mercoledì 21 luglio 2010




l’Unità 21.7.10
Una mano a Nichi
di Lidia Ravera

Vendola si è candidato per rianimare il centrosinistra. È disposto a tutto: a farsi sfottere, a farsi boicottare, a far scoprire una vecchia foto in cui fa merenda con un trans. A dare lezioni di poesia politica a chi si esprime per frasi fatte (male) e neologismi da “pastone” parlamentare. Ad aprire le sue 338 fabbriche di idee a chi è stanco di pendolare fra rassegnazione e indignazione (qualche milione di italiani), a includere nel suo democratico abbraccio anche chi ha paura dell’ecologia, della libertà ma soprattutto della sinistra. A usare la rete non perché “fa giovane” ma per parlare e ascoltare il maggior numero possibile di cittadini (4800 contatti in tre giorni, su fb). Vogliamo, per una volta, isolare la componente masochista, quella disfattista, quella che “senza i moderati non ce la faremo mai” , e dargli, concretamente, una mano? Se lo merita, ce lo meritiamo.

Repubblica 21.7.10
Caro Vendola, stia attento quando parla di eroi
risponde Corrado Augias

Caro Augias, sono stupito dalla frase di Nichi Vendola, presidente della Puglia, che volendo accaparrarsi tutta la sinistra italiana e diventare il leader del Pd, ha detto che Borsellino, Falcone e Carlo Giuliani sono morti da eroi. Per chi di politica ne sa poco, ricordo che il giovane Giuliani fu ucciso durante gli scontri di piazza avvenuti in concomitanza del summit del G8 tenutosi a Genova nel luglio del 2001. Naturalmente la mia pietà verso chi muore per qualsiasi ideale è immensa, trovo però aberrante accostare Borsellino e Falcone, uccisi dalla mafia mentre facevano il proprio dovere, a Giuliani, morto con il volto coperto da un passamontagna mentre cerca di lanciare un estintore contro un veicolo dei carabinieri. È amaro dirlo, ma se la sinistra italiana pensa di sconfiggere Berlusconi con queste idee, credo che resterà all' opposizione per altri cent' anni!
Silvano Stoppa - Cesano Boscone (Mi)

Nichi Vendola deve aver capito d' aver detto una sciocchezza. Il giorno dopo è tornato sull' argomento in un' intervista al "Corriere della Sera" cercando di arrangiare un po' le cose. «Ho parlato di Giuliani come di un eroe dicendo che uso il termine con molte virgolette». Le "virgolette" nelle cronache del fatto per la verità non si sono viste. Vendola ha anche tentato di confondere i dati affermando: «Ho ancora davanti agli occhi le immagini di quella macelleria cilena. Adolescenti ridotti a cenci di sangue, la carica al corteo autorizzato da cui si staccò il gruppo con Giuliani...». Richiamo altamente emotivo che tutti condividono ma impreciso. La macelleria cilena, questo giornale s' è battuto perché sui fatti s' affermasse la verità, avvenne dopo, al momento della tragedia c' era solo una manifestazione molto accesa, infiltrata da provocatori, in un momento politico delicatissimo. Il gruppo di cui faceva parte Giuliani era composto di ragazzi col passamontagna armati di spranghe e bastoni in tenuta da "guerriglia urbana". Carlo Giuliani venne ucciso da un carabiniere un attimo prima che gli lanciasse addosso un estintore. La morte d' un ragazzo di 23 anni è una tragedia così come lo sarebbe stata la morte di quel carabiniere che immagino più o meno coetaneo. Ho molta simpatia anche umana per Nichi Vendola per questo credo che non dovrebbe deludere chi lo ha ascoltato con interesse. Sarebbe stato meglio se avesse ammesso con franchezza: mi sono sbagliato, non mi sono reso conto nel calore del comizio che allineando i nomi di Falcone, Borsellino e Carlo Giuliani, stavo implicitamente mettendo sullo stesso piano due magistrati massacrati dalla mafia e un ragazzo meritevole di pietà ma certo non un eroe. Stavo in altre parole equiparando i carabinieri alla mafia. Spero che sia così, spero che Vendola non si sia davvero reso conto.


La Stampa 21.7.10

Piccole donne archiviano Mao
di Marco Belpoliti

Così le operaie fuggite dalle campagne stanno liquidando la vecchia Cina sopravvissuta anche alla rivoluzione culturale: un libro-reportage

La Cina non è solo la più grande fabbrica del mondo di oggetti, manufatti, macchine, vestiti, scarpe, cellulari, televisori, ma anche la più potente levatrice dell'umanità futura. Questo immenso e popoloso paese, scrive Leslie T. Chang in Operaie (tr. it. di Mariagrazia Gini, Adelphi, pp. 398, e 24), oggi produce prima di tutto persone. Il libro della Chang, inviata del Wall Street Journal in Cina per dieci anni, è un reportage su Dongguan, la città-opificio, attraversata da autostrade e tangenziali, un resoconto sulla condizione della manodopera femminile dei migranti interni, e insieme la storia di una famiglia di proprietari terrieri fuggiti a Taiwan, e poi in America: il nonno e il padre dell'autrice. Ma prima di tutto è uno straordinario documento antropologico e psicologico sul mondo futuro. Chang è insieme americana (è nata in quel Paese), ovvero una persona pragmatica, solida, e una cinese (parla correntemente il mandarino per via delle origini familiari) capace di comprendere la tortuosa, complessa e insieme stupefacente mentalità dei discendenti del Celeste Impero. Quello che accade oggi in quel Paese è un evento di una potenza unica: oltre 250 milioni di persone, in prevalenza donne, migrano dalle zone rurali interne verso i distretti produttivi della costa, là dove si sono insediate le multinazionali che producono gran parte delle cose che indossiamo o usiamo ogni giorno. All'autrice non interessa un discorso sindacale, o salariale, tutto quanto riguarda ciò che un tempo si sarebbe chiamata la forza-lavoro, ma come funziona la vita delle operaie, a cosa aspirano, come si muovono, come si rapportano con il contesto tradizionale dei loro villaggi, chi saranno da qui a qualche anno.

Il cellulare è il primo e principale strumento di comunicazione tra loro, in aree produttive dove milioni di persone sono in perpetuo movimento, così che i riferimenti abitativi - dormitori, case, appartamenti, uffici - sono del tutto inutili: se si perde il cellulare, si smarrisce anche il contatto con gli altri. Il telefono personale è tutto il contrario della vita comunitaria del villaggio, dove la singolarità è repressa a vantaggio della collettività. La grande mutazione antropologica in corso in Cina, per dirla con Pasolini, tocca in profondità un universo che, nonostante siano trascorsi sessant'anni dalla rivoluzione comunista, e poi maoista, è rimasto fermo, immobile, sino all'altro ieri. Oggi si stanno sbriciolando le tradizionali divisioni tra maschi e femmine, cambiano i costumi sessuali, le relazioni uomo- donna, tra i singoli e le comunità, una mutazione di proporzioni gigantesche e che avrà un enorme peso nel definire il mondo futuro. Leslie T. Chang è senza dubbio una conservatrice, tuttavia proprio il suo occhio disincantato, non ideologico, ci illumina sulle trasformazioni in corso. Il successo è l'olio che lubrifica il grande cambiamento cinese. La città si fonda sull'intraprendenza e sul farla franca, così che il successo si basa sull'imparare quanto basta per arrivare a una situazione migliore: da operaia a impiegata, da venditrice a insegnante. Le sue sono in gran parte donne senza istruzione, senza etichetta, o educazione, che cercano di farsi strada frequentando corsi serali in cui s'impara il portamento, a parlare in pubblico, a vestirsi, a mentire e ad aggirare gli ostacoli. E soprattutto a parlare inglese.

Le parti di Operaie dedicate alle scuole sono straordinarie, piccoli gioielli di osservazione antropologica. L'autrice segue le sue nuove amiche, Yongxia, Dali, Min, Chunming, nelle agenzie matrimoniali dove ci si «conosce in otto minuti», oppure nelle scuole dove sono in funzione «macchine per l'apprendimento automatico» dell'inglese.

Osserva e descrive le lucciole del Celeste Impero alle prove con difficoltà di vario livello. Il suo sguardo è compartecipe, spesso solidale; non si stupisce di nulla, o quasi. La storia di ogni migrante è una sola: aver fatto strada con le bugie, cambiando di continuo lavoro, lottando contro la miseria incombente, contro il maschilismo della società, per trovare un'occupazione sempre migliore. Sono storie di ascese e fallimenti continui.

I valori del vecchio universo agricolo e paleocapitalista, come si esprimeva Pasolini a proposito della situazione italiana a metà degli Anni Settanta, qui risultano centuplicati, elevati all'ennesima potenza. Vi appare un'umanità labile, fluttuante, indifesa, eppure ferocissima, e decisa a farcela per sfuggire dal cerchio inclusivo del villaggio cinese, da quella consorteria del Noi che opprime l'Io delle singole persone (l'autrice spiega la stessa spietatezza della Rivoluzione culturale con le sue follie e le cacce all'uomo attraverso la logica inclusiva del villaggio).

Cosa si perde e cosa si guadagna, ci si potrebbe chiedere con Pasolini, da questa mutazione in corso nel più importante Paese del XXI secolo? Cosa resterà della vecchia Cina e dei suoi perduranti valori eterni? È meglio la povertà feudale dei villaggi o il costipato e folle magma delle città industriali? Il punto di vista scelto da Chang non fornisce risposte, del resto anche lei, con la sua doppia anima americana e cinese è una sorta di ibrido tra il vecchio mondo e il nuovo che sta nascendo. E così appaiono anche le operaie del libro: figure centauresche, metà animali e metà donne, metà nel passato e metà nel futuro. L'unica cosa che si comprende da questo libro raccontato in modo esemplare è che la Storia è una levatrice molto tenace e dura che non riduce mai i dolori del parto, ma anzi li moltiplica. Fino a quando durerà tutto questo?

Corriere della Sera 21.7.10
La stampa di sinistra di fronte alla crisi In affanno Unità di Soru e Riformista
Nei giorni scorsi «il manifesto» ha riunito la redazione a Montecitorio

ROMA — L’annus horribilis dei giornali italiani non poteva non lasciare segni anche nel campo già abbastanza tormentato della stampa politica. Ancora più profondi a sinistra, dove le difficoltà economiche si sommano a una crisi di identità senza precedenti dell’opposizione. Se a questo si aggiunge che alcuni di quegli organi d’informazione dipendono in misura non irrilevante dai contributi pubblici, sui quali incombe la tagliola tremontiana, si comprende perché i giornalisti del manifesto abbiano compiuto nei giorni scorsi un gesto clamoroso come quello di organizzare una riunione di redazione in piazza Montecitorio, davanti al Parlamento. Per la sopravvivenza del quotidiano diretto da Norma Rangeri, che da quarant’anni esibisce orgogliosamente in prima pagina l’aggettivo «comunista», sono essenziali quei 4 milioni di euro ai quali ogni anno ha diritto grazie alle provvidenze per la stampa quotidiana.
14 luglio «Il manifesto» protesta: Norma Rangeri e Vauro
Ancora più complicata è forse la situazione dell’Unità, giornale che negli ultimi dieci anni ha attraversato numerose peripezie societarie. L’ultima in ordine di tempo ha a che fare con la scommessa di Renato Soru, imprenditore di successo nel settore delle telecomunicazioni (è il fondatore di Tiscali) e per alcuni anni governatore della Regione Sardegna. Lo scorso anno ha rilevato il quotidiano fondato nel 1924 da Antonio Gramsci, reduce da una pesante situazione economica. Il bilancio del 2008 si era chiuso con una perdita di 6 milioni 566 mila euro, quasi un milione e mezzo in più rispetto al buco dell’anno precedente. E questo considerando che la società editrice aveva incassato dallo Stato contributi per 6 milioni e 377 mila euro. Senza quegli introiti l’Unità avrebbe archiviato il 2008 in rosso per quasi 13 milioni di euro, e il 2007 per poco meno di 11 milioni e mezzo.
La scommessa di Soru si starebbe però rivelando più complessa del previsto, complice anche la situazione generale della stampa quotidiana. Al punto che era circolata pure la voce di un possibile avvicendamento alla guida del giornale fra Concita De Gregorio e Antonio Polito, attuale direttore del Riformista. Voce che ha tuttavia perduto consistenza nelle ultime settimane. Del resto non è affatto semplice neppure il momento che attraversa il quotidiano fondato da Polito, il quale è tornato alla sua direzione dopo una parentesi di due anni sui banchi del Senato, nelle file del centrosinistra. Non è semplice per diverse ragioni. La prima è di mercato: il progetto di trasformare il Riformista (a sua volta destinatario di contributi pubblici per due milioni e mezzo di euro) in un quotidiano generalista, progetto che ha comportato un aumento della foliazione (quadruplicata, in full color) e una serie di assunzioni non ha dato evidentemente i risultati sperati. Tanto più perché il piano di rilancio è partito proprio nel momento in cui stava per cominciare la più grave crisi del dopoguerra. Poi c’è la questione piuttosto singolare legata agli assetti proprietari. Il giornale, che fa riferimento alla sinistra «riformista», come recita appunto la testata, è della famiglia di Antonio Angelucci, considerato a Roma il re delle cliniche convenzionate con la sanità pubblica, da due anni deputato del partito di Silvio Berlusconi. Nonché editore, assieme alla sua famiglia, di un altro quotidiano di orientamento politico del tutto differente: Libero, attualmente diretto da Vittorio Feltri. Una circostanza che potrebbe essere forse considerata marginale se la situazione fosse florida, ma che invece in questo stato di cose finisce inevitabilmente per avere il suo peso. Tanto che ora non si può affatto escludere un ridimensionamento considerevole di quel progetto.

Corriere della Sera 21.7.10
Torna Bettini e «chiama» Vendola e Idv «Un Pd-calamita, primarie per tutto»
L’ex coordinatore e l’ambizione di «superare» il partito attuale
di Maria Teresa Meli

ROMA — Goffredo Bettini ci riprova. Dopo aver «assistito» Walter Veltroni nella nascita del Pd, ora l’ex coordinatore tenta una nuova operazione che ha come scopo il «superamento» dell’attuale Partito democratico.
Bettini si era allontanato dalla politica attiva per un periodo. Il prevalere delle correnti già nell’ultima fase veltroniana lo aveva molto deluso. Ha poi ripreso a intermittenza e adesso è di nuovo in pista. Ieri, in un seminario a porte chiuse, davanti a una platea in cui spiccavano molti veltroniani, Bettini ha spiegato quali sono secondo lui le tappe da percorrere per arrivare ad un «Pd aperto». Con lui, a parlare di questa nuova operazione politica, alcuni giovani dirigenti del Partito democratico e tre esponenti della «vecchia guardia» del centrosinistra: Fausto Bertinotti, Pierluigi Castagnetti e Leoluca Orlando. E la presenza dell’ex leader di Rifondazione comunista non è casuale, perché del Pd aperto immaginato da Bettini dovrebbe far parte anche l’aspirante candidato premier del centrosinistra Nichi Vendola.

Dunque, attorno al tentativo messo in piedi da Bettini si intrecciano diversi giochi politici. Quelli dei veltroniani, ma anche quello dei sostenitori del presidente della Regione Puglia. Che, sia detto per inciso, ieri è stato nominato sul campo candidato premier del centrosinistra dal suo antagonista Silvio Berlusconi.

Il ragionamento dell’ex coordinatore del Partito democratico, comunque, è questo: la classe dirigente del Pd e del centrosinistra in genere è «sempre più insicura di se stessa e perciò è autoreferenziale, dedita più al proprio personale destino che a un’impresa collettiva». Per questa ragione è necessaria una «nuova stagione» di quella che Bettini definisce «attivazione democratica». «Ma essa— avverte l’ex coordinatore— sarà possibile solo se salteranno intercapedini burocratiche e il nostro popolo sentirà di contare, di avere potere reale, di poter decidere con le primarie non solo i dirigenti ma anche le scelte politiche fondamentali del partito. Quindi, primarie, primarie e ancora primarie, perché anche la linea politica venga decisa insieme agli elettori».

Il Pd, secondo Bettini, deve diventare «un campo largo, una calamita di persone diverse, anche molto diverse tra loro». Occorre perciò «far saltare le rendite di posizione dei gruppi dirigenti, le divisioni tra correnti che sono funzionali a conservare il potere dei leader, alcuni dei quali assai consumati».
«L’autoreferenzialità del Pd fondato sul mini-compromesso storico tra ex comunisti e democristiani— è l’ammonimento di Bettini — non è espansiva e ha tradito il Lingotto, l’ultimo serio tentativo (purtroppo per tanti errori fallito) di evocare una grande politica per la sinistra. Si tratta di operare uno scarto temerario nella nostra pratica politica, chiamando davvero a condividere forza, potere, elaborazione, passione civile, milioni di democratici». Già, ma come? Secondo Bettini «cominciando dalla testa » . Ossia, con «la rotazione degli incarichi di partito» e «l’incompatibilità vera sul cumulo dei mandati istituzionali», tanto per iniziare.
Insomma, un treno è partito, anche se non è detto che arrivi fino all’ultima stazione. Ma era inevitabile che si mettesse comunque in moto, tanto più in un momento in cui il Pd sembra sempre più in difficoltà. In un clima non certo propizio per Silvio Berlusconi e per il suo governo il Partito democratico è infatti in affanno anziché in ripresa. Nei sondaggi riservati che vengono commissionati con grande regolarità ha perso mezzo punto in una settimana e il suo leader, Pier Luigi Bersani, è sceso di due punti in percentuale come popolarità.

il Fatto 21.7.10
Media: sbatti l’immigrato in prima pagina
Studio della Fnsi su come e perché gli stranieri sono solo un’emergenza

Qualche miglioramento c’è. O forse no. Secondo l’Osservatorio Carta di Roma – organismo creato dall’Ordine dei Giornalisti, dalla Fnsi con la collaborazione dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati – dal 2008 a oggi i media sembrano aver parzialmente allentato il letale binomio “immigrazione/sicurezza”. Significa forse ch l’immigrazione viene progressivamente sganciato da quello dell’emergenza? È in atto una normalizzazione del modo di raccontare il fenomeno nei giornali e nelle tv italiane? Forse. Perchè forse, invece, la minore insistenza da parte della politica (e del governo, in carica proprio dal 2008) rende l’argomento meno interessante per i media. La cui “agenda” parrebbe quindi subalterna alla volontà di partiti e alle prerogative di esecutivi che sbandierano la “soluzione” del problema grazie ai respingimenti. E questo non sarebbe un passo in avanti.
Con questo dubbio, ieri mattina il presidente della Fnsi Roberto Natale assieme alla portavoce dall’Alto commissariato Onu Laura Boldrini e al professore Mario Morcellini hanno presentato due ricerche. La prima sull’immigrazione e l’asilo sui media italiani (realizzata dall’Osservatorio assieme a 7 università, tra cui Lumsa e La Sapienza di Roma) a partire dal 2008; l’altra è invece il “consueto” bilancio semestrale su articoli e servizi televisivi, che si è concentrato sul caso Rosarno. Usato come esempio di alcune distorsioni che persistono, quando si parla di immigrati. Come la cattiva abitudine a non verificare le fonti quando a parlare sono le istituzioni. Durante i giorni di Rosarno, il ministro Maroni parlò di una rivolta provocata dalla troppa tolleranza contro la clandestinità. Chi si prese la briga di vedere quanti dei “rivoltosi” in Calabria erano clandestini? “Abbiamo accertato che il 70% di loro aveva il permesso di soggiorno e molti erano rifugiati”, ha detto la Boldrini. La vicenda di Rosarno dimostra anche che l’immigrazione “va” in prima pagina solo per avvenimenti gravi ed eccezionali. La rivolta degli immigrati è rimasta in prima, su molte testate, dall’8 al 14 gennaio. Poi la notizia si è “sgonfiata”, fagocitata dal terremoto di Haiti (il 12 gennaio). Guardando da un’angolazione più ampia, l’Osservatorio rileva come di immigrazione si parli al 52,8% in articoli legati alla cronaca nera e giudiziaria, al 34% in pezzi legati al dibattito normativo in materia, al 5,3% quando ci sono sbarchi e solo nel 7,9% dei casi per parlare di cultura e integrazione. Così facendo, i giornali continuano a riprodurre un’immagine “congelata” del fenomeno. Per cui l’immigrazione resta un’emergenza e in cui la notizia viene veicolata solo da un particolare: la nazionalità di chi ha agito. In tv va pure peggio: la cronaca nera accompagna l’immigrazione per il 58,7% dei servizi. Titoli come “Rumeni in manette”, piuttosto che “La banda dei nigeriani colpisce ancora” o “Clandestino accusato di stupro” restano ben presenti. “I giornalisti – ha detto il professor Morcellini, preside della facoltà di Scienze delle Comunicazioni a La Sapienza – contribuiscono a una gigantografia della paura per la quale l’immigrato resta legato alla criminalità”. Analizzando il caso Rosarno, però, emergono aspetti non del tutto negativi. La ricerca delle cause della rivolta è stata più articolata del solito. Ma, sempre come insegna Rosarno, il fenomeno viene analizzato con attenzione in situazioni estreme. Nella normalità si “ragiona” – e spesso si scrive – per stereotipi. Le buone notizie, sulla stampa e in tv, quasi non esistono. Mentre per l’Osservatorio raccontare la normalità dell’immigrazione e darne una visione non conflittuale costituirebbe un passo in avanti verso l’integrazione. L’Osservatorio ha analizzato, nel 2008, un corpus di 1540 notizie: solo 85 non erano “cattive”. Ma quelle davvero “buone” – come storie emblematiche di convivenza – sono solo 57, ovvero il 3,7% del totale. L’informazione locale è più orientata alle “good news”. La prossimità con la notizia e la necessità di fornire soluzioni sui territori porta molti giornali a proporre chiavi di lettura e rappresentazioni meno stereotipiche. (E. B.)


il Riformista 21.7.10
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