La parola uguaglianza
La fiducia può tornare solo riducendo le diseguaglianze
Tre anni perduti a dire che l’Italia stava meglio degli altri paesi mentre si era incapaci di affrontare la crisi economica Bisogna ricominciare dagli investimenti, dall’occupazione, dai redditi
di Susanna Camusso
Tre anni persi alle spalle. Tre anni passati a raccontare che la crisi non c'era e poi che era finita. Tre anni nel corso dei quali il governo si è vantato del rigore dei conti come unica ricetta per affrontare la crisi. Per non rammentare quando si affermava che l’Italia stava meglio degli altri paesi europei e che non c’era bisogno di alcuna manovra di aggiustamento. Già queste sono ragioni per dire che il governo è stato ed è un fattore di aggravamento della condizione e di certo non artefice di soluzioni. Non si è dimostrato capace, infatti, di capire la situazione e non solo di agire. Per questo motivo serve aprire subito una fase politica nuova, con un governo che sia in grado di fare il proprio mestiere e di rilanciare il Paese.
All’inizio la Cgil è rimasta sola a sollevare queste critiche al governo Berlusconi. Ognuno guardava a sé e non al paese. Cercava una qualche utiità privata o corporativa nelle pieghe dei provvedimenti e non pensava all’effetto finale e depressivo dei tagli. Mentre altri non avevano il coraggio di prendere le distanze da un governo che a lungo li aveva considerati interlocutori privilegiati. Ci sono voluti la speculazione finanziaria, l’attacco all’euro e il rischio default americano per rendere palese a tutti che una manovra che non avvia la crescita è non solo socialmente ingiusta ma anche economicamente inefficace.
Di fronte a questa situazione ci vuole un energico e immediato salto di qualità nella politica economico-finanziaria e reale insieme. Il paese deve tornare rapidamente a crescere e utilizzare le sue migliori risorse siano esse professionali e produttive, di conoscenza e di competenza altrimenti il declino sarà inarrestabile e saremo travolti da un decennio recessivo che ci porterà, manovra dopo manovra, ai margini dell’Europa. Crescere significa favorire gli investimenti privati e l’occupazione: la buona occupazione dei giovani che oggi sono tenuti fuori dal mercato del lavoro da un’assurda politica di «precarizzazione a vita» fatta dal governo. La crescita come obiettivo interno al riaggiustamento dei conti, investendo sui fattori strategici di sviluppo. Non la politica dei due tempi: il riequilibrio senza crescita non ci sarà. Queste le riflessioni della Cgil e le riflessioni anche di molte delle parti imprenditoriali che hanno firmato l’appello per la crescita, pur avendo, ciascuno dei firmatari, una propria agenda poltica.
Agire subito per rilanciare l’occupazione, gli investimenti e i consumi significa per noi difendere i redditi dei lavoratori, dei pensionati e delle famiglie; significa ridurre le disuguaglianze e ridare fiducia al Paese. Le prime reazioni del governo non fanno sperare nulla di buono: l’unica risposta per adesso è la riproposizione di provvedimenti legislativi come il 'processo lungo', quasi come se i problemi del paese reale fossero un oggetto da rimuovere. La Cgil ritiene prima di tutto che si debba correggere la manovra Tremonti. Tenendo fermi i saldi, è possibile agire su voci diverse da quelle scelte dal Governo, in modo da non colpire chi è economicamente più debole, lasciando margini di spesa sul welfare alle Regioni e ai Comuni e reperire risorse per la crescita. Dimostreremo che è possibile farlo senza mettere in ginocchio nessuno ma chiedendo un contributo a tutti gli strati sociali, a partire da chi ha di più. Bisogna risparmiare sulla spesa pubblica, riorganizzando e semplificando la struttura amministrativa istituzionale: consorzi "obbligati" dei comuni piccoli, reti dei servizi e delle municipalizzate, abolizione delle società inutili. In questo quadro anche i costi della politica si possono ridurre a partire dai previlegi.
Bisogna ridare unità al Paese, tradurre in investimenti effettivi le risorse nazionali ed europee che ci sono, a partire dall'alta capacità Napoli-Bari e dal collegamento via mare e via rotaia tra i porti.
Le altre sfide
Legalità, evasione, precarietà, corruzione: metteremo in campo un’altra idea di governo
Legalità, evasione e corruzione sono un altro grande capitolo che va affrontato con una legge contro il caporalato, con norme sugli appalti, con la tracciabilità a soglia molto bassa, con nomine non politiche nella sanità e nei vari enti. Sono tutte strade per far emergere la grande quota di sommerso del nostro paese.
Metteremo in campo un’altra proposta, un’altra idea di governo dell'economia che sarà alla base di una mobilitazione che continuerà in autunno, perché siamo convinti che la manovra è ingiusta, sbagliata e socialmente insopportabile. Chiederemo a Cisl e Uil di mobilitarci insieme, lo proporremo alle altre parti sociali, alle Regioni e alle amministrazioni locali. Con loro vorremmo definire e concordare una piattaforma per la crescita del paese e la valorizzazione del lavoro. Un progetto e un futuro che l'Italia merita di avere.
l’Unità 31.7.11
Intervista a Massimo D’Alema
«È il fallimento del governo Berlusconi non della politica»
Il presidente di Italianieuropei «La destra organizza una campagna contro il Pd ma il nostro problema è l’egoismo titanico del premier Faccia come Zapatero, che ha mostrato responsabilità verso il suo Paese»
di Francesco Cundari
Intervista a Massimo D’Alema
«È il fallimento del governo Berlusconi non della politica»
Il presidente di Italianieuropei «La destra organizza una campagna contro il Pd ma il nostro problema è l’egoismo titanico del premier Faccia come Zapatero, che ha mostrato responsabilità verso il suo Paese»
di Francesco Cundari
Il problema, dice Massimo D'Alema, non è la «casta», ma Berlusconi. Silvio Berlusconi e il suo «egoismo titanico». Un presidente del Consiglio concentrato solo «sui suoi problemi giudiziari e le sue leggine ad personam», che per nascondere le sue responsabilità nella crisi «aizza campagne contro la politica in generale e contro di noi in particolare». In che senso?
«Nel senso che se il problema è l’assistenza sanitaria per il deputato, meglio affidarsi all’unico che di sicuro non ne ha bisogno. È la filosofia illustrata da Giulio Tremonti: non rubo perché non ne ho bisogno. Dunque, per combattere la “casta” e avere una politica pulita, dovremmo affidarci ai ricchi. Una tesi antica, e discutibile anche nel merito: la storia dimostra che i ricchi rubano molto più dei poveri, perché hanno più esigenze. Ma ovviamente non è questo il punto». E qual è?
«Il punto è che il centrodestra prima boccia in Parlamento le nostre proposte per tagliare costi e privilegi, come il vitalizio. E poi, sui suoi giornali, guida le campagne contro la “casta”. E contro il Pd».
Le inchieste che hanno coinvolto esponenti del Pd come Filippo Penati, però, non sono un'invezione dei giornali. «Prima di tutto vorrei dire che noi non sottovalutiamo affatto il pericolo che un grande partito che ha responsabilità amministrative e di governo possa imbattersi in episodi di corruzione. E non rivendichiamo, ormai da tantissimi anni, una diversità genetica. Riteniamo che la politica debba avere delle regole, rispettare i magistrati e il loro lavoro, e abbiamo detto che non abbiamo nulla da nascondere e nessuno da proteggere. Le persone oggetto di gravi accuse facciano un passo indietro».
Il quadro che emerge dai giornali è preoccupante, non crede? «Si tratta di vicende che se venissero confermate anche solo in parte sarebbero molto gravi. Ma anche qui ci sono aspetti poco chiari, che suscitano almeno due domande. La prima è perché mai, trattandosi di vicende risalenti a molti anni fa, il principale accusatore di Penati non abbia usato quelle informazioni in campagna elettorale, quando si candidò con il centrodestra».
E la seconda?
«La seconda è dove sia finito questo fiume di denaro. Si parla di 20 miliardi di lire dell’epoca. Un’epoca in cui ricordo bene quali fossero le difficoltà economiche del partito milanese. Tanto che si dovette vendere la sede di via Volturno».
L’altro caso al centro delle polemiche è quello del senatore Tedesco, che dal punto di vista politico viene imputato soprattutto a lei.
«È naturale. Non appena qualcuno ha dei guai con la giustizia, subito la stampa lo battezza come “dalemiano”. A quel punto, l’unica speranza che ha di riprendere il suo nome è di essere assolto. Solo allora riacquista la sua identità».
Dunque, il problema non esiste?
«Il problema nasce dall’estrema scorrettezza del Pdl, che ha rifiutato di concedere autorizzazione all’arresto e voto palese in aula, nonostante a chiederli fosse lo stesso Tedesco, e ha rifiutato perché pensava così di crearci un problema. Purtroppo, aveva ragione. Infatti le responsabilità della destra sono subito scomparse dalla scena».
Al di là del voto parlamentare, non ritiene di avere avuto nella vicenda Tedesco qualche responsabilità? «No, l’idea del complotto dalemiano su Tedesco è ridicola. Figuriamoci cosa si sarebbe detto se fossi stato io il presidente della Regione che lo ha nominato assessore alla Sanità. Avrebbero crocifisso me e tutto il Pd. Ricordo peraltro che Tedesco era in quel momento leader di un altro partito, aveva molti voti e il suo passaggio con il centrosinistra fu determinante per la vittoria di Vendola».
Al Pd si rimprovera di averlo portato in Parlamento, mandando in Europa Paolo De Castro... «Forse qualcuno dovrebbe ricordare che Paolo De Castro è presidente della Commissione agricoltura del Parlamento europeo. È forse la posizione più importante che abbia un italiano in Europa. L’idea che sia stato candidato non per sue qualità, ma per fare entrare Tedesco in Senato, è ridicola».
A proposito di questione morale, in tutte le vicende di questi mesi, che hanno toccato anche la sua fondazione, non ritiene di avere nulla da rimproverarsi?
«Il mio errore riguarda il fatto di avere lasciato che per un anno Vincenzo Morichini raccogliesse fondi per la fondazione Italianieuropei, cosa del tutto lecita e documentata nel modo più trasparente. Ma la sovrapposizione con le attività private di Morichini ha creato evidentemente un conflitto di interessi che avremmo dovuto evitare, prevenendo ogni possibile rischio del genere. Ecco quel che mi rimprovero. Ma questo non giustifica la campagna inaccettabile scatenata contro di noi in particolare dai giornali che sono direttamente o indirettamente riconducibili al presidente del Consiglio, un pulpito da cui davvero non si possono accettare lezioni sulla questione morale».
Non teme che la campagna faccia presa sull’elettorato? «Gli italiani vogliono un’altra politica e lo dimostrano i sondaggi di questi giorni: nonostante tutte le polemiche, il Pd non registra il minimo calo. L’idea di cancellare la politica e di affidarsi al partito-impresa di un miliardario gli italiani l’hanno già sperimentata e gli effetti si vedono».
Alcuni dicono che se lo stato intervenisse di meno nell’economia si correrebbero meno rischi. Che ne pensa? «Siamo stati noi che abbiamo privatizzato e liberalizzato, non certo la destra. Tuttavia il vero grande problema che non solo in Italia ma nel mondo ci troviamo di fronte con la crisi è proprio quello di tornare a un primato della politica sull’economia. Il dominio della finanza e del mercato senza regole, cioè senza la politica, è stato all’origine della crisi di oggi e ha contribuito anche a produrre una caduta di tensione ideale ed etica. Non si esce dal berlusconismo sulle macerie del sistema democratico e dei partiti, ma al contrario rigenerandolo e dando a esso una nuova legittimazione nel rapporto con il Paese». Come?
«Tutti dovrebbero capire che Berlusconi porta alla rovina. Non soltanto l’economia italiana, ma anche il sistema democratico. Zapatero mostra senso di responsabilità di fronte al destino del suo Paese, capendo che un governo senza consenso non può affrontare la crisi. Berlusconi, invece, non ha il minimo senso dello stato e si occupa solo degli interessi suoi, non del destino dell’Italia. Credo che anche nella destra ci sia chi comincia a capirlo. Si facciano coraggio, prima che sia tardi. Noi siamo pronti a prenderci le nostre responsabilità».
l’Unità 31.7.11
Intervista a Desmond Tutu
«La fame non è un fenomeno naturale. La colpa è dei governi»
Il premio Nobel: nel Corno d’Africa i più deboli e i bambini rischiano di morire «L’impegno dei volontari non basta, i Paesi più ricchi devono muoversi»
di Umberto De Giovannangeli
Un «Grande d’Africa» alza la sua voce per «quelli che non hanno più la forza per farlo»: le «sorelle e i fratelli della Somalia e del Corno d’Africa, i più indifesi tra gli indifesi». Alza la voce per lanciare un appello accorato alla Comunità internazionale perché agisca subito, «con determinazione e generosità» per salvare milioni di vite umane messe a rischio dalla carestia che sta segnando la regione dopo due anni di siccità. A parlare è Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace nel 1984, Arcivescovo benemerito della Chiesa anglicana a Città del Capo, eroe, assieme al suo amico di una vita Nelson Mandela, della lotta contro il regime dell’apartheid in Sud Africa. Vorrei poter dare un nome e un volto al mezzo milione di bambini che nel Corno d’Africa rischiano di morire di fame dice Desmond Tutu Ogni giorno, mentre noi stiamo parlando, nella sola Mogadiscio muoiono 6-7 bambini. Ognuno di loro è una entità unica, irripetibile. Non sono numeri, sono esseri umani». Il Nobel per la Pace è tra le personalità mondiali che hanno aderito alla campagna lanciata a giugno da Oxfam : COLTIVA. Il cibo. La vita. Il pianeta». Nello scritto che ha accompagnato la sua adesione, Desmond Tutu concludeva così: «Naturalmente molti governi e imprese opporranno resistenza al cambiamento delle loro modalità operative, delle loro abitudini, delle loro ideologie e del loro modo di perseguire il profitto. Dipenderà pertanto da noi – da voi, da me – convincerli, scegliendo alimenti che sono prodotti in modo corretto e sostenibile, riducendo al massimo la nostra impronta di anidride carbonica, schierandoci con Oxfam e pretendendo che le cose cambino. Non sarà facile. Ma non è mai valsa la pena lottare per niente di più importante». Un impegno tanto più vitale oggi, a fronte della caastrofe umanitaria in atto in Somalia e nel Corno d’Africa. «In tutto il pianeta ricorda l’Arcivescovo anglicano sono circa un miliardo gli uomini, le donne e i bambini che anche questa notte andranno a dormire affamati. Malgrado tutto, l’esperienza di tutta una vita mi ha insegnato che non esiste problema così grande da essere insolubile, né ingiustizia così radicata da non poter essere estirpata. E tra queste vi è la fame».
Le notizie che giungono dalla Somalia si fanno sempre più drammatiche. C’è chi parla della più grave catastrofe umanitaria oggi al mondo... «Purtroppo è così. Nonostante l’impegno generoso, eroico, dei volontari delle Ong internazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite, la situazione rimane gravissima. A rischio è la vita di nove-undici milioni di esseri umani. E a rendere ancor più devastante la situazione è il costo dei generi alimentari, del carburante, e i conflitti regionali che segnano l’area. Il mondo non può chiudere gli occhi di fronte a questa immane tragedia. Nessuno può dire: non sapevo, non potevo”. A cominciare dai Grandi della Terra. E’ a loro che mi rivolgo in primo luogo, ai Paesi ricchi che altre volte in passato hanno dato prova di generosità. A loro dico: Ricordate l’Africa!. L’Onu ha valutato che occorrono 1,4 miliardi di dollari per far fronte alla più stretta emergenza. Cosa sono, chiedo, di fronte al denaro delapidato in armamenti...Usare il denaro per salvare vite e non per spezzarle: quale miglior uso...Un appello sento di doverlo rivolgere anche alle nazioni dell’Africa: non indietreggiate. Diamo il buon esempio. Costituiamo la linea più avanzata di attenzione per i nostri fratelli, le nostre sorelle, i nostri bambini e parenti che si trovano in queste terribili difficoltà. Dimostriamo di essere uniti nella solidarietà, ciò ci renderà più forti e autorevoli nel mondo. La malnutrizione è diffusa a Mogadiscio, in una vasta area del centro e nel nord della Somalia, e tra i profughi somali che hanno attraversato i confini del Kenya, spesso a piedi, a centinaia di migliaia. Per tutti loro speranza significa vivere. Spetta a ognuno di noi garantirla. Fare appello ai potenti della Terra non significa in alcun modo delegare un impegno che deve riguardare ciascuno di noi. E’ un concetto a me caro, che ripeto spesso a quanti hanno la pazienza di ascoltarmi: fai la tua piccola parte di bene dove ti trovi; sono queste piccole parti di bene messe insieme che riempiono il mondo».
Quando si parla di carestia, di emergenza-fame spesso si fa riferimento a “catastrofi naturali”... «Non sono d’accordo. La fame non è un fenomeno naturale, bensì una tragedia provocata dall’uomo. Non si ha fame perché non c’è abbastanza da mangiare, ma perché i meccanismi che trasportano i generi alimentari dai campi alla tavola non funzionano bene. I nostri governi dovrebbero addossarsene la responsabilità. Le loro politiche di governo e di amministrazione stanno favorendo un sistema fallito che offre benefici a poche industrie potenti e pochi gruppi di interesse a discapito di molti. Hanno speso miliardi di dollari per il settore dei biocombustibili e per i coltivatori a nord, ma hanno abbandonato 500 milioni di piccoli coltivatori che messi insieme sfamano però un terzo del genere umano. I governi, soprattutto quelli dei potenti Paesi del G-20, devono dare il via alla trasformazione, devono investire nei produttori poveri e assicurare loro il sostegno di cui necessitano per adattarsi al cambiamento del clima. No, la fame non è davvero un «fenomeno naturale».
I primi ad essere colpiti sono i più deboli tra i deboli: i bambini. «È sempre così. Vorrei poter dare un nome e un volto al mezzo milione di bambini che nel Corno d’Africa rischiano di morire di fame. Ogni giorno, mentre noi stiamo parlando, nella sola Mogadiscio muoiono 6-7 bambini. Ognuno di loro è una entità unica, irripetibile. Non sono numeri, sono esseri umani. Di fronte agli appelli lanciati dalle agenzie Onu, dalle organizzazioni umanitarie, in molti, tra i potenti, rispondono facendo promesse. Una promessa fatta ai poveri è particolarmente sacra.
È un atto di grazia e di grande autorità quando vengono fatti tutti gli sforzi per onorare questi patti. A volte, però, queste promesse restano tali. Ciò non deve accadere in questo terribile frangente. Una promessa fatta a un povero è particolarmente sacra. Non mantenerla è un peccato».
il Fatto 31.7.11
Silenzio d’interessi
Nichi non parla Tedesco
di m.trav.
Diversamente da D’Alema, Bersani e perfino Tremonti, Vendola non risponde alle domande scomode. Mercoledì a ilfattoquotidia no.it Alberto Tedesco rivela che fu Vendola nel 2006 a proporgli l’assessorato alla Sanità. Tedesco chiese un’altra delega, visto che la sua famiglia ha aziende sanitarie. Ma Vendola fu irremovibile, in barba al conflitto d’interessi. Chiediamo spiegazioni alla sua portavoce: invano. Un cronista le chiede direttamente a Vendola in un incontro ad Amalfi. Nisba: “Su Tedesco non rispondo, parliamo di Milanese”. Ma con Milanese Vendola non c’entra. C’entra con Tedesco, infatti non ne parla. Preferisce dare interviste compiacenti a Panorama e GQ. Ecco perché il centrosinistra se n’è sempre infischiato del conflitto d’interessi di B: per non dover risolvere i propri.
Corriere della Sera 31.7.11
Neonati rubati alle madri Il Dna smaschera i finti genitori spagnoli
Dagli anni 50 a oggi sono 300 mila i bebè sottratti
di Elisabetta Rosaspina
A 59 anni, Mabel è una bambina di 2. Una bambina rubata. Ne aveva 57 quando scoprì ciò che sospettava fin da piccola: la mamma non era la sua mamma. Il papà, un militare franchista mutilato nella battaglia dell’Ebro, non era il suo papà. Sì, l’avevano allevata e amata come una figlia, la loro unica figlia. E lei continuerebbe a considerarsi tale, se le avessero detto in tempo la verità, o almeno una parte della verità. La più confessabile. Adesso è troppo tardi. Sono morti entrambi: non possono più spiegarle le ragioni dell’inganno che il test del Dna ha appena smascherato. Le rimangono soltanto domande senza risposta e una foto, la foto della menzogna: i suoi giovani, felici genitori con in braccio un neonato. Che non è Mabel. Chi ci pensava, allora, che una goccia di saliva sarebbe bastata, 60 anni dopo, a smentire ineccepibili certificati di nascita, bollati e protocollati? Il 10 marzo del 1952, giorno in cui Mabel Escuer probabilmente fu messa al mondo, quasi certamente a Madrid, ma di sicuro da una donna diversa da quella che ha chiamato mamma fino alla morte, la Spagna era da 13 anni sotto il tallone di Francisco Franco. Le carceri erano ancora piene di prigionieri politici; e tra il 1944 e il 1954, secondo le indagini condotte nel 2008 sui crimini della dittatura dall’ormai ex giudice della Audiencia Nacional Baltasar Garzón, la popolazione negli orfanotrofi era passata da 12.042 bambini a 30.960. I genitori erano morti, scomparsi, deportati o detenuti. Spettava allo Stato, o più spesso alla Chiesa, trovare per loro famiglie moralmente e politicamente adeguate, avendo cura di cancellare ogni legame con le loro origini. Oltre mezzo secolo più tardi, la Spagna scopre, con angosciato ma relativo stupore, che questa pratica è andata avanti per tutti gli anni 60, 70, 80, ben dopo la morte di Franco, l’inizio della transizione verso la democrazia e la promulgazione di una legge statale sull’adozione, nel 1987. È andata avanti ancora negli anni 90, sporadicamente, e forse addirittura fino a un paio di anni fa. Sempre meno per ragioni politiche e morali, sempre più per denaro: e i bambini dovevano essere ancora in fasce. Statistiche meno attendibili di quelle giudiziarie ipotizzano che 300 mila bebè siano stati sottratti alle madri biologiche. Ricorrono nomi di ginecologi, monache e funzionari implicati nei casi che continuano a emergere: 160 già in mano alla magistratura su 850 denunce presentate. Il settimanale Interviù ha ritrovato nel suo archivio la foto di un ripostiglio della clinica San Ramon di Madrid con il cadavere di una neonata, che si suppone venisse mostrata alla puerpera di turno, per convincerla che la sua era morta davvero. L’immagine fu pubblicata nel 1982, senza conseguenze. Esattamente 30 anni prima, sospetta Mabel, anche lei fu creduta morta da una donna che uscì dalla Maternità O’ Donnell di Madrid senza la sua bambina. «Per me era stato deciso un destino diverso — racconta — ero la bimba di ricambio per una coppia, i miei genitori ufficiali, che ne avevano comprata un’altra, dopo che la loro era improvvisamente deceduta la settimana prima. Come si sostituisce un capo difettoso ai grandi magazzini» . Peggio di quanto potesse immaginare: «A 14 anni trovai questa foto — mostra i suoi genitori, all’uscita di una chiesa, raggianti con il loro bebè in braccio —. "Chi è?", chiesi a mia madre. "Tu, chi altri?", mi rispose. Fu il suo errore» . Dietro la foto c'era un timbro, «Foto F. Minguez, calle Hermanos del Moral 3, Madrid» e una data, «28 settembre 1951» . Mabel rintracciò il fotografo, che escluse di aver sbagliato anno: «Eppure io quel giorno non ero ancora nata» . Non bastò a far cambiare verità a sua madre, morta 25 anni fa continuando a sostenere di averla partorita lei. Mabel chiese un certificato di nascita integrale e si tranquillizzò: risultava legittima. — si sposò, mise al mondo due figlie, si trasferì in Cile e, due anni fa, guardando alla tivù un servizio sui primi casi di «vite rubate» , tornò a macerarsi. Telefonò al figlio della sua madrina e finalmente ottenne la prima ammissione: sei stata adottata. Dunque il certificato di nascita era falso. La verità completa la seppe dall’unica vicina, oggi 86enne, che abita ancora nel palazzo dove Mabel visse i primi mesi e che vide l’andirivieni di bebè in braccio ai suoi genitori: «C’era un solo programma televisivo proibito in casa — si spiega finalmente— Quien sabe donde» , il Chi l’ha visto spagnolo. Ora Mabel aspetta con impazienza il venerdì, ma non per una trasmissione: è il giorno settimanale della lotteria genetica per i soci di Anadir, uno dei tre gruppi di genitori, fratelli, figli rubati o derubati: arrivano i risultati dell’incrocio dei prelievi di Dna tra vecchi e nuovi iscritti: 1.800 in 3 anni. I casi di figli e madri, o fratelli, che si sono ritrovati però non arrivano a cinque. Sandra Mateo Valverde, 33 anni, aspetta di conoscere suo fratello maggiore, via laboratorio o via internet: «Le date non tornano, niente torna nei documenti che ho consultato— rovescia sul tavolo un pacco di fotocopie —. Juan Carlos nacque in ospedale, a Madrid, alle 5.30 del 17 maggio 1975, dormì sul petto di mia madre per 6 ore, poi entrò una signora delle pulizie, neanche un’infermiera, disse che il bimbo non stava bene e se lo portò via. Alle 21.30 un medico informò mia madre che era morto, asfissiato dal cordone ombelicale. Sei ore dopo la nascita? E perché viene registrato come un feto, risultato di un aborto spontaneo? E perché non le permisero di vederlo?» . Le coordinate della sepoltura portano al cimitero dell’Almudena, ma non risolvono i dubbi: il corpicino, se mai c’è stato, è finito poi in un ossario e infine all’inceneritore. «Magari mio fratello è davvero lì, ma a Cadice sono già state aperte alcune tombe e nelle bare sono stati trovati solo involucri di garze e stracci. Io voglio sapere» . Ma soprattutto vorrebbe che il telefono squillasse, uno dei prossimi venerdì.
Generazione «Pugni in tasca» Così Morandi rifiutò la parte
Bellocchio: vinse il Cantagiro e perse il ruolo poi di Castel
di Giuseppina Manin
MILANO — Certo, se Gianni non avesse vinto quel Cantagiro... Se Morandi avesse detto sì a Bellocchio... Se il 19enne Gianni e il 25enne Marco avessero giocato insieme la scommessa folle che fu I pugni in tasca... Certo, la storia, neanche quella del cinema, non si fa con i «se» . Eppure incuriosisce immaginare che film sarebbe venuto fuori con il solare ragazzo di Monghidoro al posto del tenebroso Lou Castel, l’eversivo Ale protagonista di una pellicola da quasi mezzo secolo (è del 1965) inscalfibile alle grinze del tempo, la cui carica eversiva resta pietra di paragone di tutte generazioni successive. «Se Gianni avesse accettato forse avrei modificato il copione— ipotizza ora il regista, memore di quel primo set straordinario nella sua Bobbio, tra le mura di famiglia amate e detestate —. Morandi era un ragazzo semplice, un volto interessante e un bel sorriso. Con lui Ale avrebbe avuto un’altra anima» . Risvolti segreti oggi svelati da un libro, Il cinema in rivolta -Marco Bellocchio e i pugni in tasca di Mauro Molinaroli (Dalai editore) che stasera sarà presentato a Bobbio, al bel Festival guidato da Bellocchio, prossimo Leone alla carriera alla Mostra di Venezia. Quanto a Morandi, la tentazione fu forte. «Tutti mi sconsigliavano — ricorda —. Era un ruolo opposto al mio personaggio di quegli anni, ma volevo interpretarlo a tutti i costi» . A mettersi di mezzo fu Franco Migliacci, suo paroliere. Appena seppe di che si trattava, sbottò: «Un figlio che ammazza la madre? Follia pura» . Quel bravo ragazzo adorato dalle mamme d’Italia, quello che va a prendere il latte, che spinge nel burrone la mamma cieca? «Legionetti, il mio scopritore, fu anche più esplicito— aggiunge Morandi —. Se lo fai ti spezzo le gambe, mi disse» . A sbaragliare le ultime esitazioni arrivò «Se non avessi più te» . Fortunata canzone con cui Gianni nel 1965 vinse il Cantagiro. La sua carriera canora era decollata, non poteva permettersi deviazioni di sorta. Ma la provvidenza del cinema lavora dietro lo schermo. Poco dopo Bellocchio si imbatte in un altro giovane: bello, cupo, silenzioso. Lou Castel, colombiano, aspirante regista. Gli fa un provino, e a un tratto lui esplode in una risata. Isterica, ai limiti della follia. Dissonante come le musiche che scriverà per il film Ennio Morricone. «Perfetto per la parte — considera Bellocchio — Lou ha dato vita a un Ale nevrotico, molto criminale e allo stesso tempo molto tenero e dolce» . Combinazione esplosiva. «Un film dinamitardo— lo definisce Carlo Verdone, in questi giorni al lavoro al suo nuovo Posti in piedi in Paradiso —. La prima volta che lo vidi avevo 15 anni: restai turbato. Quel film da un lato distruggeva il mito degli anni 60, per me il periodo più bello e sereno, e dall’altro anticipava rabbia e malesseri del ’ 68 e oltre. Ale è una sorta di prototerrorista, uno che fa fuori la madre e il fratello in nome dell’ideologia, un anarchico del sesso, incestuoso con la sorella. Intollerabile perché, in qualche modo, ti riconoscevi. Non volevamo finire così. Siamo finiti così» . Un film coraggiosamente sgradevole che oggi, sostiene, nessuno produrrebbe più. «Il nostro cinema sta vivendo un momento di grande decadenza. Lo dico io che faccio la commedia. Genere nobilissimo, ma a patto di metterci l’anima, di tentare di far passare con un sorriso messaggi scomodi, fuori dalle righe» . Più giovane di qualche generazione, Andrea Molaioli, 46 anni, stasera a Bobbio con il suo film più recente Il gioiellino. «I Pugni di Marco io li ho scoperti molti anni dopo, una sera in tv...— racconta —. Non potevo credere che fosse un film d’esordio. Così maturo e profondo, capace di raccontare attraverso dinamiche interpersonali i mali nascosti di un’intera società. Una lezione di cinema che ho cercato di seguire anch’io» . Tra i segreti di quel film anche un titolo di straordinaria capacità evocativa. «Un manifesto per tutti i ribelli che, da lì in poi, sarebbero venuti — conclude Molaioli —. Capace di condensare eroici furori e malinconiche frustrazioni» . Un titolo che cita un verso di Rimbaud, poeta maledetto, allucinato, morto giovane: «Me ne andavo con i pugni in tasca /E anche il mio cappotto diventava ideale» .
Repubblica 31.7.11
Quello che i creazionisti non dicono
Corrado Augias risponde a Fabio Della Pergola
Caro Augias, la scienza scopre che un bel numero di differenti specie umane hanno convissuto per migliaia di anni, addirittura incrociandosi fra diversi. Dal momento che i creazionisti affermano che l'uomo è stato creato a immagine di Dio, gli altri tipi di ominidi come li spieghiamo? Diverse immagini divine o diverse divinità? I sostenitori di un "disegno intelligente" potranno sostenere che anche i diversi tipi di ominidi erano stati programmati? Scendendo terra terra, i leghisti come spiegheranno che tra "diversi" ci si incrocia tranquillamente e presumo con passione senza che, per questo, l'umanità ne soffra? La razza umana è una sola, le culture e le tradizioni sono tante, gli scambi e gli incroci portano bellezza e arricchimento. Poi ci sono alcuni religiosi tradizionalisti e combattenti conservatori che odiano tutto questo. Come in Norvegia, dove i termini "malattia mentale" e "fondamentalismo" sono sembrati tragicamente coincidere.
Fabio Della Pergola
C' è un bel libro sull'argomento sollevato dal signor Della Pergola: La vita inaspettata di Telmo Pievani (Filosofia della Scienza, Milano-Bicocca) pubblicato da Raffaello Cortina. Pievani descrive «un'evoluzione che non ci aveva previsto», cioè una serie di casualità, contingenze, biforcazioni che rendono la storia umana complessa e casuale. Per esempio, nel 2008 in Siberia sono stati trovati i resti fossili di un nostro antenato fino a quel momento sconosciuto, l'homo di Denisova. Il tempo profondo, scrive Pievani, è «pieno di ipotesi di vite alternative che hanno fallito per ragioni forse non sempre connesse a una loro inadeguatezza». Vale anche per gli ominidi: «In almeno una fase della nostra storia evolutiva ci siamo ritrovati in pochi: bande sparse di ominini, mobili e intraprendenti, ma con numeri che oggi rasenterebbero il rischio estinzione». Avremmo dunque potuto non esserci, così come avrebbe potuto esserci una specie molto diversa dalla nostra. Gli hominina sono passati per sperimentazioni adattative durate milioni di anni nelle quali è difficile «rintracciare una qualche tendenza inevitabile, una direzione una traiettoria privilegiata, una freccia del tempo». Siamo invece «figli contingenti di "sola storia", cioè di una sequenza di eventi irripetibili e generosi». Quanto al "disegno intelligente" basta leggere come le vespe per assicurare la sopravvivenza delle loro uova, le iniettino nel ventre di un bruco dopo averlo temporaneamente paralizzato con una puntura. Al dischiudersi, i "neonati" divorano il bruco dall'interno senza ucciderlo, portandolo lentamente ad una morte atroce. Se c'è un "disegno intelligente", s'è scritto, è quello di un sadico.
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