sabato 31 luglio 2010




l’Unità 31.7.10

Sanità Tremonti non firma il piano di rientro. Unica regione. Eppure i conti non erano male
pIlgovernatore: dalministroattodisabotaggio,chiederòl’interventodiNapolitano
Il governo contro Vendola «La Puglia è come la Grecia»
Il governatore sotto attacco. Il ministro Tremonti ha paragonato la Puglia alla Grecia e non ha firmato il piano di rientro della Sanità regionale. Vendola: Sono dei sabotatori.
di Giuseppe Vespo

Così vicine eppure così lontane: guai a paragonare la Puglia e la Grecia. Soprattutto se il termine di confronto è l’economia, visto che oggi la penisola ellenica è sinonimo di default finanziario. C’ha provato il ministro Tremonti, motivando con il rischio che la regione finisca in bancarotta la decisione di non firmare il piano di risanamento del deficit sanitario presentato da Nichi Vendola. Il governatore non gradisce, risponde a tono e poi si rivolge al capo dello Stato: «Condividerò con il Presidente della Repubblica carte e documenti perché ci sia un difensore degli interessi di quattro milioni e 200 mila pugliesi e per riportare il corretto equilibrio tra poteri, regionale e dello Stato, portandolo a conoscenza di quanto accaduto a proposito del piano di rientro e della mancata firma del ministro Tremonti».
IL RITORNO DELLO STATO
Così dopo aver commissariato per i conti in rosso Lazio, Campania, Abruzzo, Molise e da ieri anche Calabria, il titolare dell’Economia prova a sancire «il ritorno dello Stato» anche in Puglia. Ma in questo caso quella che sembra una mera questione di conti e di competenze tra istituzioni ha il sapore dello scontro politico da periodo preelettorale. Traspare un po’ dalle dichiarazioni del governatore («non è giusto combattere Nichi Vendola strangolando 4 milioni di persone»), un po’ dalle trincee allestite. Vendola non pensa che Tremonti complotti contro di lui ma sostiene che ad indurre in tentazione il ministro sarebbe stato il suo sfidante alla poltrona barese per il Pdl, Rocco Palese, insieme al predecessore e oggi ministro Raffele Fitto. Due «traditori della patria», «sabotatori» e «suggeritori» che raccontano falsità, secondo il presidente che convoca una conferenza per dare conti e ragioni del suo piano.
Sostiene il governatore che giovedì era tutto pronto. C’era la sua firma «ad un piano che ritenevo doloroso...» e c’era pronta la firma del
minisitro della Sanità Ferruccio Fazio. Il tutto dopo gli approfondimenti concordati con i tecnici della Salute. Poi la telefonata: gelido, riporta Vendola, Tremonti ha solo detto che voleva approfondire i dati e che presenterà un decreto legge per il rinvio della data ultima per la sottoscrizione del piano di rientro della Puglia. «Cosa deve approfondire? si chiede il governatore I conti della Puglia sono a posto. Il piano non è causato da un disavanzo sanitario, ma paghiamo le penalità retroattive che riguardano la violazione del patto di stabilità del 2006-2008». «Forse aggiunge qualcuno era frustrato perchè non abbiamo inserito tasse? Forse qualcuno, cioè Raffaele Fitto e Rocco Palese, voleva che si potesse buttare per strada cinquemila lavoratori che noi stiamo internalizzando? Questa continua è la partita vera che si sta giocando sulla pelle dei pugliesi: una partita di crudeltà sociale per fini di lotta di potere». Per Vendola insomma con il paragone «gravissimo» tra Puglia e Grecia il ministro ha compiuto un atto di «sabotaggio» politico, economico e sociale nei confronti della Puglia». Perché se certe cose le dice un ministro dell’Economia magari qualche agenzia di rating dà il colpo mortale e definitivo. Invece l’agenzia Moody’s dice la Regione gode di un rating A1 con prospettive stabili. Mentre Fitto e Palese replicano: «Se il Presidente Vendola si sottrae alla logica dei numeri preferendo una logica... greca, il sabotatore è lui».

l’Unità 31.7.10
Gli italiani andavano alla guerra
L’opera in sette volumi di Mario Isnenghi: partendo dal primo conflitto mondiale si dipana la storia del Paese e delle sue ombre
di Nicola Tranfaglia

Chi ripercorre la storia d’Italia, negli ormai quasi centocinquant’anni che ci separano dal momento dell’unificazione nazionale, si trova a dover fare i conti con le scelte e i comportamenti di fronte alle guerre che hanno avuto luogo le classi dirigenti in alcuni momenti cruciali.
E si scopre abbastanza presto che è la prima guerra mondiale quella in cui la nazione, pur tra contraddizioni e grandi sofferenze, si è immersa a fondo e ha vissuto una grande trasformazione da cui poi è nato il dramma della crisi liberale e la successiva vittoria del movimento fascista.
Mario Isnenghi, che alla prima guerra mondiale ha già dedicato negli scorsi decenni una parte importante del suo lavoro di storico, a cominciare dal “Mito della grande guerra”, riapparso nel 1989 nelle edizioni del Mulino, è ritornato ora con una grande opera in sette volumi pubblicata dalla Utet che vede la collaborazione di molti storici di più generazioni, tra i quali Nicola Labanca che ha coordinato il volume dedicato all’Italia repubblicana.
La parte centrale dell’opera è dedicata, come era giusto, proprio all’esperienza della prima guerra mondiale, che si estende per tre tomi del terzo volume e affronta con grande chiarezza i problemi che trasformano la nazione italiana in maniera traumatica attraverso tre anni di conflitto che investe il paese, segnano l’espansione di grandi industrie come la Fiat e l’Ansaldo, danno un primo segno dell’industrializzazione che ci sarà negli anni successivi fino al boom del 1958-63, mettono a contatto come mai prima era avvenuto i contadini del Sud e gli operai del Nord.
I volumi diretti da Isnenghi affrontano molti tra i problemi economici, sociali e culturali che attraversano quegli anni e il ventennio successivo e fanno rivivere i personaggi piccoli e grandi che caratterizzano la crescita e le contraddizioni della nazione italiana: si va dai ritratti dei militari che hanno contato durante il conflitto, da Cadorna a Badoglio e a Diaz, a quelli degli intellettuali come Croce, Gentile e Prezzolini, ai luoghi che hanno segnato la guerra, dalla trincea ai treni per la tradotta, alle montagne che per anni hanno costretto le truppe a perdere uomini per conquistare pochi metri di vantaggio sul nemico.
E’ una storia che non si fa solo attraverso le grandi date ma soprattutto attraverso i personaggi, i climi, le vicende di tutti quelli che in maniera diretta o indiretta sono toccati dallo scontro. E la guerra, assai più che in passato, coinvolge la popolazione e la società civile accanto a quella politica ed economica.
Di grande interesse appare anche il volume dedicato al periodo fascista che include tutti i grandi temi di quella storia. Il saggio di Giovanni Miccoli su Pio XII è tra le pagine più ricche di intuizioni che mi sia accaduto di leggere. E il secondo tomo dedicato alla seconda guerra mondiale ci consente di valutare adeguatamente la profonda differenza che c’è tra le due guerre del Novecento per gli italiani.
Se, nella prima guerra mondiale, una parte rilevante della nazione si era impegnata sulla base degli ideali risorgimentali e della lotta ancora viva per l’indipendenza nazionale, questo non può accadere per un conflitto legato in maniera così forte al regime fascista che dall’inizio è stato vissuto da una parte non piccola di italiani con la paura della sconfitta e l’indifferenza o l’avversione per il regime.
Questo emerge con chiarezza dalle pagine del secondo tomo del IV volume e gli autori sono molto attenti a sottolineare le sfumature e le differenze che si possono cogliere leggendo le memorie ma anche altre fonti scritte che di quegli anni sono rimaste.
Così anche la seconda parte dell’opera si fa leggere con grande interesse anche da parte dei lettori che non sono interessati soltanto alla guerra ma che possono verificare l’importanza che quegli avvenimenti hanno avuto insieme con il grande peso del lutto e delle difficoltà seguite nel primo come nel secondo dopoguerra.
Il quinto volume che affronta il periodo repubblicano avrebbe potuto avere maggior sviluppo ma ripercorre in maniera nuova una storia che richiederà ancora nei prossimi decenni approfondimenti e nuove ricerche. Compaiono personaggi come Randolfo Pacciardi o Giulio Andreotti. E nel tempo, si allunga l’ombra dei servizi segreti. Una considerazione sembra imporsi alla fine di una lettura storica come quella favorita dall’opera di Mario Isnenghi e dei suoi bravi collaboratori. La repubblica risolverà presto i suoi misteri? E’ un interrogativo questo che sta a cuore ai parenti delle vittime ma anche a tutti quelli che hanno a cuore la democrazia nel nostro paese.

l’Unità 31.7.10
Salvate il soldato Ryan
Boom di suicidi nell’esercito americano
Centosessanta in 15 mesi, una media più alta che tra la popolazione civile Secondo lo studio della Difesa Usa in aumento negli ultimi 5 anni anche il consumo di droghe, alcol e antidepressivi. E i reati in divisa
di Marina Mastroluca

Hanno la faccia da bravi ragazzi e appena un velo di malinconia mentre, infagottati nelle loro mimetiche aspettano un volo che li porterà forse al fronte, forse di nuovo a casa. La gente intorno li tratta con qualcosa di più che rispetto: un veterano si mette sull’attenti, una bambina regala un disegno, la folla fa ala per lasciarli passare. «Thank you», grazie, ripete l’American Airlines. Ma i militari a stelle e strisce sono molto lontani dall’immagine levigata e perbenino che contrabbanda la pubblicità, tutti amor patrio e gentilezza ripagata dall’affetto generale. L’ultimo rapporto del Dipartimento della Difesa Usa registra il più alto numero di suicidi mai verificatosi prima d’ora nell’esercito, con un’incidenza più alta di quanto non sia tra la popolazione civile. E un’impennata di reati e comportamenti a rischio, uso di droghe, alcol e antidepressivi tra i soldati. «Detto in parole povere, siamo spesso più pericolosi per noi stessi di quanto non lo sia il nemico», sintetizza il rapporto, frutto di un monitoraggio durato 15 mesi. E non sono parole facili a dirsi, considerando che il mese di luglio appena trascorso è stato il più sanguinoso in assoluto per le truppe Usa in Afghanistan, con 63 morti. Non proprio una casualità: dal giugno 2009, raccontano le statistiche, la guerra ha cambiato faccia, mai così tante le bare tornate a casa.
Depressi in divisa Trentadue suicidi in giugno, 80 nei primi sei mesi del 2010. Centossessanta tra l’ottobre 2008 e il settembre 2009. Una media di 20,2 ogni 100.000 militari, contro il 19,2 registrato tra i civili. L’esercito Usa sta male e si vede: 1713 tentati suicidi nei 15 mesi presi in esame, 146 morti dovute a comportamenti a rischio, come l’abuso di droghe. Un soldato su tre ricorre all’uso di farmaci antidepressivi, ansiolitici o antidolorifici. L’uso degli antipressivi in particolare è triplicato negli ultimi cinque anni. Sono anche aumentati i reati in divisa: 5000 in più ogni anno che passa, per il 2010 la previsione è di 55.000 crimini variamente declinati. Più reati, più violenza, più autolesionismo, più dipendenza da droghe di vario genere. Un trend inversamente proporzionale sembrerebbe ma questo il rapporto non lo dice al venire meno di un disegno d’insieme, di un senso nella guerra data per vinta tante volte e ancora lontana dal concludersi.
Nove anni di conflitto più o meno aperto in Afghanistan, e poi l’Iraq, un capitolo che si sta chiudendo in questi mesi e che è costato non solo sangue, ma un patrimonio di credibilità consumato tra le bugie di Bush e le celle di Abu Ghraib. Il precedente del Vietnam è ormai superato in durata e non ci sono dati comparabili con il malessere attuale. «Sbaglierebbe chi pensasse di attribuire la causa di tutto solo alla guerra», dice il generale Peter Chiarelli, vice capo di stato maggiore. Semmai l’aver puntato tutto sulla preparazione per l’impiego in zone di guerra ha fatto venir meno l’attenzione su ordine, disciplina, comportamenti a rischio, fragilità individuali.
Pesci fuor d’acqua Macchine da guerra che faticano a rientrare in sintonia con la vita da civili. L’80 per cento dei suicidi registrati lo scorso anno tra i militari è avvenuto non in Iraq o Afghanistan, ma negli Usa. A soffrire di più sono i soldati che hanno preso la divisa tardi, a 28-30 anni, quelli che al fronte hanno la possibilità di maggiori contatti con la famiglia e con i problemi
Il trauma del ritorno
L’80% di chi si toglie la vita, lo fa una volta rientrato negli States della vita quotidiana lasciati a casa. Un suicidio su sei è imputabile a problemi relazionali, legati alla separazione dagli affetti, alle pressioni familiari, all’abuso di sostanze psicotrope. Rischiano di più i nuovi arrivati, al primo anno di ferma. Quelli insomma che sembrano restare in bilico tra due mondi diversi, mentre appena il 21% dei sucidi si registra tra i soldati che hanno fatto più periodi al fronte. Più lunga è la permanenza in zone calde, rileva il rapporto, più ci si avvezza, si mette su una buccia più resistente allo stress. Per il generale Chiarelli parte della soluzione potrebbe essere qui: far capire alle famiglie che non è il caso di coinvolgere nelle beghe di casa i ragazzi al fronte.Non si può pensare alle bollette da pagare con un mitra in mano.

l’Unità 31.7.10
Negli Usa esperimenti sull’uomo da cellule staminali embrionali
di Virginia Lori

Storico sì della Food and Drug Administration ai primi test clinici su pazienti selezionati
La speranza si riaccende per chi ha subito gravi lesioni al midollo spinale. Ma ci vorrà tempo

Forse non tra un anno o due. E l’esito resta incerto. Ma da oggi la scienza medica ha una speranza in più da soddisfare: la cura delle gravi lesioni spinali. Negli Usa la ricerca genetica passa ai primi test sull’uomo.
Il passaggio è storico: è stata autorizzata per la prima volta nel mondo, negli Stati Uniti, una sperimentazione sull’uomo dei risultati del-
la ricerca finora condotta «in provetta»o su animali da laboratorio delle cellule staminali embrionali. La Food and Drug Administration, l'agenzia federale americana che si occupa di sanità, ha autorizzato ieri i primi test clinici. Lo rende noto il sito del New York Times, ricordando che queste procedure saranno sviluppate dalla Geron Corporation e l'Università della California, di Irvine, in alcuni pazienti con danni al midollo spinale. La Fda aveva autorizzato questo tipo di test già nel gennaio 2009. Tuttavia, poco prima che ini-
ziassero, questi studi vennero sospesi perchè furono scoperte delle cisti nei topi ai quali erano stati iniettate le cellule. A quel punto, la Geron ha sviluppato altri metodi e messo a punto una tecnica migliore per rendere più pure le nuove cellule. Fino a pochi anni fa solo le staminali adulte sembravano più «stabili» e sicure rispetto alla tendenza, se modificate, di generare tumori, benigni o maligni. Ora se la rigida autorità statunitense ha dato l’ok significa che i genetisti negli Usa hanno raggiunto nuovi traguardi. Anche se è ancora troppo presto per sapere se le cure che verranno sperimentate potranno rivelarsi efficaci. Per i primi risultati si potrebbe dover attendere, dall’inizio dei test, anche diversi anni.
La sperimentazione sarà condotta in più centri (fino a sette) su un piccolo numero di pazienti con lesioni molto gravi del midollo spinale. Lo scopo principale è verificare la sicurezza, ancora prima dell'efficacia, della tecnica. Saranno arruolati nella sperimentazione pazienti con lesioni complete subacute del midollo spinale toracico di grado A. La terapia consisterà nell'iniezione di staminali embrionali derivare dalle cellule progenitrici degli «oligodendrociti», cellule nervose che avvolgono in una guaina i filamenti che collegano le cellule nervose. L'obiettivo è ripristinare la piena funzionalità delle connessioni, riparando la lesione.

il Fatto 31.7.10
B. teme Vendola: e Tremonti attacca la sanità pugliese
di Mario Reggio

Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti boccia il piano di rientro del deficit sanitario presentato dalla Regione Puglia. “Non voglio che diventi una nuova Grecia – ha dichiarato il responsabile dell’Economia al termine del Consiglio dei ministri – in questa fase storica prima vengono i numeri e poi la politica”. Secca la replica al Fatto Quotidiano del presidente della Regione Puglia Nichi Vendola: “Il parallelo con la Grecia mi sembra davvero fuori luogo. Questo è un vero atto di sabotaggio. Chiederò l’intervento del presidente Napolitano. Comunque mercoledì prossimo il Consiglio dei ministri dovrebbe dilazionare i termini di presentazione dei piani di rientro”.
Ma cosa c’è dietro alla “mossa” di Tremonti? Secondo gli esperti di politica il premier avrebbe cominciato a sondare i possibili avversari alle elezioni politiche. E sarebbe giunto alla conclusione che una sfida con Nichi Vendola, possibile leader del centrosinistra, non sarebbe così semplice. Da ciò il tiro mancino del ministro del Tesoro che comporterà un taglio di 500 milioni alle casse della Puglia e all’aumento automatico della quota regionale dell’Irpef e dell’Irap. Provvedimenti che non fanno davvero crescere il consenso politico.
Comunque la risposta del governatore della Puglia è stata puntigliosa e senza mezzi termini. “L’unico atto in stile greco che è stato firmato in Puglia è il ‘Bond’ con la banca d’affari americana Meryl Linch, firmato da Rocco
Palese (sconfitto da Vendola alle ultime elezioni regionali) e, secondo le dichiarazioni di Rocco Palese al pubblico ministero, coperto dal ministro Tremonti”.
Secondo Vendola, “un atto che ha prodotto una ipotesi di danno erariale tra i 25 e i 100 milioni di euro e che oggi è oggetto dell’attività investigativa della Corte dei Conti. Questo è l’unico atto greco che è stato fatto in Puglia: è un atto greco tutto Pdl”. E ancora: “Cosa c’entra – si è chiesto il governatore – il paragone con la Grecia? Lo sa il ministro Tremonti che noi siamo, secondo molteplici parametri, tra le 5 Regioni più virtuose d’Italia, che abbiamo ridotto in maniera considerevole, con percentuali straordinarie, ogni anno, lo stock del debito della Regione? Lo sa che abbiamo diminuito sensibilmente le spese per il personale migliorandone l’efficienza, lo sa – chiede ancora – che siamo la Regione che ha i più bassi costi per l’alimentazione della macchina pubblica e della cosiddetta politica? Allora di che parla Tremonti, che c'entra la Grecia con la Puglia, perché parla di Grecia quando parla di Puglia e non quando parla di Campania o di Molise o di Calabria?”
A sentire la versione di Nichi Vendola la bocciatura avrebbe percorsi davvero strani e tortuosi. “Il ministro Tremonti ha pensato di non sottoscrivere il Piano di rientro della Puglia che i suoi tecnici avevano predisposto e concordato con i tecnici della Regione Puglia. Ed è molto curioso – ha detto – perché il ministro aveva tentato per un paio di settimane di ‘convincere’ la Regione ad aumentare le tasse”. “Noi avevamo dimostrato di poter coprire completamente, di scrivere il piano di rientro senza toccare le tasse. Il piano di rientro della Regione Puglia – ha precisato Vendola – non è causato da un disavanzo sanitario perché la Regione Puglia ha, dal punto di vista sanitario, i conti in equilibrio economico-finanziario, come certificato dal ministero dell’Economia, ma semplicemente noi pagavamo per le penalità retroattive che riguardano la violazione del patto di stabilità del 2006-2008”. La storia continua. “Ieri, al previsto incontro a Roma, mancava solo il ministro Tremonti: “C’era il ministro della Salute Ferruccio Fazio, c’ero io – ha raccontato Vendola – e io ero pronto a firmare un piano di rientro che consideravo doloroso, che aveva degli aspetti che mi lasciavano perplesso, ma ero pronto a firmare pur di non perdere 500 milioni”. Ma a questo punto Tremonti decide di chiamare Vendola perché voleva fare un approfondimento. “Non si capisce un approfondimento di che cosa, visto che l’abbiamo approfondito per mesi, in ogni suo dettaglio. Qualcuno era frustrato perché – commenta il governatore della Puglia – non avevo messo le tasse? Qualcuno voleva che io mettessi le tasse: parlo di Raffaele Fitto e Rocco Palese, che volevano che si potessero buttare per strada 5mila lavoratori che noi stiamo internalizzando. Questa era la partita vera, una partita di crudeltà sociale al fine di lotte di potere”.
E non lesina le accuse all’ex governatore della Puglia Raffaele Fitto, ora ministro dei Rapporti con le autonomie locali: “C’è una opposizione spregevole sul piano morale, inqualificabile sul piano politico, di sabotatori e traditori della Patria. Ciò ha spinto sulla mancata firma sul piano di rientro. Io ero lì, non c’era Tremonti”.
In serata la replica del governo, firmata da Tremonti e Fitto: “Noi chiediamo solo di poter fare sul serio partendo dai numeri. Se il presidente Vendola si sottrae alla logica dei numeri preferendo una logica... greca, il sabotatore è lui. Di se stesso e della sua Regione”.

Corriere del Mezzogiorno 31.7.10
«Credo che sarei stato un buon papà»
Vendola parla della sua omosessualità e del rapporto
con la chiesa. «Meglio i preti dei compagni di partito»
intervista di Arturo Colletti

BARI - «Lei crede davvero che Luca abbia ragione? Che la felicità sia solo etero? Che davvero un gay non possa essere felice? No, non è così, non può essere così. Quello che rende infelici è l’ipocrisia, la clandestinità, la paura di essere quel che si è. Questo è infelicità. Solo questo». Nichi Vendola sembra voler “regalare” la sua storia ai giovani omosessuali, gli stessi che hanno reagito leggendo le parole di Luca di Tolve (che ha ispirato a Povia la canzone Luca era gay) su “A” a proposito dei gay che “non possono essere felici”. «Dichiararsi può essere dolore, anche emarginazione, anche violenza», ma io «non ho mai avuto paura di essere quello che sono. E se c’è un pensiero che mi trasmette ancora angoscia è immaginare di vivere nella menzogna...». Parla al telefono, il governatore della Puglia che sogna di diventare premier: gli occhi rivolti alla piazza che lo reclama, ma la testa ancora lontana dall’attualità politica e fissa sui ricordi. Anzi, su uno: la tesi di laurea, Pasolini degli anni 50. Anche lui cattolico, gay, comunista. Anche lui deciso a strappare la condizione di omosessuale dall’oscurità. «Sì, ma Pasolini quella dimensione l’ha illuminata con le fiamme dell’Inferno mentre io mi sono sempre rifiutato di accettare quella visione del senso di colpa». Poi sposta il ragionamento da ieri a oggi. «Il mondo ha camminato ancora, tutto è diverso: nel linguaggio, nell’immaginario, anche nel confronto politico. Una porzione di umanità è uscita forse definitivamente da quel cono di ombra, di vergogna, di colpa, di peccato, di violenza, di paura e può raccontare la propria vita, il proprio amore. Ed è difficile che ci possa essere scandalo e peccato quando c’è un progetto d’amore».

Partiamo dall’inizio: il coming out nel '78. Aveva vent’anni...
«Anche io, Nichi, un volto di quella generazione che ha dovuto rompere la crosta. Che ha dovuto battersi in quel cambio d’epoca. Ho buttato, pasolinianamente, il mio corpo nella lotta. Mi sono usato perché la gente potesse riflettere. Ho sofferto per rompere quell’alone di mistero spaventevole che aleggiava attorno all’omosessualità. E, forse, ho contribuito alla rivoluzione».

Mistero spaventevole?
«Era un mondo in cui ancora molti pensavano che per i gay si dovesse chiamare un medico, l’ambulanza, lo psichiatra. Oggi non è più così, oggi nel Paese c’è una domanda di libertà forte ed essere gay non fa la differenza quando non c’è ipocrisia».

Crede che l’Italia sia pronta a un premier omosessuale?
«È pronta a un premier capace di dire la verità. Io non ho mai mentito sulla mia vita privata. Altri sì. Altri hanno fatto dell’ipocrisia la cifra del loro racconto: magari di giorno partecipavano ai family day e di notte cercavano trans e cocaina». C’è una parola che Vendola continua a ripetere. A declinare. «Ipocrisia». Ipocrisia che «ha segnato la cultura profonda della società italiana». Ipocrisia che «ho respirato per anni nelle stanze dei partiti. Del mio partito». Il tono del governatore è venato di malinconia, forse d’amarezza. «L’ho già detto e lo ripeto: è stato più facile raccontarmi ai preti che al partito. Gay era una parola che faceva paura. Meglio non dire, meglio nascondere, meglio negare. Oscar Wilde parlava dell’omosessualità come dell’amore che non osa pronunciare il proprio nome: io leggevo e capivo». Due temi si intrecciano: fede e omosessualità. All’improvviso uno emerge con forza. Si parte da lontano. Dall’infanzia nella sua Puglia. Terlizzi, terra di braccianti, di vita dura, di gente onesta. «Come mio padre... Tutte le sere rimboccava le coperte a noi figli maschi e ci salutava sempre con una sola domanda. Sempre la stessa. “Avete detto le preghiere?”. Già, le preghiere. Padre Nostro che sei nei cieli... Da quando è morto mio padre il Padre nostro è una preghiera che mi entra nella carne: il rapporto tra il padre mio e il Padre nostro mi stringe il cuore e mi commuove».

Davvero è stato più facile raccontarsi ai preti?
«Vuole la verità? Da loro non mi sono mai sentito rifiutato. E mai giudicato. Anzi spesso ho avuto un confronto autentico: loro capivano me e io capivo che anche nella Chiesa ci sono sensibilità diverse. E qualcuna provoca dolore e tristezza. La tristezza dei pregiudizi, delle paure. Lo confesso: ci sono stati momenti in cui ho vissuto la fede con fatica. Guardavo con sgomento quella Chiesa che si veste d’oro, mi chiedevo perché. Poi capivo: funziona sempre il silenzio di Dio e la libertà è fatta anche di quel silenzio. Vede, Dio non è tribunale islamico; Dio è libertà e responsabilità».

Lei è stato allievo di un grande prete: don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta che diventerà santo... Ha parlato con lui della sua omosessualità?
«Solo una volta, nell’ultimo colloquio. Ricordo il suo volto sofferente per le metastasi e ricordo la mia domanda: perché in tanti anni non mi hai mai chiesto di convertirmi? Lui mi ha guardato con quegli occhi profondi e ingigantiti nel volto scarnificato dalla malattia. Mi ha sorriso e mi ha sussurrato cinque parole: “Non avevo bisogno di chiedertelo”. Ma non mi faccia parlare di questo...».

Il Papa venne a Bari e lei prese la comunione. Ci furono polemiche. Si era confessato?
«Poco prima. Avevo conosciuto un prete molto in gamba, uno vicino a Cl. Fui diretto: «Ehi don Mario, ora mi devi confessare...». È una bella cosa la confessione. O almeno la confessione che cerco io: un punto di interlocuzione sul cammino di conversione. Credo che confessore e confessato dovrebbero essere due che si prendono per mano. Peccato che non sia sempre così».
Sono quaranta minuti che il governatore si racconta. Come vuole lui: senza ipocrisie. Non nega di essere stato bisex. Non nasconde di aver avuto fidanzate. «Alcune bellissime». Poi guarda avanti. A quella che potrà essere la sua vita vera e confessa: «Considero un limite della mia esperienza terrena non aver potuto essere genitore. Sarebbe stato qualcosa di straordinario».

È qui l’unico accostamento con Luca Di Tolve”. Anche lui, comunque, aveva risposto in maniera secca a una domanda secca: che cosa le manca? «Un figlio».

E lei, governatore? Ricorda: disse che non vorrebbe morire senza aver vissuto l’esperienza della paternità.
«Ma a modo mio, padre lo sono già stato: ho dedicato tempo ai bambini. Mi piace giocare, fare teatro, scrivere filastrocche. Credo che sarei stato un buon papà. Provo tristezza quando vedo con quanta superficialità si diventa genitori: senza riflettere, senza pesare, senza interrogarti e senza donarti. Quante domande farei a tanti papà: quante volte invece di una parola preferisci offrire a tuo figlio un cartone animato? Quante volte rinunci alla conoscenza della sua crescita? Quante scegli di non misurarti con lui? Forse troppe. E forse, ancora una volta, siamo dentro un’interpretazione volgare di un ruolo fondamentale. Mi resta però una consolazione: il mondo corre. Più di quanto immaginiamo».
segnalazione di Adriana Borgioni
Unità 31.7.10
segnalazione di Lorena Cipriani


il Riformista 31.7.10
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venerdì 30 luglio 2010




il Fatto 30.7.10

Arrivederci al bavaglio
Rimandato a settembre, ma destinato a morire. Così a B. non serve
di Sara Nicoli

La legge sulle intercettazioni non c’è più. O meglio: rimbalza a settembre, ma è destinata ad essere inoltrata nel classico “binario morto”, un modo per dire che chissà se verrà mai ripresa in mano. E, soprattutto, è assai incerto il quando. Il pericolo, però, non può dirsi del tutto scampato. Ancora ieri, in un’aula di Montecitorio in piena fibrillazione, la disgregazione della maggioranza in mille pezzi, c’era ancora chi, tra i berluscones di più stretta osservanza, ipotizzava un possibile “colpo di coda” del Cavaliere. “A lui la legge non piace più – sosteneva – ma se si dovesse andare alle elezioni anticipate, verrebbe subito rispolverata e approvata in men che non si dica”. Ma non adesso. L’idea di Berlusconi dell’altra sera di “ritirare il provvedimento” perché ormai privo di quel mordente e di quella motivazione con cui era nato (il “bavaglio”, per intendersi) non poteva che essere una battuta; ritirare palesemente il ddl avrebbe dato a Fini l’alloro di una vittoria nel segno della legalità e dei valori costituzionali della libertà di stampa che Berlusconi non gli avrebbe concesso neppure sotto tortura.
DISINNESCARE UNA MINA Si trattava, tuttavia, di trovare il sistema per disinnescare un pericolo incombente nell’iter dei lavori parlamentari alla Camera, ovvero la calendarizzazione per la prima settimana di agosto delle pregiudiziali di costituzionalità della legge, per le quali sarebbe stato previsto il voto segreto. Solo due settimane fa, un simile appuntamento sarebbe stato guardato con sufficienza dalle truppe berlusconiane, coscienti che a qualunque strappo sarebbe seguito a ruota un voto consenziente dei finiani, decisi a non prendersi in alcun modo la responsabilità di un’eventuale caduta dell’esecutivo su una legge così sensibile. Con il passare dei giorni, però, la situazione politica nella maggioranza ha cominciato a corrompersi, rendendo sempre più palese che il voto finale alla Camera sulle intercettazioni poteva diventare esiziale non solo per il Pdl, ma anche per il governo. E prima che fosse troppo tardi, che cioè la questione del calendario dei lavori di Montecitorio d’agosto, diventassero il palcoscenico di un duello rusticano tra Fini e Berlusconi sull’onda dei temi della giustizia e della legalità – che avrebbero visto perdente Berlusconi – il ministro Alfano, di concerto con i coordinatori del Pdl e il capogruppo alla Camera, Fabrizio Cicchitto, hanno deciso che era meglio disinnescare la mina: tutto rinviato a settembre. Se – e quando – si dovesse riprendere l’argomento, si comincerà con un voto sulle pregiudiziali di costituzionalità dove i finiani, però, avevano già promesso un voto contrario; con i nuovi assetti che si vanno formando nell’emiciclo di Montecitorio, il passaggio della legge alla Camera resterà dunque molto accidentato.
UNA LEGGE “FIGLIASTRA” Ma questo è uno scenario solo futuribile. Perché il Cavaliere della legge così com’è strutturata oggi, figlia di mille compromessi e altrettante violazioni costituzionali, non sa più che farsene. Certo, il fatto che non sia stata approvata nei tempi e nei modi da lui imposti alla maggioranza, rende questo slittamento “ad libitum” del provvedimento di fatto una sua sconfitta personale. E, certamente, una vittoria di Fini, con la sponda del capo dello Stato. Per il Cavaliere, poi, si riapre anche un’altra incognita che riteneva di aver risolto accelerando in modo spasmodico l’iter della legge: le nuove inchieste giudiziarie. Se Berlusconi, infatti, aveva fatto tanta fatica, era perché intendeva mettere un bavaglio definitivo allo “sputtanamento” dei suoi più stretti sodali sulle pagine dei giornali grazie alla pubblicazione di paginate intere di intercettazioni. Con la scusa della tutela della “privacy” dei cittadini, Berlusconi voleva solo garantire a se stesso e al suo governo di venire travolto da nuove rivelazioni e avvisi di garanzia; a questo punto il rischio rimane molto alto, ma per il Cavaliere ci sono già nuove emergenze da dover tamponare. Ecco, infatti, all’orizzonte la possibilità che il legittimo impedimento venga bocciato dalla Consulta entro ottobre, ben prima che il Lodo Alfano bis, in forma costituzionale, possa cominciare a muovere i primi passi al Senato. Il tutto unito all’esigenza di riorganizzare il partito partendo dal basso (lo farà ad agosto, ma con spirito diverso dalle aspettative) e la Lega da tenere sotto controllo sulla questione del Federalismo; troppo per poter sostenere anche tutti i timori legati alle intercettazioni e al possibile rifiuto di firma da parte del capo dello Stato.
DI PIETRO: “RITIRATELO”
E ieri Antonio di Pietro è sceso in piazza con il Popolo Viola che manifestava ancora contro il ddl intercettazioni per ribadire il suo punto di vista: “Non c’è nulla di meno che il ritiro – ha spiegato il leader Idv – perché questo provvedimento è decisamente inemendabile e, dunque, non ci daremo pace finché non lo avranno tracciato del tutto”. Di Pietro è conscio che questo non avverrà mai, non foss’altro perché il Cavaliere mai ammetterà la sua sconfitta, ma è chiaro che il leader Idv intravede la possibilità che, in caso di emergenza, i fedelissimi del premier, a partire da Alfano, lo possano rispolverare per farne una nuova arma contro giudici e stampa. Ma non succederà domani.

giovedì 29 luglio 2010



Repubblica 29.7.10
Basta con gli incubi notturni ecco come guidare i sogni
di Sarah Kershaw


STA guidando a folle velocità per le strade di una grande città e un essere raccapricciante, con dei bulbi oculari giganti, la insegue ed è sempre più vicino. È un sogno, ovviamente. Emily Gurule, 50 anni, insegnante, lo ha raccontato al dottor Barry Krakow. BA R R Y Krakow è il fondatore della P . T . S . D . Sleep Clinic presso il Maimonides Sleep Arts and Sciences ad Albuquerque, esperto nello studio degli incubi. Ma lui non le ha chiesto di provare a interpretarlo. Semplicemente, l' ha invitata a sognare ancora. «Si concentri qualche minuto, chiuda gli occhi e modifichi il sogno come vuole».E l' automobile nera diventa una Cadillac bianca, che viaggia a velocità moderata, senza essere inseguita. I bulbi oculari diventano bolle di sapone che si librano placide in cielo. «Ecco, è un nuovo sogno», prosegue Krakow. «Quello brutto è laggiù», dice indicando l' altro lato della stanza. «Non ci interessa più ormai, ora ci occupiamo del sogno nuovo». Questa tecnica, utilizzata a paziente sveglio, si chiama scripting o dream mastery, sceneggiatura o gestione del sogno, e fa parte della imagery rehearsal therapy (IRT), ripetizione immaginativa, che Krakow ha ideato, assieme ad altri, per curare le persone soggette ad incubi. Da qualche anno gli incubi sono considerati una patologia precisa, e i ricercatori hanno prodotto una mole crescente di dati empirici che testimoniano come questo tipo di terapia cognitiva possa contribuire a ridurre la frequenzae l' intensità degli incubi, o addirittura eliminarli. Alcuni terapeuti, però, soprattutto di scuola junghiana, sono contrari alla strategia di mutare i contenuti onirici, sostenendo che i sogni inviano messaggi importantissimi alla mente sveglia. Gli incubi "evidenziano in grassetto temi particolari", spiegano gli psicologi. Eliminarli significa "perdere l' opportunità di trarne un significato". Nel caso di Emily Gurule, trasformando in bolle di sapone i bulbi oculari minacciosi, la paziente non saprà mai cosa quegli occhi cercavano di dirle. Da secoli gli incubi affascinano e lasciano perplessi, terapeuti e analisti di ogni scuola si sono confrontati su come interpretarli. Un incubo terrificante può perseguitare un individuo per tutta la vita. È un' esperienza onirica inquietante, osservano gli scienziati, "che stuzzica e avvelena lo spirito e ha un substrato di potenza, lussuria, oralità aggressiva e morte". Tra il 4 e l' 8 per cento degli adulti riferisce incubi episodici, una volta la settimana o più. Ma l' incidenza passa al 90 per gli ex combattenti e le vittime di stupro. Krakow sostiene che nelle terapia dello stress post-traumatico bisognerebbe agire più attivamente nei confronti degli incubi. Kracow e altri clinici ricorrono con sempre maggior frequenza alla IRT per la cura dei veterani e dei militari in servizio attivo in Iraq e in Afghanistan. Il mese scorso il ricercatore ha tenuto un seminario sulla IRT ed altre terapie del sonno per 65 terapeuti, medici e psichiatri, molti dei quali attivi in ambito militare. Anne Germain, professore associato di psichiatria presso la facoltà di medicina dell' Università di Pittsburgh, ha postoa confronto la terapia comportamentale, che include la ripetizione immaginativa,e la terapia farmacologica con il prazosin, un anti-ipertensivo che si è rilevato valido nel ridurre l' evenienza di incubi. I risultati preliminari dello studio, condotto su 50 veterani, hanno dimostrato l' efficacia di entrambe le terapie. Deirdre Barrett, psicologa della Harvard Medical School, esperta del rapporto tra trauma e sogni, si dice colpita dal sempre maggiore interesse riposto negli incubi che sono esito di traumi bellici e torture. «Oggi i terapeuti sanno che si possono influenzare i sogni, interrogarli su particolari tematiche e anche modificare gli incubi». Hollywood ha subito colto lo spunto del controllo dei sogni con "Inception", un thriller che si muove sui terreni più oscuri del mondo onirico. La trama si basa sul concetto del sogno lucido, una tecnica utilizzata per aiutare i pazienti che hanno paura dei propri sogni a capire che di sogni si tratta. La Barrett è favorevole all' uso della tecnica di Krakow, sostiene però che andrebbe integrata da terapie psichiatriche e comportamentali. Il metodo Krakow prevede in genere quattro sedute di terapia di gruppo, intervallate da 10 colloqui individuali, anche se, a detta del ricercatore, in media sono sufficienti dai tre ai quattro incontri. Afferma che su centinaia di pazienti trattati, circa il 70 per cento ha riferito notevoli miglioramenti nella frequenza degli incubi, dopo una terapia da due a quattro settimane. (Traduzione di Emilia Benghi Copyright New York Times)

l’Unità 29.7.10

L’affondo di D’Alema
«Vendola non è nuovo, lo conosco da 35 anni»
Il presidente del Copasir tra gli under 30 Pd ironizza sul «tormentone estivo» «Se è giovane lui lo sono anch’io. Nichi è bravissimo a cancellare le sue tracce Non fosse stato per noi, in Puglia staremmo tutti a fare poesia all’opposizione»
Al governo: «Abbiamo vinto, lui era nel partito che ha fatto da spina nel fianco»
di Simone Collini

Nichi? Il nuovo?». La smorfia della bocca e l’alzata del sopracciglio basterebbero come risposta, ma poi Massimo D’Alema si dà un’aggiustatina agli occhiali, si sistema meglio sulla poltrona, e poi cominciano a partire i fendenti. Mezzanotte è passata da un pezzo, per due ore il presidente del Copasir ha parlato di globalizzazione, crisi del modello neoliberista, errori commessi dalla sinistra italiana ed europea. I Giovani democratici l’hanno invitato alla Festa in corso a Torre del Lago per parlare di una cosuccia come «Il mondo dopo la crisi», e D’Alema resta fedele al mandato, anche bacchettando il giornalista dell’Espresso Marco Da Milano, che lo intervista, ogni volta che questo prova a portarlo sulle vicende della politica italiana. Ma poi sarà l’ora, sarà che non si può tenere sempre il piede sul freno e che la tentazione è forte, e insomma basta un accenno a Vendola e si assiste a un assaggio del senza esclusione di colpi che ci sarà se dovessero effettivamente esserci delle primarie col governatore pugliese schierato contro il Pd.
D’Alema parte col sorriso sulle labbra: «Cos’è, il nuovo tormentone dell’estate?». E poi: «Mi fa piacere se Vendola viene considerato giovane, mi sento ringiovanire anch’io. Lo conosco da 35 anni, da quando era nella Fgci, di cui ero segretario». Sulle sedie sistemate sul lungomare ci sono gli under 30 del Pd e persone arrivate da Viareggio e dintorni. Non una platea di moderati centristi, a giudicare da come rumoreggiano quando D’Alema dice che su Pomigliano «Marchionne ha avuto il coltello dalla parte del manico» perché negli anni c’è stato un assenteismo «forse troppo tollerato, che chiama in causa gli stessi sindacati» e perché gli operai «si sono dati malati per vedere una partita di calcio». Però sorridono e applaudono quando D’Alema continua: «Con la pedanteria di chi gli ha fatto da segretario per diversi anni, ricorderei a Vendola che prima si spiega cosa si vuole fare per il paese, poi come lo si vuole fare, con chi, e a quel punto si ragiona sulla leadership. Rovesciare le cose non mi sembra una buona idea». E sono ancora applausi quando continua, definendo Vendola sì «intelligente» ma «slegato dalla realtà» e soprattutto «bravissimo a cancellare le proprie tracce». «Ha detto che con la prosa non si vince», dice riferendosi a quanto sostenuto da Vendola il giorno che ha partecipato alla scuola di politica di Veltroni, a Bertinoro. «Non è vero. Per due volte abbiamo vinto, nel ‘96 e nel 2006. E Nichi era nel partito che tutte e due le volte ha fatto da spina nel fianco al governo guidato da Prodi. Ma lui è
bravissimo a cancellare le proprie tracce». Fa il gesto con la mano, come a spazzolare via qualcosa, e per completare l’opera di demolizione torna sulle regionali di primavera. «La prosa, la politica, gli è stata utilissima anche per vincere in Puglia. Altrimenti lì ora staremmo tutti a fare poesia, all’opposizione». La tesi è che se il Pd non avesse insistito fino alla fine per avere un candidato gradito anche all’Udc, i centristi non avrebbero appoggiato Poli Bortone anziché il candidato del Pdl. «I numeri, che saranno pure cinici ma sono la realtà, dicono che Vendola ha preso meno voti della volta precedente e che solo grazie a noi ha comunque vinto. Ci saremmo aspettati un grazie, il giorno dopo le elezioni».
Troppi ringraziamenti non ci sono stati e ora Vendola ha lanciato una sfida a Bersani. «Nichi, che si è autocandidato leader della sinistra, sarebbe il nuovo, e Bersani, che è stato eletto segretario con delle primarie a cui hanno partecipato tre milioni di persone, sarebbe la burocrazia?». D’Alema difende il leader del Pd dagli attacchi ma soprattutto sottolinea che sarà lui il candidato alle primarie dei Democratici: «È scritto nel nostro statuto. A meno che, nel 2013, Bersani non voglia lanciare una personalità più giovane». E di forze nuove spendibili nelle prossime sfide nazionali ce ne sono, dice facendo il nome, tra gli altri, del presidente della provincia di Roma Nicola Zingaretti. Il sindaco di Firenze Matteo Renzi no, anche se sollecitato, D’Alema non lo inserisce nella lista. Ma d’altro canto il presidente del Copasir è convinto che certe liste e soprattutto certe manovre valgono quel che valgono. «In certi salotti romani si mettono a punto strategie totalmente sbagliate, e che spesso portano anche sfiga». Nessun riferimento più preciso, e però nel Pd si osserva con attenzione il modo in cui Repubblica sta trattando la vicenda. Più che il sondaggio Ipr Marketing pubblicato dal sito web che dà Vendola più votato di Bersani, al leader dei Democratici non ha fatto piacere leggere un articolo titolato «Sulle primarie il gelo di Bersani». «Oggi siamo sul ring con Berlusconi, su questo dobbiamo essere tutti impegnati e io non ho altra distrazione», dice il segretario del Pd. «Ma adesso smettiamola col teatrino di chi sostiene di volere le primarie e chi sarebbe tirato per la giacca».

l’Unità 29.7.10
Sondaggio Ipr: Nichi primo alle primarie
Il Pd: non ci crediamo
Secondo la rilevazione il governatore pugliese vincerebbe contro Bersani con il 51% perchè «moderno e comunicativo» Ma il leader appare maggiormente «affidabile» agli elettori
di A. C.

Vendola batterebbe Bersani alle primarie del centrosinistra? Sì, secondo un sondaggio della società Ipr Marketing, pubblicato ieri da Repubblica. it. Di stretta misura la vittoria del governatore pugliese, 51% contro 49%, una “forchetta” assai esile trattandosi di un sondaggio che ha comunque margini di errore più ampi di quel 2% di distacco. È tuttavia, a pochi giorni dalla discesa in campo di Vendola, il dato politico è comunque forte. Soprattutto se si tiene conto che Vendola prevale su Bersani anche tra gli elettori Pd (52 contro 48%). Vendola vince perché più «moderno», ma Bersani riscuote una percentuale molto più alta di fiducia (77% contro 63%) tra gli elettori del centrosinistra. Più forte il distacco nella domanda su chi potrebbe battere battere Berlusconi alle urne: il 49% dice Vendola, il 31% Bersani, dato che si conferma anche tra gli elettori democratici.
Quanto alla fiducia, Bersani prevale tra gli elettori Pd (86 contro 67%), degli altri partiti di centrosinistra (72 contro 60%) e in modo netto tra gli indecisi di centrosinistra (80 contro 52%). Vendola invece va decisamente forte tra i dipietristi (76 contro 58%). Quanto alle caratteristiche, del leader Pd vengono apprezzate con percentuali sopra l’80% l’onesta, la competenza, la sincerità, l’affidabilità, la capacità di mediazione, tutte voci in cui è Vendola a rincorrere. Il governatore invece prevale per le caratteristiche di modernità, di comunicazione e di stretta misura per l’autorevolezza. Molto alto il distacco alla voce «moderazione»: Bersani vince con l’83% contro il 46%.
«Il fenomeno Vendola è figlio dell’impazienza della nostra gente, che non ne può più di Berlusconi e abbraccia chiunque appaia come una possibilità per cacciarlo», dice Piero Fassino. «Oggi Vendola è un fenomeno in emersione e per questo attira simpatie. Ma di qui alle primarie c’è ancora molto tempo, Nichi è un dirigente politico intelligente e vuole trasformare l’impazienza degli elettori in una speranza, ma di qui a costruire un consenso maggioritario nel paese ce ne passa...». «Un sondaggio intempestivo», taglia corto Pierluigi Castagnetti. «Io credo che Vendola non vincerebbe, e poi alle primarie non ci saranno solo due candidati». «Il sondaggio? Un colpo di sole estivo», sorride Livia Turco. «Al momento buono sarà Bersani a stravincere le primarie».
Gero Grassi, deputato pugliese del Pd e amico di Vendola, invita il suo partito «a non sottovalutare Nichi». «Mi sembra di rivedere il film della Puglia, quando nel 2005 dicevo che avrebbe battuto Fitto mi prendevano per visionario». «Certo che il sondaggio è gonfiato dal clamore della discesa in campo e dal fatto che è l’unico candidato già in pista, ma quei numeri dimostrano il livello di popolarità di Nichi tra gli elettori Pd e ci spinge a indicare al più presto un nostro candidato, senza giocare in difesa o, peggio, cercare di sminuire Nichi». Preoccupato Follini: «Non temo Vendola che ha le sue certezze, ma l’incertezza del Pd. Se la nostra rotta fosse più chiara il problema Vendola sarebbe diverso».

l’Unità 29.7.10
Sette note. Il ritmo dell’evoluzione
Gli ultimi studi: è stato il «canto» degli uomini primitivi a far nascere le emozioni
La musica non serve a niente? Chiedetelo a Neanderthal
di Emanuele Coco

Citare Parigi quando si parla di politica o società non è più chic. Provincialismo abusato in trasmissioni televisive, rotocalchi e confidenze tra amici, l’appello al grandeur repubblicano post ancient régime è una svista di cattivo gusto. Si perdoni dunque il riferimento geografico, ma al pensiero di una Francia che apre gli ombrelloni all’estate dei festival gratuiti, che cede i giardini di Versailles alla Musica per i Reali fuochi d’artificio di Händel e che moltiplica le biblioteche in cui è possibile prendere in prestito CD (dell’era in corso!), l’audiofilo italiano avverte un po‘ di imbarazzo: il suo istinto musicale – erede di quella nobile tradizione tesa tra l’Opera e le canzonette – cede ai disagi di un’afa stagionale vissuta tra bandane e bavagli: l’attenzione della politica italiana per l’universo pentagrammato tende al ribasso. Del resto, tra tagli alla cultura, ai servizi sociali e al sentire legale, perché tenersi qualcosa di tanto inutile come la musica? Qualche suggerimento potrebbe venire da un inserto che il periodico Book pubblica in questi giorni proprio in Francia e dedicato all'interrogativo: a cosa serve la musica? Secondo Philip Ball, editorialista di Nature e autore di The music instinct, un approccio scientifico all’antico dilemma filosofico permette di ricavare un dato generale: per essere un’arte inutile, la musica mette in movimento un bel po’ di roba. La mappa delle zone cerebrali che si attiva durante l’ascolto è quanto mai vasta. Diversamente da ciò che avviene per il linguaggio, il nostro cervello non ha un’area specifica per l’ascolto della musica ma recluta funzioni psichiche eterogenee e corali: dall’emisfero destro a quello sinistro, dalla logica alle emozioni. Gli intervalli di altezza e basso. Del resto, tra tagli alla cultura, ai servizi sociali e al sentire legale, perché tenersi qualcosa di tanto inutile come la musica? Qualche suggerimento potrebbe venire da un inserto che il periodico Book pubblica in questi giorni proprio in Francia e dedicato all'interrogativo: a cosa serve la musica? Secondo Philip Ball, editorialista di Nature e autore di The music instinct, un approccio scientifico all’antico dilemma filosofico permette di ricavare un dato generale: per essere un’arte inutile, la musica mette in movimento un bel po’ di roba. La mappa delle zone cerebrali che si attiva durante l’ascolto è quanto mai vasta. Diversamente da ciò che avviene per il linguaggio, il nostro cervello non ha un’area specifica per l’ascolto della musica ma recluta funzioni psichiche eterogenee e corali: dall’emisfero destro a quello sinistro, dalla logica alle emozioni. Gli intervalli di altezza e la melodia – per esempio – sono processati in una zona chiamata convoluzione di Heschl, ma vengono riconosciuti anche dal planum temporale, un dominio coinvolto in compiti complessi come la distinzione del timbro, la localizzazione spaziale e il riconoscimento di flussi di suoni come il parlato. Una così diffusa delocalizzazione delle aree preposte all’ascolto musicale suggerisce un ruolo antico con profondi coinvolgimenti sul piano psichico. La musica del resto è in grado di influenzare importanti funzioni vitali come la frequenza cardiaca, la sudorazione o la produzione di ormoni.
Dunque, tanto rumore per nulla? Non proprio. Almeno stando alle tesi di Steven Mithen, archeologo britannico autore de Il canto degli antenati. Mithen tenta una spiegazione evoluzionistica partendo dal legame tra suoni e stati d’animo: la musica sarebbe lo strumento più efficace per veicolare sensazioni in assenza di parole. Qualcosa di analogo a quel che capita quando ricorriamo al «baby talk», il linguaggio con cui ci si rivolge ai bambini ancora privi di competenza linguistica. Timbri acuti, toni alti, suoni che ricordano il riavvolgersi di una bobina, frasi brevi e ripetute, sono tutte caratteristiche di quel pigolare un po’ ridicolo che interpretiamo dinnanzi ai neonati. Il perché è semplice: sono gli stessi bambini a incoraggiarci. L’analisi statistica ha mostrato una risposta fortemente positiva all’intonazione della voce, ben più consistente di ciò che si ha nel caso delle espressioni facciali. Non solo. Gli psicologi dell’università di Surrey hanno scoperto che praticamente tutti i genitori (anche quelli stonati!) si avventurano in repertori canori. Almeno in privato. Un questionario sottoposto a un campione di mamme restituisce le motivazioni: «rasserena il piccolo», «lo fa sorridere», «lo tiene allegro». In effetti, la psicologa Sandra Trehub ha dimostrato un’influenza del canto materno sulla produzione del cortisolo salivare, un ormone che interviene nel controllo dello stress. Secondo Mithen, dunque, il valore biologico della musica consisterebbe nella capacità di istillare stati emotivi, contagiare stati d’animo, spingere alla coesione tra soggetti. Forte dei dati sperimentali, Mithen continua la sua disamina evoluzionistica chiedendosi: cosa se ne faceva l'uomo di Neanderthal del suo cervello di vaste dimensioni se i suoi predecessori, con uno ben più piccolo, erano già capaci di costruire utensili e condurre vita collettiva? A cosa serviva questa grossa teiera celebrale apparsa per la prima volta nella storia evolutiva dell’uomo?
La risposta di Mithen è affascinante: serviva a cantare. Avvalendosi del «canto», l'uomo di Neanderthal avrebbe rinforzato lo scambio e la coesione di gruppo. Grazie ai suoni di quel linguaggio privo di parole, il nostro prozio all’alba della civiltà avrebbe dato voce ai propri sentimenti di allegria, entusiasmo, paura, rabbia, amore, trasportando tutti in una sincrona e coordinata collaborazione per la sopravvivenza. L’ipotesi è suggestiva. Eppure proprio di fronte a un ruolo così ancestrale per il canto, al cospetto di quest’idea di musica come giavellotto evoluzionistico che proietta il genere Homo nel futuro, viene quasi nostalgia dell’inutilità che alla musica era stata imputata. Sì, perché al di là della sua possibile funzione biologica, la musica potrebbe essere preziosa proprio perché futile: una dote che l’accomuna alla filosofia e all’amore. Privarsi di questi eleganti perditempo dell’animo umano non è detto sarebbe un vantaggio. Del resto, lo scriveva già Vladimir Jankélévitch: «Si può vivere senza filosofia, senza musica, senza gioia e senza amore. Ma mica tanto bene».

Corriere della Sera 28.7.10
Canova e quella battuta orgogliosa che fece tacere l' imperatore
L'artista a Napoleone: italiani ladri? Buona parte sì
di Matteo Collura

Il personaggio Lo scultore Antonio Canova nacque a Possagno (Treviso) nel 1757 e morì a Venezia nel 1822. Lo scultore è ritenuto il massimo esponente del Neoclassicismo (sopra, l' artista in un dipinto di Giovanni Battista Lampi del 1805 ) I ritratti di corte Napoleone scelse il Canova come uno dei suoi maggiori ritrattisti ufficiali. Tra i lavori più celebri che l' artista realizzò per la famiglia imperiale spicca Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, nelle vesti di Venere vincitrice

La grande statua bronzea che accoglie i visitatori dell' Accademia di Brera, a Milano, è un inno alla bellezza del corpo umano quando esso è ben temprato all' apice degli anni giovanili. La possente scultura rappresenta un uomo, ma la sua bellezza è tale da far pensare anche a qualcosa di femmineo, come sempre accade agli uomini «troppo» belli. Il fondoschiena di quella statua, poi, è forse il più sensuale tra quelli che gli scultori di ogni tempo abbiano realizzato. Quel magnifico posteriore è di Napoleone Bonaparte, e fu modellato dallo scultore Antonio Canova. Basterebbe questo solo monumento a dare misura di quanto l' Imperatore dei francesi sia stato esaltato, nobilitato, adorato, deificato, addirittura reinventato dagli artisti che ne hanno seguito e illustrato la fulminante carriera militare e politica. Eppure, il «nostro» Canova, che Napoleone volle come uno dei suoi maggiori ritrattisti ufficiali, si dice abbia avuto nei confronti del genio corso un moto di stizza, seguito da una battuta offensiva che merita di passare alla storia come il famoso «merde!» di Cambronne. Non sappiamo se l' episodio sia realmente accaduto, e se sia stato davvero Canova a esserne il protagonista, ma l' aneddoto è così bello da meritare di essere tramandato. Dunque: siamo nella splendida Villa Manin, a Passariano di Codroipo, provincia di Udine. Durante la campagna d' Italia che culminò con il Trattato di Campoformio (o Campoformido), questo magnifico edificio fu sede del quartier generale di Napoleone, il quale proprio in uno dei suoi saloni volle fosse sancita quella pace che, tra l' altro, segnò la fine della secolare Repubblica di Venezia (17 ottobre 1797). Alla storica firma seguirono un banchetto e protratti balli: lontani ormai gli imperativi di etica politica, soprattutto in campo internazionale, che la Rivoluzione aveva imposto. Nei fatti, il trattato di Campoformio che ratificava la nascita della Repubblica Cisalpina (subito dotatasi della Costituzione francese) e consegnava all' Austria il Veneto fino all' Adige, il Friuli, l' Istria e la Dalmazia, violava il principio del rispetto dei popoli, anche se era stato firmato dal vittorioso comandante dell' Armata d' Italia e dal Direttorio, la massima autorità politica alla quale i francesi avevano fatto ricorso dopo la storica sollevazione del 1789. Una strana situazione si era venuta a determinare nel Nord-Est dell' Italia: la Francia cedeva, dopo averlo conquistato, quel che non le apparteneva: Venezia. Possiamo immaginare lo stato d' animo dello scultore Antonio Canova, nato quarant' anni prima a Possano, in territorio di Treviso, anch' esso finito sotto le bandiere d' Austria. Parimenti lo possiamo immaginare, elegantemente vestito, prendere parte alla cena, e poi alla chiacchierata interrotta qua e là dagli acuti dell' orchestrina, chiamata ad allietare quella sera d' autunno in una delle ville più belle d' Europa. Impeccabili, nelle loro rutilanti divise, gli ufficiali che hanno permesso a Napoleone di liquidare un nemico che all' inizio della campagna era più forte in uomini, equipaggiamenti e armi. Anche le donne sono all' altezza dell' evento, e i militari più alti in grado, con inchini e colpi di tacchi, si contendono le più fascinose. Napoleone, che da poco si firma «Bonaparte», per togliere al suo cognome quel tanto di suono italiano («Buonaparte»), conversa soddisfatto. Del resto, ne ha motivo, avendo raggiunto a ventotto anni quel che nessuno avrebbe immaginato. E che gloria per la Francia, uscita rinnovata e purificata dalla Rivoluzione! Lui - e chi sennò? - avrebbe continuato ad esaltarne la potenza con le baionette del suo esercito. Grazie ai suoi successi militari, già il Louvre (che in suo onore dal 1803 al 1814 sarà chiamato Musée Napoléon) risplende delle opere d' arte requisite in Italia: Tintoretto, Paolo Veronese, Guido Reni, Raffaello... Persino i cavalli bronzei della basilica di San Marco hanno preso la strada di Parigi. Il Generale ha una particolare passione per le opere d' arte, al punto da pretendere che la loro requisizione venga inserita nei trattati che sanciscono armistizi e pacificazioni. Napoleone conversa e ogni tanto, la mano in tasca, accarezza la miniatura che riproduce il volto di Joséphine. E qui ne approfittiamo per riferire che di lì a poco il vetro di quella miniatura sarebbe andato in frantumi. Un cattivo «segno» per Napoleone, il quale, a dar retta a uno dei suoi generali presenti all' incidente, dirà: «Le cose sono due: o mia moglie è malata o mi è infedele». La conversazione a Villa Manin ora riguarda l' Italia, i suoi combattenti, i suoi civili, le sue abitudini, il suo carattere, anche se allora non si poteva parlare di un «carattere nazionale» italiano. Presenti Berthier, il geniere e geografo capo di stato maggiore del futuro imperatore dei francesi; Gioacchino Murat, non ancora suo cognato; l' aiutante di campo Marmont, e i valorosi generali Masséna, Augereau e Laharpe. Presenti anche numerosi gentiluomini dei territori appena conquistati, Napoleone si lascia scappare un apprezzamento tutt' altro che gentile nei loro confronti. Pressappoco questo: «Gli italiani sono tutti ladri». Certo, ammesso che la frase sia stata detta, bisognerebbe conoscerne il contesto, perché questo potrebbe attenuarne la violenza. Ma si vuole che Napoleone abbia voluto offendere i suoi interlocutori, pur sempre in quell' occasione padroni di casa: «Gli italiani sono tutti ladri...». Così come si vuole che, uscendo dal suo angolo d' ombra, Antonio Canova abbia replicato: «Generale, tutti no, ma buona parte sì...». Splendida battuta. L' equivalente di una battaglia vinta con le armi. Non sappiamo cosa Napoleone abbia risposto, se ha risposto. Ma noi, nel tramandarcela, ci sentiamo un po' ripagati di tutto quanto ci è stato sottratto in materia di opere d' arte. E non soltanto da Napoleone «Buonaparte», ma da altri - e più perversi - signori della guerra.

il Fatto 29.7.10
“Vita da bestia” nei manicomi criminali
Viaggio nei sei ospedali psichiatrici giudiziari. La denuncia della commissione Marino
di Monica Raucci

Per dissetarsi nei giorni di caldo torrido dove le celle sfiorano i 40 gradi, i pazienti dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, nel casertano, devono bere da una bottiglia attaccata allo scarico del water. L’unico modo per avere un po’ di acqua fresca, perché il frigorifero non è concesso. È solo una delle istantanee del viaggio che la commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema sanitario nazionale presieduta dal senatore Ignazio Marino, ha percorso in giro per gli ospedali psichiatrici giudiziari d’Italia. Una serie di sopralluoghi a sorpresa che si sono trasformati in una via crucis. Il racconto incredibile di una vita da bestiame: celle dormitori, trattamenti medioevali, feci e urina sul pavimento, perché il water, a volte, è un orinatoio alle spalle del letto. Gli ospedali erano nati per sostituire i manicomi criminali negli anni ‘70. Sono in tutto sei, e ospitano 1500 persone. Le strutture detentive dovevano diventare sanitarie. Molte di loro si sono trasformate in lager. Nell’ospedale di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) già in passato finito sotto il fuoco delle polemiche e denunce, su 329 degenti c’è un solo medico, due infermieri e un educatore.
LO RICONOSCI DALL’ODORE.
“Ovunque scrivono i senatori nella relazione un lezzo nauseabondo per la presumibile presenza di urine sul pavimento”. Entrano nella stanza numero 4, c’è Salvatore: è nudo, coperto da un lenzuolo. È immobilizzato al letto mani e piedi con una garza. Feci e urina cadono in una pozzetta sotto il materasso. Ha un ematoma sul cranio. Un Cristo del Mantegna in versione atrocemente postmoderna. Ce n’è un altro, di Cristo, negli stessi giorni, al Nord: ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, quando la commissione entra in una stanza trova Roberto immobilizzato da 5 giorni. Il letto non si può reclinare, lui è chiuso dentro la camera senza campanello. Se si sente male, pazienza. L’ Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa è un paradosso vivente: le stanze sono celle da sei posti ognuna, mentre ci sono due padiglioni nuovi di zecca mai aperti. Chiunque capisce che i malati mentali hanno bisogno di spazio e autonomia. Ma in questi posti mancano perfino gli psichiatri. Il personale medico è spesso generico, oltre che insufficiente. Anche qui: 320 degenti, un medico e due infermiere. “Ovunque cumuli di sporcizia e residui alimentari”, e ancora quel tanfo: urina. La commissione guarda,
annota: “Assenza di cure specifiche, inesistenza di qualsiasi attività, sensazione di completo e disumano abbandono”.
LI CHIAMANO INTERNATI, I PAZIENTI.Untermineaspro,duro, ma sempre meglio dell’altro, che gira negli ospedali: gli ergastoli bianchi. Perché per molti di loro la pena giudiziaria è terminata, potrebbero uscire, ma nessuno è disposto a accoglierli. Non i parenti, non l’Asl, per cui un paziente di quel tipo costa troppo e soprattutto è “scomodo”. È così che si consumano i suicidi, uno dietro l’altro. “Le Asl non possono lavarsene le mani”, commenta il senatore Daniele Bosone, della commissione. E cita Fedor Dostoevskij: “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Già.
Nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, il 40% degli internati è detenuto “in deroga” , come quel povero cristo internato a Napoli che per essersi presentato davanti a una scuola vestito da donna, si è beccato due anni. Di anni ne sono passati però 25, e lui non è più uscito. Non sa dove andare, nessuno lo vuole. “Alcuni detenuti in questi ospedali – commenta il senatore Michele Saccomanno – non sono neanche stati condannati. Sono ammassati lì, uno sull’altro, qualcuno è malato, dovrebbe essere curato in strutture idonee”. Come il paziente diabetico con una gangrena ad un piede in stadio avanzato, ospite dell'Opg di Napoli-Secondigliano, in mezzo agli altri pazienti.
LA STORIA IN REALTÀ è vecchia, ogni anno un’inchiesta giornalistica o l’impegno di qualche politico fa luce su orrori consumati. Due anni fa si era mosso perfino il Consiglio d’Europa, con un dossier durissimo sui “trattamenti inumani e degradanti”. Ogni volta una nuova inchiesta, ogni volta lo stesso scandalo. Ma ora forse qualcosa potrebbe muoversi. “Entro la prossima settimana – ha annunciato Ignazio Marino avremo l'elenco di tutti i soggetti che da un punto di vista medico sono dimissibili dagli Opg , circa il 40% dei 1.500 pazienti, ed entro agosto interverremo con le Asl perché vengano dimessi e curati sul territorio. E poi proporremo la chiusura di Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa e Montelupo”. Rimarrà aperta invece Castiglione delle Stivere, vicino a Garda. È pulito, efficiente, ed è il solo caso in Italia con un reparto femminile. Il suo dirigente, Pietro Caltagirone, è riuscito a risolvere (quasi) tutto. Perfino l’annoso problema della par condicio televisiva. I pazienti hanno affisso un foglio sulla bacheca. Il lunedì tg1, il martedì tg2, e così via.

il Fatto 29.7.10
Susanna Camusso
“Una strana idea dell’Italia. Da combattere”
di Giorgio Meletti

“Sento in giro la crescente preoccupazione che non ci sia per la Fiat un punto di riferimento in Italia quando Sergio Marchionne è in giro per il mondo. Forse il gruppo dovrebbe avere un responsabile per l’Italia”. Susanna Camusso, numero due della Cgil in procinto di prendere il posto di Guglielmo Epifani al vertice dell’organizzazione, dà corpo con l’abituale prudenza al dubbio che serpeggiava ieri mattina intorno al tavolo del confronto Fiat-governo-sindacati. Sindacati amici e nemici, ministri e organizzazioni datoriali si chiedono se al posto del sistema Fiat si stia palesando la politica “di un uomo solo al comando”.
Il supermanager, che discute con Sacconi e poi prende l’aereo e va a parlare con Obama sembra guardare al sistema Italia come a una controparte unica, un sistema obsoleto dove non distingue neppure tra la Fiom e la Confindustria.
È un’impressione forte, ed è diffusa. Però se Marchionne ragiona così ha un’idea strana. Non è che uno può scegliersi il Paese in cui vive. L’Italia ha la sua storia e un suo sistema di regole. Però, dice Marchionne, la Fiat può scegliersi il Paese in cui produrre auto.
La Fiat fino a oggi ha vissuto e prodotto in Italia in un sistema di relazioni sociali e rapporti di lavoro che hanno consentito a Marchionne di salvare l’azienda nel 2004, non da solo ma anche con l’aiuto dei sindacati. Non mi sembra utile mitizzare il modello americano, che è quello in cui la Chrysler guidata da Marchionne è di proprietà dei sindacati.
Andiamo al nocciolo del problema. Marchionne chiede garanzie che l’accordo di Pomigliano funzioni e faccia funzionare gli impianti ai livelli di produttività richiesti. E noi gli rispondiamo che, quando facciamo gli accordi, li rispettiamo. È lui che si è avvitato con la politica degli accordi separati. Se il tema sono le quantità produttive e lo sfruttamento degli impianti, noi non sappiamo più come dirglielo che siamo disponibili a discutere e a trovare insieme le migliori soluzioni. Se invece si mettono in discussione le libertà democratiche, c’è poco da fare, si tratta di diritti indisponibili che un sindacato non può cancellare con la firma a un accordo. Però, a parte la Fiom, gli altri sindacati hanno firmato l’accordo per Pomigliano, e adesso Marchionne lamenta un quadro di incertezza che mette a rischio le strategie d’investimento della Fiat.
Il quadro d’incertezza lo crea lui con gli accordi separati. E lo si vede adesso dalla successione di strappi, dall’invenzione di soluzioni strane per far quadrare un problema che si potrebbe risolvere con la ricerca di soluzioni condivise. In realtà la vera incertezza è quella che si è vista al tavolo di Torino, dove ci siamo trovati di fronte un capoazienda che non sembra aver sciolto i dubbi sul futuro dell’auto in Italia.
Marchionne ha garantito che la produzione di Mirafiori sarà comunque saturata. Bene, però vorremmo notizie più articolate. Abbiamo chiesto al governo di garantire la regia di un confronto, stabilimento per stabilimento, modello per modello.
In questa vertenza rimane netta l’impressione che la Cgil abbia in casa il problema Fiom, con il sindacato dei metalmeccanici in trincea nella battaglia contro Marchionne e la Cgil un po’ all’inseguimento.
Non è così. Al tavolo di Torino il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, e quello della Fiom, Maurizio Landini, hanno detto le stesse cose. E tra le altre che sarebbe bene smettere con licenziamenti e ritorsioni. Perché ci sono le dichiarazioni di Marchionne ma anche le azioni di Marchionne.
La minaccia di disdettare il contratto dei metalmeccanici, firmato da Cisl e Uil ma non dalla Fiom, aiuta il ricompattamento di un fronte sindacale?
Noi siamo sempre interessati a ricucire. E del resto le accelerazioni impresse da Marchionne in questi giorni insegnano che gli accordi separati non aiutano nessuno.

mercoledì 28 luglio 2010




l’Unità 28.7.10

«Arabi ed ebrei insieme. Ecco il mio nuovo partito»
L’ex presidente della Knesset: «Bisogna cambiare. Il governo è ostaggio di una destra che ci ruba il futuro. L’opposizione è ormai inconsistente»
di Umberto De Giovannangeli

La doppia sfida di Avraham Burg. Ad un governo, quello guidato da Benjamin Netanyahu, «ostaggio di una destra che sta sequestrando il futuro d'Israele», e a una opposizione «inconsistente, in perenne oscillazione tra testimonianza e bramosia di poltrone». Avraham Burg, ex presidente della Knesset, il più giovane nella storia dello Stato d'Israele, già dirigente laburista, scende di nuovo nell'agone politico. E lo fa proponendo la costituzione di un nuovo partito. «Sarà un partito arabo-ebraico – anticipa Burg – e si chiamerà “Shivion-Israel” (Eguaglianza per Israele)».
Un partito arabo-ebraico. Cosa c'è dietro questa caratterizzazione? «C'è la volontà di contrastare una deriva fondamentalista dell'identità nazionale. C'è la determinazione a unire una comunità che la destra oltranzista vorrebbe dividere, emarginandone una parte, quella araba, che rappresenta oltre il 20% della popolazione. C'è l'ambizione di ridefinire l'essere israeliano in base alla condivisione di principi e valori comuni, piuttosto che sulla base di una appartenenza etnica, religiosa». Un programma ambizioso, qualcuno potrebbe dire utopistico...
«Viva l'utopia se serve a risvegliare le coscienze, a ridare un senso alto e nobile all'impegno in politica. Non è l'utopia a minacciare Israele, ma l'appiattimento sull'esistente, un'assoluta mancanza di respiro strategico che accomuna oggi chi governa e chi è all'opposizione. La sfida è a un ceto politico che s'illude di poter fermare il tempo in un eterno presente, finendo così per tenere in ostaggio il futuro del Paese, e in particolare quello delle giovani generazioni. Questa sfida nasce dalla convinzione che la più grande minaccia interna per Israele è l'erosione del suo tessuto democratico, che ha già perso buona parte della sua sostanza, dei suoi valori. Quello che intendiamo realizzare sarà il partito di coloro che si sentono impegnati a difesa dei valori universali della dignità umana, che credono nella ricerca della pace, mossi da un insopprimibile desiderio di libertà, giustizia e eguaglianza».
Insisto ancora sul carattere ebraico-arabo del nascente partito. In termini di agenda politica, cosa significa questa connotazione identitaria? «Significa essere in prima fila nella lotta contro il razzismo e la discriminazione, superando i paradigmi del sionismo classico, che ignora l'esistenza degli arabi-israeliani. Unire identità e storie diverse è un'avventura affascinante in una fase storico-politica in cui è più facile costruire muri di separazione che ponti di dialogo. Chi decide di farne parte accetta la definizione di Israele come uno Stato il cui regime è democratico ed egualitario, e che appartiene a tutti i suoi cittadini. Lo Stato in cui gli ebrei hanno scelto di rinnovare la loro sovranità e dove realizzano il proprio diritto all'autodeterminazione, senza che questo significhi esclusione, ghettizzazione, verso le altre comunità. L'espressione di questo impegno sarà lo sforzo collettivo di modificare l'equilibrio sociale del potere, che è profondamente ingiusto, per dari pari opportunità a tutta la popolazione in Israele, indipendentemente dall'origine etnica, di sesso o religiosa. Credo davvero che sia giunto il momento per un partito israeliano arabo-ebraico, che innalzi con orgoglio, e sostanza, la bandiera di un impegno totale verso l'uguaglianza, senza traccia di discriminazione e di razzismo. Cristallizzare la separazione significa fare il gioco di chi punta al mantenimento dell'attuale status quo: la nascita di “Shivion-Israel” è anche un'opportunità per gli arabi israeliani di uscire dall'immobilismo post-1948. Ciò che vorrei contribuire a realizzare, infine, è un partito che abbia il coraggio di dire la verità alla gente per ciò che riguarda il riconoscimento delle ragioni e dei diritti dell'”Altro da sé”: il popolo palestinese».
Quale sarebbe questa verità per Avraham Burg? «Dire che la pace non può essere a costo zero per Israele, che non è possibile tenersi tutto quanto senza pagare un prezzo. Non possiamo tenere una maggioranza palestinese sotto lo stivale israeliano, e al tempo stesso pensare di essere l'unica democrazia del Medio Oriente. Questa è una improponibile “quadratura del cerchio”. Non può esservi democrazia senza uguali diritti per tutti coloro che vivono qui, arabi come ebrei. Non possiamo tenerci i Territori, disseminandoli di colonie, e conservare una maggioranza ebraica nell'unico Stato ebraico al mondo. Non con mezzi umani, morali, ebraici».
La destra ultranazionalista non ha accantonato il sogno di dar vita al Grande Israele... «Più che di “sogno” parlerei di incubo che può sfociare in tragedia... Anche qui: si abbia il coraggio di dire la verità. Volete il Grande Israele? Non c'è problema: basta abbandonare la democrazia. Creiamo nel nostro Paese un efficiente sistema di separazione razziale, con campi di prigionia e villaggi di detenzione. Il ghetto di Kalkilya e il gulag di Jenin. Volete una maggioranza ebraica? Non c'è problema: o mettere a forza gli arabi sugli autobus e li espellete in massa, oppure ci separiamo da loro in modo assoluto. Una via di mezzo non c'è».
Il che significa?
«Significa smantellare tutti, ma proprio tutti, gli insediamenti e tracciare un confine internazionalmente riconosciuto fra il focolare nazionale ebraico e il focolare nazionale palestinese».
Il discorso ci riporta all'essenza della democrazia... «E al coraggio di dire la verità. Dire: se è la democrazia ciò che volete, avete due opzioni: o rinunciare al sono del Grande Israele nella sua totalità, alle colonie e ai loro abitanti, oppure concedere a tutti, compresi gli arabi, la pienezza della cittadinanza con diritto di voto alle elezioni politiche. In quest'ultimo caso, coloro che non volevano gli arabi nello Stato palestinese vicino li avranno alle urne, a casa propria. E loro saranno maggioranza, noi minoranza».
Lei non è la sola personalità che ha deciso di tornare alla politica attiva. A scegliere questa strada sono anche l'ex capo di stato maggiore, il generale Dan Halutz, l'ex ministro ortodosso degli Interni Arye Deri... «È una compagnia con cui non ho nulla a che spartire....Costoro sono come pesci freschi che vanno a sostituire i pesci morti. Ma moriranno anch'essi, perché è l'acqua della piscina-Israele che è avvelenat».
Non sente di “tradire” il suo ex partito: il Labour? «No, perché il Labour si è “tradito” da solo, scegliendo l'illusoria scorciatoia del potere per mascherare una crisi drammatica di progettualità, di radicamento sociale, di leadership. Una crisi che viene da lontano ma che Ehud Barak (l'attuale leader del Labour e ministro della Difesa, ndr) ha contribuito a rendere ancor più lacerante. Non è rincorrendo la destra sul suo terreno che si costruisce un'alternativa degna di questo nome».
In definitiva, qual è l'obiettivo, l'ambizione di “Shivion-Israel”? «È contribuire alla rinascita di uno Stato di Israele basato su un regime democratico ed egualitario, che appartenga a tutti i suoi cittadini e a tutte le sue comunità. Shivion-Israel vuol essere il partito che esige la piena parità per tutti i cittadini d'Israele, il tipo di parità che chiediamo anche per gli ebrei della Diaspora ovunque essi vivano».
Lei parla di uno Stato che “appartenga a tutti i suoi cittadini e a tutte le sue comunità”. Ma nel governo e nella società d'Israele vi è chi, e non è una sparuta minoranza, punta sull'affermazione di Israele come Stato a totale identità ebraica. «Una prospettiva contro cui mi batterò con tutte le mie forze. Perché è una prospettiva eticamente sbagliata, politicamente nefasta. E perché non può funzionare. Definire Israele come Stato ebraico è la chiave per la sua fine. Uno Stato ebraico è un esplosivo».

Repubblica 28.7.10
Sondaggio sulle primarie Vendola batte Bersani
di Paolo Russo

NICHI Vendola batterebbe facilmente Pierluigi Bersani nelle eventuali primarie a premier del centrosinistra. A sostenerlo è la società Ipr Marketing che ha appena concluso un sondaggio: Vendola raccoglierebbe il 49 per cento dei voti mentre Bersani il 31. Il segretario del Pd appare però più credibile.

NICHI Vendola batte Pierluigi Bersani 49 a 31. Non sono ancora le primarie ma il sondaggio realizzato da Ipr marketing per Repubblica chiarisce, qualora ci fossero ancora dubbi, come mai il Pd abbia accolto così freddamente l' autocandidatura del governatore pugliese. E lo fa a partire dall' ultima domanda posta al campione qualificato di elettori del centrosinistra: "Se domani si dovesse votare per le primarie del centrosinistra lei chi sceglierebbe tra Nichi Vendola e Pierluigi Bersani». Un intervistato su due voterebbe per il Presidente della Regione. Meno di uno su tre esprimerebbe la propria preferenza per il segretario del Pd. Gli altri sono ancora indecisi. Ma ciò che fa tremare i polsi ai democratici è soprattutto l' identikit dei potenziali elettori di Vendola. Sembra scontato che il governatore pugliese prevalga negli ambienti dell' Italia dei Valori e degli altri partiti di centrosinistra. Meno che batta Bersani in casa propria e in maniera così netta: il 52 per cento degli elettori Pd preferisce Vendola al segretario nazionale del partito fermo al 29 per cento. Eppure scorrendo il sondaggio a partire dai primi quesiti posti dai ricercatori d Ipr marketing si ha l' impressione che sia Bersani e non Vendola, il leader che gli elettori del centrosinistra vorrebbero lanciare nella sfida contro Berlusconi o chi per lui. Il segretario del Pd è considerato più onesto, preparato, competente e sincero del suo antagonista pugliese. Il governatore della Regione prevale, ma di poco, solo nelle categorie "parla chiaro" e "vicino alla gente". Anche per questo l' indice di fiducia che gli elettori del centrosinistra hanno per Pierluigi Bersani supera di molto quella del leader di Sinistra ecologia e libertà. Il 77 per cento degli intervistati si fida molto o abbastanza del segretario del Pd. Vendola raccoglie solo il 63 per cento della fiducia. Eppure, al momento del voto, iscritti e simpatizzanti del centrosinistra sceglierebbe lui senza elezioni. E questo, al netto della campagna elettorale: arte in cui il Presidente di Terlizzi eccelle. Per questo, confortato da questi numeri, ieri Vendola si è sbilanciato: «I sondaggi dicono che il centrosinistra zoppica mentre il centrodestra cede spazio. C' è uno spazio vuoto» ha fatto notare il governatore pugliese. Lui è pronto a riempirlo.

Vendola e i motori scaldati in anticipo
«SCALDARE troppo i motori prima dell'inizio della gara è sbagliato. E scaldandoli dopo la conclusione si rischia di fonderli». Così il presidente toscano Enrico Rossi torna a parlare dell'autocandidatura del governatore della Puglia Nichi Vendola alla guida della futura coalizione di centrosinistra. Ed è di fatto un'altra bocciatura. «La gara che c'è stata e che ha visto Vendola vincitore in Puglia - sostiene Rossi - dovrebbe anzitutto vederlo impegnato a rispondere al mandato che gli hanno dato gli elettori. Lo dico senza voler aprire polemiche». Governare la Puglia, aggiunge Rossi, «credo che sia una cosa molto complicata e impegnarsi in questa partita forse sarebbe importante anche per tutto il Paese». In sostanza, prima di pensare a candidarsi alle primarie per la guida del centrosinistra farebbe bene a pensare a fare il presidente. A proposito della campagna acquisti lanciata dall'Italia dei valori tra i consiglieri comunali alleati del Pd, Rossi ha sottolineato che «le campagne acquisti, soprattutto nello stesso schieramento, forse vanno evitate. Bisognerebbe vedere se si riesce a convincere di più i cittadini che ci votano e casomai a conquistare qualche deluso tra i cittadini, in primo luogo chi è nello schieramento avversario». Rossi parla anche del coordinatore Pdl Denis Verdini: «Non entro nelle vicende di carattere giudiziario, ci penserà la magistratura. Mi sembra però che dalle accuse e dalla lettura delle intercettazioni emerga un sistema che ha connotati affaristici, un sistema dove non c'è un principio di trasparenza e legalità: questo non fa bene al Paese, alla credibilità della politica».

Corriere della Sera 28.7.10
Freud e il suicidio dell' allievo per una psicanalisi negata
Il rapporto tormentato e la fine di Viktor Tausk, che si sentì tradito dal maestro
di Paolo Di Stefano

Neurologo Viktor Tausk nasce nel 1879 in Slovacchia, da una famiglia di origini ebraiche L' incontro Nel 1908 si trasferisce a Vienna, si iscrive a Medicina e frequenta la Società freudiana

C' è uno scheletro nell' armadio di Sigmund Freud. Uno scheletro cui l' americano Paul Roazen, uno dei maggiori storici della psicoanalisi, si è dedicato a più riprese sin dagli anni Settanta. È una vicenda che, comunque la si veda, non fa onore al medico viennese il quale, come illustra bene Roazen in Freud e i suoi seguaci (Einaudi), volle assicurarsi la fedeltà quasi assoluta dei suoi adepti. Uno di questi, Viktor Tausk, è rimasto avvolto nell' ombra al punto da non essere nemmeno citato in quel monumento agiografico che è la biografia di Freud scritta da Ernest Jones. In realtà, la storia di Tausk venne espunta dalle cronache ufficiali dei circoli freudiani, rimanendo un capitolo oscuro della formazione di quella vera e propria impresa culturale che ebbe come epicentro il padre della psicoanalisi. Proprio chiedendosi banalmente se Freud fosse una brava persona, Roazen apre un saggio dedicato alle ragioni della tragica fine di Tausk. Viktor Tausk nacque nel 1879 in Slovacchia, da una famiglia di origini ebraiche, e visse la giovinezza a Sarajevo. Divenuto controvoglia avvocato, ebbe due figli da un matrimonio sfortunato durato pochi anni; dopo un soggiorno a Berlino, dove precipitò nella depressione, nel 1908 decise di darsi alla psicoanalisi e di trasferirsi a Vienna, dove si iscrisse alla facoltà di medicina cominciando a frequentare la Società freudiana e il suo leader. Fu accolto ben presto sotto le ali del maestro, che lo aiutò economicamente e ne promosse gli studi considerandolo uno dei cervelli migliori del suo staff. Nel 1912 comincia una relazione con Lou Andreas-Salomé (di diciotto anni più anziana di lui), tra le più celebri presenze del giro freudiano: anche questa destinata a naufragare, come altri rapporti sentimentali di Tausk, un bell' uomo, biondo, occhi azzurri, baffi, continuamente in preda a crisi emotive, oltre che a dissesti economici. Pure la stima incondizionata di Freud viene meno, o meglio alla stima si aggiunge qualche sospetto, del resto ampiamente ricambiato: «Ciascuno - scrive Roazen - riteneva che l' altro non tributasse il dovuto riconoscimento alle sue idee. Ed entrambi avevano fondati motivi per pensarlo. Freud era convinto che le idee di Tausk appartenessero in ultima analisi a lui. E a Tausk sembrava che per quanto lontano si fosse spinto, Freud avrebbe comunque messo il suo marchio ai suoi contributi. Entrambi ritenevano di essere unici e geniali e avevano paura di essere distrutti dall' altro». Tausk si era distinto, nei suoi contributi scientifici, per lo studio clinico della schizofrenia e degli stati maniaco-depressivi. In privato Lou Andreas-Salomé avvertiva in lui, oltre che la reverenza per il maestro, la conflittualità di un allievo che puntava sull' originalità del suo approccio. D' altra parte, la stessa Lou ebbe modo di parlare della faccenda con Freud (cui era legata da un rapporto di intima confidenza), raccogliendone il risentimento e stabilendo così una strana triangolazione. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, Tausk viene chiamato alle armi come ufficiale psichiatra dell' Esercito Imperiale e comincia a esercitare da clinico: scrive un saggio pionieristico sulla psicologia del disertore e rivela uno slancio umanitario che più volte mette in pericolo la sua vita. Il ritorno a Vienna rispolvera le antiche ruggini con Freud, aggravate dalla precarietà economica e dalla solitudine. Tausk cerca di coronare il suo sogno: essere analizzato dal maestro. Ma la sua richiesta si imbatte in un deciso rifiuto. Freud gli consiglia di affidarsi a una sua giovane allieva, Helene Deutsch, che a sua volta il maestro aveva preso in analisi poco tempo prima. Nel gennaio 1919, iniziano le sedute con la Deutsch, alla quale Freud non aveva nascosto il sospetto di plagio. Una situazione per lo meno ambigua: Tausk, umiliato dal rifiuto del caposcuola, rovesciava sulla Deutsch il suo odio-amore e la sua rabbia per Freud. Helene, dal canto suo, non esitava a rivelare al suo analista ogni dettaglio delle sedute con Tausk. Un pastrocchio «incestuoso» cui Freud, in marzo, decide di porre fine ordinando alla sua allieva di abbandonare o il trattamento di Tausk oppure l' analisi con lui. La Deutsch non ha scelta. Il 3 luglio 1919 Tausk, angosciato anche dal fallimento di un matrimonio possibile, dopo aver sorseggiato un bicchiere di «Slivoviz», il liquore nazionale jugoslavo, si annoda al collo il cordone della tenda e con la pistola d' ordinanza si spara un colpo alla tempia. Qualche ora prima aveva annunciato il suo gesto a Freud in una lettera che non lasciava trasparire nessun risentimento: «La ringrazio per tutto il bene che mi ha fatto. Lei ha fatto davvero tantissimo per me e ha dato un significato agli ultimi dieci anni della mia vita. Il Suo lavoro è sincero e immenso». E proseguiva: «In me non vi è malinconia: il mio suicidio è il gesto più sano e decoroso della mia vita fallita». In un necrologio pubblico, Freud sembrava ricambiare la stima parlando di un «uomo eccezionalmente dotato» che «verrà certamente ricordato con onore» e attribuendo alle conseguenze psicologiche del conflitto mondiale la scelta di farla finita: «Tra le vittime, fortunatamente poco numerose, che la guerra ha mietuto fra gli psicoanalisti, dobbiamo annoverare anche il neurologo viennese Viktor Tausk». Salvo poi precisare in una lettera privata a Lou Andreas-Salomé: «Devo confessarLe che non ne sento affatto la mancanza: già da tempo lo consideravo una persona del tutto inutile, anzi una minaccia per il futuro della disciplina». Righe espunte dall' edizione delle lettere all' amica e poi reintrodotte su segnalazione di Roazen. Il quale non arriva però ad addebitare in toto la tragedia al maestro, come fece Paul Federn, un analista e caro amico di Tausk, in una lettera indirizzata alla moglie del medico all' indomani del suo suicidio: «La motivazione della sua morte è stata il voltafaccia al quale Freud lo ha sottoposto (...). Se Freud gli avesse mostrato almeno un minimo interesse umano, e non un generico riconoscimento e sostegno, forse suo marito avrebbe potuto continuare a sopportare ancora per un po' la sua esistenza da martire».

il Fatto 28.7.10
Campagne d’odio
Caccia a Saviano
Lo scrittore: Lega disattenta sull’ndrangheta al Nord Il Carroccio insorge: “Antimafioso a pagamento”

Due milioni e mezzo di copie dopo, nulla è illuminato. Una vita a metà, gli spostamenti segreti, la cattività per difendersi dalla cattiveria. Tutto in un’intervista per raccontarsi e trasmettere a chi saprà capire, cosa significhi essere Roberto Saviano. Vanity Fair, archiviato il grottesco esperimento di Max (lo scrittore morto sul lettino di un obitorio) gli dedica la copertina senza giochi di prestigio. E lui risponde, descrivendo l’allegria perduta, l’inatteso successo, il rimpianto ingabbiato in un meccanismo irreversibile. “Non posso più incontrare mio fratello all’aria aperta perché non si sappia che faccia abbia”. Gomorra, la sua famiglia e un giovane Icaro con la penna che spicca il volo e poi, precipita, confessando la stanchezza per un’identificazione assoluta che superato il confine, non permette più sdoppiamenti. “E' un libro che non rinnego, lo riscriverei, ma sarei falso se le dicessi che lo amo. Perchè mi ha tolto tutto: io volevo solo diventare uno scrittore. A centomila copie ero felicissimo, mi pubblicano importanti case editrici straniere e mia madre dice che in quei giorni sembrava che volassi, ma io non mi ricordo niente. Volevo comprare con mio fratello una moto, lo sognavamo da tempo. Poi arrivano la scorta, le minacce. Io volevo essere quello di prima. Mi è scoppiato tutto in mano”. E tra le dita, pare di capire, sono scivolate soprattutto le naturali inclinazioni di un ragazzo di quell’età. La libertà, tra una conferenza e l’altra è un vetro fumè, un’auto blindata, lo stillicidio quotidiano di accuse e controaccuse, servizio che storicamente il Paese ama offrire a chi senza preavviso, ottiene riconoscimenti e attenzione facendo un giro dalle parti della verità. Più in là, un complicato rapporto di equilibrio non risolto, criticato e fitto di dubbi e tormenti con Mondadori, la casa editrice del Premier e presieduta da sua figlia Marina: “Resterò in Mondadori e Einaudi fino a quando le condizioni di libertà saranno garantite fino in fondo, anche per non lasciare alla proprietà di decidere i libri e le prospettive culturali di una casa editrice che ha una storia gloriosa. E’ ovvio che dopo l'attacco di Marina Berlusconi per me molto è cambiato. Devo valutare molti fattori: quanto la proprietà incide sulle scelte, quanto permetterà ancora che ci sia libertà e su alcuni libri si possa continuare a puntare. Marina Berlusconi dice che non si dovrebbero più scrivere libri 'che danno quest’immagine dell’Italia’. Allora, forse, non ha letto Gomorra. Lì ci sono storie di resistenza, soprattutto. Se stiamo
zitti, diamo una cattiva immagine del Paese. Un giorno mi piacerebbe spiegarle che raccontare del potere criminale ha significato dire al mondo che non siamo un Paese di omertosi. E che il miglior apporto che si possa dare a un Paese è quello di non nascondere i propri problemi”. Con replica di Marina B. che dice di aver letto Gomorra, apprezzandolo: “Saviano riapre a sorpresa una polemica sopita tirandomi in ballo. La mia famiglia controlla la principale casa editrice italiana da vent'anni, e, anche se Saviano evoca inesistenti quanto impossibili contrapposizioni tra 'buoni' e 'cattivi', e' esattamente quello che abbiamo sempre voluto che fosse: e' la migliore e la piu' concreta dimostrazione di come noi Berlusconi intendiamo e interpretiamo il mestiere dell'editore”. Oltre la querelle editoriale, l’intervista libera anche Il disprezzo denigratorio della politica. A scatenare il risentimento, la valutazione di Saviano sullo iato tra intenzione e azione: “La Lega ci ha sempre detto che certe cose al Nord non esistono, ma l'inchiesta sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in Lombardia racconta una realta' diversa", per giungere poi alla conseguenza logica: "Dov'era la Lega quando questo succedeva negli ultimi dieci anni laddove ha governato? E perché adesso non risponde?” Roberto Castelli, spalleggiato da Borghezio, brucia tutti. Il vice ministro ai Trasporti dopo essersi lodevolmente diviso nell’ultimo ventennio tra tentativi di espulsione dei giornalisti sgraditi dal ristorante della Camera (Frasca Polara dell’Unità), difesa del turpiloquio del suo capo e giuramenti alla bandiera, non usa perifrasi: “Saviano è accecato e reso sordo dal suo inopinato successo e dai soldi che gli sono arrivati in giovane età. Unica sua scusante rispetto alle sciocchezze che dice sulla Lega è che, quando noi combattevamo contro la sciagurata legge del confino obbligatorio che tanti guai ha portato al nord, aveva ancora i calzoni corti”. Per poi proseguire ammantando di gloria l’epopea leghista, tra le battaglie contro i clan della ‘ndrangheta a Lecco (dove recentemente, da candidato sindaco, Castelli ha constatato il deciso rifiuto del suo popolo a eleggerlo) e insistendo sul dato economico: “Non ci siamo limitati a scrivere quattro cose e a partecipare a quattro conferenze. Né siamo diventati ricchi per questo. Abbiamo corso solo rischi. Infine un invito: vediamo che continua a fare pubblicità al suo libro. La smetta, perché gli antimafia a pagamento sono sempre meno credibili”. Di qui, a cascata, la difesa di De Magistris dell’Idv: “La Lega in Parlamento mai ha fatto e farà mancare il voto a provvedimenti criminogeni come processo breve, ddl intercettazioni, revisione delle norme sui pentiti. Mentre il ministro Maroni ha introdotto la possibilità di vendere all'asta i beni confiscati alle mafie assestando, anche dal punto di vista simbolico, un colpo mortale alla lotta contro il crimine organizzato” e di Veltroni: “Attacchi vergognosi”. Ammesso che qualcuno, in questa distratta alba agostana, si vergogni veramente.

il Fatto 28.7.10
La libertà mannara

Cosa hanno in comune Sergio Marchionne e Silvio Berlusconi? A prima vista nulla. Cosmopolita l’uno (ha tre nazionalità: italiana, canadese, svizzera), con un curriculum strepitoso nel mondo finanziario e imprenditoriale di due continenti, e una carriera che nulla ha dovuto a commistioni con la politica. Provincialissimo italiota l’altro, gorgheggiatore di crociera per tardone benestanti, tycoon dei media e monopolista televisivo in Italia solo grazie agli intrallazzi col suo amico Bettino Craxi. Due mondi agli antipodi, si direbbe.
Condivisioni e punti di convergenza
E INVECE condividono la cosa essenziale: un’idea di libertà proprietaria, di libertà solo per i potenti. Libertà di calpestare le libertà dei più deboli, pretendendo di stracciare le regole che ne garantiscono i diritti. Libertà come privilegio per gli “happy few”, obbedienza e silenzio per gli altri.
Questa libertà non ha nulla a che fare con la libertà nata con le rivoluzioni borghesi americana e francese. Nulla a che fare con la libertà ricamata solennemente nelle moderne Costituzioni, che si accompagna sempre a “eguaglianza e fratellanza” e da loro prende senso (vale anche il reciproco, beninteso).
La libertà di Marchionne e di Berlusconi non è la libertà democratica, non è la libertà liberale, e a guardar bene non è neppure la libertà “liberista”, è la libertà dell’oppressione, la distruzione dei diritti dei “senza potere”.
Norberto Bobbio, da buon liberale “classico”, pensava che libertà e diritti dovessero progressivamente estendersi dalla sfera strettamente politica a quella della vita civile: la fabbrica, la scuola. Marchionne e Berlusconi pensano invece che anche lo Stato sia solo un’azienda, e debba dunque tutelare la logica del massimo profitto a dispetto e prevaricazione di qualsiasi altro valore.
A questo punto si apre il capitolo delle differenze, delle “contraddizioni in senso al privilegio”. A Marchionne interessa uno Stato che si faccia carico delle aziende quando sono penalizzate dal mercato, con sovvenzioni di ogni tipo (da “liberista” sui generis, dunque), e che non metta bocca nelle “relazioni industriali” quando il padrone è più forte, e anzi sopprima le leggi conquistate a tutela dei lavoratori in un paio di secoli di lotte operaie.
Salari e rivoluzione industriale
CHE INSOMMA in fatto di diritti del salariato allinei l’Italia alla Serbia, e se poi non bastasse alla Cina di un Partito comunista da sogno, che consente di spremere gli operai peggio che a Birmingham e Manchester inizi Ottocento. Garantite queste “libertà”, il manager cosmopolita è magari anche favorevole a porre argini alla corruzione dei politici che spolpano il Paese, e assieme alle Marcegaglia di turno e d’ordinanza a promuovere qualche convegno su “etica e affari”.
Berlusconi ha invece una visione più ampia, un orizzonte storico. Ha l’ambizione di “fare epoca”, di diventare un vivente mausoleo di se stesso. Non è in concorrenza con Napoleone ma col “Re sole”. Vuole tornare ai fasti premoderni di “L’Etat c’est moi”, benché nella versione volgarmente meneghina del “ghe pensi mi”. Non gli basta uno Stato che protegga i potenti a prevaricazione del cittadino “senza santi in paradiso”, che garantisca impunità a sé, ai suoi amici e ovviamente agli “amici degli amici”, e “attenzionamento” illegale contro i suoi avversari per imbastire ogni provocazioni o persecuzione possibile. Vuole uno Stato che sia la sua azienda, un governo illimitato (poveri “padri fondatori” degli Usa, comunisti inconsapevoli o comunque “utili idioti”, che tanto insistevano sulla democrazia come “governo limitato”!). Vuole la costituzionalizzazione del crimine e la “implementazione” delle peggiori fantasie orwelliane in fatto di totalitarismo (dal “ministero dell’amore” alla “neolingua” che significa l’opposto del linguaggio ordinario, non dimenticando il “tutti gli animali sono eguali ma qualche animale è più eguale degli altri”, dove i “più eguali” sono i maiali).
Se il modello di Marchionne è il “progressista” Hu Jintao, la stella polare di Berlusconi è Putin, e il suo regime di ex Kgb e oligarchi.
Marchionne e Berlusconi sono perciò certamente i dioscuri della libertà, ma nel senso della LIBERTÀ MANNARA.
La negazione compiuta delle libertà tout court, che ancora dovrebbero essere le nostre, stante la Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza antifascista.