sabato 31 luglio 2010




l’Unità 31.7.10

Sanità Tremonti non firma il piano di rientro. Unica regione. Eppure i conti non erano male
pIlgovernatore: dalministroattodisabotaggio,chiederòl’interventodiNapolitano
Il governo contro Vendola «La Puglia è come la Grecia»
Il governatore sotto attacco. Il ministro Tremonti ha paragonato la Puglia alla Grecia e non ha firmato il piano di rientro della Sanità regionale. Vendola: Sono dei sabotatori.
di Giuseppe Vespo

Così vicine eppure così lontane: guai a paragonare la Puglia e la Grecia. Soprattutto se il termine di confronto è l’economia, visto che oggi la penisola ellenica è sinonimo di default finanziario. C’ha provato il ministro Tremonti, motivando con il rischio che la regione finisca in bancarotta la decisione di non firmare il piano di risanamento del deficit sanitario presentato da Nichi Vendola. Il governatore non gradisce, risponde a tono e poi si rivolge al capo dello Stato: «Condividerò con il Presidente della Repubblica carte e documenti perché ci sia un difensore degli interessi di quattro milioni e 200 mila pugliesi e per riportare il corretto equilibrio tra poteri, regionale e dello Stato, portandolo a conoscenza di quanto accaduto a proposito del piano di rientro e della mancata firma del ministro Tremonti».
IL RITORNO DELLO STATO
Così dopo aver commissariato per i conti in rosso Lazio, Campania, Abruzzo, Molise e da ieri anche Calabria, il titolare dell’Economia prova a sancire «il ritorno dello Stato» anche in Puglia. Ma in questo caso quella che sembra una mera questione di conti e di competenze tra istituzioni ha il sapore dello scontro politico da periodo preelettorale. Traspare un po’ dalle dichiarazioni del governatore («non è giusto combattere Nichi Vendola strangolando 4 milioni di persone»), un po’ dalle trincee allestite. Vendola non pensa che Tremonti complotti contro di lui ma sostiene che ad indurre in tentazione il ministro sarebbe stato il suo sfidante alla poltrona barese per il Pdl, Rocco Palese, insieme al predecessore e oggi ministro Raffele Fitto. Due «traditori della patria», «sabotatori» e «suggeritori» che raccontano falsità, secondo il presidente che convoca una conferenza per dare conti e ragioni del suo piano.
Sostiene il governatore che giovedì era tutto pronto. C’era la sua firma «ad un piano che ritenevo doloroso...» e c’era pronta la firma del
minisitro della Sanità Ferruccio Fazio. Il tutto dopo gli approfondimenti concordati con i tecnici della Salute. Poi la telefonata: gelido, riporta Vendola, Tremonti ha solo detto che voleva approfondire i dati e che presenterà un decreto legge per il rinvio della data ultima per la sottoscrizione del piano di rientro della Puglia. «Cosa deve approfondire? si chiede il governatore I conti della Puglia sono a posto. Il piano non è causato da un disavanzo sanitario, ma paghiamo le penalità retroattive che riguardano la violazione del patto di stabilità del 2006-2008». «Forse aggiunge qualcuno era frustrato perchè non abbiamo inserito tasse? Forse qualcuno, cioè Raffaele Fitto e Rocco Palese, voleva che si potesse buttare per strada cinquemila lavoratori che noi stiamo internalizzando? Questa continua è la partita vera che si sta giocando sulla pelle dei pugliesi: una partita di crudeltà sociale per fini di lotta di potere». Per Vendola insomma con il paragone «gravissimo» tra Puglia e Grecia il ministro ha compiuto un atto di «sabotaggio» politico, economico e sociale nei confronti della Puglia». Perché se certe cose le dice un ministro dell’Economia magari qualche agenzia di rating dà il colpo mortale e definitivo. Invece l’agenzia Moody’s dice la Regione gode di un rating A1 con prospettive stabili. Mentre Fitto e Palese replicano: «Se il Presidente Vendola si sottrae alla logica dei numeri preferendo una logica... greca, il sabotatore è lui».

l’Unità 31.7.10
Gli italiani andavano alla guerra
L’opera in sette volumi di Mario Isnenghi: partendo dal primo conflitto mondiale si dipana la storia del Paese e delle sue ombre
di Nicola Tranfaglia

Chi ripercorre la storia d’Italia, negli ormai quasi centocinquant’anni che ci separano dal momento dell’unificazione nazionale, si trova a dover fare i conti con le scelte e i comportamenti di fronte alle guerre che hanno avuto luogo le classi dirigenti in alcuni momenti cruciali.
E si scopre abbastanza presto che è la prima guerra mondiale quella in cui la nazione, pur tra contraddizioni e grandi sofferenze, si è immersa a fondo e ha vissuto una grande trasformazione da cui poi è nato il dramma della crisi liberale e la successiva vittoria del movimento fascista.
Mario Isnenghi, che alla prima guerra mondiale ha già dedicato negli scorsi decenni una parte importante del suo lavoro di storico, a cominciare dal “Mito della grande guerra”, riapparso nel 1989 nelle edizioni del Mulino, è ritornato ora con una grande opera in sette volumi pubblicata dalla Utet che vede la collaborazione di molti storici di più generazioni, tra i quali Nicola Labanca che ha coordinato il volume dedicato all’Italia repubblicana.
La parte centrale dell’opera è dedicata, come era giusto, proprio all’esperienza della prima guerra mondiale, che si estende per tre tomi del terzo volume e affronta con grande chiarezza i problemi che trasformano la nazione italiana in maniera traumatica attraverso tre anni di conflitto che investe il paese, segnano l’espansione di grandi industrie come la Fiat e l’Ansaldo, danno un primo segno dell’industrializzazione che ci sarà negli anni successivi fino al boom del 1958-63, mettono a contatto come mai prima era avvenuto i contadini del Sud e gli operai del Nord.
I volumi diretti da Isnenghi affrontano molti tra i problemi economici, sociali e culturali che attraversano quegli anni e il ventennio successivo e fanno rivivere i personaggi piccoli e grandi che caratterizzano la crescita e le contraddizioni della nazione italiana: si va dai ritratti dei militari che hanno contato durante il conflitto, da Cadorna a Badoglio e a Diaz, a quelli degli intellettuali come Croce, Gentile e Prezzolini, ai luoghi che hanno segnato la guerra, dalla trincea ai treni per la tradotta, alle montagne che per anni hanno costretto le truppe a perdere uomini per conquistare pochi metri di vantaggio sul nemico.
E’ una storia che non si fa solo attraverso le grandi date ma soprattutto attraverso i personaggi, i climi, le vicende di tutti quelli che in maniera diretta o indiretta sono toccati dallo scontro. E la guerra, assai più che in passato, coinvolge la popolazione e la società civile accanto a quella politica ed economica.
Di grande interesse appare anche il volume dedicato al periodo fascista che include tutti i grandi temi di quella storia. Il saggio di Giovanni Miccoli su Pio XII è tra le pagine più ricche di intuizioni che mi sia accaduto di leggere. E il secondo tomo dedicato alla seconda guerra mondiale ci consente di valutare adeguatamente la profonda differenza che c’è tra le due guerre del Novecento per gli italiani.
Se, nella prima guerra mondiale, una parte rilevante della nazione si era impegnata sulla base degli ideali risorgimentali e della lotta ancora viva per l’indipendenza nazionale, questo non può accadere per un conflitto legato in maniera così forte al regime fascista che dall’inizio è stato vissuto da una parte non piccola di italiani con la paura della sconfitta e l’indifferenza o l’avversione per il regime.
Questo emerge con chiarezza dalle pagine del secondo tomo del IV volume e gli autori sono molto attenti a sottolineare le sfumature e le differenze che si possono cogliere leggendo le memorie ma anche altre fonti scritte che di quegli anni sono rimaste.
Così anche la seconda parte dell’opera si fa leggere con grande interesse anche da parte dei lettori che non sono interessati soltanto alla guerra ma che possono verificare l’importanza che quegli avvenimenti hanno avuto insieme con il grande peso del lutto e delle difficoltà seguite nel primo come nel secondo dopoguerra.
Il quinto volume che affronta il periodo repubblicano avrebbe potuto avere maggior sviluppo ma ripercorre in maniera nuova una storia che richiederà ancora nei prossimi decenni approfondimenti e nuove ricerche. Compaiono personaggi come Randolfo Pacciardi o Giulio Andreotti. E nel tempo, si allunga l’ombra dei servizi segreti. Una considerazione sembra imporsi alla fine di una lettura storica come quella favorita dall’opera di Mario Isnenghi e dei suoi bravi collaboratori. La repubblica risolverà presto i suoi misteri? E’ un interrogativo questo che sta a cuore ai parenti delle vittime ma anche a tutti quelli che hanno a cuore la democrazia nel nostro paese.

l’Unità 31.7.10
Salvate il soldato Ryan
Boom di suicidi nell’esercito americano
Centosessanta in 15 mesi, una media più alta che tra la popolazione civile Secondo lo studio della Difesa Usa in aumento negli ultimi 5 anni anche il consumo di droghe, alcol e antidepressivi. E i reati in divisa
di Marina Mastroluca

Hanno la faccia da bravi ragazzi e appena un velo di malinconia mentre, infagottati nelle loro mimetiche aspettano un volo che li porterà forse al fronte, forse di nuovo a casa. La gente intorno li tratta con qualcosa di più che rispetto: un veterano si mette sull’attenti, una bambina regala un disegno, la folla fa ala per lasciarli passare. «Thank you», grazie, ripete l’American Airlines. Ma i militari a stelle e strisce sono molto lontani dall’immagine levigata e perbenino che contrabbanda la pubblicità, tutti amor patrio e gentilezza ripagata dall’affetto generale. L’ultimo rapporto del Dipartimento della Difesa Usa registra il più alto numero di suicidi mai verificatosi prima d’ora nell’esercito, con un’incidenza più alta di quanto non sia tra la popolazione civile. E un’impennata di reati e comportamenti a rischio, uso di droghe, alcol e antidepressivi tra i soldati. «Detto in parole povere, siamo spesso più pericolosi per noi stessi di quanto non lo sia il nemico», sintetizza il rapporto, frutto di un monitoraggio durato 15 mesi. E non sono parole facili a dirsi, considerando che il mese di luglio appena trascorso è stato il più sanguinoso in assoluto per le truppe Usa in Afghanistan, con 63 morti. Non proprio una casualità: dal giugno 2009, raccontano le statistiche, la guerra ha cambiato faccia, mai così tante le bare tornate a casa.
Depressi in divisa Trentadue suicidi in giugno, 80 nei primi sei mesi del 2010. Centossessanta tra l’ottobre 2008 e il settembre 2009. Una media di 20,2 ogni 100.000 militari, contro il 19,2 registrato tra i civili. L’esercito Usa sta male e si vede: 1713 tentati suicidi nei 15 mesi presi in esame, 146 morti dovute a comportamenti a rischio, come l’abuso di droghe. Un soldato su tre ricorre all’uso di farmaci antidepressivi, ansiolitici o antidolorifici. L’uso degli antipressivi in particolare è triplicato negli ultimi cinque anni. Sono anche aumentati i reati in divisa: 5000 in più ogni anno che passa, per il 2010 la previsione è di 55.000 crimini variamente declinati. Più reati, più violenza, più autolesionismo, più dipendenza da droghe di vario genere. Un trend inversamente proporzionale sembrerebbe ma questo il rapporto non lo dice al venire meno di un disegno d’insieme, di un senso nella guerra data per vinta tante volte e ancora lontana dal concludersi.
Nove anni di conflitto più o meno aperto in Afghanistan, e poi l’Iraq, un capitolo che si sta chiudendo in questi mesi e che è costato non solo sangue, ma un patrimonio di credibilità consumato tra le bugie di Bush e le celle di Abu Ghraib. Il precedente del Vietnam è ormai superato in durata e non ci sono dati comparabili con il malessere attuale. «Sbaglierebbe chi pensasse di attribuire la causa di tutto solo alla guerra», dice il generale Peter Chiarelli, vice capo di stato maggiore. Semmai l’aver puntato tutto sulla preparazione per l’impiego in zone di guerra ha fatto venir meno l’attenzione su ordine, disciplina, comportamenti a rischio, fragilità individuali.
Pesci fuor d’acqua Macchine da guerra che faticano a rientrare in sintonia con la vita da civili. L’80 per cento dei suicidi registrati lo scorso anno tra i militari è avvenuto non in Iraq o Afghanistan, ma negli Usa. A soffrire di più sono i soldati che hanno preso la divisa tardi, a 28-30 anni, quelli che al fronte hanno la possibilità di maggiori contatti con la famiglia e con i problemi
Il trauma del ritorno
L’80% di chi si toglie la vita, lo fa una volta rientrato negli States della vita quotidiana lasciati a casa. Un suicidio su sei è imputabile a problemi relazionali, legati alla separazione dagli affetti, alle pressioni familiari, all’abuso di sostanze psicotrope. Rischiano di più i nuovi arrivati, al primo anno di ferma. Quelli insomma che sembrano restare in bilico tra due mondi diversi, mentre appena il 21% dei sucidi si registra tra i soldati che hanno fatto più periodi al fronte. Più lunga è la permanenza in zone calde, rileva il rapporto, più ci si avvezza, si mette su una buccia più resistente allo stress. Per il generale Chiarelli parte della soluzione potrebbe essere qui: far capire alle famiglie che non è il caso di coinvolgere nelle beghe di casa i ragazzi al fronte.Non si può pensare alle bollette da pagare con un mitra in mano.

l’Unità 31.7.10
Negli Usa esperimenti sull’uomo da cellule staminali embrionali
di Virginia Lori

Storico sì della Food and Drug Administration ai primi test clinici su pazienti selezionati
La speranza si riaccende per chi ha subito gravi lesioni al midollo spinale. Ma ci vorrà tempo

Forse non tra un anno o due. E l’esito resta incerto. Ma da oggi la scienza medica ha una speranza in più da soddisfare: la cura delle gravi lesioni spinali. Negli Usa la ricerca genetica passa ai primi test sull’uomo.
Il passaggio è storico: è stata autorizzata per la prima volta nel mondo, negli Stati Uniti, una sperimentazione sull’uomo dei risultati del-
la ricerca finora condotta «in provetta»o su animali da laboratorio delle cellule staminali embrionali. La Food and Drug Administration, l'agenzia federale americana che si occupa di sanità, ha autorizzato ieri i primi test clinici. Lo rende noto il sito del New York Times, ricordando che queste procedure saranno sviluppate dalla Geron Corporation e l'Università della California, di Irvine, in alcuni pazienti con danni al midollo spinale. La Fda aveva autorizzato questo tipo di test già nel gennaio 2009. Tuttavia, poco prima che ini-
ziassero, questi studi vennero sospesi perchè furono scoperte delle cisti nei topi ai quali erano stati iniettate le cellule. A quel punto, la Geron ha sviluppato altri metodi e messo a punto una tecnica migliore per rendere più pure le nuove cellule. Fino a pochi anni fa solo le staminali adulte sembravano più «stabili» e sicure rispetto alla tendenza, se modificate, di generare tumori, benigni o maligni. Ora se la rigida autorità statunitense ha dato l’ok significa che i genetisti negli Usa hanno raggiunto nuovi traguardi. Anche se è ancora troppo presto per sapere se le cure che verranno sperimentate potranno rivelarsi efficaci. Per i primi risultati si potrebbe dover attendere, dall’inizio dei test, anche diversi anni.
La sperimentazione sarà condotta in più centri (fino a sette) su un piccolo numero di pazienti con lesioni molto gravi del midollo spinale. Lo scopo principale è verificare la sicurezza, ancora prima dell'efficacia, della tecnica. Saranno arruolati nella sperimentazione pazienti con lesioni complete subacute del midollo spinale toracico di grado A. La terapia consisterà nell'iniezione di staminali embrionali derivare dalle cellule progenitrici degli «oligodendrociti», cellule nervose che avvolgono in una guaina i filamenti che collegano le cellule nervose. L'obiettivo è ripristinare la piena funzionalità delle connessioni, riparando la lesione.

il Fatto 31.7.10
B. teme Vendola: e Tremonti attacca la sanità pugliese
di Mario Reggio

Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti boccia il piano di rientro del deficit sanitario presentato dalla Regione Puglia. “Non voglio che diventi una nuova Grecia – ha dichiarato il responsabile dell’Economia al termine del Consiglio dei ministri – in questa fase storica prima vengono i numeri e poi la politica”. Secca la replica al Fatto Quotidiano del presidente della Regione Puglia Nichi Vendola: “Il parallelo con la Grecia mi sembra davvero fuori luogo. Questo è un vero atto di sabotaggio. Chiederò l’intervento del presidente Napolitano. Comunque mercoledì prossimo il Consiglio dei ministri dovrebbe dilazionare i termini di presentazione dei piani di rientro”.
Ma cosa c’è dietro alla “mossa” di Tremonti? Secondo gli esperti di politica il premier avrebbe cominciato a sondare i possibili avversari alle elezioni politiche. E sarebbe giunto alla conclusione che una sfida con Nichi Vendola, possibile leader del centrosinistra, non sarebbe così semplice. Da ciò il tiro mancino del ministro del Tesoro che comporterà un taglio di 500 milioni alle casse della Puglia e all’aumento automatico della quota regionale dell’Irpef e dell’Irap. Provvedimenti che non fanno davvero crescere il consenso politico.
Comunque la risposta del governatore della Puglia è stata puntigliosa e senza mezzi termini. “L’unico atto in stile greco che è stato firmato in Puglia è il ‘Bond’ con la banca d’affari americana Meryl Linch, firmato da Rocco
Palese (sconfitto da Vendola alle ultime elezioni regionali) e, secondo le dichiarazioni di Rocco Palese al pubblico ministero, coperto dal ministro Tremonti”.
Secondo Vendola, “un atto che ha prodotto una ipotesi di danno erariale tra i 25 e i 100 milioni di euro e che oggi è oggetto dell’attività investigativa della Corte dei Conti. Questo è l’unico atto greco che è stato fatto in Puglia: è un atto greco tutto Pdl”. E ancora: “Cosa c’entra – si è chiesto il governatore – il paragone con la Grecia? Lo sa il ministro Tremonti che noi siamo, secondo molteplici parametri, tra le 5 Regioni più virtuose d’Italia, che abbiamo ridotto in maniera considerevole, con percentuali straordinarie, ogni anno, lo stock del debito della Regione? Lo sa che abbiamo diminuito sensibilmente le spese per il personale migliorandone l’efficienza, lo sa – chiede ancora – che siamo la Regione che ha i più bassi costi per l’alimentazione della macchina pubblica e della cosiddetta politica? Allora di che parla Tremonti, che c'entra la Grecia con la Puglia, perché parla di Grecia quando parla di Puglia e non quando parla di Campania o di Molise o di Calabria?”
A sentire la versione di Nichi Vendola la bocciatura avrebbe percorsi davvero strani e tortuosi. “Il ministro Tremonti ha pensato di non sottoscrivere il Piano di rientro della Puglia che i suoi tecnici avevano predisposto e concordato con i tecnici della Regione Puglia. Ed è molto curioso – ha detto – perché il ministro aveva tentato per un paio di settimane di ‘convincere’ la Regione ad aumentare le tasse”. “Noi avevamo dimostrato di poter coprire completamente, di scrivere il piano di rientro senza toccare le tasse. Il piano di rientro della Regione Puglia – ha precisato Vendola – non è causato da un disavanzo sanitario perché la Regione Puglia ha, dal punto di vista sanitario, i conti in equilibrio economico-finanziario, come certificato dal ministero dell’Economia, ma semplicemente noi pagavamo per le penalità retroattive che riguardano la violazione del patto di stabilità del 2006-2008”. La storia continua. “Ieri, al previsto incontro a Roma, mancava solo il ministro Tremonti: “C’era il ministro della Salute Ferruccio Fazio, c’ero io – ha raccontato Vendola – e io ero pronto a firmare un piano di rientro che consideravo doloroso, che aveva degli aspetti che mi lasciavano perplesso, ma ero pronto a firmare pur di non perdere 500 milioni”. Ma a questo punto Tremonti decide di chiamare Vendola perché voleva fare un approfondimento. “Non si capisce un approfondimento di che cosa, visto che l’abbiamo approfondito per mesi, in ogni suo dettaglio. Qualcuno era frustrato perché – commenta il governatore della Puglia – non avevo messo le tasse? Qualcuno voleva che io mettessi le tasse: parlo di Raffaele Fitto e Rocco Palese, che volevano che si potessero buttare per strada 5mila lavoratori che noi stiamo internalizzando. Questa era la partita vera, una partita di crudeltà sociale al fine di lotte di potere”.
E non lesina le accuse all’ex governatore della Puglia Raffaele Fitto, ora ministro dei Rapporti con le autonomie locali: “C’è una opposizione spregevole sul piano morale, inqualificabile sul piano politico, di sabotatori e traditori della Patria. Ciò ha spinto sulla mancata firma sul piano di rientro. Io ero lì, non c’era Tremonti”.
In serata la replica del governo, firmata da Tremonti e Fitto: “Noi chiediamo solo di poter fare sul serio partendo dai numeri. Se il presidente Vendola si sottrae alla logica dei numeri preferendo una logica... greca, il sabotatore è lui. Di se stesso e della sua Regione”.

Corriere del Mezzogiorno 31.7.10
«Credo che sarei stato un buon papà»
Vendola parla della sua omosessualità e del rapporto
con la chiesa. «Meglio i preti dei compagni di partito»
intervista di Arturo Colletti

BARI - «Lei crede davvero che Luca abbia ragione? Che la felicità sia solo etero? Che davvero un gay non possa essere felice? No, non è così, non può essere così. Quello che rende infelici è l’ipocrisia, la clandestinità, la paura di essere quel che si è. Questo è infelicità. Solo questo». Nichi Vendola sembra voler “regalare” la sua storia ai giovani omosessuali, gli stessi che hanno reagito leggendo le parole di Luca di Tolve (che ha ispirato a Povia la canzone Luca era gay) su “A” a proposito dei gay che “non possono essere felici”. «Dichiararsi può essere dolore, anche emarginazione, anche violenza», ma io «non ho mai avuto paura di essere quello che sono. E se c’è un pensiero che mi trasmette ancora angoscia è immaginare di vivere nella menzogna...». Parla al telefono, il governatore della Puglia che sogna di diventare premier: gli occhi rivolti alla piazza che lo reclama, ma la testa ancora lontana dall’attualità politica e fissa sui ricordi. Anzi, su uno: la tesi di laurea, Pasolini degli anni 50. Anche lui cattolico, gay, comunista. Anche lui deciso a strappare la condizione di omosessuale dall’oscurità. «Sì, ma Pasolini quella dimensione l’ha illuminata con le fiamme dell’Inferno mentre io mi sono sempre rifiutato di accettare quella visione del senso di colpa». Poi sposta il ragionamento da ieri a oggi. «Il mondo ha camminato ancora, tutto è diverso: nel linguaggio, nell’immaginario, anche nel confronto politico. Una porzione di umanità è uscita forse definitivamente da quel cono di ombra, di vergogna, di colpa, di peccato, di violenza, di paura e può raccontare la propria vita, il proprio amore. Ed è difficile che ci possa essere scandalo e peccato quando c’è un progetto d’amore».

Partiamo dall’inizio: il coming out nel '78. Aveva vent’anni...
«Anche io, Nichi, un volto di quella generazione che ha dovuto rompere la crosta. Che ha dovuto battersi in quel cambio d’epoca. Ho buttato, pasolinianamente, il mio corpo nella lotta. Mi sono usato perché la gente potesse riflettere. Ho sofferto per rompere quell’alone di mistero spaventevole che aleggiava attorno all’omosessualità. E, forse, ho contribuito alla rivoluzione».

Mistero spaventevole?
«Era un mondo in cui ancora molti pensavano che per i gay si dovesse chiamare un medico, l’ambulanza, lo psichiatra. Oggi non è più così, oggi nel Paese c’è una domanda di libertà forte ed essere gay non fa la differenza quando non c’è ipocrisia».

Crede che l’Italia sia pronta a un premier omosessuale?
«È pronta a un premier capace di dire la verità. Io non ho mai mentito sulla mia vita privata. Altri sì. Altri hanno fatto dell’ipocrisia la cifra del loro racconto: magari di giorno partecipavano ai family day e di notte cercavano trans e cocaina». C’è una parola che Vendola continua a ripetere. A declinare. «Ipocrisia». Ipocrisia che «ha segnato la cultura profonda della società italiana». Ipocrisia che «ho respirato per anni nelle stanze dei partiti. Del mio partito». Il tono del governatore è venato di malinconia, forse d’amarezza. «L’ho già detto e lo ripeto: è stato più facile raccontarmi ai preti che al partito. Gay era una parola che faceva paura. Meglio non dire, meglio nascondere, meglio negare. Oscar Wilde parlava dell’omosessualità come dell’amore che non osa pronunciare il proprio nome: io leggevo e capivo». Due temi si intrecciano: fede e omosessualità. All’improvviso uno emerge con forza. Si parte da lontano. Dall’infanzia nella sua Puglia. Terlizzi, terra di braccianti, di vita dura, di gente onesta. «Come mio padre... Tutte le sere rimboccava le coperte a noi figli maschi e ci salutava sempre con una sola domanda. Sempre la stessa. “Avete detto le preghiere?”. Già, le preghiere. Padre Nostro che sei nei cieli... Da quando è morto mio padre il Padre nostro è una preghiera che mi entra nella carne: il rapporto tra il padre mio e il Padre nostro mi stringe il cuore e mi commuove».

Davvero è stato più facile raccontarsi ai preti?
«Vuole la verità? Da loro non mi sono mai sentito rifiutato. E mai giudicato. Anzi spesso ho avuto un confronto autentico: loro capivano me e io capivo che anche nella Chiesa ci sono sensibilità diverse. E qualcuna provoca dolore e tristezza. La tristezza dei pregiudizi, delle paure. Lo confesso: ci sono stati momenti in cui ho vissuto la fede con fatica. Guardavo con sgomento quella Chiesa che si veste d’oro, mi chiedevo perché. Poi capivo: funziona sempre il silenzio di Dio e la libertà è fatta anche di quel silenzio. Vede, Dio non è tribunale islamico; Dio è libertà e responsabilità».

Lei è stato allievo di un grande prete: don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta che diventerà santo... Ha parlato con lui della sua omosessualità?
«Solo una volta, nell’ultimo colloquio. Ricordo il suo volto sofferente per le metastasi e ricordo la mia domanda: perché in tanti anni non mi hai mai chiesto di convertirmi? Lui mi ha guardato con quegli occhi profondi e ingigantiti nel volto scarnificato dalla malattia. Mi ha sorriso e mi ha sussurrato cinque parole: “Non avevo bisogno di chiedertelo”. Ma non mi faccia parlare di questo...».

Il Papa venne a Bari e lei prese la comunione. Ci furono polemiche. Si era confessato?
«Poco prima. Avevo conosciuto un prete molto in gamba, uno vicino a Cl. Fui diretto: «Ehi don Mario, ora mi devi confessare...». È una bella cosa la confessione. O almeno la confessione che cerco io: un punto di interlocuzione sul cammino di conversione. Credo che confessore e confessato dovrebbero essere due che si prendono per mano. Peccato che non sia sempre così».
Sono quaranta minuti che il governatore si racconta. Come vuole lui: senza ipocrisie. Non nega di essere stato bisex. Non nasconde di aver avuto fidanzate. «Alcune bellissime». Poi guarda avanti. A quella che potrà essere la sua vita vera e confessa: «Considero un limite della mia esperienza terrena non aver potuto essere genitore. Sarebbe stato qualcosa di straordinario».

È qui l’unico accostamento con Luca Di Tolve”. Anche lui, comunque, aveva risposto in maniera secca a una domanda secca: che cosa le manca? «Un figlio».

E lei, governatore? Ricorda: disse che non vorrebbe morire senza aver vissuto l’esperienza della paternità.
«Ma a modo mio, padre lo sono già stato: ho dedicato tempo ai bambini. Mi piace giocare, fare teatro, scrivere filastrocche. Credo che sarei stato un buon papà. Provo tristezza quando vedo con quanta superficialità si diventa genitori: senza riflettere, senza pesare, senza interrogarti e senza donarti. Quante domande farei a tanti papà: quante volte invece di una parola preferisci offrire a tuo figlio un cartone animato? Quante volte rinunci alla conoscenza della sua crescita? Quante scegli di non misurarti con lui? Forse troppe. E forse, ancora una volta, siamo dentro un’interpretazione volgare di un ruolo fondamentale. Mi resta però una consolazione: il mondo corre. Più di quanto immaginiamo».
segnalazione di Adriana Borgioni
Unità 31.7.10
segnalazione di Lorena Cipriani


il Riformista 31.7.10
per motivi tecnici i contenuti de il Riformista possono essere pubblicati solo in Flash, attraverso Scribd, ci scusiamo con i lettori che utilizzando macchine che non supportano la tecnologia Flash - come l’Pad e l’IPhone di Apple e altri - non possono leggerli.