giovedì 29 luglio 2010
Repubblica 29.7.10
Basta con gli incubi notturni ecco come guidare i sogni
di Sarah Kershaw
STA guidando a folle velocità per le strade di una grande città e un essere raccapricciante, con dei bulbi oculari giganti, la insegue ed è sempre più vicino. È un sogno, ovviamente. Emily Gurule, 50 anni, insegnante, lo ha raccontato al dottor Barry Krakow. BA R R Y Krakow è il fondatore della P . T . S . D . Sleep Clinic presso il Maimonides Sleep Arts and Sciences ad Albuquerque, esperto nello studio degli incubi. Ma lui non le ha chiesto di provare a interpretarlo. Semplicemente, l' ha invitata a sognare ancora. «Si concentri qualche minuto, chiuda gli occhi e modifichi il sogno come vuole».E l' automobile nera diventa una Cadillac bianca, che viaggia a velocità moderata, senza essere inseguita. I bulbi oculari diventano bolle di sapone che si librano placide in cielo. «Ecco, è un nuovo sogno», prosegue Krakow. «Quello brutto è laggiù», dice indicando l' altro lato della stanza. «Non ci interessa più ormai, ora ci occupiamo del sogno nuovo». Questa tecnica, utilizzata a paziente sveglio, si chiama scripting o dream mastery, sceneggiatura o gestione del sogno, e fa parte della imagery rehearsal therapy (IRT), ripetizione immaginativa, che Krakow ha ideato, assieme ad altri, per curare le persone soggette ad incubi. Da qualche anno gli incubi sono considerati una patologia precisa, e i ricercatori hanno prodotto una mole crescente di dati empirici che testimoniano come questo tipo di terapia cognitiva possa contribuire a ridurre la frequenzae l' intensità degli incubi, o addirittura eliminarli. Alcuni terapeuti, però, soprattutto di scuola junghiana, sono contrari alla strategia di mutare i contenuti onirici, sostenendo che i sogni inviano messaggi importantissimi alla mente sveglia. Gli incubi "evidenziano in grassetto temi particolari", spiegano gli psicologi. Eliminarli significa "perdere l' opportunità di trarne un significato". Nel caso di Emily Gurule, trasformando in bolle di sapone i bulbi oculari minacciosi, la paziente non saprà mai cosa quegli occhi cercavano di dirle. Da secoli gli incubi affascinano e lasciano perplessi, terapeuti e analisti di ogni scuola si sono confrontati su come interpretarli. Un incubo terrificante può perseguitare un individuo per tutta la vita. È un' esperienza onirica inquietante, osservano gli scienziati, "che stuzzica e avvelena lo spirito e ha un substrato di potenza, lussuria, oralità aggressiva e morte". Tra il 4 e l' 8 per cento degli adulti riferisce incubi episodici, una volta la settimana o più. Ma l' incidenza passa al 90 per gli ex combattenti e le vittime di stupro. Krakow sostiene che nelle terapia dello stress post-traumatico bisognerebbe agire più attivamente nei confronti degli incubi. Kracow e altri clinici ricorrono con sempre maggior frequenza alla IRT per la cura dei veterani e dei militari in servizio attivo in Iraq e in Afghanistan. Il mese scorso il ricercatore ha tenuto un seminario sulla IRT ed altre terapie del sonno per 65 terapeuti, medici e psichiatri, molti dei quali attivi in ambito militare. Anne Germain, professore associato di psichiatria presso la facoltà di medicina dell' Università di Pittsburgh, ha postoa confronto la terapia comportamentale, che include la ripetizione immaginativa,e la terapia farmacologica con il prazosin, un anti-ipertensivo che si è rilevato valido nel ridurre l' evenienza di incubi. I risultati preliminari dello studio, condotto su 50 veterani, hanno dimostrato l' efficacia di entrambe le terapie. Deirdre Barrett, psicologa della Harvard Medical School, esperta del rapporto tra trauma e sogni, si dice colpita dal sempre maggiore interesse riposto negli incubi che sono esito di traumi bellici e torture. «Oggi i terapeuti sanno che si possono influenzare i sogni, interrogarli su particolari tematiche e anche modificare gli incubi». Hollywood ha subito colto lo spunto del controllo dei sogni con "Inception", un thriller che si muove sui terreni più oscuri del mondo onirico. La trama si basa sul concetto del sogno lucido, una tecnica utilizzata per aiutare i pazienti che hanno paura dei propri sogni a capire che di sogni si tratta. La Barrett è favorevole all' uso della tecnica di Krakow, sostiene però che andrebbe integrata da terapie psichiatriche e comportamentali. Il metodo Krakow prevede in genere quattro sedute di terapia di gruppo, intervallate da 10 colloqui individuali, anche se, a detta del ricercatore, in media sono sufficienti dai tre ai quattro incontri. Afferma che su centinaia di pazienti trattati, circa il 70 per cento ha riferito notevoli miglioramenti nella frequenza degli incubi, dopo una terapia da due a quattro settimane. (Traduzione di Emilia Benghi Copyright New York Times)
l’Unità 29.7.10
L’affondo di D’Alema
«Vendola non è nuovo, lo conosco da 35 anni»
Il presidente del Copasir tra gli under 30 Pd ironizza sul «tormentone estivo» «Se è giovane lui lo sono anch’io. Nichi è bravissimo a cancellare le sue tracce Non fosse stato per noi, in Puglia staremmo tutti a fare poesia all’opposizione»
Al governo: «Abbiamo vinto, lui era nel partito che ha fatto da spina nel fianco»
di Simone Collini
Nichi? Il nuovo?». La smorfia della bocca e l’alzata del sopracciglio basterebbero come risposta, ma poi Massimo D’Alema si dà un’aggiustatina agli occhiali, si sistema meglio sulla poltrona, e poi cominciano a partire i fendenti. Mezzanotte è passata da un pezzo, per due ore il presidente del Copasir ha parlato di globalizzazione, crisi del modello neoliberista, errori commessi dalla sinistra italiana ed europea. I Giovani democratici l’hanno invitato alla Festa in corso a Torre del Lago per parlare di una cosuccia come «Il mondo dopo la crisi», e D’Alema resta fedele al mandato, anche bacchettando il giornalista dell’Espresso Marco Da Milano, che lo intervista, ogni volta che questo prova a portarlo sulle vicende della politica italiana. Ma poi sarà l’ora, sarà che non si può tenere sempre il piede sul freno e che la tentazione è forte, e insomma basta un accenno a Vendola e si assiste a un assaggio del senza esclusione di colpi che ci sarà se dovessero effettivamente esserci delle primarie col governatore pugliese schierato contro il Pd.
D’Alema parte col sorriso sulle labbra: «Cos’è, il nuovo tormentone dell’estate?». E poi: «Mi fa piacere se Vendola viene considerato giovane, mi sento ringiovanire anch’io. Lo conosco da 35 anni, da quando era nella Fgci, di cui ero segretario». Sulle sedie sistemate sul lungomare ci sono gli under 30 del Pd e persone arrivate da Viareggio e dintorni. Non una platea di moderati centristi, a giudicare da come rumoreggiano quando D’Alema dice che su Pomigliano «Marchionne ha avuto il coltello dalla parte del manico» perché negli anni c’è stato un assenteismo «forse troppo tollerato, che chiama in causa gli stessi sindacati» e perché gli operai «si sono dati malati per vedere una partita di calcio». Però sorridono e applaudono quando D’Alema continua: «Con la pedanteria di chi gli ha fatto da segretario per diversi anni, ricorderei a Vendola che prima si spiega cosa si vuole fare per il paese, poi come lo si vuole fare, con chi, e a quel punto si ragiona sulla leadership. Rovesciare le cose non mi sembra una buona idea». E sono ancora applausi quando continua, definendo Vendola sì «intelligente» ma «slegato dalla realtà» e soprattutto «bravissimo a cancellare le proprie tracce». «Ha detto che con la prosa non si vince», dice riferendosi a quanto sostenuto da Vendola il giorno che ha partecipato alla scuola di politica di Veltroni, a Bertinoro. «Non è vero. Per due volte abbiamo vinto, nel ‘96 e nel 2006. E Nichi era nel partito che tutte e due le volte ha fatto da spina nel fianco al governo guidato da Prodi. Ma lui è
bravissimo a cancellare le proprie tracce». Fa il gesto con la mano, come a spazzolare via qualcosa, e per completare l’opera di demolizione torna sulle regionali di primavera. «La prosa, la politica, gli è stata utilissima anche per vincere in Puglia. Altrimenti lì ora staremmo tutti a fare poesia, all’opposizione». La tesi è che se il Pd non avesse insistito fino alla fine per avere un candidato gradito anche all’Udc, i centristi non avrebbero appoggiato Poli Bortone anziché il candidato del Pdl. «I numeri, che saranno pure cinici ma sono la realtà, dicono che Vendola ha preso meno voti della volta precedente e che solo grazie a noi ha comunque vinto. Ci saremmo aspettati un grazie, il giorno dopo le elezioni».
Troppi ringraziamenti non ci sono stati e ora Vendola ha lanciato una sfida a Bersani. «Nichi, che si è autocandidato leader della sinistra, sarebbe il nuovo, e Bersani, che è stato eletto segretario con delle primarie a cui hanno partecipato tre milioni di persone, sarebbe la burocrazia?». D’Alema difende il leader del Pd dagli attacchi ma soprattutto sottolinea che sarà lui il candidato alle primarie dei Democratici: «È scritto nel nostro statuto. A meno che, nel 2013, Bersani non voglia lanciare una personalità più giovane». E di forze nuove spendibili nelle prossime sfide nazionali ce ne sono, dice facendo il nome, tra gli altri, del presidente della provincia di Roma Nicola Zingaretti. Il sindaco di Firenze Matteo Renzi no, anche se sollecitato, D’Alema non lo inserisce nella lista. Ma d’altro canto il presidente del Copasir è convinto che certe liste e soprattutto certe manovre valgono quel che valgono. «In certi salotti romani si mettono a punto strategie totalmente sbagliate, e che spesso portano anche sfiga». Nessun riferimento più preciso, e però nel Pd si osserva con attenzione il modo in cui Repubblica sta trattando la vicenda. Più che il sondaggio Ipr Marketing pubblicato dal sito web che dà Vendola più votato di Bersani, al leader dei Democratici non ha fatto piacere leggere un articolo titolato «Sulle primarie il gelo di Bersani». «Oggi siamo sul ring con Berlusconi, su questo dobbiamo essere tutti impegnati e io non ho altra distrazione», dice il segretario del Pd. «Ma adesso smettiamola col teatrino di chi sostiene di volere le primarie e chi sarebbe tirato per la giacca».
l’Unità 29.7.10
Sondaggio Ipr: Nichi primo alle primarie
Il Pd: non ci crediamo
Secondo la rilevazione il governatore pugliese vincerebbe contro Bersani con il 51% perchè «moderno e comunicativo» Ma il leader appare maggiormente «affidabile» agli elettori
di A. C.
Vendola batterebbe Bersani alle primarie del centrosinistra? Sì, secondo un sondaggio della società Ipr Marketing, pubblicato ieri da Repubblica. it. Di stretta misura la vittoria del governatore pugliese, 51% contro 49%, una “forchetta” assai esile trattandosi di un sondaggio che ha comunque margini di errore più ampi di quel 2% di distacco. È tuttavia, a pochi giorni dalla discesa in campo di Vendola, il dato politico è comunque forte. Soprattutto se si tiene conto che Vendola prevale su Bersani anche tra gli elettori Pd (52 contro 48%). Vendola vince perché più «moderno», ma Bersani riscuote una percentuale molto più alta di fiducia (77% contro 63%) tra gli elettori del centrosinistra. Più forte il distacco nella domanda su chi potrebbe battere battere Berlusconi alle urne: il 49% dice Vendola, il 31% Bersani, dato che si conferma anche tra gli elettori democratici.
Quanto alla fiducia, Bersani prevale tra gli elettori Pd (86 contro 67%), degli altri partiti di centrosinistra (72 contro 60%) e in modo netto tra gli indecisi di centrosinistra (80 contro 52%). Vendola invece va decisamente forte tra i dipietristi (76 contro 58%). Quanto alle caratteristiche, del leader Pd vengono apprezzate con percentuali sopra l’80% l’onesta, la competenza, la sincerità, l’affidabilità, la capacità di mediazione, tutte voci in cui è Vendola a rincorrere. Il governatore invece prevale per le caratteristiche di modernità, di comunicazione e di stretta misura per l’autorevolezza. Molto alto il distacco alla voce «moderazione»: Bersani vince con l’83% contro il 46%.
«Il fenomeno Vendola è figlio dell’impazienza della nostra gente, che non ne può più di Berlusconi e abbraccia chiunque appaia come una possibilità per cacciarlo», dice Piero Fassino. «Oggi Vendola è un fenomeno in emersione e per questo attira simpatie. Ma di qui alle primarie c’è ancora molto tempo, Nichi è un dirigente politico intelligente e vuole trasformare l’impazienza degli elettori in una speranza, ma di qui a costruire un consenso maggioritario nel paese ce ne passa...». «Un sondaggio intempestivo», taglia corto Pierluigi Castagnetti. «Io credo che Vendola non vincerebbe, e poi alle primarie non ci saranno solo due candidati». «Il sondaggio? Un colpo di sole estivo», sorride Livia Turco. «Al momento buono sarà Bersani a stravincere le primarie».
Gero Grassi, deputato pugliese del Pd e amico di Vendola, invita il suo partito «a non sottovalutare Nichi». «Mi sembra di rivedere il film della Puglia, quando nel 2005 dicevo che avrebbe battuto Fitto mi prendevano per visionario». «Certo che il sondaggio è gonfiato dal clamore della discesa in campo e dal fatto che è l’unico candidato già in pista, ma quei numeri dimostrano il livello di popolarità di Nichi tra gli elettori Pd e ci spinge a indicare al più presto un nostro candidato, senza giocare in difesa o, peggio, cercare di sminuire Nichi». Preoccupato Follini: «Non temo Vendola che ha le sue certezze, ma l’incertezza del Pd. Se la nostra rotta fosse più chiara il problema Vendola sarebbe diverso».
l’Unità 29.7.10
Sette note. Il ritmo dell’evoluzione
Gli ultimi studi: è stato il «canto» degli uomini primitivi a far nascere le emozioni
La musica non serve a niente? Chiedetelo a Neanderthal
di Emanuele Coco
Citare Parigi quando si parla di politica o società non è più chic. Provincialismo abusato in trasmissioni televisive, rotocalchi e confidenze tra amici, l’appello al grandeur repubblicano post ancient régime è una svista di cattivo gusto. Si perdoni dunque il riferimento geografico, ma al pensiero di una Francia che apre gli ombrelloni all’estate dei festival gratuiti, che cede i giardini di Versailles alla Musica per i Reali fuochi d’artificio di Händel e che moltiplica le biblioteche in cui è possibile prendere in prestito CD (dell’era in corso!), l’audiofilo italiano avverte un po‘ di imbarazzo: il suo istinto musicale – erede di quella nobile tradizione tesa tra l’Opera e le canzonette – cede ai disagi di un’afa stagionale vissuta tra bandane e bavagli: l’attenzione della politica italiana per l’universo pentagrammato tende al ribasso. Del resto, tra tagli alla cultura, ai servizi sociali e al sentire legale, perché tenersi qualcosa di tanto inutile come la musica? Qualche suggerimento potrebbe venire da un inserto che il periodico Book pubblica in questi giorni proprio in Francia e dedicato all'interrogativo: a cosa serve la musica? Secondo Philip Ball, editorialista di Nature e autore di The music instinct, un approccio scientifico all’antico dilemma filosofico permette di ricavare un dato generale: per essere un’arte inutile, la musica mette in movimento un bel po’ di roba. La mappa delle zone cerebrali che si attiva durante l’ascolto è quanto mai vasta. Diversamente da ciò che avviene per il linguaggio, il nostro cervello non ha un’area specifica per l’ascolto della musica ma recluta funzioni psichiche eterogenee e corali: dall’emisfero destro a quello sinistro, dalla logica alle emozioni. Gli intervalli di altezza e basso. Del resto, tra tagli alla cultura, ai servizi sociali e al sentire legale, perché tenersi qualcosa di tanto inutile come la musica? Qualche suggerimento potrebbe venire da un inserto che il periodico Book pubblica in questi giorni proprio in Francia e dedicato all'interrogativo: a cosa serve la musica? Secondo Philip Ball, editorialista di Nature e autore di The music instinct, un approccio scientifico all’antico dilemma filosofico permette di ricavare un dato generale: per essere un’arte inutile, la musica mette in movimento un bel po’ di roba. La mappa delle zone cerebrali che si attiva durante l’ascolto è quanto mai vasta. Diversamente da ciò che avviene per il linguaggio, il nostro cervello non ha un’area specifica per l’ascolto della musica ma recluta funzioni psichiche eterogenee e corali: dall’emisfero destro a quello sinistro, dalla logica alle emozioni. Gli intervalli di altezza e la melodia – per esempio – sono processati in una zona chiamata convoluzione di Heschl, ma vengono riconosciuti anche dal planum temporale, un dominio coinvolto in compiti complessi come la distinzione del timbro, la localizzazione spaziale e il riconoscimento di flussi di suoni come il parlato. Una così diffusa delocalizzazione delle aree preposte all’ascolto musicale suggerisce un ruolo antico con profondi coinvolgimenti sul piano psichico. La musica del resto è in grado di influenzare importanti funzioni vitali come la frequenza cardiaca, la sudorazione o la produzione di ormoni.
Dunque, tanto rumore per nulla? Non proprio. Almeno stando alle tesi di Steven Mithen, archeologo britannico autore de Il canto degli antenati. Mithen tenta una spiegazione evoluzionistica partendo dal legame tra suoni e stati d’animo: la musica sarebbe lo strumento più efficace per veicolare sensazioni in assenza di parole. Qualcosa di analogo a quel che capita quando ricorriamo al «baby talk», il linguaggio con cui ci si rivolge ai bambini ancora privi di competenza linguistica. Timbri acuti, toni alti, suoni che ricordano il riavvolgersi di una bobina, frasi brevi e ripetute, sono tutte caratteristiche di quel pigolare un po’ ridicolo che interpretiamo dinnanzi ai neonati. Il perché è semplice: sono gli stessi bambini a incoraggiarci. L’analisi statistica ha mostrato una risposta fortemente positiva all’intonazione della voce, ben più consistente di ciò che si ha nel caso delle espressioni facciali. Non solo. Gli psicologi dell’università di Surrey hanno scoperto che praticamente tutti i genitori (anche quelli stonati!) si avventurano in repertori canori. Almeno in privato. Un questionario sottoposto a un campione di mamme restituisce le motivazioni: «rasserena il piccolo», «lo fa sorridere», «lo tiene allegro». In effetti, la psicologa Sandra Trehub ha dimostrato un’influenza del canto materno sulla produzione del cortisolo salivare, un ormone che interviene nel controllo dello stress. Secondo Mithen, dunque, il valore biologico della musica consisterebbe nella capacità di istillare stati emotivi, contagiare stati d’animo, spingere alla coesione tra soggetti. Forte dei dati sperimentali, Mithen continua la sua disamina evoluzionistica chiedendosi: cosa se ne faceva l'uomo di Neanderthal del suo cervello di vaste dimensioni se i suoi predecessori, con uno ben più piccolo, erano già capaci di costruire utensili e condurre vita collettiva? A cosa serviva questa grossa teiera celebrale apparsa per la prima volta nella storia evolutiva dell’uomo?
La risposta di Mithen è affascinante: serviva a cantare. Avvalendosi del «canto», l'uomo di Neanderthal avrebbe rinforzato lo scambio e la coesione di gruppo. Grazie ai suoni di quel linguaggio privo di parole, il nostro prozio all’alba della civiltà avrebbe dato voce ai propri sentimenti di allegria, entusiasmo, paura, rabbia, amore, trasportando tutti in una sincrona e coordinata collaborazione per la sopravvivenza. L’ipotesi è suggestiva. Eppure proprio di fronte a un ruolo così ancestrale per il canto, al cospetto di quest’idea di musica come giavellotto evoluzionistico che proietta il genere Homo nel futuro, viene quasi nostalgia dell’inutilità che alla musica era stata imputata. Sì, perché al di là della sua possibile funzione biologica, la musica potrebbe essere preziosa proprio perché futile: una dote che l’accomuna alla filosofia e all’amore. Privarsi di questi eleganti perditempo dell’animo umano non è detto sarebbe un vantaggio. Del resto, lo scriveva già Vladimir Jankélévitch: «Si può vivere senza filosofia, senza musica, senza gioia e senza amore. Ma mica tanto bene».
Corriere della Sera 28.7.10
Canova e quella battuta orgogliosa che fece tacere l' imperatore
L'artista a Napoleone: italiani ladri? Buona parte sì
di Matteo Collura
Il personaggio Lo scultore Antonio Canova nacque a Possagno (Treviso) nel 1757 e morì a Venezia nel 1822. Lo scultore è ritenuto il massimo esponente del Neoclassicismo (sopra, l' artista in un dipinto di Giovanni Battista Lampi del 1805 ) I ritratti di corte Napoleone scelse il Canova come uno dei suoi maggiori ritrattisti ufficiali. Tra i lavori più celebri che l' artista realizzò per la famiglia imperiale spicca Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, nelle vesti di Venere vincitrice
La grande statua bronzea che accoglie i visitatori dell' Accademia di Brera, a Milano, è un inno alla bellezza del corpo umano quando esso è ben temprato all' apice degli anni giovanili. La possente scultura rappresenta un uomo, ma la sua bellezza è tale da far pensare anche a qualcosa di femmineo, come sempre accade agli uomini «troppo» belli. Il fondoschiena di quella statua, poi, è forse il più sensuale tra quelli che gli scultori di ogni tempo abbiano realizzato. Quel magnifico posteriore è di Napoleone Bonaparte, e fu modellato dallo scultore Antonio Canova. Basterebbe questo solo monumento a dare misura di quanto l' Imperatore dei francesi sia stato esaltato, nobilitato, adorato, deificato, addirittura reinventato dagli artisti che ne hanno seguito e illustrato la fulminante carriera militare e politica. Eppure, il «nostro» Canova, che Napoleone volle come uno dei suoi maggiori ritrattisti ufficiali, si dice abbia avuto nei confronti del genio corso un moto di stizza, seguito da una battuta offensiva che merita di passare alla storia come il famoso «merde!» di Cambronne. Non sappiamo se l' episodio sia realmente accaduto, e se sia stato davvero Canova a esserne il protagonista, ma l' aneddoto è così bello da meritare di essere tramandato. Dunque: siamo nella splendida Villa Manin, a Passariano di Codroipo, provincia di Udine. Durante la campagna d' Italia che culminò con il Trattato di Campoformio (o Campoformido), questo magnifico edificio fu sede del quartier generale di Napoleone, il quale proprio in uno dei suoi saloni volle fosse sancita quella pace che, tra l' altro, segnò la fine della secolare Repubblica di Venezia (17 ottobre 1797). Alla storica firma seguirono un banchetto e protratti balli: lontani ormai gli imperativi di etica politica, soprattutto in campo internazionale, che la Rivoluzione aveva imposto. Nei fatti, il trattato di Campoformio che ratificava la nascita della Repubblica Cisalpina (subito dotatasi della Costituzione francese) e consegnava all' Austria il Veneto fino all' Adige, il Friuli, l' Istria e la Dalmazia, violava il principio del rispetto dei popoli, anche se era stato firmato dal vittorioso comandante dell' Armata d' Italia e dal Direttorio, la massima autorità politica alla quale i francesi avevano fatto ricorso dopo la storica sollevazione del 1789. Una strana situazione si era venuta a determinare nel Nord-Est dell' Italia: la Francia cedeva, dopo averlo conquistato, quel che non le apparteneva: Venezia. Possiamo immaginare lo stato d' animo dello scultore Antonio Canova, nato quarant' anni prima a Possano, in territorio di Treviso, anch' esso finito sotto le bandiere d' Austria. Parimenti lo possiamo immaginare, elegantemente vestito, prendere parte alla cena, e poi alla chiacchierata interrotta qua e là dagli acuti dell' orchestrina, chiamata ad allietare quella sera d' autunno in una delle ville più belle d' Europa. Impeccabili, nelle loro rutilanti divise, gli ufficiali che hanno permesso a Napoleone di liquidare un nemico che all' inizio della campagna era più forte in uomini, equipaggiamenti e armi. Anche le donne sono all' altezza dell' evento, e i militari più alti in grado, con inchini e colpi di tacchi, si contendono le più fascinose. Napoleone, che da poco si firma «Bonaparte», per togliere al suo cognome quel tanto di suono italiano («Buonaparte»), conversa soddisfatto. Del resto, ne ha motivo, avendo raggiunto a ventotto anni quel che nessuno avrebbe immaginato. E che gloria per la Francia, uscita rinnovata e purificata dalla Rivoluzione! Lui - e chi sennò? - avrebbe continuato ad esaltarne la potenza con le baionette del suo esercito. Grazie ai suoi successi militari, già il Louvre (che in suo onore dal 1803 al 1814 sarà chiamato Musée Napoléon) risplende delle opere d' arte requisite in Italia: Tintoretto, Paolo Veronese, Guido Reni, Raffaello... Persino i cavalli bronzei della basilica di San Marco hanno preso la strada di Parigi. Il Generale ha una particolare passione per le opere d' arte, al punto da pretendere che la loro requisizione venga inserita nei trattati che sanciscono armistizi e pacificazioni. Napoleone conversa e ogni tanto, la mano in tasca, accarezza la miniatura che riproduce il volto di Joséphine. E qui ne approfittiamo per riferire che di lì a poco il vetro di quella miniatura sarebbe andato in frantumi. Un cattivo «segno» per Napoleone, il quale, a dar retta a uno dei suoi generali presenti all' incidente, dirà: «Le cose sono due: o mia moglie è malata o mi è infedele». La conversazione a Villa Manin ora riguarda l' Italia, i suoi combattenti, i suoi civili, le sue abitudini, il suo carattere, anche se allora non si poteva parlare di un «carattere nazionale» italiano. Presenti Berthier, il geniere e geografo capo di stato maggiore del futuro imperatore dei francesi; Gioacchino Murat, non ancora suo cognato; l' aiutante di campo Marmont, e i valorosi generali Masséna, Augereau e Laharpe. Presenti anche numerosi gentiluomini dei territori appena conquistati, Napoleone si lascia scappare un apprezzamento tutt' altro che gentile nei loro confronti. Pressappoco questo: «Gli italiani sono tutti ladri». Certo, ammesso che la frase sia stata detta, bisognerebbe conoscerne il contesto, perché questo potrebbe attenuarne la violenza. Ma si vuole che Napoleone abbia voluto offendere i suoi interlocutori, pur sempre in quell' occasione padroni di casa: «Gli italiani sono tutti ladri...». Così come si vuole che, uscendo dal suo angolo d' ombra, Antonio Canova abbia replicato: «Generale, tutti no, ma buona parte sì...». Splendida battuta. L' equivalente di una battaglia vinta con le armi. Non sappiamo cosa Napoleone abbia risposto, se ha risposto. Ma noi, nel tramandarcela, ci sentiamo un po' ripagati di tutto quanto ci è stato sottratto in materia di opere d' arte. E non soltanto da Napoleone «Buonaparte», ma da altri - e più perversi - signori della guerra.
il Fatto 29.7.10
“Vita da bestia” nei manicomi criminali
Viaggio nei sei ospedali psichiatrici giudiziari. La denuncia della commissione Marino
di Monica Raucci
Per dissetarsi nei giorni di caldo torrido dove le celle sfiorano i 40 gradi, i pazienti dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, nel casertano, devono bere da una bottiglia attaccata allo scarico del water. L’unico modo per avere un po’ di acqua fresca, perché il frigorifero non è concesso. È solo una delle istantanee del viaggio che la commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema sanitario nazionale presieduta dal senatore Ignazio Marino, ha percorso in giro per gli ospedali psichiatrici giudiziari d’Italia. Una serie di sopralluoghi a sorpresa che si sono trasformati in una via crucis. Il racconto incredibile di una vita da bestiame: celle dormitori, trattamenti medioevali, feci e urina sul pavimento, perché il water, a volte, è un orinatoio alle spalle del letto. Gli ospedali erano nati per sostituire i manicomi criminali negli anni ‘70. Sono in tutto sei, e ospitano 1500 persone. Le strutture detentive dovevano diventare sanitarie. Molte di loro si sono trasformate in lager. Nell’ospedale di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) già in passato finito sotto il fuoco delle polemiche e denunce, su 329 degenti c’è un solo medico, due infermieri e un educatore.
LO RICONOSCI DALL’ODORE.
“Ovunque scrivono i senatori nella relazione un lezzo nauseabondo per la presumibile presenza di urine sul pavimento”. Entrano nella stanza numero 4, c’è Salvatore: è nudo, coperto da un lenzuolo. È immobilizzato al letto mani e piedi con una garza. Feci e urina cadono in una pozzetta sotto il materasso. Ha un ematoma sul cranio. Un Cristo del Mantegna in versione atrocemente postmoderna. Ce n’è un altro, di Cristo, negli stessi giorni, al Nord: ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, quando la commissione entra in una stanza trova Roberto immobilizzato da 5 giorni. Il letto non si può reclinare, lui è chiuso dentro la camera senza campanello. Se si sente male, pazienza. L’ Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa è un paradosso vivente: le stanze sono celle da sei posti ognuna, mentre ci sono due padiglioni nuovi di zecca mai aperti. Chiunque capisce che i malati mentali hanno bisogno di spazio e autonomia. Ma in questi posti mancano perfino gli psichiatri. Il personale medico è spesso generico, oltre che insufficiente. Anche qui: 320 degenti, un medico e due infermiere. “Ovunque cumuli di sporcizia e residui alimentari”, e ancora quel tanfo: urina. La commissione guarda,
annota: “Assenza di cure specifiche, inesistenza di qualsiasi attività, sensazione di completo e disumano abbandono”.
LI CHIAMANO INTERNATI, I PAZIENTI.Untermineaspro,duro, ma sempre meglio dell’altro, che gira negli ospedali: gli ergastoli bianchi. Perché per molti di loro la pena giudiziaria è terminata, potrebbero uscire, ma nessuno è disposto a accoglierli. Non i parenti, non l’Asl, per cui un paziente di quel tipo costa troppo e soprattutto è “scomodo”. È così che si consumano i suicidi, uno dietro l’altro. “Le Asl non possono lavarsene le mani”, commenta il senatore Daniele Bosone, della commissione. E cita Fedor Dostoevskij: “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Già.
Nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, il 40% degli internati è detenuto “in deroga” , come quel povero cristo internato a Napoli che per essersi presentato davanti a una scuola vestito da donna, si è beccato due anni. Di anni ne sono passati però 25, e lui non è più uscito. Non sa dove andare, nessuno lo vuole. “Alcuni detenuti in questi ospedali – commenta il senatore Michele Saccomanno – non sono neanche stati condannati. Sono ammassati lì, uno sull’altro, qualcuno è malato, dovrebbe essere curato in strutture idonee”. Come il paziente diabetico con una gangrena ad un piede in stadio avanzato, ospite dell'Opg di Napoli-Secondigliano, in mezzo agli altri pazienti.
LA STORIA IN REALTÀ è vecchia, ogni anno un’inchiesta giornalistica o l’impegno di qualche politico fa luce su orrori consumati. Due anni fa si era mosso perfino il Consiglio d’Europa, con un dossier durissimo sui “trattamenti inumani e degradanti”. Ogni volta una nuova inchiesta, ogni volta lo stesso scandalo. Ma ora forse qualcosa potrebbe muoversi. “Entro la prossima settimana – ha annunciato Ignazio Marino avremo l'elenco di tutti i soggetti che da un punto di vista medico sono dimissibili dagli Opg , circa il 40% dei 1.500 pazienti, ed entro agosto interverremo con le Asl perché vengano dimessi e curati sul territorio. E poi proporremo la chiusura di Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa e Montelupo”. Rimarrà aperta invece Castiglione delle Stivere, vicino a Garda. È pulito, efficiente, ed è il solo caso in Italia con un reparto femminile. Il suo dirigente, Pietro Caltagirone, è riuscito a risolvere (quasi) tutto. Perfino l’annoso problema della par condicio televisiva. I pazienti hanno affisso un foglio sulla bacheca. Il lunedì tg1, il martedì tg2, e così via.
il Fatto 29.7.10
Susanna Camusso
“Una strana idea dell’Italia. Da combattere”
di Giorgio Meletti
“Sento in giro la crescente preoccupazione che non ci sia per la Fiat un punto di riferimento in Italia quando Sergio Marchionne è in giro per il mondo. Forse il gruppo dovrebbe avere un responsabile per l’Italia”. Susanna Camusso, numero due della Cgil in procinto di prendere il posto di Guglielmo Epifani al vertice dell’organizzazione, dà corpo con l’abituale prudenza al dubbio che serpeggiava ieri mattina intorno al tavolo del confronto Fiat-governo-sindacati. Sindacati amici e nemici, ministri e organizzazioni datoriali si chiedono se al posto del sistema Fiat si stia palesando la politica “di un uomo solo al comando”.
Il supermanager, che discute con Sacconi e poi prende l’aereo e va a parlare con Obama sembra guardare al sistema Italia come a una controparte unica, un sistema obsoleto dove non distingue neppure tra la Fiom e la Confindustria.
È un’impressione forte, ed è diffusa. Però se Marchionne ragiona così ha un’idea strana. Non è che uno può scegliersi il Paese in cui vive. L’Italia ha la sua storia e un suo sistema di regole. Però, dice Marchionne, la Fiat può scegliersi il Paese in cui produrre auto.
La Fiat fino a oggi ha vissuto e prodotto in Italia in un sistema di relazioni sociali e rapporti di lavoro che hanno consentito a Marchionne di salvare l’azienda nel 2004, non da solo ma anche con l’aiuto dei sindacati. Non mi sembra utile mitizzare il modello americano, che è quello in cui la Chrysler guidata da Marchionne è di proprietà dei sindacati.
Andiamo al nocciolo del problema. Marchionne chiede garanzie che l’accordo di Pomigliano funzioni e faccia funzionare gli impianti ai livelli di produttività richiesti. E noi gli rispondiamo che, quando facciamo gli accordi, li rispettiamo. È lui che si è avvitato con la politica degli accordi separati. Se il tema sono le quantità produttive e lo sfruttamento degli impianti, noi non sappiamo più come dirglielo che siamo disponibili a discutere e a trovare insieme le migliori soluzioni. Se invece si mettono in discussione le libertà democratiche, c’è poco da fare, si tratta di diritti indisponibili che un sindacato non può cancellare con la firma a un accordo. Però, a parte la Fiom, gli altri sindacati hanno firmato l’accordo per Pomigliano, e adesso Marchionne lamenta un quadro di incertezza che mette a rischio le strategie d’investimento della Fiat.
Il quadro d’incertezza lo crea lui con gli accordi separati. E lo si vede adesso dalla successione di strappi, dall’invenzione di soluzioni strane per far quadrare un problema che si potrebbe risolvere con la ricerca di soluzioni condivise. In realtà la vera incertezza è quella che si è vista al tavolo di Torino, dove ci siamo trovati di fronte un capoazienda che non sembra aver sciolto i dubbi sul futuro dell’auto in Italia.
Marchionne ha garantito che la produzione di Mirafiori sarà comunque saturata. Bene, però vorremmo notizie più articolate. Abbiamo chiesto al governo di garantire la regia di un confronto, stabilimento per stabilimento, modello per modello.
In questa vertenza rimane netta l’impressione che la Cgil abbia in casa il problema Fiom, con il sindacato dei metalmeccanici in trincea nella battaglia contro Marchionne e la Cgil un po’ all’inseguimento.
Non è così. Al tavolo di Torino il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, e quello della Fiom, Maurizio Landini, hanno detto le stesse cose. E tra le altre che sarebbe bene smettere con licenziamenti e ritorsioni. Perché ci sono le dichiarazioni di Marchionne ma anche le azioni di Marchionne.
La minaccia di disdettare il contratto dei metalmeccanici, firmato da Cisl e Uil ma non dalla Fiom, aiuta il ricompattamento di un fronte sindacale?
Noi siamo sempre interessati a ricucire. E del resto le accelerazioni impresse da Marchionne in questi giorni insegnano che gli accordi separati non aiutano nessuno.