giovedì 22 luglio 2010
Corriere della Sera 22.7.10
La sentenza Il ministro: no a una classifica della brutalità
Non è più obbligatorio arrestare i sospetti stupratori Carfagna contro la Consulta
ROMA - Niente più carcere automatico, anche quando sussistono gravi indizi di colpevolezza, per i sospettati di delitti di violenza sessuale, atti sessuali con minorenni e prostituzione minorile. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha bocciato la norma in questione prevista da un decreto legge approvato lo scorso anno. Secondo i giudici della Consulta al magistrato non può essere tolta la possibilità di disporre misure alternative al carcere «nell' ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfate con altre misure». La Corte Costituzionale ha osservato, nella sentenza n. 265 (relatore Giuseppe Frigo), che «per quanto odiosi e riprovevoli, i fatti che integrano i delitti in questione ben possono essere e in effetti spesso sono meramente individuali e tali, per le loro connotazioni, da non postulare esigenze cautelari affrontabili solo e rigidamente con la misura massima», cioè il carcere. Inoltre, la Corte ha ritenuto ingiustificata l' equiparazione dei delitti sessuali ai delitti di mafia (anche in questo caso è previsto il carcere obbligatorio) e ha osservato che la funzione di rimuovere l' allarme sociale «è una funzione istituzionale della pena», conseguenza di un giudizio definitivo di responsabilità, e non può essere affidata alla fase antecedente a un giudizio di colpevolezza. In definitiva - ha concluso la Consulta - la norma che dispone obbligatoriamente la custodia in carcere dell' indagato per delitti sessuali va cancellata perché viola l' articolo 3 della Costituzione (uguaglianza davanti alla legge) «per l' ingiustificata parificazione» dei procedimenti a quelli concernenti i delitti di mafia; l' articolo 13 (libertà personale), che costituisce il fondamento del regime ordinario delle misure cautelari; l' articolo 27 (funzione della pena), in quanto attribuisce alle misure cautelari funzioni tipiche della pena. Duro il commento del ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna: «Non esiste e non possiamo accettare una classifica della brutalità. Per noi, cioè coloro che hanno scritto ed approvato questa legge, chi violenta una donna o, peggio, un bambino deve filare dritto in carcere, senza scusanti, da subito». «L' intervento della Corte - ha proseguito - è giustificazionista, lontano dal sentire dei cittadini, e, purtroppo, ci allontana, sebbene di poco, dalla strada verso il rigore e la tolleranza zero contro i crimini sessuali che questa maggioranza ha intrapreso sin dall' inizio della legislatura». R.I.
Corriere della Sera 22.7.10
1812. Il giovane Beethoven e Goethe storia (misteriosa) di una lite
La delusione del musicista: «Gli piace troppo l' aria di Corte»
di Paolo Di Stefano
U n incontro storico. Si sa che Goethe e Beethoven, il vecchio scrittore e il giovane musicista, l' Olimpico e il Sordo, dopo lunga maturazione, ebbero quattro incontri nel luglio 1812. Ma le ragioni della rottura che ne seguì restano controverse: c' è chi le attribuisce all' uno, chi all' altro. Probabilmente vanno a carico di entrambi. In realtà, la storia dei due titani tedeschi fu la storia di un cattivo rapporto tra pessimi caratteri. Fu la scrittrice romantica Bettina Brentano, a quanto pare, l' artefice di quegli incontri pressoché catastrofici. «A quanto pare», perché la giovane Bettina, che nelle sue lettere Goethe chiama la «bimba», va presa con le pinze, almeno a considerare la sua ben nota tendenza a ricamare fantasie per pura civetteria. Un cattivo rapporto partito così così. Con tutta la passione infantile, l' entusiasmo e la venerazione per «Sua Eccellenza» il Poeta da parte del quarantenne compositore, che non vedeva l' ora di farne la conoscenza. Tant' è che già nel maggio 1810 la «bimba» informa Goethe di aver incontrato un artista che «cammina innanzi a tutta l' umanità», esortando il Vate a soddisfare il suo desiderio di conoscerlo. «Procurami la gioia di una pronta risposta che provi a Beethoven che tu lo stimi». L' Olimpico, forse infastidito da tanta enfasi, risponderà con ironico distacco: «Di fronte alle espressioni di un tale uomo invaso dal dèmone, il profano deve avere un senso di rispetto». La scontrosità di Goethe, appena velata di ironia, viene sottolineata anche da Luigi Magnani che in Goethe, Beethoven e il demonico (Einaudi 1976) dedica diverse pagine alla questione. Nel febbraio 1811, il musicista torna alla carica, comunicando all' amica che ha terminato la messa in musica dell' Egmont (il dramma che Goethe scrisse nel 1788), «unicamente per amore delle sue poesie che mi fanno sentire felice». Ma solo il 12 aprile Beethoven si deciderà a rompere il ghiaccio, scrivendogli personalmente: «Ho un gran desiderio di conoscere il Suo giudizio sulla mia composizione». La risposta tarda ad arrivare, e allora il compositore decide di mandare a Weimar l' amico Franz Oliva, un barone viennese e direttore d' orchestra, perché suoni i brani di Beethoven al cospetto di Goethe: il quale segue l' esecuzione chiacchierando con un ospite e passeggiando impaziente per il salone. Solo due mesi dopo, il «chiarissimo Signore» Beethoven viene degnato di una risposta che, al di là dei convenevoli, non va oltre l' auspicio di potersi un giorno deliziare «del Suo straordinario talento». Non è detto che Goethe capisse molto di musica: lo dimostra non solo la soddisfazione rispetto a composizioni obiettivamente mediocri ispirate dalle sue opere, ma anche la poca stima che avrebbe riservato, in età senile, al povero Schubert che invocava un pò di attenzione. Ma lo dimostra soprattutto lo scarso entusiasmo con cui accolse il talento rivoluzionario Beethoven (molto superiore, secondo Nietzsche, a quello letterario di Goethe). Del resto, per lui la musica valeva soprattutto come orpello della poesia. Fatto sta che Bettina non smise di affannarsi perché i due si incontrassero. E alla fine, nonostante una frattura tra la «bimba» e il suo Maestro, il miracolo avvenne in uno scenario imprevisto. Sulle montagne della Boemia, nella località termale di Teplitz, dove Goethe alloggiava presso la corte della giovane imperatrice Maria Ludovica d' Austria, e dove Beethoven avrebbe potuto curare i suoi malanni al fegato e la sua sordità. Il 19 luglio, dopo il primo incontro, Goethe scrisse alla moglie Christiane: «Non ho mai visto un artista più concentrato, più energico, più profondo. Capisco benissimo che di fronte al mondo possa apparire bizzarro». Frasi sibilline quanto basta. Di che cosa abbiano parlato il poeta e il musicista nelle passeggiate di quel giorno e dei giorni successivi non è dato sapere. Un gioielliere viennese - ricorda Piero Buscaroli nella sua monumentale biografia di Beethoven (Bur 2010) -, raccontò di aver orecchiato uno spezzone di discorso tra i due (che necessariamente parlavano ad alta voce). Al poeta che sbuffava per il fastidio dei saluti e dei continui omaggi dei passanti, il musicista rispose beffardamente: «Non se la prenda Eccellenza, forse sono per me». Il Poeta fu sicuramente colpito dall' uomo e non capì l' artista. Nel suo diario annotò senza commenti gli incontri. Solo a proposito dell' ultimo, il 23 luglio, aggiunse: «Er spielte köstlich» (ha suonato meravigliosamente). Bettina, con la sua fantasia, avrebbe poi riferito che Goethe era arrivato alle lacrime sentendo suonare Beethoven, il quale reagì tra delusione e risentimento, considerando in genere la commozione degli ascoltatori come un segno di poca stima (lo precisa Graziano Bianchi nel suo Beethoven e Goethe, Polistampa 2002). Il 2 settembre, rievocando le passeggiate di Teplitz, Goethe scriverà a un amico: «Il suo talento mi ha stupefatto (...) purtroppo una personalità sfrenata che non ha torto a trovare il mondo detestabile, ma in tal modo non lo rende più gradevole, né a sé, né agli altri». Viceversa, dall' incontro con Goethe, Beethoven perderà non la devozione per l' artista ma di certo l' ammirazione per l' uomo. Qualcosa di sgradevole deve essere accaduto. Forse è tutto contenuto in una lettera a un amico del 9 agosto, dove Ludwig formula un rimprovero esplicito: «A Göthe (sic!) piace l' aria di corte molto più di quanto si addica a un poeta». Beethoven rimase probabilmente deluso dall' eccessiva deferenza dell' amato Goethe di fronte agli uomini di corte: pare che durante una passeggiata in cui i due incontrarono l' imperatrice, il poeta si fosse esibito in molteplici inchini e scappellamenti. Al che Beethoven andò a confondersi nella folla lanciando battute ironiche contro il suo mito. Da allora tra i due calò il gelo. Rotto nel ' 22, quando il compositore fece inviare al vecchio poeta una sua musica scritta su una serie di Lieder goethiani. Senza ottenere risposta: forse per il fastidio che l' opera fosse stata usata senza richiesta di consenso? Può essere. Ancora nel febbraio 1823 Beethoven dimostrò che «l' ammirazione, l' amore, l' altissima stima» per il Poeta erano intatti. Tornò a farsi vivo per fargli una «richiesta quasi patetica»: interessare il Granduca di Weimar perché sottoscrivesse la sua Grande Messa. Niente da fare. L' Olimpico rimase olimpicamente inaccessibile. Paolo Di Stefano RIPRODUZIONE RISERVATA **** Il luogo e la scrittrice Teplitz, sui monti della Boemia Goethe alloggiava presso la corte della giovane imperatrice Maria Ludovica d' Austria. Beethoven era andato lì per curare i malanni di fegato di cui soffriva e anche la sua sordità Bettina Brentano von Arnim La scrittrice (nata a Francoforte nel 1785) è protagonista del romanticismo tedesco. Goethe la chiama «bimba». Lei era stata l' artefice dei quattro incontri fra i due geni che finiscono per odiarsi
Corriere della Sera 22.7.10
Shoah In mostra a Parigi le immagini che nel dopoguerra diedero consistenza ai racconti dei sopravvissuti. Le cineprese di Stevens e Fuller a Dachau e Falkenau
I film che sconvolsero il mondo
Così John Ford documentò i Lager: la verità svelata nei 59 minuti trasmessi a Norimberga
di Paolo Mereghetti
E il cronista di nera si trasformò in regista La storia Quando Samuel Fuller si arruolò nella «Big Red One», la prima divisione di fanteria, era solo un giornalista trentunenne di cronaca nera con una passione per il cinema. Alla liberazione del campo di Falkenau, su invito del suo superiore, filma la cerimonia di dissepoltura dei cadaveri nudi, che i tedeschi catturati furono costretti a rivestire prima di dar loro una nuova sepoltura. Straziante è anche la scena di un ufficiale tedesco ferito mortalmente che due soldati americani cercano invano di aiutare e che Fuller riprende con una oggettività carica di tensione e dolore. Tanto che la «citerà» (aggiungendo però un lieto fine) nel suo ultimo film, Il grande uno rosso, dove racconta la storia di un gruppo di fucilieri nel secondo conflitto mondiale.
«Q uesti fantasmi davano una sostanza, un' esistenza terribile ai racconti, ai balbettii, ai deliri, veri in ogni dettaglio, che avevamo sentito nei mesi prima, solo sei mesi prima, quando si erano aperte le porte dell' inferno». Cronista per «France-Soir», il futuro accademico di Francia Joseph Kessel, fu inviato nel 1945 a seguire il processo di Norimberga e nell' edizione del 3 dicembre raccontava l' effetto che aveva avuto su di lui, e su tutti i presenti, la seduta del 29 novembre: i «fantasmi» che davano una forma ai «balbettii» raccontati solo a parole erano le immagini che John Ford e Ray Kellogg avevano montato a partire dal materiale raccolto dai cineoperatori americani nella Germania che stava arrendendosi. La prima, sconvolgente prova visiva dei campi di concentramento e di sterminio che le truppe alleate avevano liberato durante la loro marcia su Berlino: Nazi Concentration Camp, 59 minuti di immagini che aprirono gli occhi al mondo. Una mostra a Parigi, al Memoriale de la Shoah (www.memorialdelashoah.org, fino al 31 agosto), cerca adesso di scavare più in profondità dentro quelle immagini e quei materiali, scegliendo come guida il lavoro svolto nel 1945 da tre registi - anzi, per la precisione due registi e un aspirante tale - arruolati nell' esercito statunitense: John Ford (che aveva già al suo attivo capolavori come Alba di gloria, Ombre rosse o Furore), George Stevens (che per tutti era il regista di Fred Astaire e Ginger Rogers) e Samuel Fuller, che invece il suo «primo» film l' avrebbe girato alla liberazione del campo di Falkenau. Utilizzare registi e direttori della fotografia hollywoodiani per documentare la guerra era una pratica costante dell' Oss, l' Office of Stretegic Services. Ford aveva contribuito a creare il Field Photographic Branc già negli anni Trenta e subito dopo Pearl Harbor si era messo al lavoro: sono più di una quarantina i documentari che girò, rischiando a volte anche la vita («Sono stato decorato otto o nove volte, ma so di essere un fifone» ha detto), due dei quali (December 7th e The Battle of Midway) gli valsero due Oscar. Stevens, invece, si arruolò volontario nel 1943, a 39 anni, e fu incaricato dal generale Eisenhower di organizzare un gruppo di lavoro (lo Specou, Special coverage unit) per filmare lo sbarco in Normandia e l' avanzata in Europa: ne facevano parte operatori, tecnici del suono ma anche scrittori e sceneggiatori come William Saroyan, Irwin Shaw e Ivan Moffat, che hanno lasciato i rendiconti giornalieri di ciò che vedevano e filmavano. Le scene dell' arrivo di Stevens e della sua troupe nel campo di concentramento di Dachau sono il nocciolo della mostra, per la quantità di immagini recuperate (oltre a quelle in bianco e nero girate «ufficialmente», anche le venti piccole bobine a colori che Stevens girò «privatamente» con una propria cinepresa) e perché sollecitano una serie di domande - e forse di risposte - fondamentali di fronte a questo tipo di riprese. A cominciare dalla più diretta: chi filmava poteva avere qualche «filtro» ideologico o culturale che avrebbe potuto «condizionare» o «indirizzare» la scelta delle immagini? La risposta è in qualche modo la stessa che diede Hannah Arendt in Auschwitz sotto processo: «Invece della verità, semmai, il lettore (e lo spettatore, aggiungiamo noi) potrà trovare qui dei momenti di verità. E solo questi momenti possono permetterci di articolare questo caos di male e di depravazione. Sono momenti che sorgono inaspettatamente, come oasi nel deserto. Sono aneddoti, che nella loro brevità dicono tutto». La stragrande maggioranza degli americani non sapeva nulla o quasi delle atrocità naziste e avevano una certa diffidenza di fronte a notizie non «documentate». A cui va aggiunto un certo antisemitismo, dovuto all' equivalenza, molto comune a Hollywood, tra ebreo e comunista. Quando gli operatori arrivano a Dachau, la forza di quello che appare ai loro occhi cancella ogni altro filtro e le loro riprese rispondono a una grammatica cinematografica semplice e diretta, fatta di immagini frontali, ampie inquadrature e ogni tanto qualche particolare. È così che ci sono stati tramandati i corpi morti ammassati nei carri, la «brausebad», la «sala docce» che si intuisce preparata non certo per i lavaggi, i forni crematori ancora pieni di ossa e resti umani, l' intreccio tra vita e morte che spinge i superstiti a farsi da mangiare solo a pochi metri di distanza da una pila di cadaveri (c' è una panoramica dai morti ai vivi che dice tutto lo stupore e l' angoscia di chi riprende), gli sguardi ancora un po' increduli dei prigionieri che si fanno incontro alla macchina da presa. Tutto raccontato senza bisogno di commenti, per pura forza d' immagini, che riescono però a restituire quei «momenti di verità» che soli possono aiutare a capire «questo caos di male e di depravazione».