domenica 31 luglio 2011

l’Unità 31.7.11
La parola uguaglianza
La fiducia può tornare solo riducendo le diseguaglianze
Tre anni perduti a dire che l’Italia stava meglio degli altri paesi mentre si era incapaci di affrontare la crisi economica Bisogna ricominciare dagli investimenti, dall’occupazione, dai redditi
di Susanna Camusso


Tre anni persi alle spalle. Tre anni passati a raccontare che la crisi non c'era e poi che era finita. Tre anni nel corso dei quali il governo si è vantato del rigore dei conti come unica ricetta per affrontare la crisi. Per non rammentare quando si affermava che l’Italia stava meglio degli altri paesi europei e che non c’era bisogno di alcuna manovra di aggiustamento. Già queste sono ragioni per dire che il governo è stato ed è un fattore di aggravamento della condizione e di certo non artefice di soluzioni. Non si è dimostrato capace, infatti, di capire la situazione e non solo di agire. Per questo motivo serve aprire subito una fase politica nuova, con un governo che sia in grado di fare il proprio mestiere e di rilanciare il Paese.
All’inizio la Cgil è rimasta sola a sollevare queste critiche al governo Berlusconi. Ognuno guardava a sé e non al paese. Cercava una qualche utiità privata o corporativa nelle pieghe dei provvedimenti e non pensava all’effetto finale e depressivo dei tagli. Mentre altri non avevano il coraggio di prendere le distanze da un governo che a lungo li aveva considerati interlocutori privilegiati. Ci sono voluti la speculazione finanziaria, l’attacco all’euro e il rischio default americano per rendere palese a tutti che una manovra che non avvia la crescita è non solo socialmente ingiusta ma anche economicamente inefficace.
Di fronte a questa situazione ci vuole un energico e immediato salto di qualità nella politica economico-finanziaria e reale insieme. Il paese deve tornare rapidamente a crescere e utilizzare le sue migliori risorse siano esse professionali e produttive, di conoscenza e di competenza altrimenti il declino sarà inarrestabile e saremo travolti da un decennio recessivo che ci porterà, manovra dopo manovra, ai margini dell’Europa. Crescere significa favorire gli investimenti privati e l’occupazione: la buona occupazione dei giovani che oggi sono tenuti fuori dal mercato del lavoro da un’assurda politica di «precarizzazione a vita» fatta dal governo. La crescita come obiettivo interno al riaggiustamento dei conti, investendo sui fattori strategici di sviluppo. Non la politica dei due tempi: il riequilibrio senza crescita non ci sarà. Queste le riflessioni della Cgil e le riflessioni anche di molte delle parti imprenditoriali che hanno firmato l’appello per la crescita, pur avendo, ciascuno dei firmatari, una propria agenda poltica.
Agire subito per rilanciare l’occupazione, gli investimenti e i consumi significa per noi difendere i redditi dei lavoratori, dei pensionati e delle famiglie; significa ridurre le disuguaglianze e ridare fiducia al Paese. Le prime reazioni del governo non fanno sperare nulla di buono: l’unica risposta per adesso è la riproposizione di provvedimenti legislativi come il 'processo lungo', quasi come se i problemi del paese reale fossero un oggetto da rimuovere. La Cgil ritiene prima di tutto che si debba correggere la manovra Tremonti. Tenendo fermi i saldi, è possibile agire su voci diverse da quelle scelte dal Governo, in modo da non colpire chi è economicamente più debole, lasciando margini di spesa sul welfare alle Regioni e ai Comuni e reperire risorse per la crescita. Dimostreremo che è possibile farlo senza mettere in ginocchio nessuno ma chiedendo un contributo a tutti gli strati sociali, a partire da chi ha di più. Bisogna risparmiare sulla spesa pubblica, riorganizzando e semplificando la struttura amministrativa istituzionale: consorzi "obbligati" dei comuni piccoli, reti dei servizi e delle municipalizzate, abolizione delle società inutili. In questo quadro anche i costi della politica si possono ridurre a partire dai previlegi.
Bisogna ridare unità al Paese, tradurre in investimenti effettivi le risorse nazionali ed europee che ci sono, a partire dall'alta capacità Napoli-Bari e dal collegamento via mare e via rotaia tra i porti.
Le altre sfide
Legalità, evasione, precarietà, corruzione: metteremo in campo un’altra idea di governo
Legalità, evasione e corruzione sono un altro grande capitolo che va affrontato con una legge contro il caporalato, con norme sugli appalti, con la tracciabilità a soglia molto bassa, con nomine non politiche nella sanità e nei vari enti. Sono tutte strade per far emergere la grande quota di sommerso del nostro paese.
Metteremo in campo un’altra proposta, un’altra idea di governo dell'economia che sarà alla base di una mobilitazione che continuerà in autunno, perché siamo convinti che la manovra è ingiusta, sbagliata e socialmente insopportabile. Chiederemo a Cisl e Uil di mobilitarci insieme, lo proporremo alle altre parti sociali, alle Regioni e alle amministrazioni locali. Con loro vorremmo definire e concordare una piattaforma per la crescita del paese e la valorizzazione del lavoro. Un progetto e un futuro che l'Italia merita di avere.

l’Unità 31.7.11
Intervista a Massimo D’Alema
«È il fallimento del governo Berlusconi non della politica»
Il presidente di Italianieuropei «La destra organizza una campagna contro il Pd ma il nostro problema è l’egoismo titanico del premier Faccia come Zapatero, che ha mostrato responsabilità verso il suo Paese»
di Francesco Cundari

Il problema, dice Massimo D'Alema, non è la «casta», ma Berlusconi. Silvio Berlusconi e il suo «egoismo titanico». Un presidente del Consiglio concentrato solo «sui suoi problemi giudiziari e le sue leggine ad personam», che per nascondere le sue responsabilità nella crisi «aizza campagne contro la politica in generale e contro di noi in particolare». In che senso?
«Nel senso che se il problema è l’assistenza sanitaria per il deputato, meglio affidarsi all’unico che di sicuro non ne ha bisogno. È la filosofia illustrata da Giulio Tremonti: non rubo perché non ne ho bisogno. Dunque, per combattere la “casta” e avere una politica pulita, dovremmo affidarci ai ricchi. Una tesi antica, e discutibile anche nel merito: la storia dimostra che i ricchi rubano molto più dei poveri, perché hanno più esigenze. Ma ovviamente non è questo il punto». E qual è?
«Il punto è che il centrodestra prima boccia in Parlamento le nostre proposte per tagliare costi e privilegi, come il vitalizio. E poi, sui suoi giornali, guida le campagne contro la “casta”. E contro il Pd».
Le inchieste che hanno coinvolto esponenti del Pd come Filippo Penati, però, non sono un'invezione dei giornali. «Prima di tutto vorrei dire che noi non sottovalutiamo affatto il pericolo che un grande partito che ha responsabilità amministrative e di governo possa imbattersi in episodi di corruzione. E non rivendichiamo, ormai da tantissimi anni, una diversità genetica. Riteniamo che la politica debba avere delle regole, rispettare i magistrati e il loro lavoro, e abbiamo detto che non abbiamo nulla da nascondere e nessuno da proteggere. Le persone oggetto di gravi accuse facciano un passo indietro».
Il quadro che emerge dai giornali è preoccupante, non crede? «Si tratta di vicende che se venissero confermate anche solo in parte sarebbero molto gravi. Ma anche qui ci sono aspetti poco chiari, che suscitano almeno due domande. La prima è perché mai, trattandosi di vicende risalenti a molti anni fa, il principale accusatore di Penati non abbia usato quelle informazioni in campagna elettorale, quando si candidò con il centrodestra».
E la seconda?
«La seconda è dove sia finito questo fiume di denaro. Si parla di 20 miliardi di lire dell’epoca. Un’epoca in cui ricordo bene quali fossero le difficoltà economiche del partito milanese. Tanto che si dovette vendere la sede di via Volturno».
L’altro caso al centro delle polemiche è quello del senatore Tedesco, che dal punto di vista politico viene imputato soprattutto a lei.
«È naturale. Non appena qualcuno ha dei guai con la giustizia, subito la stampa lo battezza come “dalemiano”. A quel punto, l’unica speranza che ha di riprendere il suo nome è di essere assolto. Solo allora riacquista la sua identità».
Dunque, il problema non esiste?
«Il problema nasce dall’estrema scorrettezza del Pdl, che ha rifiutato di concedere autorizzazione all’arresto e voto palese in aula, nonostante a chiederli fosse lo stesso Tedesco, e ha rifiutato perché pensava così di crearci un problema. Purtroppo, aveva ragione. Infatti le responsabilità della destra sono subito scomparse dalla scena».
Al di là del voto parlamentare, non ritiene di avere avuto nella vicenda Tedesco qualche responsabilità? «No, l’idea del complotto dalemiano su Tedesco è ridicola. Figuriamoci cosa si sarebbe detto se fossi stato io il presidente della Regione che lo ha nominato assessore alla Sanità. Avrebbero crocifisso me e tutto il Pd. Ricordo peraltro che Tedesco era in quel momento leader di un altro partito, aveva molti voti e il suo passaggio con il centrosinistra fu determinante per la vittoria di Vendola».
Al Pd si rimprovera di averlo portato in Parlamento, mandando in Europa Paolo De Castro... «Forse qualcuno dovrebbe ricordare che Paolo De Castro è presidente della Commissione agricoltura del Parlamento europeo. È forse la posizione più importante che abbia un italiano in Europa. L’idea che sia stato candidato non per sue qualità, ma per fare entrare Tedesco in Senato, è ridicola».
A proposito di questione morale, in tutte le vicende di questi mesi, che hanno toccato anche la sua fondazione, non ritiene di avere nulla da rimproverarsi?
«Il mio errore riguarda il fatto di avere lasciato che per un anno Vincenzo Morichini raccogliesse fondi per la fondazione Italianieuropei, cosa del tutto lecita e documentata nel modo più trasparente. Ma la sovrapposizione con le attività private di Morichini ha creato evidentemente un conflitto di interessi che avremmo dovuto evitare, prevenendo ogni possibile rischio del genere. Ecco quel che mi rimprovero. Ma questo non giustifica la campagna inaccettabile scatenata contro di noi in particolare dai giornali che sono direttamente o indirettamente riconducibili al presidente del Consiglio, un pulpito da cui davvero non si possono accettare lezioni sulla questione morale».
Non teme che la campagna faccia presa sull’elettorato? «Gli italiani vogliono un’altra politica e lo dimostrano i sondaggi di questi giorni: nonostante tutte le polemiche, il Pd non registra il minimo calo. L’idea di cancellare la politica e di affidarsi al partito-impresa di un miliardario gli italiani l’hanno già sperimentata e gli effetti si vedono».
Alcuni dicono che se lo stato intervenisse di meno nell’economia si correrebbero meno rischi. Che ne pensa? «Siamo stati noi che abbiamo privatizzato e liberalizzato, non certo la destra. Tuttavia il vero grande problema che non solo in Italia ma nel mondo ci troviamo di fronte con la crisi è proprio quello di tornare a un primato della politica sull’economia. Il dominio della finanza e del mercato senza regole, cioè senza la politica, è stato all’origine della crisi di oggi e ha contribuito anche a produrre una caduta di tensione ideale ed etica. Non si esce dal berlusconismo sulle macerie del sistema democratico e dei partiti, ma al contrario rigenerandolo e dando a esso una nuova legittimazione nel rapporto con il Paese». Come?
«Tutti dovrebbero capire che Berlusconi porta alla rovina. Non soltanto l’economia italiana, ma anche il sistema democratico. Zapatero mostra senso di responsabilità di fronte al destino del suo Paese, capendo che un governo senza consenso non può affrontare la crisi. Berlusconi, invece, non ha il minimo senso dello stato e si occupa solo degli interessi suoi, non del destino dell’Italia. Credo che anche nella destra ci sia chi comincia a capirlo. Si facciano coraggio, prima che sia tardi. Noi siamo pronti a prenderci le nostre responsabilità».

l’Unità 31.7.11
Intervista a Desmond Tutu
«La fame non è un fenomeno naturale. La colpa è dei governi»
Il premio Nobel: nel Corno d’Africa i più deboli e i bambini rischiano di morire «L’impegno dei volontari non basta, i Paesi più ricchi devono muoversi»
di Umberto De Giovannangeli


Un «Grande d’Africa» alza la sua voce per «quelli che non hanno più la forza per farlo»: le «sorelle e i fratelli della Somalia e del Corno d’Africa, i più indifesi tra gli indifesi». Alza la voce per lanciare un appello accorato alla Comunità internazionale perché agisca subito, «con determinazione e generosità» per salvare milioni di vite umane messe a rischio dalla carestia che sta segnando la regione dopo due anni di siccità. A parlare è Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace nel 1984, Arcivescovo benemerito della Chiesa anglicana a Città del Capo, eroe, assieme al suo amico di una vita Nelson Mandela, della lotta contro il regime dell’apartheid in Sud Africa. Vorrei poter dare un nome e un volto al mezzo milione di bambini che nel Corno d’Africa rischiano di morire di fame dice Desmond Tutu Ogni giorno, mentre noi stiamo parlando, nella sola Mogadiscio muoiono 6-7 bambini. Ognuno di loro è una entità unica, irripetibile. Non sono numeri, sono esseri umani». Il Nobel per la Pace è tra le personalità mondiali che hanno aderito alla campagna lanciata a giugno da Oxfam : COLTIVA. Il cibo. La vita. Il pianeta». Nello scritto che ha accompagnato la sua adesione, Desmond Tutu concludeva così: «Naturalmente molti governi e imprese opporranno resistenza al cambiamento delle loro modalità operative, delle loro abitudini, delle loro ideologie e del loro modo di perseguire il profitto. Dipenderà pertanto da noi – da voi, da me – convincerli, scegliendo alimenti che sono prodotti in modo corretto e sostenibile, riducendo al massimo la nostra impronta di anidride carbonica, schierandoci con Oxfam e pretendendo che le cose cambino. Non sarà facile. Ma non è mai valsa la pena lottare per niente di più importante». Un impegno tanto più vitale oggi, a fronte della caastrofe umanitaria in atto in Somalia e nel Corno d’Africa. «In tutto il pianeta ricorda l’Arcivescovo anglicano sono circa un miliardo gli uomini, le donne e i bambini che anche questa notte andranno a dormire affamati. Malgrado tutto, l’esperienza di tutta una vita mi ha insegnato che non esiste problema così grande da essere insolubile, né ingiustizia così radicata da non poter essere estirpata. E tra queste vi è la fame».
Le notizie che giungono dalla Somalia si fanno sempre più drammatiche. C’è chi parla della più grave catastrofe umanitaria oggi al mondo... «Purtroppo è così. Nonostante l’impegno generoso, eroico, dei volontari delle Ong internazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite, la situazione rimane gravissima. A rischio è la vita di nove-undici milioni di esseri umani. E a rendere ancor più devastante la situazione è il costo dei generi alimentari, del carburante, e i conflitti regionali che segnano l’area. Il mondo non può chiudere gli occhi di fronte a questa immane tragedia. Nessuno può dire: non sapevo, non potevo”. A cominciare dai Grandi della Terra. E’ a loro che mi rivolgo in primo luogo, ai Paesi ricchi che altre volte in passato hanno dato prova di generosità. A loro dico: Ricordate l’Africa!. L’Onu ha valutato che occorrono 1,4 miliardi di dollari per far fronte alla più stretta emergenza. Cosa sono, chiedo, di fronte al denaro delapidato in armamenti...Usare il denaro per salvare vite e non per spezzarle: quale miglior uso...Un appello sento di doverlo rivolgere anche alle nazioni dell’Africa: non indietreggiate. Diamo il buon esempio. Costituiamo la linea più avanzata di attenzione per i nostri fratelli, le nostre sorelle, i nostri bambini e parenti che si trovano in queste terribili difficoltà. Dimostriamo di essere uniti nella solidarietà, ciò ci renderà più forti e autorevoli nel mondo. La malnutrizione è diffusa a Mogadiscio, in una vasta area del centro e nel nord della Somalia, e tra i profughi somali che hanno attraversato i confini del Kenya, spesso a piedi, a centinaia di migliaia. Per tutti loro speranza significa vivere. Spetta a ognuno di noi garantirla. Fare appello ai potenti della Terra non significa in alcun modo delegare un impegno che deve riguardare ciascuno di noi. E’ un concetto a me caro, che ripeto spesso a quanti hanno la pazienza di ascoltarmi: fai la tua piccola parte di bene dove ti trovi; sono queste piccole parti di bene messe insieme che riempiono il mondo».
Quando si parla di carestia, di emergenza-fame spesso si fa riferimento a “catastrofi naturali”... «Non sono d’accordo. La fame non è un fenomeno naturale, bensì una tragedia provocata dall’uomo. Non si ha fame perché non c’è abbastanza da mangiare, ma perché i meccanismi che trasportano i generi alimentari dai campi alla tavola non funzionano bene. I nostri governi dovrebbero addossarsene la responsabilità. Le loro politiche di governo e di amministrazione stanno favorendo un sistema fallito che offre benefici a poche industrie potenti e pochi gruppi di interesse a discapito di molti. Hanno speso miliardi di dollari per il settore dei biocombustibili e per i coltivatori a nord, ma hanno abbandonato 500 milioni di piccoli coltivatori che messi insieme sfamano però un terzo del genere umano. I governi, soprattutto quelli dei potenti Paesi del G-20, devono dare il via alla trasformazione, devono investire nei produttori poveri e assicurare loro il sostegno di cui necessitano per adattarsi al cambiamento del clima. No, la fame non è davvero un «fenomeno naturale».
I primi ad essere colpiti sono i più deboli tra i deboli: i bambini. «È sempre così. Vorrei poter dare un nome e un volto al mezzo milione di bambini che nel Corno d’Africa rischiano di morire di fame. Ogni giorno, mentre noi stiamo parlando, nella sola Mogadiscio muoiono 6-7 bambini. Ognuno di loro è una entità unica, irripetibile. Non sono numeri, sono esseri umani. Di fronte agli appelli lanciati dalle agenzie Onu, dalle organizzazioni umanitarie, in molti, tra i potenti, rispondono facendo promesse. Una promessa fatta ai poveri è particolarmente sacra.
È un atto di grazia e di grande autorità quando vengono fatti tutti gli sforzi per onorare questi patti. A volte, però, queste promesse restano tali. Ciò non deve accadere in questo terribile frangente. Una promessa fatta a un povero è particolarmente sacra. Non mantenerla è un peccato».

il Fatto 31.7.11
Silenzio d’interessi
Nichi non parla Tedesco
di m.trav.


Diversamente da D’Alema, Bersani e perfino Tremonti, Vendola non risponde alle domande scomode. Mercoledì a ilfattoquotidia  no.it   Alberto Tedesco rivela che fu Vendola nel 2006 a proporgli l’assessorato alla Sanità. Tedesco chiese un’altra delega, visto che la sua famiglia ha aziende sanitarie. Ma Vendola fu irremovibile, in barba al conflitto d’interessi. Chiediamo spiegazioni alla sua portavoce: invano. Un cronista le chiede direttamente a Vendola in un incontro ad Amalfi. Nisba: “Su Tedesco non rispondo, parliamo di Milanese”. Ma con Milanese Vendola non c’entra. C’entra con Tedesco, infatti non ne parla. Preferisce dare interviste compiacenti a Panorama e GQ. Ecco perché il centrosinistra se n’è sempre infischiato del conflitto d’interessi di B: per non dover risolvere i propri.

Corriere della Sera 31.7.11
Neonati rubati alle madri Il Dna smaschera i finti genitori spagnoli
Dagli anni 50 a oggi sono 300 mila i bebè sottratti
di Elisabetta Rosaspina


A 59 anni, Mabel è una bambina di 2. Una bambina rubata. Ne aveva 57 quando scoprì ciò che sospettava fin da piccola: la mamma non era la sua mamma. Il papà, un militare franchista mutilato nella battaglia dell’Ebro, non era il suo papà. Sì, l’avevano allevata e amata come una figlia, la loro unica figlia. E lei continuerebbe a considerarsi tale, se le avessero detto in tempo la verità, o almeno una parte della verità. La più confessabile. Adesso è troppo tardi. Sono morti entrambi: non possono più spiegarle le ragioni dell’inganno che il test del Dna ha appena smascherato. Le rimangono soltanto domande senza risposta e una foto, la foto della menzogna: i suoi giovani, felici genitori con in braccio un neonato. Che non è Mabel. Chi ci pensava, allora, che una goccia di saliva sarebbe bastata, 60 anni dopo, a smentire ineccepibili certificati di nascita, bollati e protocollati? Il 10 marzo del 1952, giorno in cui Mabel Escuer probabilmente fu messa al mondo, quasi certamente a Madrid, ma di sicuro da una donna diversa da quella che ha chiamato mamma fino alla morte, la Spagna era da 13 anni sotto il tallone di Francisco Franco. Le carceri erano ancora piene di prigionieri politici; e tra il 1944 e il 1954, secondo le indagini condotte nel 2008 sui crimini della dittatura dall’ormai ex giudice della Audiencia Nacional Baltasar Garzón, la popolazione negli orfanotrofi era passata da 12.042 bambini a 30.960. I genitori erano morti, scomparsi, deportati o detenuti. Spettava allo Stato, o più spesso alla Chiesa, trovare per loro famiglie moralmente e politicamente adeguate, avendo cura di cancellare ogni legame con le loro origini. Oltre mezzo secolo più tardi, la Spagna scopre, con angosciato ma relativo stupore, che questa pratica è andata avanti per tutti gli anni 60, 70, 80, ben dopo la morte di Franco, l’inizio della transizione verso la democrazia e la promulgazione di una legge statale sull’adozione, nel 1987. È andata avanti ancora negli anni 90, sporadicamente, e forse addirittura fino a un paio di anni fa. Sempre meno per ragioni politiche e morali, sempre più per denaro: e i bambini dovevano essere ancora in fasce. Statistiche meno attendibili di quelle giudiziarie ipotizzano che 300 mila bebè siano stati sottratti alle madri biologiche. Ricorrono nomi di ginecologi, monache e funzionari implicati nei casi che continuano a emergere: 160 già in mano alla magistratura su 850 denunce presentate. Il settimanale Interviù ha ritrovato nel suo archivio la foto di un ripostiglio della clinica San Ramon di Madrid con il cadavere di una neonata, che si suppone venisse mostrata alla puerpera di turno, per convincerla che la sua era morta davvero. L’immagine fu pubblicata nel 1982, senza conseguenze. Esattamente 30 anni prima, sospetta Mabel, anche lei fu creduta morta da una donna che uscì dalla Maternità O’ Donnell di Madrid senza la sua bambina. «Per me era stato deciso un destino diverso — racconta — ero la bimba di ricambio per una coppia, i miei genitori ufficiali, che ne avevano comprata un’altra, dopo che la loro era improvvisamente deceduta la settimana prima. Come si sostituisce un capo difettoso ai grandi magazzini» . Peggio di quanto potesse immaginare: «A 14 anni trovai questa foto — mostra i suoi genitori, all’uscita di una chiesa, raggianti con il loro bebè in braccio —. "Chi è?", chiesi a mia madre. "Tu, chi altri?", mi rispose. Fu il suo errore» . Dietro la foto c'era un timbro, «Foto F. Minguez, calle Hermanos del Moral 3, Madrid» e una data, «28 settembre 1951» . Mabel rintracciò il fotografo, che escluse di aver sbagliato anno: «Eppure io quel giorno non ero ancora nata» . Non bastò a far cambiare verità a sua madre, morta 25 anni fa continuando a sostenere di averla partorita lei. Mabel chiese un certificato di nascita integrale e si tranquillizzò: risultava legittima. — si sposò, mise al mondo due figlie, si trasferì in Cile e, due anni fa, guardando alla tivù un servizio sui primi casi di «vite rubate» , tornò a macerarsi. Telefonò al figlio della sua madrina e finalmente ottenne la prima ammissione: sei stata adottata. Dunque il certificato di nascita era falso. La verità completa la seppe dall’unica vicina, oggi 86enne, che abita ancora nel palazzo dove Mabel visse i primi mesi e che vide l’andirivieni di bebè in braccio ai suoi genitori: «C’era un solo programma televisivo proibito in casa — si spiega finalmente— Quien sabe donde» , il Chi l’ha visto spagnolo. Ora Mabel aspetta con impazienza il venerdì, ma non per una trasmissione: è il giorno settimanale della lotteria genetica per i soci di Anadir, uno dei tre gruppi di genitori, fratelli, figli rubati o derubati: arrivano i risultati dell’incrocio dei prelievi di Dna tra vecchi e nuovi iscritti: 1.800 in 3 anni. I casi di figli e madri, o fratelli, che si sono ritrovati però non arrivano a cinque. Sandra Mateo Valverde, 33 anni, aspetta di conoscere suo fratello maggiore, via laboratorio o via internet: «Le date non tornano, niente torna nei documenti che ho consultato— rovescia sul tavolo un pacco di fotocopie —. Juan Carlos nacque in ospedale, a Madrid, alle 5.30 del 17 maggio 1975, dormì sul petto di mia madre per 6 ore, poi entrò una signora delle pulizie, neanche un’infermiera, disse che il bimbo non stava bene e se lo portò via. Alle 21.30 un medico informò mia madre che era morto, asfissiato dal cordone ombelicale. Sei ore dopo la nascita? E perché viene registrato come un feto, risultato di un aborto spontaneo? E perché non le permisero di vederlo?» . Le coordinate della sepoltura portano al cimitero dell’Almudena, ma non risolvono i dubbi: il corpicino, se mai c’è stato, è finito poi in un ossario e infine all’inceneritore. «Magari mio fratello è davvero lì, ma a Cadice sono già state aperte alcune tombe e nelle bare sono stati trovati solo involucri di garze e stracci. Io voglio sapere» . Ma soprattutto vorrebbe che il telefono squillasse, uno dei prossimi venerdì.

Corriere della Sera 31.7.11
Generazione «Pugni in tasca» Così Morandi rifiutò la parte
Bellocchio: vinse il Cantagiro e perse il ruolo poi di Castel
di  Giuseppina Manin


MILANO — Certo, se Gianni non avesse vinto quel Cantagiro... Se Morandi avesse detto sì a Bellocchio... Se il 19enne Gianni e il 25enne Marco avessero giocato insieme la scommessa folle che fu I pugni in tasca... Certo, la storia, neanche quella del cinema, non si fa con i «se» . Eppure incuriosisce immaginare che film sarebbe venuto fuori con il solare ragazzo di Monghidoro al posto del tenebroso Lou Castel, l’eversivo Ale protagonista di una pellicola da quasi mezzo secolo (è del 1965) inscalfibile alle grinze del tempo, la cui carica eversiva resta pietra di paragone di tutte generazioni successive. «Se Gianni avesse accettato forse avrei modificato il copione— ipotizza ora il regista, memore di quel primo set straordinario nella sua Bobbio, tra le mura di famiglia amate e detestate —. Morandi era un ragazzo semplice, un volto interessante e un bel sorriso. Con lui Ale avrebbe avuto un’altra anima» . Risvolti segreti oggi svelati da un libro, Il cinema in rivolta -Marco Bellocchio e i pugni in tasca di Mauro Molinaroli (Dalai editore) che stasera sarà presentato a Bobbio, al bel Festival guidato da Bellocchio, prossimo Leone alla carriera alla Mostra di Venezia. Quanto a Morandi, la tentazione fu forte. «Tutti mi sconsigliavano — ricorda —. Era un ruolo opposto al mio personaggio di quegli anni, ma volevo interpretarlo a tutti i costi» . A mettersi di mezzo fu Franco Migliacci, suo paroliere. Appena seppe di che si trattava, sbottò: «Un figlio che ammazza la madre? Follia pura» . Quel bravo ragazzo adorato dalle mamme d’Italia, quello che va a prendere il latte, che spinge nel burrone la mamma cieca? «Legionetti, il mio scopritore, fu anche più esplicito— aggiunge Morandi —. Se lo fai ti spezzo le gambe, mi disse» . A sbaragliare le ultime esitazioni arrivò «Se non avessi più te» . Fortunata canzone con cui Gianni nel 1965 vinse il Cantagiro. La sua carriera canora era decollata, non poteva permettersi deviazioni di sorta. Ma la provvidenza del cinema lavora dietro lo schermo. Poco dopo Bellocchio si imbatte in un altro giovane: bello, cupo, silenzioso. Lou Castel, colombiano, aspirante regista. Gli fa un provino, e a un tratto lui esplode in una risata. Isterica, ai limiti della follia. Dissonante come le musiche che scriverà per il film Ennio Morricone. «Perfetto per la parte — considera Bellocchio — Lou ha dato vita a un Ale nevrotico, molto criminale e allo stesso tempo molto tenero e dolce» . Combinazione esplosiva. «Un film dinamitardo— lo definisce Carlo Verdone, in questi giorni al lavoro al suo nuovo Posti in piedi in Paradiso —. La prima volta che lo vidi avevo 15 anni: restai turbato. Quel film da un lato distruggeva il mito degli anni 60, per me il periodo più bello e sereno, e dall’altro anticipava rabbia e malesseri del ’ 68 e oltre. Ale è una sorta di prototerrorista, uno che fa fuori la madre e il fratello in nome dell’ideologia, un anarchico del sesso, incestuoso con la sorella. Intollerabile perché, in qualche modo, ti riconoscevi. Non volevamo finire così. Siamo finiti così» . Un film coraggiosamente sgradevole che oggi, sostiene, nessuno produrrebbe più. «Il nostro cinema sta vivendo un momento di grande decadenza. Lo dico io che faccio la commedia. Genere nobilissimo, ma a patto di metterci l’anima, di tentare di far passare con un sorriso messaggi scomodi, fuori dalle righe» . Più giovane di qualche generazione, Andrea Molaioli, 46 anni, stasera a Bobbio con il suo film più recente Il gioiellino. «I Pugni di Marco io li ho scoperti molti anni dopo, una sera in tv...— racconta —. Non potevo credere che fosse un film d’esordio. Così maturo e profondo, capace di raccontare attraverso dinamiche interpersonali i mali nascosti di un’intera società. Una lezione di cinema che ho cercato di seguire anch’io» . Tra i segreti di quel film anche un titolo di straordinaria capacità evocativa. «Un manifesto per tutti i ribelli che, da lì in poi, sarebbero venuti — conclude Molaioli —. Capace di condensare eroici furori e malinconiche frustrazioni» . Un titolo che cita un verso di Rimbaud, poeta maledetto, allucinato, morto giovane: «Me ne andavo con i pugni in tasca /E anche il mio cappotto diventava ideale» .

Repubblica 31.7.11
Quello che i creazionisti non dicono
Corrado Augias risponde a Fabio Della Pergola

Caro Augias, la scienza scopre che un bel numero di differenti specie umane hanno convissuto per migliaia di anni, addirittura incrociandosi fra diversi. Dal momento che i creazionisti affermano che l'uomo è stato creato a immagine di Dio, gli altri tipi di ominidi come li spieghiamo? Diverse immagini divine o diverse divinità? I sostenitori di un "disegno intelligente" potranno sostenere che anche i diversi tipi di ominidi erano stati programmati? Scendendo terra terra, i leghisti come spiegheranno che tra "diversi" ci si incrocia tranquillamente e presumo con passione senza che, per questo, l'umanità ne soffra? La razza umana è una sola, le culture e le tradizioni sono tante, gli scambi e gli incroci portano bellezza e arricchimento. Poi ci sono alcuni religiosi tradizionalisti e combattenti conservatori che odiano tutto questo. Come in Norvegia, dove i termini "malattia mentale" e "fondamentalismo" sono sembrati tragicamente coincidere.
Fabio Della Pergola

C' è un bel libro sull'argomento sollevato dal signor Della Pergola: La vita inaspettata di Telmo Pievani (Filosofia della Scienza, Milano-Bicocca) pubblicato da Raffaello Cortina. Pievani descrive «un'evoluzione che non ci aveva previsto», cioè una serie di casualità, contingenze, biforcazioni che rendono la storia umana complessa e casuale. Per esempio, nel 2008 in Siberia sono stati trovati i resti fossili di un nostro antenato fino a quel momento sconosciuto, l'homo di Denisova. Il tempo profondo, scrive Pievani, è «pieno di ipotesi di vite alternative che hanno fallito per ragioni forse non sempre connesse a una loro inadeguatezza». Vale anche per gli ominidi: «In almeno una fase della nostra storia evolutiva ci siamo ritrovati in pochi: bande sparse di ominini, mobili e intraprendenti, ma con numeri che oggi rasenterebbero il rischio estinzione». Avremmo dunque potuto non esserci, così come avrebbe potuto esserci una specie molto diversa dalla nostra. Gli hominina sono passati per sperimentazioni adattative durate milioni di anni nelle quali è difficile «rintracciare una qualche tendenza inevitabile, una direzione una traiettoria privilegiata, una freccia del tempo». Siamo invece «figli contingenti di "sola storia", cioè di una sequenza di eventi irripetibili e generosi». Quanto al "disegno intelligente" basta leggere come le vespe per assicurare la sopravvivenza delle loro uova, le iniettino nel ventre di un bruco dopo averlo temporaneamente paralizzato con una puntura. Al dischiudersi, i "neonati" divorano il bruco dall'interno senza ucciderlo, portandolo lentamente ad una morte atroce. Se c'è un "disegno intelligente", s'è scritto, è quello di un sadico.

il Riformista 31.7.11
A Termini Imerese la tragedia di un operaio Fiat

Da quando il Lingotto ha annunciato la chiusura dello stabilimento, aumentati depressioni ed uso di psicofarmaci
di Mariella Magazù
qui

il Riformista 31.7.11
L’operaio che si uccide per 55 euro
di Emanuele Macaluso

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sabato 30 luglio 2011

l’Unità 30.7.11
La lezione di Berlinguer e la riforma della politica
L’intervista sulla «questione morale» ci lancia tre sfide: intransigenza etica, no all’occupazione dello Stato e cambiamento delle istituzioni
di Giorgio Tonini

Èun bene che si sia riaperto il confronto sulla storica e insieme attualissima riflessione politica, proposta trent'anni fa da Enrico Berlinguer, nella famosa intervista a "La Repubblica" sulla "questione morale". Berlinguer chiedeva di mettere in campo una diversa cultura politica, una nuova concezione del rapporto tra politica e istituzioni. Non più finalizzato alla gestione, che diventa occupazione, delle istituzioni e alla spartizione delle loro spoglie da parte dei partiti, ma orientato al governo della cosa pubblica, alla sua continua riforma, nell'interesse dei cittadini.
Tutto è cambiato, intorno a noi, da quel 28 luglio del 1981. Ma questo problema resta tragicamente irrisolto. E se sta montando, tra i cittadini, tra i nostri stessi elettori e militanti, una nuova ondata di anti-politica, è perché la politica appare ancora troppo prepotente nell'occupare le istituzioni e invece impotente, incapace, svogliata nel farle funzionare bene. Del resto, la politica, in tutto il mondo e in Europa in misura particolare, fa sempre più fatica non dirò a governare, ma perfino a orientare, a influenzare il mercato. Per tante ragioni, a cominciare dalla dimensione ancora angustamente nazionale nella quale si muove, mentre la formidabile potenza, spesso davvero irrefrenabile, dell' economia e della finanza, non conosce più altri confini che quelli globali.
E tuttavia, in Italia come nei principali paesi europei, circa metà del reddito nazionale è a vario modo gestito dal sistema pubblico e quindi dipende, per la sua efficienza economica e per la sua qualità sociale, dalla politica. La quale, in questo ambito, limitato certo, ma comunque enorme e strategico, è la principale responsabile dell'impiego delle risorse.
Quando allora, come avviene in Italia, la spesa pubblica non fa, almeno a livelli accettabili, né efficienza economica, aiutando il paese a stare con successo nella competizione sui mercati, né uguaglianza sociale, garantendo a tutti i cittadini uno zoccolo alto di diritti e pari opportunità, non c'è da stupirsi se la politica finisce sul banco degli imputati. Tanto più se, come è avvenuto in Italia dal 1994 ad oggi, a differenza di quanto si potesse dire trent'anni fa, entrambi gli schieramenti politici si sono alternati alla guida del paese.
Sarebbe improprio cercare, nelle parole pronunciate da Berlinguer trent'anni fa, una risposta alla crisi politica di oggi. Eppure, quell'intervista, a leggerla bene, ci propone tre stelle fisse, dalle quali difficilmente si potrà prescindere, per ricostruire la credibilità della politica..
La prima è l'intransigenza morale, incarnata in un rigoroso rispetto del principio di legalità: "Essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell' amministrazionediceva Berlinguer bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera". Su questo piano, ha ragione Bersani nella bella lettera al "Corriere" di martedì scorso, la nostra impostazione è quella giusta: fiducia nella magistratura, presunzione d'innocenza, passo indietro da parte di chi è indagato, senza alcuna impunità.
La seconda stella fissa è il moto liberale contro quella che Berlinguer chiama la "occupazione dello stato da parte dei partiti e delle loro correnti". Su questo ancora non ci siamo. Per fare solo un esempio, al di là degli aspetti penali, sui quali giudicherà la magistratura, il senatore Tedesco non poteva e non doveva fare l'assessore alla sanità: perché era in conflitto d'interessi e perché rivendicava e rivendica tuttora il diritto a scegliere i primari, mentre non può, non deve essere la politica a farlo.
La terza stella fissa, come ha scritto giustamente Eugenio Scalfari, è il riformismo: stiamo al governo delle istituzioni per rinnovarle, non per gestirle come sono: vale per i bilanci di Camera e Senato, come per il sistema delle autonomie locali. Come stava scritto nel programma elettorale di Veltroni nel 2008, spendere meno e spendere meglio si può. Dunque si deve.

l’Unità 30.7.11
Risposta a Vacca
Le ingerenze vaticane non sono finite
di Giunio Luzzatto

Galli Della Loggia ha auspicato una “Nuova DC” che, finito Berlusconi, si contrapponga a destra al centro-sinistra guidato dal PD. Beppe Vacca (l’Unità del 28 luglio) replica citando le posizioni del Cardinale Bagnasco, Presidente della CEI, e ne deduce che “sembra improbabile che la Chiesa possa essere interessata a contrapporre una nuova DC al PD”. Tra le affermazioni riportate con molto favore, la seguente, riferita all’azione della Chiesa in Italia: “Troppo spesso si definisce ingerenza la semplice presenza, che disturba il fondamentalismo laico”.
L’ingerenza delle gerarchie cattoliche nella vita politica del Paese invece vi è, ed è pesante. Essa fa capo, oltre che alla CEI, direttamente al Vaticano; per valutare l’operato dei vertici ecclesiastici si deve perciò guardare anche al Segretario di Stato Bertone, che gioca in prima persona pur essendo il Ministro degli Esteri di un altro Stato (più ingerenza di così ...). Solo sull’Italia il Vaticano vuole, letteralmente, dettar legge, pretendere cioè che i legislatori operino sotto la propria dettatura, e impone ai suoi fedeli addirittura le tattiche.
Ai cattolici è stato ordinato di disertare i seggi nel Referendum sulla fecondazione assistita: ciò comprometteva la stessa segretezza, perché già il recarsi alle urne costituiva una scelta di voto pubblica. Si esclude l’autonomia dei Parlamentari nelle decisioni non solo su temi “etici”, ma perfino sui codici civile (normativa sulle convivenze) e penale (l’omofobia come aggravante); viene posto il veto a ogni soluzione politica che tenti di mediare tra le proprie posizioni e le legittime posizioni di altri. E’ vero fondamentalismo: la legislazione statale in tema di diritti non deve rappresentare il massimo possibile di opinioni condivise, bensì solo le idee di chi ha il potere di imporle.
L’ultima ingerenza. Bertone ha convocato un summit di cattolici impegnati nella società: politici presenti in vari partiti (per il PD, solo quelli di uno specifico gruppo interno), esponenti di associazioni. La riunione doveva restare segreta; una volta svelata, vari partecipanti hanno affermato che l’obiettivo è un organico raccordo nell’azione dei cattolici ovunque collocati, non la costituzione della nuova DC. Le smentite in questi casi non hanno un gran valore; in ogni caso, altro che mera “presenza che propone una prospettiva antropologica” (Bagnasco)!
Le prime vittime delle pretese clericali sono quei “cattolici adulti” che hanno preso sul serio le indicazioni del Concilio Vaticano sulle responsabilità proprie dei credenti impegnati nella vita pubblica. Le durissime parole di Rosi Bindi dopo il voto della Camera contro l’aggravante per l’omofobia dimostrano che, fortunatamente, alcuni di essi non chinano la testa.

il Fatto 30.7.11
Imprescindibile Gramsci
di Angelo d’Orsi

Sappiamo che il signor Anders Behring Breivik ha impiegato un anno a trasporre in testo (1500 pagine circa!) il proprio sogno di una Europa purificata da musulmani, comunisti, democratici, “relativisti” e “multiculturalisti”: un miscuglio indigesto, ma interessante, di analisi storica, gonfio di riferimenti teorici (e di indicazioni bibliografiche), ma pure di precisazioni tecniche su come procedere alla costituzione dell’esercito crociato ed eliminare, anche con armi di distruzione di massa, i nemici. Un manuale d’odio, il cui scopo dovrebbe essere la liberazione del Continente (data prevista 2083, che entrerà d’ora in poi tra quelle della distopia contemporanea) dalle troppe “idee sbagliate” che, nella visione del suo autore, stanno recidendo le radici europee; la famosa “identità giudaico-cristiana” che ci sentiamo ripetere come un mantra, priva, in realtà, di fondamento, in quanto l’Europa è un tipico esempio di fusione, in particolare proprio con l’Islam, come dimostrò qualche anno fa lo studioso Richard Bulliet.
 I pensieri e le abitudini di Breivik sono già di pubblico dominio, grazie ai media e al web, andando così incontro al desiderio del giovanottone norvegese di “passare alla storia”, benché non come ispiratore delle "nuove milizie cristiane", che si rifanno nientemeno che all'Ordine dei Templari, bensì come autore della più efferata strage a radice ideologica mai compiuta da un solo individuo.
 Qui vorrei, però, sottolineare che tra i tanti avversari sul piano culturale, a parte tutto quanto si richiama all'islam a cominciare dal Corano, Breivik, annovera, accanto alla Scuola di Francoforte e Lukács, Antonio Gramsci, alla cui meditata lettura (suggerisce di leggerlo “slowly”, con lentezza), nondimeno, egli invita. Gramsci è visto come il teorico dell’egemonia, e dell’“uomo comunista”, e della “lunga marcia” attraverso le istituzioni educative e culturali per giungere alla rivoluzione politica. E Breivik avverte della pericolosità e pervasitivà delle idee gramsciane. E per difendersene, consiglia la lettura in particolare di alcuni testi, dagli articoli giovanili al Saggio sulla questione meridionale ai Quaderni del carcere. Persino le Lettere sono indicate tra i testi imperdibili per i nuovi crociati, i “Pauperes Commilitones Christi Templique Solomonici”. Si tratta di studiare bene chi è il nemico, la sua antropologia e non solo la sua filosofia politica. Evidentemente dall’epistolario emerge la personalità del suo autore, un gigante davanti al nano nordico, a dispetto delle relative altezze fisiche, rovesciate.
 Strano destino, quello di Gramsci, usato, ora intelligentemente, ora scorrettamente, da sinistra e da destra: Togliatti ne fece l’alfiere del “Partito nuovo” e la base per l’egemonia culturale; la destra radicale in tempi recenti lo issò sulle proprie bandiere come pensatore armonico e gerarchico; Fini lo portò a sciacquarsi nelle acque di Fiuggi, come autore nazionale; leader populisti, da Sarkozy a Chávez lo citano correntemente; infine, è giunto a Sanremo e, conseguentemente, per la prima volta è divenuto un best-seller. Ma che dovesse essere citato e proposto all’attenzione dei suoi sodali da un criminale politico nazistoide, questo, davvero, non ce lo saremmo aspettato. Eppure, superato lo sconcerto, non se ne può che trarre una conclusione: Gramsci oggi più che mai è un autore imprescindibile.

venerdì 29 luglio 2011

il Venerdì di Repubblica 29.7.11
Viaggi pensierosi
Heidegger
La montagna incantata dove lo spirito non andava in vacanza
di Maurizio Ferraris



l’Unità 29.7.11
Tirato in ballo in ogni polemica interna il leader del Pci viene ancora frainteso
Quando Berlinguer era comunista
Con le polemiche sui casi Tedesco e Penati, a vent’anni esatti dalla sua pubblicazione, si torna a discutere della famosa intervista di Enrico Berlinguer sulla questione morale. Una riflessione che continua a dividere.
di Francesco Cundari

Dall’inizio degli anni Ottanta a oggi, tutte le principali battaglie combattute all’interno della sinistra si sono svolte entro i confini di un identico canovaccio, un immaginario spazio della legittimità nel quale ciascuno, come in una danza, ha compiuto i suoi passi e le sue giravolte, senza mai uscirne. Una sorta di capoeira politico-culturale che ha al centro l’intervista di Enrico Berlinguer sulla questione morale, pubblicata su Repubblica il 28 luglio 1981. Intervista rievocata ancora in questi giorni su tutti i maggiori quotidiani, sull’onda delle inchieste che hanno toccato, questa volta, il Partito democratico, come in tutte le occasioni in cui scandali di qualsiasi genere ed entità hanno coinvolto, lambito o sconvolto gli eredi del Partito comunista italiano. Una specie di nemesi.
Quando il muro di Berlino e il Pci erano ancora in piedi, all’evocazione della questione morale (nel Paese) seguiva regolarmente la rivendicazione della (propria) «diversità comunista» e sempre più spesso la denuncia di un’irreparabile «mutazione genetica» (nei socialisti, colpevoli di avere scelto l’accordo con la Dc). Dall’altra parte, nel corso degli anni, si sarebbe replicato con l’accusa di moralismo, strumentalizzazione politica delle vicende giudiziarie, demonizzazione stalinista dell’avversario (e soprattutto dei partiti concorrenti nel campo della sinistra, come i socialisti). Questo canovaccio, con pochissime modifiche e ancor minori aggiornamenti, sarebbe sopravvissuto alla caduta del muro di Berlino, del Pci e del Psi. Persino il concetto di «diversità comunista», all’apparenza così inseparabile da quel tempo e da quel partito, sarebbe invece sopravvissuto (eccome!) alla fine del comunismo e alla conseguente perdita del corrispondente aggettivo. Tanto che oggi, a difendere la trincea della «diversità» del Pd dagli attacchi di avversari e alleati sulla nuova questione morale che coinvolgerebbe il partito, in prima fila si possono trovare, per dire, Rosy Bindi o Dario Franceschini.
In fondo, era ancora a questo antico copione che si riferiva implicitamente Pier Luigi Bersani nella sua recente lettera al Corriere della Sera, quando spiegava di non rivendicare, di fronte alle polemiche suscitate dai casi Tedesco e Penati, una «diversità genetica» del suo partito, ma di voler dimostrare una «diversità politica».
Il cuore della denuncia berlingueriana, in quella famosa intervista a Eugenio Scalfari, consisteva nella denuncia della «occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti». Col tempo, da una rievocazione all’altra, sarebbe stata raccontata come un atto d’accusa contro i partiti in generale, quindi contro quel «consociativismo» di cui proprio Berlinguer fu additato come il massimo responsabile per buona parte della sua vita, infine direttamente contro l’invadenza della politica. Quasi che il segretario del Partito comunista italiano potesse essere una sorta di liberista ante litteram, un seguace di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, un fautore della separazione tra politica ed economia, delle privatizzazioni e del non-intervento dello Stato.
L’obiettivo polemico di Berlinguer erano invece i partiti di governo e il loro sistema di potere. Quello che poneva era, innanzi tutto, un problema democratico. La causa della degenerazione, per lui, era la mancanza di ricambio, il blocco del sistema, il veto (di origine internazionale) all’accesso dei comunisti al governo.
«Le cause politiche che hanno provocato questo sfascio morale: me ne dica una», lo incalza Scalfari. «Le dico quella che, secondo me, è la causa prima e decisiva: la discriminazione contro di noi», risponde seccamente il segretario del Pci.
In ogni caso, quell’intervista avrebbe suscitato molti dubbi anche nel partito, e persino tra i dirigenti più vicini a Berlinguer. «Le cose sono dette in modo irritante annotava in quei giorni nel suo diario Alessandro Natta gli altri sono ladri, noi non abbiamo voluto diventarlo! C’è una verità sostanziale, ma il tono è moralistico, settario, nel senso di una superiorità da eletti, da puri». E ancora: «Il rischio che la critica delle pratiche in atto possa divenire critica della funzione dei partiti c’è, che la condanna appaia generale e sommaria, che il metro di giudizio risulti quello morale e non quello politico... che la contrapposizione tra gli altri e noi diventi così profonda da non lasciare margine a nessuna politica, da isolarci, da alimentare una intransigenza morale, una denuncia radicale ma sterile». Difficile negare, comunque la si pensi nel merito, che molto di queste previsioni si sarebbe rivelato azzeccato. Anche oggi.
D’altra parte, la discussione sulla figura di Berlinguer, sulla necessità di riscoprirlo o invece di «dimenticarlo», per usare l’urticante espressione adottata da Miriam Mafai in un suo saggio (Dimenticare Berlinguer, Donzelli), sarebbe rimasta sempre legata a quella intervista e alle relative polemiche. Probabilmente anche più del giusto, per un leader politico che per formazione, volontà e prestigio fu innanzi tutto un leader internazionale, le cui prese di posizione eterodosse all’interno del movimento comunista finivano sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Un leader impegnato prima di ogni altra cosa nell’impossibile impresa di favorire un’evoluzione democratica del socialismo reale. Di qui il tentativo fallito dell’eurocomunismo, l’impegno nella distensione, la costante oscillazione tra strappo e rivendicazione del proprio legame internazionale. Un leader che proprio per questo sarebbe stato sempre ricordato come un punto di riferimento essenziale, da tutti coloro che quel sistema volevano cambiarlo, a cominciare da Mikhail Gorbaciov.


l’Unità 29.7.11
Questione morale e problema politico
di Michele Prospero

Chi l’avrebbe mai detto che il colloquio di Berlinguer sulla questione morale sarebbe diventato il manifesto dell’antipolitica?
In quell’intervista a Scalfari di trent’anni fa la denuncia della degenerazione dei partiti era molto forte. Per certi versi, il leader comunista recuperava una linea sotterranea, sempre presente nella cultura politica italiana dell’Ottocento, che, già con Minghetti, temeva una inevitabile frizione tra il partito e l’amministrazione. A un governo degli onesti contro il malaffare si appellavano spesso nel secondo dopoguerra alcuni ambienti politici ed economici vicini ai repubblicani. Soprattutto Visentini vi faceva affidamento, trovando talvolta orecchie sensibili anche a sinistra allorché essa ammiccava a governi “diversi”. Ma Berlinguer non era un epigono della destra storica e nemmeno una quinta colonna di influenti minoranze tecnocratiche. Il suo grido contro l’invasività della politica non era certo un invito a sbarazzarsi dei partiti in nome della autonomia del potere economico. Quello che su Repubblica descriveva a tinte fosche la ormai degenere realtà di partito era un Berlinguer in difficoltà e costretto sulla difensiva. La politica della solidarietà nazionale si era arenata. La convergenza tra la Dc del preambolo (anticomunista) e il nuovo Psi (craxiano) era solo agli inizi ma già metteva fuori gioco il Pci. Quel rapporto di arido controllo del potere, che diede vita al pentapartito, in effetti approfondì la crisi storica della prima repubblica. La Dc conservava il suo potere coalizionale cedendo però la guida del governo a formazioni molto minoritarie. Il Psi acquisiva una centralità sistemica ben remunerata ma l’onda lunga dei consensi tardava a produrre effetti. Quella convulsa fase determinò, con la deroga esiziale alla regola aurea che vuole Palazzo Chigi appannaggio del partito di maggioranza relativa, anche una mutazione genetica dei socialisti, come snaturati per un eccesso di potere in confronto
alle forze effettive raccolte nelle urne. Rispetto a questo sistema politico, Berlinguer cavalcava la carta della ripulsa totale dei rapporti di complicità stretti da partiti sempre più onnivori. Oggi si dimentica che, a sorreggere il radicale smascheramento della decadenza etica dei partiti quali protagonisti di un modello clientelare-collusivo di modernizzazione, era la categoria più negletta e respingente del berlinguerismo, cioè quella di diversità. Contro i partiti di mero potere, Berlinguer evocava la nobiltà della causa ideale che solo un militante rivoluzionario poteva avvertire. Chi presenta oggi un improbabile Berlinguer teorico della politica leggera, cioè alfiere di un partito che si occupa solo delle regole e non della gestione del potere, occulta che per lui solo il militante comunista poteva cogliere, nelle insidie di un presente inospitale, il carattere sublime di una causa elevata di cambiamento da servire con uno spirito quasi religioso. Fino all’ultimo Berlinguer ha rivendicato la fertilità di una concezione leninista del partito che rifiutava ogni omologazione a pratiche deteriori che l’avrebbero sì legittimato rendendolo però uguale alle altre formazioni politiche. Come è curiosa la cultura politica italiana. Proprio chi, e con più sdegno, ricusa la nozione quasi antropologica di diversità rilancia poi le ingiallite pagine sulla questione morale trascurando che la identità comunista e la questione morale erano intrecciate irreversibilmente. Non si poteva prendere l’una e lasciar cadere l’altra, come pretende qualche maldestro macchinista dell’odierna antipolitica che fa di Berlinguer un inerme paladino della politica debole da espellere da ogni postazione di comando per riverire possenti oligarchie economiche, giudiziarie e mediatiche.

l’Unità 29.7.11
Sorpresa! L’indulto non era sbagliato
Le recidive calano
In cinque anni solo il 33,92% dei detenuti beneficiati dal provvedimento è rientrato in cella. Mentre la quota di chi non ne ha usufruito è al 68,45% Gli italiani tornati a commettere reati superano di 13 punti gli stranieri
di Luigi Manconi

Ese, alla resa dei conti, il tanto bistrattato indulto del 2006 si rivelasse un provvedimento parziale, ma – oltre
che sacrosanto – assai utile? Una misura, gravata da limiti e carenze, ma efficace e, soprattutto, molto meno nociva sul piano sociale di quanto si sia detto e scritto.
In effetti, quel provvedimento di clemenza è stato uno dei più controversi e diffamati dell’intera legislazione repubblicana. Approvato, come prescrive la norma da i due terzi del Parlamento (oltre l’80%), è stato misconosciuto dalla gran parte di coloro che lo votarono. Mai una legge che aveva avuto tanti padri e madri era stata così repentinamente rinnegata dai legittimi genitori. Molte le ragioni. In primo luogo, il carattere parziale del provvedimento, non accompagnato da una contestuale amnistia (che avrebbe potuto ridurre il numero dei procedimenti e alleviare il lavoro dei giudici), e non sostenuto da adeguate misure di accoglienza e di integrazione per gli scarcerati. Ma, soprattutto, a pesare sull’opinione pubblica e a determinare quel ripudio da parte del legislatore furono due fattori: l’incapacità di reggere l’impatto che i reati commessi dagli indultati avrebbe avuto sul senso collettivo di insicurezza e la contestuale e irresponsabile campagna mediatica.
È decisivo ricordare che, dal 2006 al 2007 (periodo che comprende i mesi successivi all’approvazione dell’indulto) l’informazione televisiva nazionale sulla cronaca nera passa dal 10,7% al 23,7% (come ha documentato il centro di ascolto di Gianni Betto). Inevitabilmente un simile affollarsi di “notizie criminali” crea una sensazione di ansia collettiva e di allarme sociale, tali da esigere l’individuazione di una causa (l’indulto, appunto) e la demonizzazione di quanti avrebbero contribuito a determinarla (sia i parlamentari che vollero quella misura sia chi di essa beneficiò). Ma, a distanza di 5 anni, una ricerca condotta da Giovanni Torrente e da chi scrive per conto di A Buon Diritto onlus, mostra una realtà tutt’affatto diversa: e quanto quella percezione di insicurezza generalizzata fosse alterata e frutto di manipolazione. La premessa è che indulto e amnistia sono, per loro stessa natura, misure di eccezione per un tempo d’eccezione. Ovvero provvedimenti di emergenza per una situazione estrema, in attesa che si ponga mano alle riforme strutturali: le uniche, come è ovvio, che possano risolvere davvero le grandi questioni dell’amministrazione della Giustizia e dell’esecuzione della pena. Ma intanto esaminiamo le conseguenze del provvedimento d’eccezione del 2006, con riferimento al principale allarme allora diffuso: «escono dal carcere e tornano a delinquere».
La ricerca prima ricordata affronta di petto proprio questo nodo, permettendo di verificare come quella misura, pur con tutti i suoi limiti, ebbe un esito positivo. L’indulto ridusse l’entità della popolazione detenuta per un periodo di tempo sufficiente a impedire che il disastro si traducesse in una tragedia e che, dai quasi 62mila reclusi, si arrivasse a 80mila. Ma il risultato più significativo è forse un altro. La recidiva dei beneficiari dell’indulto si attesta sul 33,92%. Una percentuale elevata ma da confrontare con quella relativa alla recidiva tra quanti non hanno beneficiato dell’indulto. L'unica rilevazione sul lungo periodo al riguardo è quella dell’Ufficio Statistico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che ha mostrato come il 68,45% dei soggetti scarcerati nel 1998, nei successivi 7 anni, sia rientrato in carcere una o più volte. Siamo dunque a una percentuale più che doppia (Tabella 1). E questo conferma una tesi avanzata verso la fine degli anni '70 dal Centro Nazionale di prevenzione e difesa sociale, presieduto da Alfonso Beria d’Argentine: i provvedimenti di clemenza approvati in quegli anni non avrebbero provocato un aumento della recidiva.
Ma la nostra ricerca riserva altre sorprese. Intanto va notato (pur se si tratta di dati ancora parziali) che la recidiva cala ulteriormente tra coloro che beneficiano dell’indulto mentre si trovano sottoposti a una misura alternativa al carcere (Tabella 3). In altre parole, scontare la pena in condizioni meno afflittive e meno disumane può contribuire alla riabilitazione sociale (e a non reiterare il reato). Ancora. Il tasso di recidiva fra gli italiani è di circa 13 punti percentuali superiore a quello degli stranieri (Tabella 2). Quest’ultima circostanza svela, in maniera inequivocabile, quanto gli stereotipi e le campagne politiche fondate sugli stessi – possono avere le gambe davvero corte.
P.S. Per riprendere il discorso sulle riforme strutturali, che vadano oltre lo stato d’emergenza, è utile partire dall’intervista rilasciata dal nuovo ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma al Corriere della Sera. Il ministro afferma la necessità di «un programma di depenalizzazione dei reati minori» e contro l’ «eccessiva criminalizzazione»: il fatto, cioè, «che le leggi prevedono la sanzione penale per violazioni» che andrebbero punite con «sanzioni amministrative o civili». Parole sante. Che
coincidono puntualmente con quanto è stato raccomandato, con inappuntabili argomenti, dalle relazioni conclusive delle Commissioni per la riforma del Codice penale, presiedute prima da Carlo Nordio (centro destra) e poi da Giuliano Pisapia (centro sinistra), su incarico rispettivamente del governo Berlusconi (2001-2006) e del governo Prodi (2006-2008). Ma è impossibile non far notare al ministro Nitto Palma che il governo del quale entra a far parte ha operato in senso esattamente opposto. Valga un esempio: illeciti amministrativi, quali erano fino a due anni fa, ingresso e soggiorno irregolari in Italia sono stati trasformati in fattispecie penale, con relativa detenzione. Il che ha portato in cella migliaia e migliaia di stranieri, responsabili di «violazioni» che andrebbero punite, al più, «con sanzioni amministrative o civili». Ecco una manifestazione di «eccessiva criminalizzazione» che, oltre a gridare vendetta davanti a Dio e agli uomini, incrementa il sovraffollamento del sistema penitenziario. Con esiti che sono sotto gli occhi di chi li vuole vedere.


l’Unità 29.7.11
Intervista a Abraham Bet Yehoshua
«La Palestina va divisa in due Stati sovrani Israele deve accettarlo»
Lo scrittore israeliano: «Giusta l’iniziativa di Abu Mazen alle Nazioni Unite per il riconoscimento unilaterale. Netanyahu deve sostenerla e tornare a trattare»
di Umberto De Giovannangeli

Da israeliano che ha sempre ritenuto che la nostra sicurezza non potesse fondarsi solo sulla forza militare, mi sento di dire che oggi non dobbiamo vedere come una minaccia mortale, una provocazione, l'annunciata iniziativa palestinese alle Nazioni Unite. Se di una sfida si tratta, è una a cui rispondere positivamente, rilanciando da subito il negoziato di pace». A sostenerlo è Abraham Bet Yehoshua, tra i più affermati scrittori israeliani contemporanei.
Il presidente dell'Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha ribadito l'intenzione di chiedere all'Assemblea generale delle Nazioni Unite di settembre di pronunciarsi sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha definito questa iniziativa come una forzatura unilaterale...
«Non la considero tale. Così come eviterei di considerare nemici d'Israele tutti quei Paesi che decideranno di sostenere la risoluzione palestinese. Di tutto abbiamo bisogno tranne che di alimentare una sorta di “psicosi dell'accerchiamento”, per la quale Israele sarebbe circondato da un mondo ostile, che va da Ahmadinejad a Obama, dai protagonisti delle rivolte arabe all'Europa “filo palestinese”...».
Resta il fatto che la leadership israeliana considera l'iniziativa di Abu Mazen un ostacolo alla ripresa delle trattative... «Il muro contro muro non favorisce di certo il dialogo così come non mi pare nell'interesse d'Israele indebolire la leadership di Abu Mazen, dipingendolo come un avventurista o come un burattino manovrato da Hamas. Israele ha una carta da giocare per disinnescare questa “mina”...».
Quale sarebbe questa carta?
«Sostenere la richiesta palestinese alle Nazioni Unite e riaprire subito dopo il tavolo negoziale in cui affrontare tutte le questioni cruciali che nella risoluzione ventilata, per ciò che è dato sapere, non sono affrontate: mi riferisco al ritorno dei profughi, allo status di Gerusalemme, alla smilitarizzazione dell'entità statuale palestinese. La debolezza d'Israele è nell'assenza di una visione strategica, nel coltivare l'illusione di poter fermare il tempo e proiettare all'infinito l'attuale status quo. Di una cosa resto convinto: non è ammissibile che un popolo possa ritrovare la propria patria a spese di un altro che ne viene privato. La divisione della Palestina in due Stati sovrani non è solo una necessità politica e l'unico modo per realizzare la pace in Medio Oriente: è un imperativo morale che la Comunità internazionale dovrebbe garantire con tutta la sua forza, politica e militare, senza compromessi».
Netanyahu ha ripetuto più volte di non essere contrario, in linea di principio, ad uno Stato palestinese... «Quale miglior occasione di quella “offerta” da Abu Mazen per dare seguito politico a questa asserzione di principio! Tanto più che la risoluzione prospettata da Abu Mazen farebbe riferimento ad uno Stato palestinese entro i confini del '67...». Confini che non terrebbero conto, ribatterebbe Netanyahu, della sicurezza d'Israele...”.
«Preoccupazione sacrosanta, assolutamente condivisibile. A patto che...».
A patto che?
«La questione della sicurezza non venga utilizzata per una forzatura, questa sì unilaterale: quella di ridefinire i nuovi confini dello Stato d'Israele inglobando quella parte di West Bank su cui sorgono gli insediamenti, tutti gli insediamenti. Gli insediamenti non assicurano la sicurezza d'Israele, semmai è vero il contrario. La sicurezza risiede nella smilitarizzazione dello Stato di Palestina, da basi militari, israeliane e internazionali, da dislocare lungo la valle del Giordano, al confine orientale del futuro Stato. Si tratta di una situazione transitoria, per il tempo necessario a consolidare la nuova realtà, i due Stati, sul campo. Metto l’accento sulla necessità di tali misure come sulla loro transitorietà. Condizione, quest’ultima, che non appartiene agli insediamenti».
Negoziare la pace. Qual è la questione davvero cruciale tra le tante ? «La definizione dei confini. Questo è il punto di svolta. Perché la mancanza di confini fra due nazioni è una delle cause principali del sangue versato in tutti questi anni. La divisione fisica, territoriale, è il mezzo per porre fine al disegno del Grande Israele e della Grande Palestina. Mi lasci aggiungere che la definizione dei confini non è solo un esercizio diplomatico ma è, per noi israeliani, anche qualcos’altro, di molto più profondo».
In cosa consiste questo «altro»?
«Definire i confini ci impone di ripensare noi stessi, rivisitare la storia di Israele e tornare agli ideali originari del sionismo, per i quali l’essenza dello Stato di Israele non si incentrava nelle sue dimensioni territoriali né in un afflato messianico, bensì nella capacità di fare d’Israele un Paese normale. Lei mi chiedeva cos’è per me la pace? La risposta è semplice e al tempo stesso terribilmente difficile da realizzare: la pace è la conquista della normalità. E quando ci sarà la pace e il quadro normale dello Stato d’Israele consentirà il riconoscimento definitivo del consesso dei popolo, e in particolare dei popoli dell’area in cui ci troviamo, ci renderemo conto che "normalità" non è una parola spregevole ma, al contrario, l’ingresso in una epoca nuova e ricca di possibilità, in cui il popolo ebraico potrà modellare il proprio destino, produrre una propria cultura completa. Si dimostrerà il modo migliore per essere altri e diversi, unici e particolari come lo è ogni popolo senza preoccuparci di perdere l’identità». Perchè la fine dell’occupazione può divenire un efficace antidoto contro l’affermarsi di una cultura e di una pratica estremista in Israele?
«Perchè spazza via quella cultura dell’emergenza sulla base della quale c’è chi tende a mettere tra parentesi qualsiasi altra cosa. Noi non stiamo parlando di territori di oltremare, stiamo parlando di città palestinesi che sono a pochi chilometri da Gerusalemme o da Haifa. Si confiscano terre palestinesi illegalmente, si permette che coloni che risiedono in insediamenti illegali possano compiere atti provocatori contro i palestinesi senza per questo incorrere nelle pene che analoghe azioni comporterebbero se commesse in Israele e contro altri cittadini israeliani. Questa logica colonialista e militarista rischia di trasformarsi in un cancro le cui metastasi aggrediscono il corpo sano di Israele. Per questo continuo a pensare che una pace con i palestinesi non è una concessione al “nemico” ma un investimento che Israele fa su di sé, sul proprio futuro: quello di un Paese normale»

l’Unità 29.7.11
La politica è giovane se sa sognare
di Daria Colombo

Come può la sinistra avvicinare le nuove generazioni? Rivendicando il diritto all’ideale e soprattutto ascoltandole e accettandone le differenze Solo così sarà in grado di togliere i ragazzi dall’angolo in cui si sentono messi

Come coinvolgere le nuove generazioni è un quesito che la politica si pone da che esiste.
I partiti pensano da sempre che la soluzione sia lavorare per la diffusione delle loro idee e affinché queste si trasformino in ideali, specie presso i giovani. Spesso però, quando poi si trovano a fare i conti con alcune normali peculiarità dei ragazzi, come l’impazienza, la voglia di sperimentare, a volte l’inconsapevole demagogia, il valore aggiunto della freschezza di idee o della novità passa in secondo piano e le nuove leve vengono quasi sempre emarginate o costrette a gavette interminabili. Non lo si può certo attribuire solo a questo, sta di fatto che da un trentennio assistiamo ad un implacabile allontanarsi dei ragazzi dai partiti.
Ma perché i giovani oggi ci appaiono così inesorabilmente estranei dalla politica?
Cominciamo col prenderci le nostre responsabilità... Chi ce l’avrebbe detto all’epoca della fantasia al potere, quando eravamo così impegnati ad «ammazzare i padri», che i nostri figli avrebbero considerato i sessantottini come dei noiosi «bacchettoni»? Eppure i ragazzi cresciuti in un clima culturale eccessivamente politicizzato, lo hanno spesso percepito come troppo ingombrante e ne hanno preso le distanze, pur conservandone quasi sempre i valori.
Certamente un contributo nefasto all’allontanamento dalla politica l’ha dato il berlusconismo con il suo populismo cinico che ha inculcato nei ragazzi (e negli adulti senza solidi anticorpi) l’idea amorale che gli affari di tutti si risolvono facendosi ognuno gli affari propri, a cominciare da chi ci governa.
Inoltre, oggi, i ragazzi cresciuti dopo la caduta del muro di Berlino, ci piaccia o no, sentono come anacronistici gli strumenti e le forme di lotta del novecento e gli stessi contenitori che li propongono e sentono l’urgenza di un cambiamento dei partiti considerandoli spesso impermeabili a quanto accade fuori di loro.
Come parlare dunque ad una generazione cresciuta nelle varie sconfitte, talvolta senza neppure percepirle, mobilitata solo sui diritti insidiati o negati (università, scuola pubblica, diritto allo studio), nella sordità o in antitesi ai partiti ?( L’Onda, nel 2008 apriva i suoi cortei con striscioni che invitavano i politici a «starne fuori»...)
«I giovani ritornano se si percepiscono come partecipi di un cambiamento reale», dichiara Alessandro Capelli, 25 anni, dottorando in Statale, uno dei principali leader della campagna di Pisapia a Milano, indirizzata ai giovani.
«Premesso che io credo che i partiti siano indispensabili, penso anche che sia necessario salvarli da loro stessi continuabisogna farli ritornare ad essere un luogo attrattivo. Cominciamo con le “Primarie ovunque”, che hanno un clamoroso effetto traino, soprattutto su noi giovani, altrimenti tutto appare preconfezionato da una burocrazia che ha paura della sua stessa ombra». E ancora «Bisogna capire che la partita la si gioca tutti assieme, contaminandoci, ripensandosi come sinistra, in un modo nuovo. Oggi i ragazzi vivono una precarietà lavorativa ma anche esistenziale, si sentono messi nell’angolo o usati».
Racconta la sua esperienza, Alessandro.
«Con Giuliano (il neo sindaco) abbiamo avuto da subito la percezione di essere realmente parte del progetto. Ci è stato dato spazio di discussione, ci è stato permesso di affiancare le nostre competenze a chi aveva più esperienza di noi, non siamo stati usati solo come ragazzi-immagine o dei distributori di volantini ma portatori di esperienze diverse, ci siamo sentiti elementi fondamentali nella presa di decisioni, si fidavano di noi... Certo non sarebbe stato possibile smuovere l’immaginario giovanile su un progetto calato dall’alto o che non si differenziasse concretamente dallo status quo».
Insiste sul fatto che a Milano ma anche a Napoli e a Cagliari non hanno vinto perché il loro progetto era più di sinistra, ma perché lì hanno intercettato l’urgenza di cambiamento dei ragazzi, i quali magari hanno scoperto solo strada facendo di essere di sinistra, in quanto slegati dalle logiche operative in atto.
Vanno usati, quindi, questi giovani per ricondurli alla politica, in senso buono naturalmente. Non bisogna temere di dar loro delle responsabilità, ma alimentare la loro capacità di sognare di avere degli ideali. Ma cosa significa in concreto?
Intanto ricordiamoci che la coscienza e gli orientamenti ideologici che durano nel tempo si formano quasi sempre in famiglia e nella scuola, durante l’adolescenza. Imprescindibile quindi accompagnare, indirizzare, sostenere queste istituzioni nel loro compito di formazione. Da lì parte (o no) la consapevolezza che la legge non è coercizione ma garanzia, lì si imparerà (o no) il gusto del confronto.
Inoltre dall’offerta culturale e di socializzazione dipenderà, o meno, se i giovani sentiranno la necessità di chiudersi nelle loro stanze con i loro videogiochi e le loro paure. Bisognerà quindi tornare ad affascinarli, incantarli, non certo alla maniera superficiale ed interessata di Berlusconi, ma tentando di toccare le loro corde più intime: rivalutare il loro diritto al sogno, ricordandogli che non devono mai arrendersi. E poiché la distanza dei giovani dalla politica oggi pare diffusa secondo la nuova ideologia di edonismo proprietario berlusconiano che, vivaddio, comincia a mostrare la corda, cerchiamo di fargli capire la supremazia del contenuto sull’immagine, l’importanza della parola, senza schiacciarli di chiacchere ma aiutandoli con comportamenti coerenti. (Qualche doppio o triplo incarico in meno, ça va sans dire...) Cominciamo noi a capire e ad accettare che non siamo migliori di loro, forse più fortunati, perché i nostri vent’anni hanno coinciso con una rivoluzione culturale planetaria, mentre loro sono cresciuti con le veline. Rispettiamo, noi sinistrorsi, così ideologicamente difensori delle diversità, le diversità dei nostri figli, con un po’di quella umiltà impensabile per i nostri genitori quando tentavano di trasmetterci i loro credo.
Si sa che difficilmente un giovane possiede una visione omnicomprensiva della società e che più facilmente ne avrà una parziale. Oggi i ragazzi viaggiano sul web, fanno volontariato, stanno nei movimenti e nelle associazioni, oltre che nei partiti. Ma è anche vero che questi sono altri luoghi della politica, altrettanto legittimi. Per tanto quella parte dei politici, che c’è, e che vuole sinceramente coinvolgere i giovani senza timore di passare le armi, meglio farebbe a riconsiderare questione: non si chieda come avvicinare i giovani alla politica, ma come la politica possa interagire con i giovani che hanno lecitamente scelto altri percorsi. Forse scoprirà che i ragazzi non sono poi così lontani.
I NUOVI MEDIA
Ringiovaniamo la politica insomma, cercando di evitare preconcetti, facendo confluire la nostra storia e le nostre idee in un partito moderno, che non potrà mai più essere autoreferenziale ma sempre più permeabile alle spinte esterne, consapevole dei numerosi segnali di movimento più o meno carsici di una società ricca di fermenti e di idee che è cambiata non solo in quantità di informazioni ma anche in qualità di pratiche. Bisognerà imparare che la spontaneità non è un segno di avversione verso i partiti né tantomeno la loro morte. Sarebbe dannoso rinunciare alle tecniche di convincimento tradizionali della militanza ma la cultura digitale intesa come l’insieme di pratiche multimediali, i social media come Facebook o Twitter, hanno ampiamente dimostrato di essere in grado di generare cambiamento sociale. Venti milioni di utenti su Facebook e una miriade di giovani italiani con una buona conoscenza dell’uso dei nuovi media può essere in grado di fare la differenza. Va da sé che questi debbano diventare strumenti della politica anche per ascoltare i giovani, per fare le proprie analisi e applicarle alle piattaforme politiche di governo che non possono più essere elaborate solo sulla base delle discussioni interne ai partiti. Di più, usino i partiti i nuovi media anche per avvicinarli questi giovani, per creare nuove forme di collaborazione, per informarli con chiarezza degli obbiettivi, delle decisioni anche impopolari reputate necessarie spiegandone i motivi, per comunicare le sconfitte come le vittorie.
Si sa che i ragazzi non sono granché inclini alla mediazione e men che meno al compromesso, strumenti indispensabili nella pratica politica, ma non si dia per scontato che se applicati con chiarezza non possano non essere accettati anche da coloro ai quali la vita non li ha ancora insegnati. Non è che chi è nato nel periodo post ideologico non possieda dei valori, per coinvolgerlo nella politica attiva occorrerà convincerlo che li si possono esprimere attraverso la rappresentanza dei partiti, insostituibile strumento democratico per risolvere anche i problemi dei giovani.

l’Unità 29.7.11
La Chiesa non è a destra
di Giuseppe Vacca

Il fondo di Galli Della Loggia (L’inquietudine dei cattolici, Corriere della Sera del 25 luglio) sembra mosso da una preoccupazione politica ravvicinata, quella che nel «disfacimento politico» della Seconda Repubblica si verifichi una saldatura fra Pd e Terzo Polo che, nell’eventualità di una prossima legislatura costituente, potrebbe rendere ancor più difficile il compito di ridisegnare il centrodestra dopo l’uscita di scena di Berlusconi.
Inserendosi nel dibattito sempre più vivo nel mondo cattolico al riguardo, Galli propone che si metta mano alla formazione di una «nuova Dc» saldamente schierata «a destra», cioè idealmente e programmaticamente «contrapposta» al Pd. Tuttavia, il fondamento della sua proposta non è congiunturale, poiché riguarda innanzitutto la collocazione della Chiesa, che dell’operazione dovrebbe essere il pilastro. Il ragionamento di Galli poggia su una proiezione della Chiesa nel mondo della «globalizzazione» che evoca problemi troppo complessi per essere affrontati nel breve spazio di questo articolo. Mi limiterò quindi a discutere la sua tesi limitatamente alle posizioni che la Chiesa italiana è venuta assumendo nell’ultimo anno, via via che si veniva intensificando la crisi della Seconda Repubblica.
Considero emblematica l’intervista del presidente della Cei, cardinale Bagnasco, al Corriere della Sera del 17 marzo scorso, innanzitutto perché si colloca nel solco della «nuova laicità» a cui hanno dato impulso il presidente Napolitano e Benedetto XVI negli ultimi anni, mostrando di condividere l’assillo della «emergenza educativa» e l’esigenza della collaborazione di credenti e non credenti nella società e nelle istituzioni per presidiare l’unità morale, i legami sociali e la coesione nazionale del popolo italiano. Ma l’intervista appare ancora più significativa se si considera la data in cui è stata pubblicata: la ricorrenza del centocinquantenario dell’unità d’Italia. Mi pare quindi evidente l’intento di manifestare innanzitutto la premura della Chiesa per il destino della nazione italiana impiegando parole attente e calibrate su cui conviene riflettere. Mostrando di condividere la percezione che vi siano dei seri rischi per «l’unità nazionale», il cardinale Bagnasco ha sottolineato che essi possano essere evitati in relazione alla «capacità del Paese di trovare una sua collocazione nello scenario globale», aggiungendo che «la Chiesa, che è una rete globale per vocazione e nei fatti, può dare un contributo importante». Questa, in verità, non è cosa inedita; ma Bagnasco ha proseguito con un richiamo all’interesse della Istituzione per il destino dell’Italia che costituisce il vero punto focale della sua intervista: «Dovremmo farci tutti più consapevoli egli ha detto del peso storico del nostro Paese, che è universalmente noto per la sua cultura e per la sua arte, ma che rappresenta pure il cuore del cattolicesimo». In altre parole, ha richiamato tutti a riflettere su quanto possa essere fecondo per la nazione italiana il fatto di ospitare sul suo territorio il governo mondiale della Chiesa. Non meno importante appare poi il profilo della nazione italiana a cui il cardinale accenna: è il profilo della nazione democratica e repubblicana, scolpito nella Costituzione, che egli considera «troppo seria, importante e costitutiva di una società e di uno Stato per esporla a incertezze che riguardano l’identità e la fisionomia di un popolo».
Da queste fondamenta discendono una chiara posizione politica della Chiesa nella crisi attuale, un orientamento culturale altrettanto netto ma per nulla chiuso, e un’indicazione di metodo storico particolarmente significativa per l’esercizio del discernimento politico. «La Chiesa non intende certo identificarsi con l’una o l’altra parte politica ha detto il cardinale ma svolgere il suo servizio a beneficio di tutti, credenti e non credenti». Il rispetto della autonomia della politica ribadito in termini inequivocabilmente conciliari è il contrario dell’indifferenza culturale; anzi, è il presupposto perché la Chiesa eserciti il suo magistero senza correre il rischio di essere accusata di vere o presunte «interferenze». E l’asse culturale in base a cui rivendica la prerogativa di esercitarlo è il confronto tra le diverse idee «di libertà e umanità» che caratterizzano il mondo contemporaneo. Non credo che per i non credenti sia auspicabile una deriva nichilistica della modernità; dunque, non può essere considerata altrimenti che come un invito al dialogo l’affermazione fatta dal cardinale Bagnasco che «troppo spesso si definisce ingerenza la semplice presenza, che disturba il fondamentalismo laico perché propone una prospettiva antropologica incompatibile con l’idea di immanenza assoluta e individualistica».
Per tornare, quindi, all’articolo di Galli Della Loggia, è pensabile, prima ancora che auspicabile, che sia la Chiesa a dare oggi l’impronta a una rimodulazione della destra italiana? È ovvio che nelle vicende umane nulla si può escludere. Ma mi sembra quantomeno improbabile che la Chiesa possa essere interessata a «contrapporre» una «nuova Dc» al Partito democratico. A poco più di un anno dall’avvio della sua stabilizzazione, il Pd sembra orientato ad assumere un profilo politico e culturale riassunto con efficacia nel libro-intervista di Bersani (Per una buona ragione, edito da Laterza). Mi limito a richiamarne la definizione del Pd come «partito della Costituzione e della Repubblica» anche perché forte dell’esperienza dell’Ulivo e fecondato dalla vitalità del «riformismo cattolico» che impresse nella Costituzione l’impronta più profonda e duratura dei suoi valori. Inoltre per rapporto alla proposta di Galli Della Loggia, conviene citare almeno un passo dell’Intervista di Bersani. «Noi possiamo, anzi dobbiamo evitare egli dice il bipolarismo etico (...). L’Italia può essere il Paese della ricerca in comune anziché della contrapposizione. L’Italia è favorita dalla presenza della massima guida spirituale cattolica, dall’impegno di credenti in tutte le forze politiche e, non da ultimo, dalla grande tradizione popolare della sinistra che, anche nel tempo dello scontro più aspro, ha sempre cercato di armonizzare le spinte ideologiche dentro un senso comune profondamente intriso di volontà di dialogo sui valori della persona».
Mi sembra dunque credibile che la presenza del Pd possa favorire la pluralità dell’impegno politico dei cattolici, piuttosto che il loro raggruppamento in un partito «di destra» che non si vede perché dovrebbe avere come unico scopo la contrapposizione ad esso. Converrebbe piuttosto domandarsi se il Pd sarà capace di sviluppare la sua cultura politica e i suoi comportamenti seguendo l’ispirazione sintetizzata a grandi linee nelle parole del suo segretario. Ma di questo non mancherà l’occasione di riparlare.

il Fatto 29.7.11
Indignati a Gerusalemme
Crisi anche in Israele, giovani contro Netanyahu
di Roberta Zunini

Gli indignati israeliani, che da due settimane protestano in tutto il Paese contro il caro vita e l’inflazione, domani usciranno dalle loro tende di fortuna per marciare uniti verso l’ufficio del primo ministro Netanyahu. Ai giovani e ai tanti indigenti che non riescono più a sopravvivere nella “terra promessa”, si uniranno anche i medici che da giorni sono entrati in sciopero. La loro indignazione del resto è molto simile: chiedono l’aumento dei salari, sempre più inadeguati a far fronte all’incremento del lavoro e alla simultanea perdita del potere d’acquisto dei loro salari.
 LA MARCIA, a cui parteciperanno anche i rappresentanti del gay pride, sarà un atto d’accusa nei confronti delle politiche liberiste del premier Bibi Netanyahu, leader dei conservatori del Likud. Che questo movimento dal basso possa mandare davvero in crisi il governo, è la sua trasversalità: la working class così come il ceto medio – la maggior parte vota Likud – sono esausti. Affittare una casa o attivare un mutuo è diventato un problema serio per tutti, tranne che per i ricchi ebrei americani che hanno drogato il mercato, acquistando seconde case nel cuore di Tel Aviv a prezzi esorbitanti. Così acquistare una casa costa il doppio rispetto a cinque anni fa e affittare uno scalcinato bilocale nel centro di Tel Aviv costa quanto a piazza di Spagna e in ogni caso intorno ai mille e cinquecento euro mensili. A provare il carattere sempre più politico della protesta è la certa – stando alle ultime notizie date dal quotidiano Hareetz – partecipazione alla marcia di domani della leader del partito di centro Kadima, Zipi Livni.
 Il Labour party, da pochi mesi orfano di Ehud Barak, che ha preferito lasciarlo pur di rimanere ministro della Difesa nell’attuale governo di destra, invece resta in silenzio. Contribuì, in accordo con il Lijud a rivedere verso il basso il welfare. Fu uno dei passi falsi più clamorosi di questo partito, che da tempo non rappresenta più una credibile alternativa alla destra e ai partiti religiosi. Anche i giovani coloni e gli ultraortodossi vorrebbero protestare e si sono affacciati sempre più numerosi sulle piazze di Gerusalemme e Tel Aviv, dove i manifestanti hanno bloccato le arterie principali con sit-in permanenti.
 “Nessuno ha intenzione di andarsene – dice Roi, un giovane medico di Tel Aviv – per entrare alla facoltà di medicina bisogna superare test durissimi e dopo tanti sacrifici ora mi trovo ad avere uno stipendio con cui riesco appena a pagarmi un monolocale e a comprare da mangiare. Esco poco perché sono stanco e ho spesso turni di notte ma non è possibile vivere così, sempre attenti a tutto. E comunque una casa decente non potrò comprarla se i prezzi resteranno questi”. Ma Roi non è certo il più sfortunato. Shira è un avvocato, laureata da due anni, che lavora in uno studio associato di Gerusalemme: “Non riesco a vivere da sola. Devo condividere l’appartamento con due colleghi. Prendiamo troppo poco, abbiamo appena aperto lo studio. Le cose però non vanno molto bene. La gente comune non ha i soldi per pagarci e spesso aspettiamo mesi prima di venire pagati”.
 DUE SOLDATESSE che vivono nel sud di Israele si lamentano perché, essendo di stanza a Tel Aviv, hanno dovuto affittare un appartamento. “Quando ci danno i congedi di due o tre giorni non possiamo tornare al sud e quindi condividiamo casa con due ragazzi di Jaffa. Loro lavorano in una casa in un centro commerciale e in una casa di riposo”. I soldati di leva fino a qualche anno fa avevano delle agevolazioni ma ora non più. E il malcontento nell’esercito non è un bel presagio per il governo Netanyahu che ha dovuto rinunciare a un viaggio in Europa per occuparsi di piani urbanistici e smorzare le proteste con iniziative di edilizia popolare. Disegni di legge che sono già stati bollati come insufficienti. Nelle strade di Tel Aviv e di Gerusalemme, le due città principali, aumentano di giorno in giorno barboni e giovani senza tetto. Nei pressi della stazione degli autobus di Tel Aviv, ai giovani gay senza tetto, sbattuti fuori di casa dai genitori e costretti a prostituirsi, si aggiungono costantemente ragazzi ebrei e arabi israeliani disoccupati.
 Il sole e il mare di questa città, un tempo meta ambita di tutti i giovani israeliani, non bastano più a scacciare le preoccupazioni per un futuro sempre più incerto. Ma a questo punto il futuro è incerto anche per qualcuno che vive nella strada più bella e costosa di Gerusalemme: Bibi Netanyahu, che ieri ha dovuto rinunciare alla partenza per un giro di consultazioni sull’imminente procalmazione dello Stato palestinese all’assemblea dell’Onu.

Agenzia Radicale 29.7.11
Ultra destra xenofoba: la lunga cecità europea
di Flore Murard-Yovanovitch

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il Fatto Saturno 29.7.11
Bancarotta rossa
Aprile 1991. Perché fallì il sogno sovietico
di Marco Onado

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giovedì 28 luglio 2011

La Stampa 28.7.11
Abu Mazen non si ferma “La Palestina all’Onu”
Il presidente annuncia: a settembre chiederemo il riconoscimento
di Aldo Baquis


Forte del sostegno della Lega Araba e reduce da una approfondita consultazione con novanta ambasciatori palestinesi, il presidente dell’Anp Abu Mazen ha ieri confermato ai vertici dell’Olp convocati a Ramallah che a settembre si rivolgerà al Consiglio di sicurezza dell’Onu per ottenere una ammissione a pieno titolo all’Onu e il riconoscimento della Palestina entro le linee del 1967, accanto ad Israele. Alla Assemblea generale, ha calcolato, 122 Paesi sostengono già questa iniziativa.
Per la prima volta in pubblico, Abu Mazen ha anche fatto appello ai palestinesi affinché assecondino questo sforzo diplomatico con manifestazioni non violente di «resistenza popolare», sull’esempio delle masse impegnate altrove in Medio Oriente nella «Primavera araba».
Abu Mazen ha quindi sostenuto con enfasi che il ricorso alle Nazioni Unite non contrasta con l’impegno dei palestinesi a ricercare una intesa negoziata con Israele. «La pace è la nostra scelta» ha esclamato. Ma il Quartetto, ha lamentato, finora ha fallito su diversi fronti: non è riuscito a rilanciare le trattative, né a congelare la colonizzazione ebraica in Cisgiordania e a Gerusalemme.
Il presidente palestinese sembra dunque determinato ad intraprendere una strada ricca di incognite. Oltre alla scontata ostilità israeliana - che vede nella sua scelta una uscita allarmante ed unilaterale dalla sostanza degli accordi di Oslo del 1993 - Abu Mazen deve fare i conti con il presidente Barack Obama che sulla costituzione dello Stato palestinese in tempi serrati ha impegnato il proprio prestigio personale e che tuttavia potrebbe opporre un veto alla iniziativa palestinese al Consiglio di sicurezza.
Per dissuadere Abu Mazen dal giocare d’azzardo all’Onu, gli Stati Uniti hanno minacciato di ridurre gli aiuti economici all’Anp. La reazione del negoziatore Saeb Erekat non si è fatta attendere. L’Anp, ha detto, «non cederà a ricatti». In casi estremi, ha avvertito, Abu Mazen potrebbe «gettare in faccia agli americani le chiavi» e proclamare la dissoluzione dell’Anp. Ieri Abu Mazen ha confermato che la crisi finanziaria dell’Anp è allarmante e che - in assenza di aiuti arabi - è problematico il pagamento degli stipendi ai funzionari pubblici.
Un altro elemento di incertezza riguarda i rapporti fra al-Fatah e Hamas. Abu Mazen sperava di potersi presentare all’Onu con un governo unitario di tecnocrati, sostenuto da tutte le forze politiche. Ma i contatti languiscono da settimane e il nuovo esecutivo non sembra all’orizzonte. Intanto a Gaza Hamas torna a mostrare il proprio volto marziale con la esecuzione capitale, questa settimana, di due palestinesi sospettati di collaborazionismo con Israele. Sempre a Gaza integralisti islamici hanno attaccato e distrutto ieri un campo di divertimenti che includeva alcuni prati, una modesta piscina ed un caffè. Una operazione dettata, è stato spiegato, dalla necessità di imporre una più stretta «moralità pubblica».
«Il Quartetto ha fallito il negoziato e non ha congelato gli insediamenti ebraici»

mercoledì 27 luglio 2011

l’Unità 27.7.11
Piazze occupate contro il caro vita e l’impennata dei prezzi delle abitazioni
Peres: «Ceti medi in ginocchio». Il premier Netanyahu crolla nei sondaggi e scende al 31%
Israele, rivolta contro la destra: non si arriva alla fine del mese
Occupano le piazze. Conquistano le prime pagine dei giornali. Costringono Netanyahu sulla difensiva: sono gli «indignados» israeliani, protagonisti di una protesta sociale sostenuta dal 90% dell’opinione pubblica.
di Umberto De Giovannangeli

Da Tel Aviv a Gerusalemme, da Haifa a Beer Sheva: la protesta sociale dilaga in Israele, con pesanti ricadute sugli equilibri politici nello Stato ebraico. Gli «indignados» conquistano le piazze e le prime pagine dei giornali e le aperture dei Tg.
Davanti alle dilaganti proteste di piazza per il caro alloggi e la crisi sociale, il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, in una frettolosa conferenza stampa, ha illustrato ieri a Gerusalemme un piano volto ad assicurare in meno di due anni abitazioni a un costo accessibile per studenti, giovani coppie e soldati smobilitati.
Dopo aver esordito con l'ammissione che «la crisi degli alloggi è reale», Netanyahu ha annunciato che il piano, che in alcuni punti dovrà essere approvato dalla Knesset (il Parlamento), prevede una serie di riforme in grado a suo dire d'immettere sul mercato 50 mila nuovi appartamenti entro un anno e mezzo. È inoltre prevista la costruzione di 10 mila alloggi a prezzo contenuto per gli studenti e il dimezzamento del costo di tutti i trasporti pubblici per quelli che vivono in località periferiche distanti dalle sedi di studio.
Netanyahu - allarmato per l'ondata di contestazioni tanto da rinviare una visita ufficiale in Polonia - ha attribuito parte considerevole della crisi alle «intollerabili» lentezze burocratiche nell'approvazione dei programmi di edilizia da parte delle competenti commissioni e al fatto che il 90% delle terre è nelle mani dell'Israel Land Administration (monopolio governativo che amministra il demanio). Il piano - ha promesso - intende forzare comunque anche i proprietari privati di case sfitte, attraverso strumenti fiscali, a metterle sul mercato. A giudicare dalle prime reazioni, raccolte dai media locali, le misure del premier non sembrano aver tuttavia convinto la piazza, simboleggiata fra gli altri dai manifestanti accampati nel centralissimo Boulevard Rotschild, nel cuore mondano di Tel Aviv.
LA PROTESTA DILAGA
Tanto più che la«rivolta sociale» contro la destra di governo - inedita da molti anni in queste forme nel Paese - si è già allargata ben oltre la questione casa, per coinvolgere settori diffusi dei ceti medi toccati dal carovita, dalle crescenti disparità e dal livello degli stipendi medi israeliani, che restano stagnanti a dispetto del buon andamento dei dati macroeconomi-
ci degli ultimi anni. Ieri, toccando per la prima volta
l'argomento, il presidente, Shimon Peres, ha parlato della necessità di dare risposte concrete a ceti sociali che «hanno contribuito in modo decisivo alla crescita» di Israele, riconoscendo apertamente che fasce della classe media «non riescono ad arrivare ormai a fine mese». Un sondaggio, pubblicato dal quotidiano liberal Haaretz, indica intanto che Netanyahu ha già subito una forte perdita di consensi, scendendo dal 51% di due mesi fa al 31 di adesso.
Dalla rilevazione risulta inoltre che le manifestazioni contro il caro alloggi e quelle dei medici per un miglioramento delle condizioni di lavoro e della sanità pubblica possono contare sul sostegno di massa di quasi il 90% della popolazione.
Nonostante le rassicurazioni ventilate, il bersaglio numero uno della protesta resta il premier, Benyamin «Bibi» Netanyahu. «Ne abbiamo abbastanza di Bibi», era la scritta più gettonata -insieme con «Pane e casa non sono un lusso» - fra i cartelloni inalberati qualche sera fa nella piazza del teatro Habima di Tel Aviv, dove all'improvviso si sono ritrovate 20.000 persone. Mentre a Gerusalemme la campagna degli «indignados» israeliani - sebbene partita più tardi - è sfociata nei giorni scorsi in un doppio blocco degli accessi della Knesset.


l’Unità 27.7.11
Evoluzione umana
Siamo meticci: la «razza pura» è solo in Àfrica
Gli scienziati hanno riscritto l’evoluzione umana alla luce dei rilevamenti genetici: in Europa e in Asia l’Homo sapiens ha un «Dna arlecchino», frutto di incroci con altre specie
di Pietro Greco

Era una bella storia - semplice, lineare, consolatoria - quella    dell’evoluzione umana che abbiamo appreso a scuola e che si è conservata pura fino a una decina di anni fa. Ci narrava come in principio è venuto Homo habilis, 2 milioni e mezzo di anni fa o giù di lì, che si è distaccato dai rami delle Australopitecine, con un bel balzo cognitivo ha imparato a lavorare la pietra e ha così inaugurato il genere Homo. Poi mezzo milione di anni dopo è venuto Homo erectus, che ha raggiunto, anche come massa cerebrale, le nostre dimensioni, è uscito dall’Africa e ha colonizzato l’intero pianeta. Infine duecentomila anni fa, sempre in Africa, siamo venuti noi, gli Homo sapiens. Anche la nostra specie ha lasciato l’Africa, più o meno centomila anni fa, e ha preso progressivamente possesso di tutti i continenti. Certo, i nostri antenati hanno incontrato gli eredi degli erectus, di Neandertal. Ma senza mescolarsi con loro. In ogni caso loro, i neandertaliani, gli uomini antichi, si sono estinti, circa 40.000 anni fa, mentre noi sapiens, ormai soli in virtù delle nostre superiori capacità mentali, abbiamo acquisito il linguaggio vocale complesso, abbiamo inventato l’arte (la splendida arte rupestre) e abbiamo dato una brusca e decisiva accelerazione a all’evoluzione culturale.
Bene, questa bella storia in cui Homo sapiens arriva alla fine, sbaraglia tutti e sale in cima alla scala grazie alle sue superiori qualità, è stata completamente riscritta dagli scienziati grazie a nuovi ritrovamenti fossili e, soprattutto, allo studio del Dna. La nuova storia è molto più complicata. Ricca di nomi e di situazioni. Tortuosa e persino ingarbugliata. E ha un finale a sorpresa.
Ce ne fornisce un ottimo riassunto Telmo Pievani, filosofo della scienza, nel libro La vita inaspettata che ha da poco pubblicato con l’editore Cortina.
In primo luogo Pievani ci ricorda che a uscire dall’Africa e a disseminarsi per il globo in diverse ondate successive sono state almeno tre specie diverse del genero umano. Per primo è partito Homo ergaster (o Homo erectus) circa 1,9 milioni diannifaeinpoco millenni si è insediato in tutta l’Eurasia. Poi, mezzo milione di anni fa, è partita l’onda degli Homo heidelbergensis (o Homo rhodesiensis). È questa la specie cui appartengono i Neandertal. Infine dall’Africa è partito in almeno due ondate Homo sapiens. Una prima volta, tra 120 e 100.000 anni fa, ha raggiunto le coste dell’Arabia e si è disseminato per la penisola. Non sappiase è riuscito ad andare oltre. La seconda volta, tra 80 e 70.000 anni fa, ha at-
traversato il Sinai ed è giunto in Medio Oriente, da cui è partito seguendo almeno due strade diverse alla conquista (ma occorrerebbe parlare di semplice diffusione, perché non c’è nulla di militare in questi spostamenti di popolazioni di migranti) dell’Asia e dell’Australia. Dal Medio Oriente i sapiens sono partiti anche, intorno a 40.000 anni fa, per diffondersi in Euro-
pa. Contrariamente a quanto si credeva, appunto, fino ad appena dieci anni fa, la nostra specie non ha incontrato solo i Neandertal, antichi eredi dei migranti heidelbergensis. E non li ha incontrati solo in Europa e in Medio Oriente.
Ma andiamo con ordine. Nell’anno 2003 nell’isola indonesiana di Flores sono stati trovati i resti di uomini molto diversi da noi: più bassi di statura e con un volume cerebrale pari a un quarto del nostro. Gli antropologi hanno ribattezzato Homo floresiensis quella specie sconosciuta di uomini e hanno dimostrato che sono discendenti della prima ondata migratoria, quella degli ergaster (o erectus). E che, per adattarsi all’ambiente dell’isola in cui sono giunti probabilmente 900.000 anni fa, hanno diminuito la massa corporea e cerebrale. Lo strano è che quei resti risalgono ad appena 13.000 anni fa. Quando a Flores erano giunti anche i sapiens. Dunque i nostri antenati hanno convissuto con un’altra specie umana fino a tempi recentissimi.
Ma le sorprese non sono finite. Perché nel 2008 nella grotta di Denisova, sui Monti Altai, in Siberia, è stato rinvenuto un dito con un Dna relativamente integro che ha consentito a Svante Pääbo, il maestro dell’antropologia molecolare, a Johannes Krause e a un folto gruppo di collaboratori del Max Planck Institute di Lipsia di confermare che lì è vissuta una specie umana, ribattezzata Homo di Denisova. Anche questa specie è una discendente degli ergaster, giunti da quelle parti oltre 1,5 milioni di anni fa. Il dito, tuttavia, è appartenuto a un individuo vissuto circa 40.000 anni fa. E il bello è che lì vicino, nelle valli dei Monti Altai, sono stati trovati anche resti sia di Neandertal sia di sapiens risalenti più o meno allo stesso periodo. Dunque nella Siberia meridionale sono vissuti contemporaneamente membri di tre specie umane diverse, partite dall’Africa in tre epoche diverse: 1,9 milioni di anni fa; 500.000 anni fa e 80.000 anni fa. Non è finita. Perché, ricorda ancora Pievani, tra gli antropologi si sta facendo sempre più robusta la convinzione che un’altra specie umana, Homo erectus soloensis, discendente appunto degli antichi erectus, sia vissuta sull’isola di Giava fino a circa 40.000 anni fa.
Abbiamo, dunque, le prove che mentre noi sapiens stavamo acquisendo il linguaggio forbito e stavamo imparando a dipingere sulle pareti delle grotte, dividevamo il pianeta con almeno altre quattro specie appartenenti al genere Homo (Neandertal, Homo di Denisova, Homo erectus soloensise Homo floresiensis). E che questa convivenza è durata, almeno con alcuni, fino a poche migliaia di anni fa.
Per la gran parte della nostra presenza sulla Terra, in Africa e anche fuori dall’Africa, non siamo stati dunque soli. E nessuno, in tutti questi millenni, avrebbe avuto fondati motivi per scommettere sul successo della nostra specie, invece che su quella di altre. Altro che inevitabile conseguenza di una storia lineare. Noi sapiens siamo usciti vincitori a seguito di una serie fortunata di circostanze, al termine di un lunghissimo gioco dall’esito mai scontato.
E non vi abbiamo ancora detto della sorpresa finale. Il primo ad analizzare il Dna (mitocondriale) dei Neandertal è stato, proprio una decina di anni fa, il già citato Svante Pääbo. Il quale sulla base dei dati disponibili aveva escluso che Neandertal e sapiens si fossero accoppiati. O, almeno, che accoppiandosi avessero avuto una progenie a sua volta prolifica. Insomma, una decina di anni fa avevamo buoni motivi per credere che il nostro Dna di uomini sedicenti sapienti fosse, per così dire, «puro».
Ma proprio lo scorso anno Svante Pääbo ha presentato i risultati dell’analisi comparata del Dna di uomini di Neandertal e di uomini moderni. Scoprendo che nel Dna degli africani, discendenti di sapiens mai usciti dall’Africa, il Dna non presenta tracce di ibridazioni con quello dei Neandertal. È, per cosìdire,«puro».Mentre il Dna degli europei e degli asiatici ci sono tracce (intorno al 4% del materiale genetico) ereditato da uomini di Neandertal. La nostra specie si è incrociata, più o meno saltuariamente, con quegli uomini più antichi e noi europei e asiatici ne conserviamo la traccia. Le stessa cosa è avvenuta tra i sapiens asiatici e membri della specie Homo di Denisova, perché nel Dna di uomini moderni che vivono in Nuova Guinea e in Melanesia sono state trovate tracce (intorno al 5-8%) di quegli antichi discendenti degli ergaster.
Altro che Dna puro. Il nostro è, come scrive Telmo Pievani, un «Dna arlecchino». Frutto di una piccola promiscuità genetica che ha accompagnato una elevata promiscuità fisica con tante altre specie di uomini. Il nostro successo la nostra fortuna è anche il frutto di questa capacità di saper accettare e abbracciare «l’altro».