e per ottenere vantaggi. Dal dispositivo di potere (reale) non si evade con un semplice colpo di filosofia, e quando si eternizzano le categorie, cercando di fissare cosa è veramente reale, non si fa altro che assumere una posizione dentro il dispositivo, che lo sappiamo oppure no. Mi chiedo cosa abbia da dire il nuovo realismo a questo riguardo, una volta che si sia sgombrato il campo da contrapposizioni un po´ di scuola e un po´ artificiose, dato che nessuno dubita che la realtà abbia una consistenza e produca effetti. Sicuramente non lo dubitano coloro che hanno trovato nel pensiero debole molti attrezzi per la loro cassetta.

Repubblica 26.8.11
La terza via di Camus
di Paolo Flores d’Arcais

Se l´esoterismo iper-metafisico di Heidegger e la traduzione più casareccia fornita da Gadamer degli inconcludenti e compiaciuti labirinti iniziatici del "mago di Messkirch" avesse nutrito la cultura di destra, non vi sarebbe stato alcun problema. Ma quel forsennato vaticinare ha invece colonizzato la cultura democratica in Italia fin dall´inizio degli anni Sessanta, sia in versione neo-teologica, sia ermeneutica (fratelli coltelli, ma entrambi heideggeriani anti-illuministi perinde ac cadaver), ristabilendo una egemonia spiritualistico-idealistica sulla filosofia che invece era stata finalmente mandata in frantumi dalla consapevolmente variegata "vague" neo-illuminista cui avevano dato impulso Abbagnano, Bobbio e Geymonat. Se si aggiunge il marxismo eretico di Della Volpe e della sua scuola, c´erano già allora tutti gli elementi per costruire quella filosofia di "New Realism" che Maurizio Ferraris, ora caldeggia contro il suo maestro e gli esiti prevedibilissimi dell´ermeneutica nichilista e del post-moderno. Mezzo secolo buttato. Comunque, meglio tardi che mai.
Il fenomeno come è noto è stato europeo, e ha riempito anche gli scaffali di oltreatlantico. In Francia avevano a disposizione i lavori di Camus e Monod, sontuosi di grande pensiero sobrio, per dar vita a quella sintesi di esistenzialismo e naturalismo empirico che costituisce la speranza di una "filosofia dell´avvenire", ma la moda irrazionalistica ha imposto genealogie e microfisiche di Foucault e torrenziali elucubrazioni autoreferenziali di Derrida, mentre negli Usa Rorty, in nome di Dewey, faceva piazza pulita del razionalismo di quel grande pensatore riformatore. Il tutto giustificato dalla necessità di liberarsi dalla oppressione di un "essere" inteso staticamente, troppo "autoritario", si è detto. Eppure, bastava farne proprio a meno, dell´Essere, comunque declinato e sbarrato, questa personificazione del predicato più generico e dunque più vuoto, questa Ipostasi che costituisce il tributo della filosofia all´animismo.
E invece, tutti a "indebolire" l´essere per meglio salvaguardarlo rispetto a neo-illuminismi e "scientismi". Per evitare il punto cruciale dello scoglio su cui la tradizione di Hume e del giovane Marx antihegeliano e di Freud (e della riflessione filosofica su Darwin) aveva già portato a far naufragare ogni spiritualismo e antimaterialismo: riconoscere alle scienze della natura l´indagine sull´essere e all´esistenza individuale e collettiva la sovranità sul dover-essere. Ma con un esistenzialismo così sobrio, naturalista-scientista, sarebbero stati liquidati i barocchismi sull´"invio dell´essere", questi sì ad alto potenziale autoritario (totalitario, anzi), visto che qualsiasi aspirante Führer potrà arrogarsi il ruolo di "Unto" dell´essere. È paradossale, perciò, che Vattimo, per tenere aperta la prospettiva dell´emancipazione e dell´eguaglianza (più che legittima), anziché scegliere la via maestra e diretta della separazione quasi manichea tra fatti e valori, dunque tra scienze della natura e ideologie dello spirito (solo le componenti scientifiche delle discipline socio-storiche rientrano nel primo ambito), continui ad insistere sulla linea "non ci sono fatti, solo interpretazioni". Perché ogni menzogna viene così santificata.

l’Unità 26.8.11
Articolo 4. Nel decreto di Ferragosto introdotte norme che contrastano con il voto di giugno
I movimenti referendari sul piede di guerra. Rilievi anche dalla commissione Affari costituzionali
Privatizzazione dei beni comuni. La manovra affossa i referendum
Il contrasto tra le disposizioni della manovra e l’esito dei referendum di giugno è stato segnalato dalla stessa maggioranza in commissione. E suscita ora proteste e appelli alla mobilitazione dai movimenti promotori
di Francesco Cundari

Il tentativo di affossare il risultato dei referendum sui beni comuni del 12 e 13 giugno non potrebbe essere più esplicito. Approfittando dell’emergenza finanziaria, il governo ha inserito nella manovra norme che sono in palese contrasto con il risultato plebiscitario di appena due mesi fa. Un tentativo dichiarato di forzare ovunque possibile la privatizzazione dei servizi pubblici locali, come se niente fosse, che suscita naturalmente la protesta e la mobilitazione di tutti i movimenti che per i quesiti referendari si sono battuti.
A segnalare la violazione della volontà popolare che si è espressa nei referendum di giugno non sono però soltanto i movimenti che li hanno promossi, ma parte significativa dello stesso Pdl. Nel merito, infatti, la commissione Affari costituzionali ha parlato mercoledì con cristallina chiarezza.
Il parere «non ostativo» della commissione sulla manovra del governo è «condizionato» alla riformulazione di una lunga serie di disposizioni contenute nel decreto di ferragosto, a cominciare dall’articolo 4, che «introduce disposizioni volte a liberalizzare i servizi pubblici locali di rilevanza economica, al fine di creare le condizioni per l’apertura al mercato».
I RILIEVI DELLA COMMISSIONE
In proposito, i rilievi della commissione sono molto precisi: «Appare necessaria, al fine di evitare possibili censure di incostituzionalità e perché sia assicurato il pieno rispetto della volontà popolare, un’attenta verifica della compatibilità di tale nuova disciplina con gli effetti abrogativi prodotti dall’esito di due dei quattro referendum popolari del 12 e 13 giugno 2011 relativi, rispettivamente, alle modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica e alla determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito».
Dunque, come ricorda il parere autorevolissimo elaborato dalla commissione Affari costituzionali (e al suo interno proprio dai membri del Popolo della libertà), il primo quesito referendario non riguardava semplicemente l’acqua, ma tutti i «servizi pubblici locali di rilevanza economica».
LA LETTERA DEL FORUM PER L’ACQUA
Non può stupire pertanto la protesta che viene dai promotori dei referendum di giugno. Il Forum italiano dei movimenti per l’acqua ha indirizzato una lettera aperta al presidente della Repubblica e a tutte le forze politiche.
«Il governo non solo non ha ancora attuato le indicazioni referendarie si legge nel testo ma, con la manovra economica in fase di discussione parlamentare... ha riproposto in altra forma la sostanza delle norme abrogate con volontà popolare». Il Forum contesta poi il fatto che «nell’articolo 5 si arrivi a dare un premio in denaro agli enti locali pur di convincerli a lasciare al mercato delle privatizzazioni i propri servizi essenziali per le comunità: un premio che dovrebbe servire per fantomatici investimenti infrastrutturali quando invece ai Comuni vengono sottratti trasferimenti essenziali per le loro funzioni». Tutto questo, prosegue la lettera, costituisce «una chiara violazione della Costituzione poiché il popolo italiano si è pronunciato con referendum contro l’affidamento al mercato di tutti i servizi pubblici locali previsti dal Decreto Ronchi, e tale decisione è vincolante per almeno cinque anni (come affermato dalla giurisprudenza costante della Corte Costituzionale)».
L’APPELLO DEI GIURISTI
L’appello dei giuristi estensori dei quesiti sui beni comuni, sottoscritto tra gli altri anche da Alex Zanotelli, da Giorgio Airaudo della Fiom e dall’ex magistrato Livio Pepino e dal direttore editoriale del Manifesto Gabriele Polo, ha raccolto in poche ore cinquemila adesioni.
«La lettura della manovra di ferragosto e del dibattito politico che ne ha accompagnato la presentazione scrivono gli estensori dell’appello produce una sensazione di profonda preoccupazione in chi ha a cuore la democrazia e i beni comuni».
LA DENUNCIA DEL CODACONS
Dalla parte dei difensori del risultato dei referendum del 12 e 13 giugno si schiera anche il Codacons. «Appare incredibile scrive in una nota che il governo, approfittando dell’importanza di una manovra urgente, cerchi di intrufolare una norma palesemente illegale». L’associazione dei consumatori si dice pronta a ricorrere alla Consulta. E ribadisce: «L’articolo sottoposto mesi fa a referendum, il 23 bis del decreto legge 25 giugno 2008 numero 112 riguardava tutti i servizi pubblici di rilevanza economica, non solo quello idrico».

l’Unità 26.8.11
Bersani: «Come possiamo stupirci se la Cgil sciopera?»
A Pier Luigi Bersani non piace la polemica che si è aperta nell'opposizione e all'interno del suo stesso partito sullo sciopero generale indetto dalla Cgil per il 6 settembre. Per questo ha scritto una nota sul sito del Pd.
di S.C.

«Con tutto quello che il Pd stesso pensa e dice della manovra, dovrebbe forse stupirsi di uno sciopero o di una qualsiasi altra forma civile di mobilitazione o di protesta?» A Pier Luigi Bersani non piace la polemica che si è aperta nell'opposizione e all' interno del suo stesso partito sullo sciopero generale indetto dalla Cgil per il 6 settembre. Mentre Idv e sinistra radicale aderiscono alla giornata di mobilitazione e chiedono al Pd di fare altrettanto, mentre il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini critica la decisione presa da Corso Italia e chiede al Pd di «abbandonare ogni ambiguità» e dire «da che parte sta», mentre nello stesso Pd c'è chi, come Beppe Fioroni, sostiene che «bisogna opporsi punto e basta a uno sciopero assurdo e controproducente», Bersani scrive sull’home page del sito web del partito una nota piuttosto chiara: parte sottolineando che di fronte a una manovra iniqua e regressiva come quella che vorrebbe approvare il governo, il Pd non si stupisce che sia stato indetto uno sciopero. E continua così: «Piuttosto, si prenda sul serio quello che diciamo da tempo. Noi rispettiamo l’autonomia di ogni scelta sindacale e siamo presenti laddove organizzazioni sociali e civili o movimenti sono in campo con obiettivi compatibili con i nostri. Saremo dunque presenti a tutte le diverse iniziative che i sindacati e le forze sociali vorranno assumere per chiedere correzioni alla manovra nel senso dell' equità e della crescita». Dopodiché, Bersani sottolinea anche che il Pd è «un partito» che fa il suo «mestiere» e che è invece «da irresponsabili» l’atteggiamento dimostrato dal governo, che «lavora per dividere» il fronte sindacale. «Se si vuole far vivere il prezioso patto del 28 giugno fra le parti sociali è evidente che l'articolo 8 del decreto va eliminato o riformulato in modo accettabile per i contraenti». Parole che per ora contribuiscono ad evitare nuove tensioni su questo argomento nel Pd. E che vengono apprezzate dalla stessa Susanna Camusso. Per il segretario della Cgil «è uno strano dibattito» quello avviato tra chi sostiene che il Pd dovrebbe aderire e chi chiede invece che vi si opponga: «Mi pare una gara inutile». Mentre giudica una «posizione corretta» quella espressa da Bersani. «Il Pd dice al termine di un'audizione in Senato ha presentato una proposta di merito sulla manovra: ci sono alcuni punti di convergenza con la nostra e altri no. Legittimamente rispettano le scelte che facciamo, come noi rispettiamo le scelte che fanno loro».

l’Unità 26.8.11
Martin Luther King
Non può vivere senza di lui quel sogno americano di uguaglianza e felicità
Domenica a Washington alla presenza del Presidente Obama, il National Mall si arricchirà di una nuova statua: 48 anni dopo aver pronunciato il discorso «I Have a Dream», il reverendo, simbolo della lotta per i diritti civili, entrerà a far parte del pantheon nazionale
di Sara Antonelli

Nel 1791, nel suo progetto per la capitale degli Stati Uniti d’America, l’architetto e urbanista Pierre L’Enfant disegnò un viale della lunghezza di un miglio fiancheggiato da aree verdi: il National Mall. Posto a sud della Casa bianca, il Mall sarebbe stato un percorso monumentale lungo il quale avrebbero trovato posto musei e statue commemorative. Un paese giovane come gli USA ancora non aveva ancora nulla di tutto questo, ma sia L’Enfant, sia il suo committente, il presidente George Washington, sia «l’architetto» della nazione, Thomas Jefferson, l’autore della Dichiarazione d’indipendenza e il vero ispiratore del progetto di L’Enfant, confidavano che i fasti sarebbero arrivati rapidamente.
The City of Washington si proponeva di materializzare sul territorio la bontà di un esperimento politico mai tentato prima: «Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali...». L’eleganza e la magniloquenza che ancora oggi caratterizzano la città ci spingono a credere che il progetto sia riuscito. Al punto che passeggiando per le sue strade alberate, tendiamo a ignorare la presenza asfissiante di migliaia di bandiere o il fatto che fuori dal bellissimo centro si estende un ghetto depresso. Tendiamo cioè a dimenticare di trovarci al centro di un’idea blindata. Il National Mall ne illu stra però molte delle contraddizioni.
Diversamente dal piano originale, il Mall non è mai diventato un viale, bensì un lungo spazio verde, un pantheon en plein air deputato a un’epica che pare non chiudersi mai: ogni volta che si aggiunge un nuovo monumento, il racconto si rinnova. Oggi si presenta chiuso, a Est, dal Congresso, un palazzo modellato sul Campidoglio, e a Ovest dal Lincoln Memorial, un tempio neoclassico. Tra i due, snocciolati non come in una parata noiosa, ma secondo un emozionante progetto narrativo, monumenti quali il Vietnam Veterans Memorial (una cicatrice sulla terra), il National II World War Memorial (la narrazione per tappe e per «fronti» della vittoria del bene sul male), il Washington Monument (l’obelisco centrale attorno al quale ruota tutto il sistema) e lo Ulysses S. Grant Memorial (una statua equestre che ricorda la vittoria nordista nella Guerra civile). Ai lati del Mall, i musei e le istituzioni culturali più prestigiose del paese. A Sud, dove lo spazio si apre alle acque del Tidal Basin, il Franklin Delano Roosevelt Memorial (un’epica popolare), quindi il Thomas Jefferson Memorial, un tempio gigantesco che ospita, come in un sacrario, la statua colossale del presidente intellettuale e il testo della Dichiarazione.
Statue e monumenti, spesso accompagnate da parole, compongono un racconto contrappuntistico che non ha un inizio possiamo prendere a percorrerlo da dove vogliamo e che si dipana liberamente, seguendo il desiderio del visitatore e grazie a un gioco di rimandi che attraversa epoche, materiali, colori o direttrici. Capita che i monumenti si guardino tra loro (Grant guarda Lincoln che a sua volta dà le spalle al più distante Generale Robert E. Lee Memorial), o che riflettano i visitatori (il Vietnam Memorial), o che si lascino percorrere sia con timore reverenziale, quando esprimono un idealismo ineguagliabile (il Lincoln Memorial), sia con semplicità, quando sono alla nostra altezza (FDR Memorial).
Oppure che intimoriscano per l’imponenza con cui rappresentano un’idea pura (il Washington e il Jefferson Memorial).
Da domenica 28 agosto, alle 11, alla presenza del presidente Barack H. Obama, il racconto dell’epopea nazionale si arricchirà di un'altra tappa: di un monumento che, col suo ingresso nello spazio narrativo, sarà destinato, come gli altri in passato, a modificare tutti gli equilibri fin qui stabiliti. Esattamente 48 anni dopo aver pronunciato, proprio sulle scale del Lincoln Memorial, il discorso «I Have a Dream», Martin Luther King entrerà a far parte del pantheon nazionale.
Il MLK Memorial, disegnato dal Roma Design Group di San Francisco, è il primo monumento del Mall a non commemorare un presidente o un soldato, bensì un uomo di pace. Il monumento, all’altezza del civico 1964 (l’anno della firma del Civil Right Act) di Independence Avenue, si compone di tre parti che, complice il confortante mormorio dell’acqua, raccontano una storia in sequenza. Il motore narrativo è naturalmente la statua che raffigura MLK: si presenta come un blocco appena staccatosi da un enorme portale che, evidentemente, la imprigionava in uno stato di abiezione («Out of a Mountain of Despair», una citazione da «I Have a Dream»). Pur essendo ancora incastonata in una roccia gigantesca («The Stone of Hope», altra citazione), la statua si presenta in posizione avanzata e prospiciente uno spazio aperto e incontaminato (le acque del Tidal Basin circondate dai ciliegi).
Va detto subito che, sebbene le spalle, la schiena e i piedi della statua siano ancora mescolati alla roccia, il corpo di MLK non è quello agonizzante degli schiavi di Michelangelo, che lottano contro la materia che li trattiene MLK ha già lasciato la sua «Mountain of Despair» ma quello forte di chi ha superato gli ostacoli, che non si è fermato né si fermerà davanti ad alcun divieto.
Il 28 agosto del 1963 MLK aveva detto: «E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti». Se oggi una parte della statua che lo rappresenta è ancora nella roccia non è per impedirne il movimento la statua comunica forza d’animo, dinamicità e determinazione bensì per indicare che la «Mountain of Despair» che è rimasta letteralmente alle sue spalle non può essere dimenticata, e che l’opera di liberazione e rigenerazione della nazione non è ancora conclusa.
Per i visitatori che, passando dal portale, accedono già da lunedì 22 allo spazio monumentale, tale percorso simbolico è chiarissimo. Dall’ingresso come divelto, avanziamo verso una grande roccia che si affaccia sul mare, ma senza ancora sapere cosa raffigura. Giungiamo quindi in un emiciclo che, proteggendo amorevolmente il macigno, le offre uno sfondo storico: è l’agone di King, punteggiato di parole che hanno accompagnato tutte le sue battaglie. Continuiamo ad avanzare fino a poter osservare la roccia frontalmente e scoprirvi le fattezze di MLK che guarda dritto davanti a sé a braccia conserte. Le dimensioni della statua sono enormi: il reverendo è un gigante di granito chiaro che, affacciato sul Tidal Basin, osserva serio e pensieroso il Jefferson Memorial.
Posto a metà strada tra Lincoln (alle sue spalle) e Jefferson, il MLK Memorial stravolge il rapporto che, almeno fino a oggi, univa i due monumenti preesistenti: la linea retta che collegava il loro idealismo. E come se quel 28 agosto del 1963, dopo aver pronunciato «I Have a Dream», MLK fosse disceso dal Lincoln Memorial per incamminarsi risoluto verso il Jefferson Memorial. Come se, appena finito di parlare, avesse puntato dritto verso le parole della Dichiarazione e verso il suo autore uno dei più ricchi schiavisti del suo tempo per rimproverarlo e per dire che l’idea di uguaglianza e felicità della nazione funziona solo se tra i due presidenti c’è MLK. In caso contrario la linea ideale si rompe, il collegamento cade, l’epica non tiene, il paese va in pezzi.

Repubblica 26.8.11
Un Paese senza guida
di Adriano Prosperi

A nessun italiano può far piacere che sul Washington Post si legga: «In Italia c´è un buffone come Silvio Berlusconi». Fa male scoprire quale sia il nostro contributo al generale deficit di leader nel mondo contemporaneo. Nella crisi attuale - finanziaria, economica e politica - delle democrazie occidentali, c´è una domanda di leadership politica. L´opinione pubblica si risveglia dal sonno della fiducia nelle forze spontanee dell´economia e della finanza e sente il bisogno di uomini di Stato capaci di dire verità amare e di assumersi le loro responsabilità. Ma c´è un aspetto tutto italiano di questa crisi: l´avere un leader che nessuno prende sul serio nel vasto mondo. L´autore che ha formulato quella sprezzante definizione è l´economista Nouriel Roubini, colui che Tremonti definì con l´epiteto sprezzante di «Nostradamus» quando anni fa segnalò l´avvicinarsi della tempesta a cui lo stesso Tremonti guarda ora con occhio smarrito e impotente. Non che la ricetta di Roubini sia facile da applicare: ma il suo merito è quello di chiarire quanto sia stata sbagliata la strada seguita finora.
Bisogna - scrive Roubini - rimettere il lavoro e il capitale umano al centro della politica, ricostruire un giusto equilibrio tra funzionamento dei mercati e produzione di beni, abbandonare il modello anglosassone del laissez-faire e quello europeo del welfare pagato con l´irresponsabile incremento del deficit statale. La corsa drogata alla intermediazione finanziaria e la redistribuzione della ricchezza dal lavoro al capitale conducono il capitalismo all´auto-distruzione. La politica fiscale dovrebbe puntare alla creazione di posti di lavoro e investire risorse nelle infrastrutture necessarie alla crescita; e le risorse dovrebbero essere raccolte con una tassazione progressiva sulla ricchezza reale (non certo come si fa in Italia colpendo pigramente il lavoro dipendente, l´unico costretto a dichiarare i redditi). E bisogna soprattutto investire nel capitale umano perché crescano generazioni capaci di competere nel mondo globalizzato. L´alternativa ha molti nomi tutti cupissimi: si chiama stagnazione, depressione, crescita della disuguaglianza, della povertà, della disoccupazione, della disperazione: con prospettive di instabilità politica e sociale, come quella che si annuncia nel brontolio di tuono di tante agitazioni di massa.
Amara è la soddisfazione che l´analisi di Roubini può dare alle minoranze che in Italia protestano da anni contro i tagli alla scuola pubblica e alla ricerca, contro una politica del lavoro tesa solo a cancellare i diritti dei lavoratori, contro un liberismo parolaio fatto di condoni a ripetizione per le ricchezze accumulate illegalmente e di misure vessatorie contro l´esercito del lavoro, quello regolare e quello di riserva dell´immigrazione clandestina. Sono anni e anni che si erodono le fondamenta intellettuali e morali del Paese, affamando la ricerca, disprezzando le istituzioni di cultura, impoverendo gli insegnanti, diffondendo quotidiane iniezioni di volgarità nei canali televisivi monopolizzati dal nostro casalingo tycoon. Oggi, nel mezzo della crisi, si continua per quella via, come mostra il colpo di penna che cancella in cambio di un microscopico risparmio istituzioni come l´Accademia della Crusca ma si arresta timoroso davanti alle penali per i capitali esportati illegalmente. In questo momento le forze politiche che finora si sono dimostrate capaci solo di far crescere l´evasione e la corruzione si presentano con aria umile (qualcuno dice di avere anche un cuore che sanguina) a chiedere il contributo delle opposizioni nel riformulare qualche dettaglio minore della manovra finanziaria. Una manovra come questa non può essere figlia di nessuno. Nei momenti di crisi un Paese deve sapere se c´è qualcuno che lo governa o no. A meno che il popolo italiano non si senta rassicurato dalla canottiera nazionalpopolare di Bossi esibita nel sinedrio leghista riunito in Cadore per il compleanno di Tremonti. Ma forse ci vuole altro per rassicurare i pensionati sulla sorte dei loro risparmi; altro per riaccendere nei giovani la fiducia nel loro futuro.

Repubblica 26.8.11
L’esilio della politica
di Guido Carandini

Quella che viene spacciata per una ciclica crisi economica e finanziaria è invece qualcosa di assai più serio e storicamente inedito. È in realtà l´esito di una vera e propria controrivoluzione del capitale che, divenuto globale, ha ridotto a brandelli i poteri che le rivoluzioni dei secoli scorsi avevano conferito alle democrazie nazionali, cioè i poteri di controllo sul mondo degli affari e la forza di imporre agli Stati un generoso welfare a difesa delle classi più deboli. La crisi attuale è dunque il crepuscolo della politica democratica delle nazioni decaduta da baluardo dei diritti sociali a passivo strumento del nuovo potere capitalista senza frontiere.
Ne è prova la decadenza, nella piccola Italia come nei grandi Stati Uniti, di governi, parlamenti e partiti, insomma delle istituzioni tradizionali della democrazia. Ormai più che i governi eletti sono le maggiori banche e i fondi privati della finanza mondiale a decidere le sorti dell´economia, perché la politica ha smarrito la capacità di contrastare l´ingordigia degli affari con una forza all´altezza dei tempi in cui viviamo. Quelli cioè della transizione dall´era moderna all´era globale, l´immensa metamorfosi che ha reso la politica una docile preda del capitale.
Nell´era globale il progressivo cadere delle barriere nazionali ha prodotto l´unificazione mondiale dei mercati e con essa il parallelo tramonto delle ideologie sia democratiche che autoritarie (nazionalismo, liberalismo, socialismo, comunismo, ecc.). Al loro posto il capitalismo ha insinuato nelle coscienze una pervasiva religione sociale ispirata all´etica del guadagno e al culto del denaro.
Per indebolire la democrazia il capitale non l´ha attaccata frontalmente, ma con una duplice sfida trasversale. In primo luogo, per riprendersi il suo pieno potere, ha assunto la forma globale e la democrazia, perdute le frontiere nazionali, ha smarrito il suo habitat naturale. In secondo luogo ha minato il cuore stesso del sistema democratico insinuando di soppiatto al suo interno un nuovo assolutismo, quello delle aristocrazie del capitale che abrogano il potere dei governi eletti di imporre un limite alla rapacità del mondo degli affari. Disarcionando la politica quelle aristocrazie hanno minato il potere sia dei partiti di sinistra difensori dei bisogni e diritti collettivi, sia dei partiti di destra fautori del liberalismo individualista, riducendo entrambi a esercitare - i primi loro malgrado e i secondi a loro vantaggio - un potere delegato dal sistema degli affari mondiali che mira soltanto alla massimizzazione dei profitti.
La restaurazione del predominio capitalista sulla democrazia politica è inoltre la maggiore causa delle perverse alleanze fra poteri di governo e poteri di affaristi, come avviene in Italia con Berlusconi e Mediaset, in Inghilterra con Cameron e la Sky di Murdoch e negli Usa con i conservatori del Congresso e gli affaristi di Wall Street.
Per riconquistare un ruolo coerente con la nuova realtà del capitalismo globale non è sufficiente che le democrazie dei piccoli Paesi assumano dimensioni più ampie e integrate, per esempio in una rinnovata Unione europea. Quella continentale degli Usa non la rende immune dagli attacchi trasversali del capitalismo. Ci vuol altro. Occorre cioè una trasformazione che riguardi in primo luogo i soggetti della democrazia che, prima della controrivoluzione del capitale, erano i singoli cittadini che eleggevano parlamenti democraticamente attivi, mentre ora votano per assemblee ridotte a casse di risonanza di interessi affaristici.
Per ripristinare un efficace potere di controllo sul capitalismo occorrono nuovi soggetti, nuove forze collettive di giovani generazioni che per riappropriarsi del proprio futuro devono, mi sembra, fare due cose. In primo luogo rinunciare ai vecchi strumenti della rivolta e dello scontro frontale che sono diventati armi spuntate. Si è rivelato di nuovo più efficace l´approccio trasversale se attuato dalle forze collettive in rete aventi una potenza d´urto democratica assai maggiore degli asfittici partiti e partitini di vecchio conio. Ne abbiamo viste all´opera molte, giovanili e femminili, audaci portatrici di spinte anti-autoritarie in Italia, Israele, Spagna, Libia, Tunisia, Egitto, Siria, India e Brasile.
In secondo luogo quelle forze devono liberarsi dall´inquinamento culturale imposto dalla propaganda capitalista. Cioè convincersi che la sopraffazione dei diritti democratici, da parte di un capitalismo lasciato senza freni, è massimamente dovuta alle lusinghe di quella onnipresente religione sociale che si ispira all´etica del guadagno e al culto del denaro, inculcata dal mondo degli affari per raggiungere i suoi scopi. Che sono principalmente i seguenti.
Primo: legittimare nell´opinione pubblica qualsiasi impresa, anche illegale, che favorendo l´occupazione genera redditi e quindi soddisfa bisogni individuali spesso al prezzo della distruzione di bisogni collettivi, come per esempio la sicurezza e la difesa dell´ambiente. Sono esemplari i casi del disastro nucleare giapponese, dei catastrofici inquinamenti da perdite dei pozzi petroliferi e del fenomeno generale della selvaggia speculazione edilizia.
Secondo: anestetizzare la protesta e le lotte delle classi sfruttate ed emarginate, illudendole che la soluzione dei loro problemi si trovi solo nella "crescita economica" e non esiga invece la preliminare difesa dei loro diritti democratici, compreso quello di poter controllare se un dato tipo di crescita sia benefico o nocivo per la collettività.
Terzo: indebolire lo Stato facendolo apparire come il responsabile delle crisi anziché come la maggiore risorsa per superarle, come era stato dimostrato ampiamente in passato dall´intervento della spesa pubblica nelle fasi di debole congiuntura economica.
Occorrerà dunque una vera e propria rivoluzione culturale democratica per sottrarre alla religione del guadagno e del denaro la supremazia su ogni altro valore etico e senso della vita, sia individuale che collettiva. Un compito immenso per le nuove generazioni che dovranno recuperare la politica dal suo attuale forzato esilio affinché nel mondo del capitale globalizzato non abbia il sopravvento una crescita economica che sia principalmente basata sulla corruttrice brama dei profitti, sulla speculazione finanziaria e immobiliare e sulla devastazione dell´ambiente.

Repubblica 26.8.11
Le parole per combattere la paura. La filosofa Michela Marzano racconta la sua storia
Così ho combattuto con la mia anoressia
Rivela "gli anni passati con la fame, quando mi punivo per ogni caloria ingoiata"
L´autrice suggerisce il ruolo (e il peso) delle aspettative del padre
Esce il nuovo libro auto-biografico della studiosa "Volevo essere una farfalla" Una confessione dei suoi disturbi alimentari e del disagio che ha vissuto
di Daria Galateria

«PENSAVO che non ne avrei mai parlato. Che sarebbe rimasto per sempre il mio segreto. Che non avrei permesso a nessuno di sfiorare le mie fratture e le mie debolezze. Poi, pian piano, raccontare la mia storia è diventata una necessità. Perché l´anoressia non è una cosa di cui ci si deve vergognare.
´anoressia non è né una scelta, né un´infamia. L´anoressia è un sintomo. Che porta allo scoperto quello che fa veramente male dentro. La paura, il vuoto, l´abbandono, la violenza, la collera. È un modo per proteggersi da tutto ciò che sfugge al controllo. Anche se a forza di proteggersi si rischia di morire. E per imparare a vivere si deve avere il coraggio di dare un senso a tutta questa sofferenza.
Certo, per uscirne non esistono formule magiche. Come pretendono alcuni. Come forse sarebbe bello che fosse. Ma esiste qualcosa che è più forte delle semplici formule: la forza delle parole. Quelle che permettono di ripercorrere mille e mille volte sempre le stesse cose. Gli stessi attimi. Le stesse incertezze. Gli stessi rimpianti. E poi, come per magia, il pensiero riappare. E ci aiuta a ritrovare il bandolo della matassa. Quell´istante preciso in cui qualcosa si è interrotto. E che prima ci si illudeva di poter dimenticare per fare "come se" nulla fosse mai accaduto. Barricandosi dietro ad un pensiero razionale capace, certo, di spiegare tutto, ma in realtà incapace di aprire la porta ai perché della vita. E allora ho capito come mai avessi deciso di diventare una filosofa. Perché se c´è una disciplina che fa dei "perché" il punto di partenza e di arrivo è proprio la filosofia. Non quella astratta né quella perentoria. Ma quella incarnata che si costruisce intorno all´evento, come direbbe Hannah Arendt. Quell´evento che appare nel mondo e lo trasforma. E che obbliga, nonostante tutto, a trovare alcune risposte.
Io queste risposte le ho trovate. Ed è anche attraverso la mia anoressia che ho imparato a vivere. Senza quella sofferenza, forse, non sarei diventata la persona che sono. Probabilmente non avrei capito che la filosofia è un modo per raccontare la finitezza e la gioia. Gli ossimori e le contraddizioni. Il coraggio immenso che ci vuole per smetterla di soffrire e la fragilità dell´amore che dà senso alla vita. È questo che ho voluto raccontare nel mio libro. Per condividerlo con gli altri. Per mostrare che c´è un modo per uscirne. Una filosofia della resistenza e della speranza».

Rivela "gli anni passati con la fame, quando mi punivo per ogni caloria ingoiata"
L´autrice suggerisce il ruolo (e il peso) delle aspettative del padre
Esce il nuovo libro auto-biografico della studiosa "Volevo essere una farfalla" Una confessione dei suoi disturbi alimentari e del disagio che ha vissuto

Ora che Michela Marzano pubblica il romanzo della sua anoressia (Volevo essere una farfalla, Mondadori, pagg. 210, euro 17,50) diventa palese e affascinante l´uso letterario che aveva fatto della malattia già nei saggi filosofici. La Marzano ha disseminato nei suoi studi centinaia di sintomi. Usa spesso la parola "disincarnato", "smaterializzato", e anche, per il mondo modellato dalle imprese (Estensione del dominio della manipolazione), il termine "gabbia", che nel romanzo è associato al corpo anoressico. Volevo essere una farfalla si propone come una scrittura scucita. Ma non puoi raccontare una storia? le chiede il compagno; ma lei vuole usare una scrittura ellittica, "disincarnata" appunto; "quando si ha una bella idea non si riesce a darle carne, a farla vivere".
Michela Marzano ha iniziato il suo racconto molti anni prima di questa Farfalla, che dice "gli anni passati con la fame, a punirmi per ogni caloria ingoiata, a mangiare e vomitare tutto", e suggerisce il ruolo (il peso) delle aspettative del padre - "voglio scrollarmi di dosso il peso del dovere, voglio sentirmi leggera"; "Con me papà è sempre stato troppo pesante - per anni, ho fatto di tutto per diventare leggera come una farfalla… In termini di chili, s´intende": un padre che compare, letteralmente a ogni pagina, a chiedere la perfezione.
Sotterraneamente, già nei saggi Michela Marzano si è trovata a assumere argomenti e metafore dal suo passato anoressico. Negli interventi sull´"abietto" per esempio: "da ab e jectus, i lemmi di repulsione, ribrezzo rinviano alle nozioni di sporcizia, rifiuto e impurità, che troviamo spesso associate al corpo e alle sue escrezioni. La parola puro designa al contrario ciò che è pulito, immacolato, impeccabile". Ha scritto (La filosofia del corpo) che "il corpo è impuro per antonomasia perché ingerisce, digerisce, assimila, espelle e secerne". Ha studiato la body-art dell´artista Orlan, che con le sue performances chirurgiche "si serve della sua carne per esibire l´immagine ideale che ha di se stessa".
La pornografia (Malaise de la sexualité) mette avanti un corpo "smaterializzato, immune da invecchiamento e imperfezioni". Il corpo è il luogo di interrogativi esistenziali; è lo "strumento tramite il quale possiamo dimostrare quale specie di essere morale noi siamo". Per costruire la sua nuova "filosofia del corpo" (Penser le corps, Dictionnaire), la Marzano ha attraversato l´evangelista Matteo ("tutto ciò che entra nella bocca passa nel ventre e va a finire nella fogna; tutto questo rende immondo l´uomo"), Nietzsche, Proust ("quando siamo ammalati, ci rendiamo conto che viviamo incatenati a un essere di una specie differente che non ci conosce: il nostro corpo"), Amos Oz, il cyberspazio - in cui gli avatar "non sono più infastiditi dalla pesantezza del corpo".
Ma a un gioco, a uno svelamento più pericoloso siamo chiamati dal romanzo. "Preferisco lasciare delle tracce. Degli indizi. Tutto è collegato. Basta mettere insieme i pezzi e il puzzle si fa da solo". Dunque, questa storia è un puzzle. L´autrice non dirà tutto, lo avvisa in esergo. E allora eccoci autorizzati a indagare tra le righe del racconto che si vuole, è inutile dirlo, esile, frantumato e leggero. "Mio padre il francese lo capisce appena"; e: "di filosofia non ne capisce molto": quasi che le scelte di fondo di Michela Marzano, filosofa di grande seguito in Francia, siano state forme di fuga e scelte di autonomia rispetto all´onnipotente papà; certo, una sfida.
La sua scrittura non appartiene al genere del mécontemporain, praticato, in Francia, dagli scontenti del presente, gli "scontemporanei" vituperatori del mondo. La protagonista-farfalla esibisce i suoi successi - "non capita a tutti vincere il concorso alla Normale di Pisa": anche se la tesi, cui si presenta a quota 35 chili, avrà come tema (ancora il problema della perfezione) l´"essere e il dover essere". Semmai il testo si apparenta al genere dell´autofiction, tra biografia e racconto; e replica i brevi capitoli di Passione semplice di Annie Ernaux o di Incesto di Christine Angot, storie incandescenti narrate in termini oggettivi e spogli. Ma la Marzano sceglie di esprimere l´area dei sentimenti con formule codificate, a volte dolcemente adolescenziali o datate, come le citazioni da cantilene, canzoni o poesie di scuola (Pascoli, Cocciante, Cyrano): tessuto linguistico infilzato a tratti, per inchiodare la farfalla, e poterla studiare, da un termine filosofico. L´intento vigile è tradito dalle riprese dalla letteratura dell´anoressia, la Nothomb (si sente "un imbuto attraversato dal cibo"), Isabelle Caro, la modella fotografata da Toscani, la prostituta Nelly Arcan, la "piccolina di papà" suicida dopo il successo di Putain.
Scorrono a lampi le amichette, la tbc, la casa avita, le terapie di gruppo, le analisi, i concorsi, gli amori, le conferenze (quando la filosofa si inceppa e invece di dire peur, paura, dice père). Un professore, da bambina, profittava di lei; perché il padre non se ne è accorto? Forse, nell´anoressia, "non c´è nulla da capire"; avvisava la Sontag di non interpretare la malattia come metafora. Certo però ha tutto di un "sintomo". Certo "c´è stato un non-amore". Che cosa non ci viene detto? C´è anche, bellissima, una ricetta, "per vivere veramente dovremmo smettere di voler riparare il passato". Come abbiamo letto all´inizio, "sono anni che ho smesso di cercar di cambiare mio padre".

Repubblica 26.8.11
Al Meeting di Rimini tra i militanti di Comunione e Liberazione: fede, passione civile e la potenza economica di una holding
“Noi, il popolo di Dio”
di Michele Smargiassi

«E adesso voi relativisti come la mettete?». Incrocia le braccia, si dondola sulla sedia, stringe gli occhi e aspetta la risposta. La mettiamo, cosa? «Con Fukushima. Con Oslo. Col crollo delle borse…». Un terremoto, un pazzo assassino, una crisi economica: scusa, che c´entra il relativismo? Filippo sfodera un sorriso beffardo da "qui ti volevo", studia filosofia a Milano, ci sa fare con le parole: «Come fate a cavarvela con il vostro pensiero debole, il vostro scetticismo sistematico? Vi siete costretti a dubitare di tutto, e adesso avete paura di tutto».
L´auditorium B7 della Fiera di Rimini si riempie come un uovo, e sono diverse migliaia di posti. Da tre decenni il Meeting è l´ecclesìa ferragostana di Comunione e liberazione, il movimento più autosufficiente e solido della Chiesa cattolica, potenza che ama spesso ospitare i potenti, oggi Elkann e Marchionne, ieri Berlusconi e l´altroieri Tanzi e Gardini, che prega Dio e applaude il Capitale. Ma adesso migliaia di famigliole, di ragazzi, stanno correndo ad ascoltare un filosofo, Costantino Esposito, cantare le lodi di qualcosa che il denaro e i potenti non sanno più garantire: la Certezza. Un´ora di escursione sulle cime ostiche del pensiero («Mi capite? Mi state seguendo?») fino alla vetta: «La vera certezza è appartenere a Qualcuno». «Ho capito solo questo, ma per me è abbastanza», applaude convinta l´infermiera Ilaria di Padova.
È più che abbastanza. È una rivincita. Lungamente attesa. Alla trentaduesima edizione, il Meeting di Rimini mette da parte i titoli astrusi del passato per una frase trasparente e definitiva: E l´esistenza diventa una immensa certezza. Ripetuta ovunque, sulle pareti, sulle magliette, nei titoli delle conferenze, la certezza della scienza, la certezza nell´informazione… Frase pescata da un libro del fondatore don Giussani, fu scritta diversi anni fa, ma è venuto solo adesso il momento giusto per giocarla, calandola sul tavolo come una briscola nell´anno dello spaesamento globale, nell´estate del nostro scontento planetario.
(il seguito dell’articolo non è disponibile su Internet)

La Stampa 26.8.11
“Mr. Ikea, un vero nazista anche dopo la guerra”
Nuove rivelazioni in Svezia sul fondatore del gigante dei mobili economici
di Francesco Saverio Alonzo


LO SCANDALO SI RIAPRE I documenti dicono che aderì a un partito di estrema destra fino al 1955
IL PERDONO DEGLI EBREI Lo ha ottenuto dopo le prime ammissioni. Ma adesso tutto potrebbe ricominciare

STOCCOLMA. Ingvar Kamprad Ottantacinque anni, ha creato l’industria del mobile super-economico Ikea, che in Svezia è non solo un gigante economico ma quasi un elemento di identità nazionale. Le accuse di nazismo fanno male
Di lui si era già parlato in passato come di un giovane e ingenuo seguace del nazismo svedese, ma in un libro appena uscito, dal titolo «E nel Wienerwald sono rimasti gli alberi», la giornalista televisiva Elisabeth Aasbrink rivela particolari che addossano al fondatore di Ikea (l’azienda dei mobili a basso prezzo), l’ottantacinquenne Ingvar Kamprad, responsabilità ben più pesanti che, sia pure appartenendo a un’epoca passata, gettano su di lui ombre oscure che difficilmente possono essere diradate.
Nel libro della Aasbrink si rivela che Ingvar Kamprad non solo era iscritto al partito nazionalsocialista svedese con la tessera numero 4.014, ma faceva parte del gruppo d’azione Sss che aveva il compito di arruolare nuovi camerati, fra il 1941 e il 1945. La sua ammirazione per il leader del nazismo svedese, Per Engdahl, era sconfinata ed egli continuò ad aderire al partito neonazista che Engdahl fondò dopo la fine del secondo conflitto mondiale con la denominazione di «Nysvenska rörelse» (Movimento nuovo svedese) che divenne la fucina di movimenti di estrema destra.
Kamprad ammirava a tal punto Engdahl che in una recente intervista concessa appunto alla Aasbrink lo aveva definito «un grande uomo», pur asserendo di non condividerne le teorie naziste.
Elisabeth Aasbrink presenta, nel suo libro, dossier sino ad ora segreti dei servizi di sicurezza svedesi nei quali Ingvar Kamprad, già nel 1943, ossia quando aveva appena diciassette anni, era definito «nazista». Durante gli Anni Cinquanta, il Movimento nuovo svedese non seguiva le classiche linee naziste e anziché sulle differenze razziali si basava sulla cultura, attenuando l’atteggiamento antisemita.
Heléne Lööw, docente di storia all’università di Uppsala, spiega: «Intorno agli Anni Trenta-Quaranta, erano molti i giovani che cercavano un’identità politica ed erano facili prede della propaganda. Anche nei primi Anni cinquanta, si verificò un sbandamento sulla scia del contrasto fra Est ed Ovest. Ma il fatto che Kamprad abbia aderito, fino al 1955, al movimento neonazista approfondisce la conoscenza del suo carattere ed è strano che egli non ne abbia parlato prima, quando furono rivelate le sue simpatie giovanili per il nazismo. L’Ikea è quasi un'istituzione nazionale svedese ed è interessante discutere di questa materia».
Nel libro si parla di un ragazzo ebreo che, sfuggito allo sterminio, fu assunto come garzone dalla famiglia Kamprad e di come Ingvar fosse rimasto legato a lungo a lui da una profonda amicizia. «E io volevo sapere spiega la Aasbrink - come fosse possibile essere amico fraterno di un ragazzo ebreo e allo stesso tempo ammirare un tipo come Engdahl che era il massimo esponente svedese dell’antisemitismo e un acerrimo nemico della democrazia. Ma Kamprad mi disse: lo considero un grande uomo e continuerò a farlo per tutta la vita».
Sarebbe stata la nonna di Ingvar, Fanny Kamprad, originaria dei Sudeti, a destare nel futuro fondatore del colosso mondiale Ikea l’ammirazione per Adolf Hitler, che aveva restituito alla Germania la sua terra natale, ridando ordine al Paese.
Kamprad ricorda che in casa della nonna giungevano riviste eleganti a colori che, sotto la regia di Joseph Goebbels, illustravano i miracoli del nazismo.
L’impegno politico fra i 15 e i 26 anni viene definito dallo stesso Kamprad «un peccato di gioventù» e qui in Svezia sono in tanti a dire che la ragione della «persecuzione» di Kamprad affonderebbe le radici nel desiderio di mettersi in mostra da parte di giornalisti e scrittori e nell’invidia.
Contrariamente a quanto si è verificato in passato, quando si gettavano addosso ad Ingvar Kamprad accuse di ogni genere, l’Ikea si è trincerata dietro un «no comment» che suona stonato.
Bertil Torekull, che scrisse a suo tempo la biografia di Kamprad, dice: «Ingvar è per i massmedia svedesi un lecca-lecca che difficilmente si vuole lasciare. Ma non credo che queste nuove rivelazioni danneggeranno l’Ikea.
Quando il giornale Expressen svelò, verso la metà degli Anni Novanta, l’appartenenza di Kamprad al partito nazista, Ingvar inviò i suoi più alti funzionari a contattare la più importante lobby ebrea negli Stati Uniti, temendo un boicottaggio. Le sue scuse e la spiegazione che si trattava di un peccato di gioventù furono accettate e i suoi negozi non furono boicottati, non solo ma Ikea ha addirittura aperto un grande magazzino del mobile in Israele. Ma ho paura che certi personaggi che vogliono mettersi in mostra non lasceranno in pace Ingvar Kamprad finché egli sarà in vita».

Corriere della Sera 26.8.11
Duecento anni per riscrivere la Bibbia
«Il testo resta Sacro, ma ogni epoca ha moltiplicato gli errori. Noi li correggiamo»
di Francesco Battistini

GERUSALEMME — E Mosè disse: l'Altissimo disperse il genere umano «secondo il numero dei figli di Dio». Disse proprio così, nel Deuteronomio. Il numero dei figli di Dio. Ovvero tante divinità, non una sola. Un elemento di politeismo. Questo sembrano raccontarci oggi i Rotoli del Mar Morto, i più antichi manoscritti della Bibbia. Ma questo non ci tramandarono i masoreti, gli scribi che verso la fine del primo Millennio rilessero, ridiscussero, corressero il Vecchio Testamento. Si capisce: il politeismo era un concetto incompatibile, inaccettabile, insostenibile nel canto di Mosè. E allora, zac: invece d'interpretare, di dare una lettura teologica a quel passaggio, meglio tagliare, sbianchettare con un po' di monoteismo. E ricopiare in un altro modo: «Secondo il numero dei figli d'Israele», settanta come le nazioni del mondo, diventò la versione giunta fino a noi. Un ritocchino: «Come ne sono stati fatti parecchi — dice il biblista Rafael Zer della Hebrew University di Gerusalemme —. Per i credenti, la fonte della Bibbia è la profezia. E la sua sacralità rimane intatta. Ma noi studiosi non possiamo ignorare una cosa: che quelle parole sono state affidate agli esseri umani, sia pure su iniziativa e con l'accordo di Dio. E di passaggio in passaggio, gli errori ci sono stati e si sono moltiplicati...».
Una parola, la Parola. Sulla Bibbia si giura e si prega, nella Bibbia si spera e si crede. Ma quale Bibbia? Il Pentateuco Samaritano, la versione dei Settanta, la Vulgata, la Bibbia di Re Giacomo? Su uno dei più alti colli gerosolimitani, in una delle più grandi biblioteche del mondo, nella Hebrew University che fondarono Einstein e Freud, nel silenzio degli ulivi e al riparo da ogni curiosità — se chiedete al bidello dove si riuniscono, allarga le braccia e non sa dirvelo —, c'è un team di biblisti che da 53 anni ha l'ambizione di pubblicare l'ultima, definitiva, incontestabile stesura del Vecchio Testamento. «The Bible Project», l'Accademia della Bibbia. Decine d'esegeti, in gran parte ebrei, ma in consultazione costante coi colleghi delle università pontificie e di Friburgo. Riunioni mensili. Bollettini interni e totalmente riservati. La raccomandazione di non parlarne troppo in giro. Secondo un progetto tanto ambizioso quanto lento: in mezzo secolo sono usciti solo tre libri sui 24 della Bibbia ebraica (39 per i cristiani, che li contano in modo diverso), un quarto e un quinto sono imminenti. L'ultimo componente dell'originario comitato scientifico è morto poco tempo fa a 90 anni. E l'intera opera, si prevede, non finirà prima di due secoli: intorno al 2200, o giù di lì.
«È un lavoro enorme», spiega don Matteo Crimella, studioso milanese dell'Ecole Biblique vicina alla Porta di Damasco, che conosce il progetto: «Si riparte dal Codice di Aleppo, il più antico manoscritto masoretico, per offrire un testo critico con tutte le varianti possibili. La novità è che si tiene conto dei manoscritti di Qumran, facendo un salto di mille anni rispetto al Codice di Leningrado che è sempre stato la base di tutti gli studi. E si censisce, si compara il materiale disponibile in ogni parte del mondo». L'evoluzione della Parola attraverso i millenni.
Compulsando manoscritti ebraici, notazioni certosine, traduzioni greche, siriache, latine, copte, etiopi, papiri egiziani, edizioni veneziane cinquecentesche, testi pisani, amanuensi samaritani, rotoli in aramaico, perfino citazioni del Corano...
Picconando le certezze degli ultraortodossi che credono in una sola Parola divina, inalterata e inalterabile. Ogni pagina ha una riga di testo e una serie d'apparati: la traduzione alessandrina più antica, le lezioni basate sui testi del Mar Morto, le citazioni rabbiniche e del Talmud, le differenze di vocalizzazione, il commento. Facendo risaltare evoluzioni, correzioni, censure. Alcune volute, altre casuali. «Si sa che ogni testo biblico tramandato a mano o sotto dettatura non è mai uguale — spiega il professor Alexander Rofe, israeliano nato a Pisa, per quarant'anni docente della Hebrew University —. I testi del 400 a.C. erano come un imbuto rovesciato: per una parola che entrava, ne uscivano molte di più. Ma due secoli e mezzo dopo, accadde l'inverso. L'imbuto si rovesciò nell'altro verso. E nel Tempio qualcuno disse: ecco, questo è il testo ufficiale. Da lì, tutti i libri vennero corretti. E se un libro era molto divergente, non potendolo distruggere, lo si seppelliva. Fu in questo modo che si cominciò a riflettere sulla Sacra Scrittura, ma senza preservarla».
Una palingenesi di secoli. Così diventò la Bibbia. Dove a correzione s'aggiungeva correzione. Dove qualche setta ci metteva del suo. Dove i tardo-bizantini segnalarono le precisazioni ortografiche. Tanto che, verità ormai consolidata, il Vecchio Testamento che leggiamo oggi non è quello che leggevano in origine.
Nel Libro dei Proverbi, per esempio, quando una versione dice che il giusto è «saldo nella sua integrità», un'altra parla della «sua morte», introducendo un concetto d'aldilà caro ai Farisei: i due termini, molto simili, sono egualmente illustrati da «The Bible Project» con tutte le possibili interpretazioni. Altri casi? Il Libro di Geremia, hanno concluso i biblisti della Hebrew University recuperando frammenti qua e là, è più lungo d'almeno un settimo rispetto alla versione generalmente accolta. Con differenze non notevolissime, ma comunque differenze: alcuni versi, che riguardano una profezia sulla presa babilonese del Tempio, più che una profezia sembrano un'aggiunta successiva, a fatti compiuti.
L'Accademia della Bibbia di Gerusalemme non è sola. Progetti paralleli, e altrettanto autorevoli, procedono in Germania e a Oxford. Ma nessuno sembra avere la stessa pretesa di completezza e di monumentalità. «Di sicuro, siamo di fronte alla più estesa edizione critica del Vecchio Testamento mai tentata nella storia», certifica il professor David Marcus, del Seminario teologico ebraico di New York, sostenitore del progetto. Nel 1958, quando Michael Segal riunì per la prima volta il comitato di studi sulla collina della città sacra alle tre religioni, annunciò che «quello che stiamo facendo dev'essere nell'interesse di chiunque abbia interesse alla Bibbia». Nemmeno lui profetizzò tanta difficoltà e lentezza, anche se poteva immaginarlo: niente sarebbe stato facile, per recuperare gli antichi documenti. Mentre parlava, da Aleppo arrivò in Israele il famoso Codice su cui cominciare gli studi. Per miracolo, era stato salvato dall'incendio d'una sinagoga siriana. E di contrabbando, nascosto dentro un elettrodomestico e sotto uno strato di latticini, a riportarlo nel mondo dei biblisti era stato un messaggero che nessun Malachia o Isaia avrebbe mai profetizzato: un commerciante di formaggi.

ZeusNews 26.8.11
Regno Unito, psicofarmaci al posto degli analgesici
Sabotate migliaia di confezioni di Nurofen Plus: al loro posto c'è un antipsicotico

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Il Venerdì di Repubblica n. 1223 26.8.11
Lui, lui, lei
Cronenberg
Vi racconto quando Freud e Jung persero la testa
di Mario Serenellini

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