venerdì 23 luglio 2010
Repubblica 23.7.10
Bersani stoppa Vendola: errore dividerci ora
di Goffredo de Marchis
ROMA - L' autocandidatura di Nichi Vendola s' insinua dentro il Pd. È lo schema Puglia dove a chiedere le primarie sconfiggendo il piano di Massimo D' Alema non furono solo gli elettori e la base. Fu la rivolta dei dirigenti democratici locali, che preferirono il governatore uscente al candidato scelto dai vertici del partito. Vendola sta gettando una rete che va dagli intellettuali alle associazioni, dalle sue Fabbriche sparse in Italia e all' estero all' appoggio trasversale nei partiti. Ma come per la battaglia pugliese il suo obbiettivo è colpire al cuore il Pd. La riunione dell' altro ieri con dieci parlamentari democratici di ogni provenienza (c' era la prodiana Albertina Soliani, l' ex dc Di Giovampaolo, veltroniani, sinistra interna) ha messo in agitazione la segreteria. Pier Luigi Bersani ha bacchettato Vendola e i partecipanti all' incontro: «Una riunione fuori contesto. Il problema è dall' altra parte del campo, adesso non dobbiamo aprire una discussione tra di noi». I parlamentari coinvolti nella riunione di mercoledì spiegano, precisano. «Abbiamo parlato di iniziative comuni», dice Vincenzo Vita. «Sono stato amico di Leoluca Orlando. So che non bastano le madonne pellegrine», ricorda Roberto Di Giovampaolo. Sarà. Ma l' incontro avrà un bis prima dell' estate. D' Alema alza il muro: «Vendola mette il carro davanti ai buoi». Gliel' ha detto anche a quattr' occhi, la scorsa settimana, durante un colloquio a Bruxelles. Franco Marini lo boccia: «Non c' è bisogno di candidati per sparigliare. Il mio resta Bersani». Goffredo Bettini lo frena: «Adesso è l' ora delle idee. Poi verrà quella del leader». Ma il governatore segue altri sentieri, distanti dalle liturgie partitiche. «Se la situazione precipita lui è l' unico già in campo - "minaccia" l' ex deputato Ds Arturo Scotto -. Se si vota nel 2013 meglio ancora. Girerà l' Italia venti volte e conquisterà il Pd pezzo a pezzo». Uno spicchio democratico ha già subito il fascino della narrazione vendoliana. La corrente di Ignazio Marino sta quasi tutta con lui, a cominciare dal senatore-chirurgo. Lo sostengono anche il responsabile politiche Ue Sandro Gozi, Pippo Civati, Paola Concia. A loro si aggiunge il gruppo riunito l' altro ieri. Walter Veltroni coltiva un feeling con Vendola, ospite domenica della scuola di politica Democratica. Non un rapporto privilegiato però. Perché il leader di Sinistra e libertà punta al dialogo con tutti e perché Veltroni non ha rinunciato all' ambizione di una candidatura in prima persona. Nell' Italia dei Valori l' interlocutore principale è Luigi De Magistris. Ma la spina dorsale della corsa di Nichi non sono i partiti, «corpaccioni moribondi» della politica. In un' intervista al Tg5 ha sentenziato: «Oggi le associazioni formano molto di più l' opinione pubblica». Ne ha citate tre: Emergency, Libera di don Ciotti e Slow Food di Carlin Petrini.A queste va aggiunta sicuramente la vicinanza con l' Arci. Anche l' approccio con il mondo intellettuale ha una sua originalità. Non mancano, tra i suoi fan, volti noti come Dario Foe Fiorella Mannoia. Molto più vicini a Vendola sono però gli scrittori pugliesi Nicola Lagioia e Mario Desiati, editor di Minimun Fax, Einaudi e altre case editrici. Lagioia e Desiati sono stati con il governatore anche all' Expo di Shangai, per dire. Amico di Vendola è il produttore della Fandango Domenico Procacci. E la Puglia Film Commission costituisce la struttura su cui Vendola poggia la sua comunicazione. «La rete di Nichi non sarà un' operazione ingegneristica. Puntiamo ad allargare la fascia di popolo che si riconosce in lui», dice il suo braccio destro Nicola Fratoianni, pisano emigrato al Sud. Scotto aggiunge: «Non basta il consenso di Sel per partecipare alle primarie e vincerle». Sinistra e libertà ha certamente un ruolo nell' autocandidatura, in particolare con le figure di spicco Gennaro Migliore e Franco Giordano. Il Manifesto ha già fatto il suo endorsement ma anche gli imprenditori del Nord Est sono rimasti colpiti dalla novità dell' ex comunista leader della sinistra radicale come ha raccontato Ilvo Diamanti nella Bussola. Come è successoa David Thorne, l' ambasciatore Usa a Roma incontrato a maggio, che sarà in vacanza in Salento ad agosto e rivedrà il governatore. Poi c' è il fulcro della sua azione politica nazionale. Le Fabbriche di Nichi, luogo di aggregazione di senza partito e di tutte le tendenze: 338 in Italia, 16 all' estero una addirittura in Thailandia. Non a caso al loro meeting Vendola ha scelto di lanciare la sua rincorsa. La rete di partenza che può diventare molto più grande.
Repubblica 23.7.10
Ebla, la mia scoperta rivoluzionaria
di anna Ottani Cavina
Accessibile e molto informale, Matthiae è rientrato da Londra, dove ha occupato il vertice del settimo Congresso Internazionale di Archeologia del Vicino Oriente. Un congresso che lui stesso ha lanciato nel 1998, sfidando scetticismo e tensioni nella scacchiera politica internazionale e che oggi, mi dice, «è una bella realtà di confronto scientifico e soprattutto di dialogo fra studiosi di quaranta paesi. Hanno vinto il coraggio, la tenacia, la speranza di pace». Subito, da queste prime parole, si capisce come 46 campagne di scavo nel cuore della Siria, condotte a partire dagli anni Sessanta, non abbiano allontanato Matthiae dal nostro tempestoso presente. «L' archeologo non è, come spesso si pensa, un ricercatore con la testa rivolta all' indietro. È vero il contrario, almeno nell' archeologia più moderna. La nostra ricerca corre su un sentiero arduo di conoscenza che si pone tra l' identità di ciò che ci appare familiare del passato e l' alterità di ciò che in esso ci sembra estraneo». Ecco tracciato un itinerario che, a percorrerlo tutti, ci condurrebbe nei giardini incantati della tolleranza. Perché Matthiae, che parla un arabo fluente, è un archeologo di vere passioni, convinto che la ricerca favorisca il dialogo; un intellettuale schierato che, oltre le ideologie, lavora per l' amicizia fra Oriente e Occidente mettendo in campo delle strategie che non sono lontane da quelle di Daniel Barenboim e Edward Said.Raccontare con ordine. Riesce molto difficile perché Matthiae va in scena su paesaggi diversi, tutti vissuti e complementari. C' è il romanzesco degli scavi condotti nelle terre di Lawrence d' Arabia e i referti oggettivi dell' archeologia stratigrafica; c' è la vita bohème con gli operai di un villaggio siriano «che diviene una nuova propria casa» e l' appartenenza all' accademia blasée (professore alla Sapienza di Roma, ha Ebla non c' era. In quello che è stato il libro di seduzione di noi bambini del dopoguerra, Civiltà sepolte di C. W. Ceram (prefazione nobilissima di Bianchi Bandinelli), Ebla non c' era. Il terzo avventuroso capitolo del volume di Ceram, "Il libro delle torri", raccontava di Ninive, Assiria, Babele. Nella storia del Vicino Oriente, ancora mancava quella che è la più grande scoperta archeologica del secondo Novecento, la scoperta di Ebla, "città del trono" del III millennio avanti Cristo. Una scoperta che ha cambiato le nostre conoscenze, che ha introdotto nuove prospettive nell' interpretazione del passato, nuove dialettiche nel presente (fra le polarità di Oriente e Occidente) e che spetta a un archeologo italiano, Paoricevuto gli onori più alti, anche la spada dell' Académie française). Su Ebla, scoperta ormai leggendaria (lì si sono incontrati Giorgio Napolitano e il presidente della Siria Bashar al-Assad), Einaudi pubblica oggi un nuovo volume ricchissimo di novità e integrazioni, in calce la dedica "Alle donne e agli uomini di Siria" ( Ebla. La città del trono, pagg. 552, euro 34). Al professore chiedo di ricordare. Luglio 1962: «Avevo 22 anni. Era il mio primo viaggio in Oriente per uno scavo in Turchia. Decisi di passare dalla Siria, terreno della mia tesi di laurea con Sabatino Moscati. Un bacino in basalto scolpito su tre facce, nei magazzini del museo di Aleppo, mi parve subito un' eccezionale testimonianza di un' ignota cultura figurativa del XIX secolo a. C., mille anni più antica di quanto si immaginava al museo. Il reperto proveniva da Tell Mardikh, una collina più a sud, a ovest dell' Eufrate, intatta e impressionante per dimensioni e morfologia». Stipulato l' accordo fra Roma e Damasco, il giovane archeologoè di nuovo ad Aleppo, deciso a scavare a Tell Mardick, ma sgomento per l' estensione del sito, 56 ettari. Nel mitico Hotel Baron, quello di Lawrence d' Arabia e di Agatha Christie, di William Saroyan e di Gustavo Adolfo di Svezia, ha luogo l' incontro con Anton Moortgat, uno dei grandi dell' archeologia tedesca. «Con qualche timidezza gli chiesi che ne pensava di Tell Mardikh. Rifletté non poco, poi disse "Se l' università di Roma chiederà la concessione di Tell Mardikh, non se ne pentirà". Lo considerai un oracolo e mille volte, in occasione di scoperte importanti, ho ripensato a quel vaticinio». Una colorazione favolosa e romantica accompagna la sequenza serrata delle scoperte: 1968, il torso basaltico del re Ibbit-Lim permette l' identificazione del sito con l' antica città di Ebla ("roccia bianca") che a lungo si era cercata più a nord; 1974, il ritrovamento degli Archivi reali (17.050 frammenti di tavolette cuneiformi del terzo millennio, disposte con ordine sui lignei scaffali del Palazzo Reale) restituisce lo spaccato economico e sociale di un' aggregazione che oggi chiamiamo città. È un ritrovamento che ha rivoluzionato la storia del mondo antico. Ancora: «"Gli italiani a Ebla hanno scoperto una nuova lingua, una nuova cultura, una nuova storia". Quando lessi questa dichiarazione di Ignace J. Gelb, il grande assiriologo di Chicago, pensai subito che quel risultato superava i più selvaggi e sfrenati sogni di qualunque archeologo. Ebla, per l' archeologiae peri testi, è oggi il più importante e meglio conosciuto centro urbano della cosiddetta civiltà urbana secondaria, affermatasi attorno al 2500 a. C. in Alta Mesopotamia e in Alta Siria, lontano dal corso di un grande fiume. Ebla fu in quegli anni la protagonista di una sfida vittoriosa lanciata per la prima volta all' umanità: poteva il modello della città, che ancora oggi per noi è sinonimo di civiltà, affermarsi lontano da fiumi come il Nilo, l' Eufrate e il Tigri? Ebla trasformò quel modello e lo adattò in modo mirabile». Ricordo al professore di avere visitato gli scavi di Ebla, costruita su un' altura calcarea con l' Acropoli e la Città Bassa anulare. Ci condusse Federico Zeri che aveva acquisito la fototeca di Guglielmo Matthiae, grande medievista e soprintendente all' Aquila e a Roma. «Debbo molto a mio padre Guglielmo, perché la ricerca di uno storico dell' arte del Medioevo, sul ceppo saldo di Pietro Toesca, già allora era una contaminazione tra storia dell' arte e archeologia. Poi vennero maestri come Bianchi Bandinelli. Nel mio mestiere, ineguagliabile, è la fisicità della scoperta. Si salda alla percezione della distanza, di una certa opacità del passato che impone a noi, uomini d' Occidente, un radicale cambiamento di prospettiva. Ci riteniamo orgogliosamente detentori di ogni chiave di conoscenza e dimentichiamo che i nostri strumenti critici sono stati forgiati - dall' Ellenismo al Vasari a tutto l' Ottocento - per misurarsi con l' arte del mondo greco, romano, europeo. Ma sono davvero efficaci di fronte a un mirabile ritratto di un faraone del XIX secolo a. C.?». Le parole di Matthiae hanno subìto a questo punto un' accelerazione improvvisa, questione di tempo (abbiamo i minuti contati) e questione, per così dire, di cuore perché il dialogo con l' Oriente è pieno di palpiti e di domande. «Nell' archeologia globale e integrata di oggi, le opportunità che si aprono sono infinite, da quando non ci si è più limitati a chiedere dove e quando, ma in che modo e perché. Dalla classificazione all' interpretazione, la ricostruzione del passato ha perso il carattere ozioso e pallido dell' archeologia di un tempo, per ricercare uomini fatti di sangue e di idee, esseri veri, non ombre indistinte. Con il progredire delle tecniche e dell' intelligenza artificiale, il rischio è di scambiare le tecniche, che sono mezzi, con i fini, che sono le interpretazioni. E appagarsi dei metodi, dimenticando la storia». Nella luce scialbata della sera urgono mille domande sulla storia, quella storia di uomini "altri", lontani e diversi da noi. Al lavoro su due nuove campagne di scavo, il professore è già in volo per la Siria.
Corriere della Sera 22.7.10
La scrittrice Angela Terzani Staude condivise con il marito Tiziano la vita in Asia. Oggi ripercorre le strade dell' amata Cina. E trova il mondo nuovo che Mao non immaginava
Ritorno in Cina
di Angela Terzani Staude
Corriamo lungo un' autostrada a sei corsie, passiamo accanto a colonie di grattacieli residenziali. Non riconosco più niente Dalle strade sono scomparse le masse inoperose. Sono al lavoro ora, nelle fabbriche, negli uffici, nei centri commerciali. Forse ho sbagliato a dire «vado a Pechino». Pechino non esiste più. Esiste una nuova, faraonica capitale
Mi chiedo se senza Mao il miracolo economico si poteva fare: quelle masse ubbidienti sono diventate una grande forza lavoro il Reportage La scrittrice Angela Terzani Staude condivise con il marito Tiziano la vita in Asia. Oggi ripercorre le strade dell' amata Cina. E trova il mondo nuovo che Mao non immaginava in Cina **** Biografie Da Firenze all' Asia Angela Terzani Staude è nata a Firenze da genitori tedeschi. È cresciuta in Italia e ha studiato a Monaco. Nel 1961 ha sposato Tiziano Terzani. Dal 1972 ha vissuto con lui e i figli Folco e Saskia in Asia: Singapore, Pechino, Tokio, Bangkok, New Delhi. Oltre a Giorni giapponesi e Giorni cinesi (Longanesi), ha pubblicato Giappone: cibo come arte (Rizzoli) Inviato e scrittore Tiziano Terzani, morto di cancro a 65 anni nel 2004, è stato corrispondente in Asia per giornali italiani e stranieri e ha scritto numerosi libri: da Pelle di leopardo (' 73) e Giai Phong! (' 76) a Un altro giro di giostra (2004). Postumo è uscito La fine è il mio inizio.
«E la via Chang' an dov' è finita?» chiedo al tassista che dal modernissimo aeroporto di Pechino mi porta in città. Corriamo lungo un' autostrada a sei corsie, percorsa nelle due direzioni da file di belle macchine, Mercedes, Bmw, anche una Ferrari. Passiamo accanto a colonie di grattacieli residenziali. Non riconosco più niente. Davvero, quella grande vecchia strada della Lunga Pace che da est a ovest attraversava la capitale e sulla quale noi abitavamo fino all' espulsione di Tiziano nel 1984, dov' è? «Laggiù», fa lui finalmente. Eccola, ora la vedo, la nostra Chang' an! Si è infilata tra le zampe della seconda delle cinque autostrade circolari che oggi cingono Pechino, quella su cui, alta sopra il CBD, il nuovo distretto degli affari, sto viaggiando. È rimasta incastrata fra due muraglie di palazzoni e grandi alberghi i quali, mi dice il tassista, appartengono tutti alla famiglia di Deng Xiaoping. Deng Xiaoping! Era stato lui che andando al potere negli anni Ottanta, gli anni nostri, e trovandosi davanti un Paese sull' orlo della bancarotta, lanciò lo slogan, inaudito per un leader comunista: «Essere ricchi è glorioso!». Riuscì così a invertire il corso fallimentare dell' economia socialista e ad avviare la Cina verso il capitalismo di Stato. Erano passati trent' anni, allora, da quando da una tribuna eretta sulla piazza Tiananmen Mao aveva annunciato al mondo la vittoria del comunismo in Cina. Era il primo ottobre 1949, una data che segnò la storia e accese in noi sogni per il futuro. Quando ci arrivammo, a Pechino, trent' anni dopo, la nuova linea di Deng era ancora in discussione e l' economia languiva. Ne sorridevamo, noi dei Paesi capitalisti che fiorivano con la libera economia di mercato. Oggi, altri trent' anni dopo, siamo noi a languire e la Cina a essere la locomotiva trainante dell' economia globale. Com' è andata? Mi guardo attorno. Forse ho sbagliato a dire «vado a Pechino». Pechino non esiste più. Esiste una nuova, faraonica capitale di 12 milioni di anime che si chiama Beijing. Il suo cielo non è più quello infinitamente azzurro della Grande pianura settentrionale a cui tornano le mie nostalgie. È scomparso, insieme al sole, la luna e le stelle, in una coltre di smog senza luci né ombre che in due settimane di viaggi non ho visto mai sollevarsi. Dalle strade sono scomparse le masse inoperose che vagavano, mute e sempre con una sporta in mano, in cerca di un ortaggio d' occasione. Sono al lavoro ora, nelle fabbriche, negli uffici, nei centri commerciali, o viaggiano sotto terra nella vasta nuova rete di metropolitane. I ricchi invece, quelli che hanno saputo mettere bene a frutto il momento, sono chiusi nelle loro nuove macchine, nei loro ritrovi di lusso, e non si vedono più. Passiamo davanti alla Città Proibita, ritinta di un viola all' anilina, ed entriamo in quel che resta degli antichi hutong, gli affascinanti vicoli intorno ai laghi imperiali in cui abitava la gente di Pechino. Ma i loro portoni non si aprono più sulle case tradizionali dai molti cortili, bensì su bar e negozietti di souvenir. Qui Mao è tornato in voga in un frivolo abbinamento con Obama, stampato su borsellini, tazze e magliette e siglato «ObaMao». Mi chiedo però se senza Mao, che con la sua «rivoluzione permanente» riuscì a togliere ai cinesi perfino il ricordo del loro atavico individualismo, il miracolo economico cinese si poteva fare. I suoi successori non hanno dovuto far altro che prendere quelle masse, diventate umili e ubbidienti, e trasformarle in una forza lavoro che, sommata alla nuova tecnologia, sta facendo della Cina una formidabile, forse imbattibile macchina di produzione. Le riserve estere del Paese ammontano a 2.400 miliardi di dollari, ma pare che in realtà siano due, se non tre volte maggiori. «Se la Cina si sveglia, il mondo tremerà», aveva predetto già Napoleone. Il segreto del miracolo economico del Paese sta anche nell' immensità dei suoi numeri. «Quanti siete, voi in Norvegia?» aveva chiesto un ministro cinese a un investitore di Oslo che mi parla dei suoi quindici anni di esperienze in Cina. «Quattro milioni?!». Il ministro era schiantato dal ridere, quasi non si riprendeva. «E perché non li ha portati tutti per il tè?!». La Cina di abitanti ne ha un miliardo e 300 milioni, di cui 700 milioni sono contadini, quelli per i quali Mao aveva fatto la sua rivoluzione oggi passata di moda. Senza più la protezione delle comuni popolari, con le terre rosicchiate dagli avidi costruttori, questi oggi vagano per il Paese offrendosi come manodopera a bassissimo costo. Appena lasciato il villaggio diventano «migratori», persone senza hukou, l' indispensabile permesso di residenza, e quindi ufficialmente non esistono più: sono zombi, fantasmi. «Schiavi», dico io e il norvegese mi dà ragione. Di loro sono affamate le fabbriche. Li pagano non più di 100, 150 dollari Usa al mese, più vitto e alloggio in dormitori da cui però non escono perché se li ferma la polizia li rispedisce diritti ai loro villaggi. Siamo in un ristorante della catena Golden Jaguar (il nome si riferisce all' automobile, non all' animale!), gigantesco, sfarzoso, come piacciono ora. Gli sciami delle inservienti che ci avviluppano vestite, qui come in ogni altro ristorante della Cina, in vezzose variazioni sul tema «moda Shanghai anni Trenta», vengono dalla provincia e lavorano alle stesse condizioni dei contadini-operai. Penso ai «compagni» che in passato ci buttavano davanti i piatti bisunti e mi sorprendo della loro professionalità. Siamo gli ultimi a uscire e già il personale corre a radunarsi intorno a un capo che fa il punto: chi è stato lento, scortese o negligente oggi; a cosa badare domani. Ogni giorno, in ogni ufficio, fabbrica, scuola, shopping center dell' immenso Paese li tengono in riga così. «Schiavi», mi ridico io. Eppure i cinesi non sono mai stati schiavi nella loro lunga storia. Sanno pazientare, questo sì, ma viene sempre il giorno in cui non ne possono più. Una fila di scioperi a maggio e giugno, scatenati da tredici suicidi in una sola settimana alla Foxconn di Shenzhen, la grande multinazionale di Taiwan che produce componenti per computer e impiega un milione di operai cinesi, ed esplosi poi anche nelle fabbriche cinesi della Honda e della Toyota, sono un' avvisaglia di come gli ingranaggi di questa economia potrebbero incepparsi. Sia la Foxconn che i giapponesi, alla fine hanno dovuto aumentare i salari dal 50 al 100 per cento. Il governo ha mediato, ma si è anche preoccupato: sono aumenti questi, hanno scritto i suoi organi di stampa, «che mettono a repentaglio il vantaggio economico della Cina che consiste precisamente nell' avere una manodopera a basso costo». Questo governo risiede, come prima quello di Mao, a Zhongnanhai, nei quartieri segreti del Lago di mezzo della Città Proibita. Si compone di tecnocrati che tutti hanno alle spalle qualche anno di esperienza all' estero e tutti sanno parlare un po' d' inglese. «Hanno deciso d' essere intelligenti», commenta Shao, un vecchio amico e uomo d' affari nato a Shanghai, emigrato a Hong Kong, ora di passaggio a Pechino, così deluso da qualsiasi governo che passa il tempo ballando il tango. A fianco del governo c' è ancora il vecchio partito comunista, che col suo minaccioso apparato di pubblica sicurezza e polizia veglia affinché non ci sia opposizione nel Paese. Poliziotti in giacchetta verde pisello perlustrano ogni strada, mentre gli agenti in borghese, detti «gli invisibili» dal popolo di Pechino, dopo le proteste e il sangue del 1989 pullulano ancora in piazza Tiananmen. È cambiata l' atmosfera, lì. Mentre ai nostri tempi i pechinesi ci andavano a far volare l' aquilone o a dormire sul lastrico nelle torride notti estive, ora non ci va più nessuno. Capitalismo di Stato + partito comunista: cosa dà? Un ibrido mai visto prima. Shao lo chiama «fascismo». Il governo ha un suo megaprogetto: fare della Cina un Paese che in ogni singolo settore sia all' avanguardia mondiale. Per anni ci si è preparato in silenzio. Poi, nel 2008, ha gettato la maschera e con il suo show iperbolico e supertecnologico per l' apertura delle Olimpiadi a Pechino, ha strabiliato il mondo. Per arrivare al suo trionfo non è ricorso ai soliti politici o ai loro protetti, ma si è affidato ai migliori professionisti sulla scena internazionale. Ed è qui che vedo un segno della nuova «intelligenza». Col risultato che oggi la Cina è piena di stupefacenti esempi di architettura moderna. Gli aeroporti che sembrano volare, gli snelli grattacieli, lo stadio a «Nido d' uccello» di Pechino, la baia per barche a vela di Qingdao, l' incrocio di quattro autostrade sopraelevate nel cielo di Shanghai e la stessa sua «city» di Pudong, sono tutti progetti concepiti da famosissimi architetti occidentali. Mi pare sia segno di un' apertura al mondo diametralmente opposta alla diffidente chiusura di Mao. Ma potrebbe anche celare una volontà di potenza smisurata. Una grossa mano la Cina l' ha avuta dai «cinesi d' oltremare», quelli che per fame o ragioni politiche sono emigrati negli ultimi 150 anni. All' estero hanno potuto farsi una professione, affermarsi, ma appena la patria li ha richiamati sono accorsi. I loro passaporti sono oggi americani, canadesi, australiani, britannici, malesi, tailandesi, singaporiani. Ma il loro cuore è rimasto cinese. Pur guardandoli un po' come i cugini poveri, è su di loro che la Cina vuole fare affidamento in futuro. Perché il revanscismo cinese c' è. La città di Pechino spende al giorno un milione di renminbi, 145.000 dollari, per tenere aperta al pubblico la zona dello stadio olimpico. «E perché?» chiedo all' amica cinese che mi accompagna, una pittrice che pare uscita da un dipinto della dinastia Tang. «Per la faccia!» sbotta lei, senza esitare. Quella, dopo secoli di sconfitte e mortificazioni, i cinesi la vogliono a tutti i costi recuperare. Ed è per questo che la Cina vorrà fare a meno degli stranieri. Migliaia di professionisti affiliati alla prestigiosa Accademia delle scienze, di professori universitari pagati bene, di maestri di scuola che guadagnano cinque volte quanto un operaio, sono motivati ad alzare il livello culturale del Paese che nei decenni della «grande rivoluzione proletaria socialista» era caduto a terra. E già ora, nelle enclave costruite per i «consiglieri stranieri» in zona aeroporto di Pechino, il 95 per cento delle ville è occupato da professionisti cinesi. Gli stranieri se ne sono dovuti andare. Certo, troverà sempre accoglienza chi investe e produce in Cina; o chi si presta, per soldi, a sedersi accanto a un uomo d' affari cinese durante una trattativa, visto che la presenza di un bianco dà «faccia»; o chi porta i cani dei cinesi a fare pipì, come quel giovane americano che con tre bassotti al guinzaglio camminava per una strada di Shanghai; o anche chi, come la coppietta di francesi in abiti rococò, ho visto incedere su altissimi trampoli per il Xintiandi, l' elegante piccolo rettangolo di svaghi europei di Shanghai. Assoldata da bistrot e boutique, aveva il compito di farsi fotografare con gli avventori. Alla peggio, mi sono detta, faremo così. Il way of life preferito però è quello americano. L' immaginario dell' intera nazione si muove in quella direzione. Nelle due strade che un tempo erano le più eleganti della Cina, la Wangfujin di Pechino e la Nanjin Road di Shanghai, oggi piastrellate di bianco e chiuse al traffico, strillano gli striscioni pubblicitari, blaterano i videoschermi e si aggirano masse di ragazze cinesi travestite nelle più carnevalesche interpretazioni della moda giovanile del West. Invitata al compleanno di un ricco bambino di Shanghai, vedo troneggiare sulla torta una Maserati rossa fiammante e canto con gli altri «Happy birthday to you». Il papà, in bermuda e ciabatte, fa il barbecue in giardino e la sera, accanto alle bacchette, ci sono anche forchetta e coltello. Hollywood, i reality show, i jeans, le t-shirt, le Nike: dovunque l' aspirazione è quella. Incontrarsi al Kentucky Fried Chicken, al McDonald' s, allo Starbuck' s Café è considerato il non plus ultra della sciccheria. È proprio a uno Starbuck' s, quello di fronte al quartiere diplomatico di Sanlitun, che m' incontro con Rick, l' amico d' infanzia dei nostri figli a Hong Kong, oggi il capo per la Cina della più grande società di consulenza americana. «Dove pensano di andare?» gli chiedo. Esita. Poi dice: «Nessuno qui se lo chiede al momento. Vanno. E questo è eccitante». Hanno ancora nelle ossa il ricordo della fame, quindi lavorano. Non c' è sabato o domenica per chi vuole farcela, non c' è mai una vacanza, non ci sono serate di svago. Cominci in un ufficio aprendo la porta ai clienti per 200 dollari al mese e, se continui a portarti avanti con studi e corsi serali, puoi arrivare a diventare responsabile di un progetto e prenderne anche 12.000. Belle opportunità, ignote a noi, con cui questi giovani rampanti - «materialistici, arroganti, senza valori spirituali» li descrive Shao - si comprano gli status symbol del momento. I più furbi fabbricano cose inutili come il vuvuzela e ne vendono un milione di pezzi; o inventano la pipa per fumare la marijuana e la vendono in Canada... «Ma a un costo», diceva Rick. «La corruzione». Più denaro circola e più la corruzione si fa rampante. Ed è questa una delle nuvole più nere che incombono sulla pace sociale cinese. In questo Paese in cui non è permesso d' avere più di un bambino, c' è chi ne sfoggia due, tanto per far capire che lui le conoscenze le ha; e chi con la macchina entra in una strada dal senso vietato e si diverte, quando il poliziotto gli fa la multa, perché sa di avere i mezzi per farsela annullare. Ma c' è anche chi soffre amaramente perché niente oggi si ottiene se non «entrando dalla porta di servizio». Da quando l' accesso a scuole, università, ospedali, a pensioni e assicurazioni non è più garantito dallo Stato, ognuno deve procurarselo da sé. La pittrice mi diceva che era riuscita, con una grossa bustarella, a convincere un chirurgo a operare suo padre, malato di cancro, senza farlo aspettare dei mesi. A metà operazione il chirurgo si è affacciato alla porta: «Sono stanco, non ce la faccio a continuare...». Lei ha capito e gli ha allungato tutto quel che aveva con sé. Il padre poi è morto e lei oggi odia il suo Paese, vorrebbe emigrare. Non pochi sono amareggiati come lei. Viaggiando in treno da Qingdao a Shanghai - dieci ore, ma che treno, che stazioni moderne! - vedo, invece dei campi arati a mano che ricordavo, grandi estensioni di colture intensive che si alternano a fabbriche, fabbriche, fabbriche. Il cielo è beige per le loro mefitiche esalazioni. A Jinan, l' antica capitale dello Shandong, la ferrovia costeggia un fiumiciattolo nero che ribolle di schiume verdi e gialle. Scoppierà la peste! penso. Il mitico delta dello Yangzi fra Shanghai e Hangzhou - lo ricordo idillico coi suoi mille canali, le piccole zattere cariche di barili col vino di Shaoxing, i gelsi scuri coi bachi da seta - si sta trasformando in una zona industriale senza soluzione di continuità. Qui scrivevano i poeti dell' epoca Song e qui, nel millennio successivo, si ritiravano i gentiluomini confuciani a comporre versi nei giardini di Suzhou, a guardare la luna specchiarsi nel lago di Hangzhou. Tutto viene preso in mano da aziende turistiche, tutto diventa una fiorente Disneyland. Solo l' arte languisce, e la natura. E forse anche l' uomo. Chi invece vuol vedere la città del futuro, vada a Shanghai! Negletta da Mao per punirla del suo passato capitalista, Shanghai è diventata la vedetta proprio di quella oggi tanto glorificata visione del mondo. La sua storia è ancora visibile dovunque. La magica curva del fiume Huangpu rimane segnata dai possenti edifici d' epoca del Bund; sotto i fitti piccoli platani della vecchia concessione francese, le ville - in cui hanno tramato e peccato i protagonisti internazionali di tanta storia del Novecento - sono passate nelle mani dei nuovi ricchi cinesi; nei boschi di grattacieli sfavilla la sete di danaro dei nuovi capitalisti del mondo e, subito dietro, in una sterminata, inguardabile periferia, fatica il resto dei 18 milioni di persone che abitano questa formidabile città. Si ha l' impressione che la Cina, così come i cinesi oggi se la raccontano, cominci con Shanghai. Nel suo Museo per la pianificazione urbanistica, la storia, raccontata attraverso fotografie che tappezzano i muri, ignora le guerre dell' oppio, le concessioni cedute agli stranieri, la fine del Celeste impero, la fondazione del p.c. cinese nel 1921, la guerra anti-giapponese, Chiang Kaishek e perfino Mao... per saltare, lesta, ai nostri giorni. Intanto, costruendo strade e ferrovie, abbattendo città e ricostruendole, disfacendo montagne e cambiando il corso delle acque, «playing God», come diceva Tiziano, fingendo d' essere Dio, la Cina è diventata uno dei più grandi inquinatori della terra. Ma già propone di provvedere anche a quello. Cinque dei suoi sette grandi fiumi sono stati dichiarati «non idonei al contatto umano»? Lungo l' intera sua costa, da Tianjin nel nord a Shenzen nel sud, saranno erette colossali installazioni per desalinizzare il mare. La prima, quasi pronta, convoglierà centomila metri cubi d' acqua dolce alle vicine città. L' aria è diventata irrespirabile, il cielo non è più blu? Nuove città, ciascuna per un milione di abitanti, saranno costruite sopra una griglia elettrica che alimenterà le auto; treni superveloci a propulsione magnetica sostituiranno gran parte del traffico a benzina, sia aereo che stradale. Ripartendo dall' aeroporto di Shanghai mi chiedo se potrò dire, come i coniugi Webb quando tornarono dall' Unione Sovietica dopo la Rivoluzione d' ottobre: «Ho visto il futuro, e funziona». «Conosci la storia del cigno nero?» mi aveva chiesto a Pechino l' investitore norvegese. «In un villaggio, da secoli e generazioni tutti i cigni erano sempre stati bianchi. Ed ecco che un giorno arriva in volo un cigno nero. Nessuno lo aveva visto mai prima, cosa pensarne nessuno lo sa».
il Fatto 23.7.10
Duello a distanza
La campagna di Vendola
Alla conquista del Pd: “Il mondo non è più quello di Massimo”
di Luca Telese
La parola d’ordine è: “Io non voglio competere con nessuno, tranne che con Silvio Berlusconi”. Ed è per questo che nella notte dello scontro indiretto tra le due feste e i due leader (la monumentale e centralissima Caracalla che ospitava Massimo D’Alema, la periferica Villa Gordiani che ospitava lui) Nichi Vendola appena scende dal palco si informa sui tam tam che circolano tra coloro che avevano notizie dall’atro comizio: “Guarda che Massimo ti ha attaccato...”. E lui: “Davvero?”.
DUELLO ASIMMETRICO. Sì, è un duello a distanza, che ormai si rinnova da anni. L’uomo del partito contro il leader eretico, il difensore della realpolitik contro il teorico della diversità neoberlingueriana. “Lo conobbi che era un ragazzino della Fgci a metà degli anni Settanta – ha ricordato D’Alema a metà fra l’ironia e il sarcasmo – e Vendola già allora contestava i dirigenti. E le chiavi di lettura di questo duello sono molte: l’eterno paradosso dell’allievo che supera il maestro, le visioni antitetiche della società, il radicalismo contro il massimalismo, Cioè me...”. Ma adesso c’è di più, di mezzo, quasi un macigno. L’autocandidatura di Vendola e poi la proposta del governissimo e delle larghe intese, che li divide: per D’Alema una nuova maggioranza sarebbe “un gesto di responsabilità”. Per Vendola, come sentiremo, “un errore fatale”.
INVASIONE DI CAMPO? E poi il nodo più grosso. Quella che D’Alema e Bersani considerano una vera e propria invasione di campo, l’Opa che Vendola ha lanciato sul quel corposo frammento di elettorato del Pd che in questo momento guarda a lui con simpatia. Infine c’è la politica di alleanze con molti dirigenti del partito. I sondaggi dell’istituto Crespi hanno addirittura assegnato un 5% a Sinistra e libertà, e un 26% al partito di Bersani.
“AFFETTO E DIVERSITÀ”. Eppure, quando a villa Gordiani arrivano le prime voci del guanto di sfida lanciato a Caracalla, il governatore della Puglia risponde in modo spiazzante: “Dovrei dire che, anche quando sento queste cose, io per Massimo continuo a provare affetto, simpatia... Persino una grande ammirazione per il suo senso di persistenza e di caparbietà. Si può dire tutto di lui – osserva Vendola – ma di questi tempi è uno degli ultimi leader, a sinistra che ci mette la faccia, uno dei pochi che combatte”. Certo, accadde anche pochi mesi fa, per le primarie in Puglia. L’ex ministro degli Esteri girò tutta la Puglia ripetendo: “Vendola perderà le primarie, e anche le secondarie”. Oppure: “Vendola è solo contro tutti”. Poi il governatore vinse, contro ogni pronostico, dopo aver ripetuto su tutte le piazze: “Sono io il vero candidato del Pd”. L’idea che questo possa ripetersi crea grande disagio anche a Bersani: “L’autocandidatura di Vendola è fuoricontesto...”.Eisuoifedelissimi,come l’organizzatore Nico Stumpo, aggiungono: “Chi sa se si faranno le primarie e quando”. Ma è l’attacco di D’Alema che a Vendola interessa: “Non si fa politica con la poesia”. Il governatore rilancia così: “Non rispondo, non polemizzo. È bello che si sia innescato un confronto fra di noi. Io credo che con grande civiltà daremo alla gente la possibilità di scegliere tra due visioni”.
“IL GOVERNISSIMO È UNA REPLICA”. Quando si arriva alla politica, si capisce quanto è grande questo divario: “Quando ho letto l’intervista di Massimo sul Corriere della Sera mi sono reso conto quanto si sono divaricati i nostri sguardi, il nostro modo di vedere le cose. Intanto avverto che il governo delle larghe intese, anche dal punto di vista lessicale e linguistico, è un ricordo del passato, una replica stanca... Credo – aggiunge Vendola – che D’Alema continui a guardare il mondo con gli stessi occhiali del 1995... Ma il mondo è cambiato, quella storia è cambiata, il racconto del berlusconismo si è crepato, e noi dobbiamo rimettere al centro un’idea di forte ricambio, l’idea del cambiamento e dell’alternativa”. Il governatore della Puglia di governissimo non ne vuol sapere: “Quella storia, quell’idea della politica si è consumata. Per questo penso che la buona poesia sia meglio dell’iperrealismo. Oggi siamo in un tempo diverso, e i discorsi di Massimo, che continuo ad ascoltare con rispetto, mi danno la prova di quanto è difficile, anche per i politici, andare oltre se stessi superare i propri limiti”.
DA VELTRONI ALLE FESTE. Sta di fatto che la marcia di Vendola sul Pd continua per tutta l’estate infuocata. Domenica sarà alla scuola di politica di Walter Veltroni, e dovrà “giocare fuori casa”, anche se lui non la vede così: “Non vado ad annodare bandoli di correnti, non vado con il microscopio della piccola politica, vado a parlare di opposizione con gente che è interessata come me a costruire il nuovo tempo”. Ma chi sono le sponde di Vendola in questa fase? Il primo, almeno fino a ieri, è stato Nicola Zingaretti, interlocutore pressoché fisso delle tappe romane da più di due anni. I due si conoscono dai tempi della Fgci, di cui Vendola era dirigente nazionale e Zingaretti segretario romano alla fine degli anni Ottanta. Zingaretti fu – anche – uno dei sostenitori della prima campagna elettorale di Vendola alle politiche del 1987. Poi ci sono i riformatori del Pd. Ad esempio Pippo Civati (unico dirigente del Pd invitato agli stati generali, vedi box). E poi molti uomini dell’ex correntone Ds, che con il governatore della Puglia hanno condiviso la battaglia per il No alla svolta di Occhetto. Nella biografia di Vendola c’è anche un gesto che lo lega agli ulivisti di Romano Prodi (ad esempio Arturo Parisi che lo ha sostenuto in Puglia): infatti, nel 1995, lui fu l’unico deputato di Rifondazione a votare a favore del governo dell’Ulivo (e a pagare con una quarantena nel partito di Bertinotti quel gesto). Dopo un’estate di inviti alle Feste democratiche, e dopo le vacanze, Vendola è atteso all’appuntamento più delicato: la festa nazionale di Torino. Chissà se in questo fitto calendario, si ripeterà questo duello asimmetrico con il lìder maximo: “Lo dico senza nessuna ironia, senza scherno, con molto rispetto. Fino ad oggi il suo pungolo mi ha portato fortuna”.
il Fatto 23.7.10
“Nichi? Un prodotto del berlusconismo”
di Wanda Marra
“Vendola? È figlio di Berlusconi. D’altra parte l’ha detto anche lui. Io invece faccio dei ragionamenti politici per i quali si richiede... una certa applicazione. Ho un target un po’ alto”. Alla fine del dibattito di mercoledì sera alla Festa democratica di Roma, Massimo D’Alema, chiacchierando con un paio di giornalisti finalmente si lascia andare. Senza paura di apparire superbo ed elitario. D’altra parte il suo intervento è stato tutto un dialogo, anzi un duello, a distanza con il governatore della Puglia. Un controcanto costante, a volte esplicito e a volte tenuto sotto traccia, allo stile e alle parole vendoliane. Perché “la politica non si fa col racconto, con il linguaggio, con la letteratura, con la poesia. Ma con i contenuti. Anche perché peraltro abbiamo poeti migliori che battono le piazze”. Perché la politica “non si fa con i simboli”, come risponde a chi gli chiede perché il Pd non abbia sostenuto il referendum alla privatizzazione dell’acqua (una delle bandiere di Vendola). Ma la stoccata principale il Lìder Maximo probabilmente la dà con la sua analisi della discesa in campo di Berlusconi che legge come il risultato di lasciare indietro i partiti e la professionalità politica: perché il Cavaliere “è stato il maggior prodotto della società civile”.
La candidatura di Vendola a leader del centrosinistra evidentemente ha sparigliato parecchio, creando non pochi malumori. D’Alema l’ha presa come una sfida personale, dopo la battaglia persa in Puglia sulle primarie. E mercoledì sera – intervistato sul palco da Corradino Mineo – sceglie uno stile che più d’alemiano non potrebbe essere: parla di crisi e di economia, di disparità Nord-Sud, di legge elettorale, delle stragi di mafia e di lavoro. Non si lascia andare ad immagini, utilizza la razionalità come lettura della realtà, come lama per affondare nelle incongruenze altrui. Non cerca l’applauso, né l’approvazione facile. Più altezzoso che mai, comunque parla ai suoi, prova ancora a detta la sua linea. La platea lo spazio dibattiti è pieno, molti rimangono in piedi è attenta, non si infiamma, ma non si distrae, cerca un’indicazione, una strada, una prospettiva. Sottolinea i passaggi cruciali con un silenzio di concentrazione e con brevi applausi. Sembra aspettare. Ma in qualche modo appare anche smarrita, disillusa. Mentre lui si lancia in una delle sue analisi di scenario politico, nel pubblico un commento colpisce. “Non è lui l’Italia”, sospira una vecchia militante, mentre si sventola con il ventaglio. E un’altra, accanto a lei. “Sì, ma non lo e neanche Vendola”. D’Alema, comunque, la sua la dice: “Se il governo cade è molto probabile che si vada alle elezioni perchè Berlusconi le vuole molto più di Di Pietro. Però a mio giudizio sarebbe più giusto un governo di transizione con chi ci sta, come nel '94”. E boccia però come “una aberrazione” la proposta di Casini che Berlusconi possa essere il premier di un governo tecnico: “Noi non sappiamo se il governo cadrà ma credo che più diciamo che se Berlusconi cade si va alle elezioni, più puntelliamo Berlusconi”. Tradotto: alle elezioni adesso Baffino non ci vuole andare. E poi, a proposito della situazione politica: “Siamo alla scena della caduta dell’impero romano e dobbiamo affrontare una fase nuova ed è per creare un nuovo scenario democratico che ho un intenso lavoro di dibattito con Fini. Fini è Fini”. Le due signore col ventaglio si avvicinano per sentire meglio. Lui dice: “A me interessa un dialogo con la destra democratica e non per fare di Fini l’ennesimo candidato leader del centrosinistra”. E loro: “Vabbè, che D’Alema era di destra lo sapevamo”. Nella sua battaglia a distanza con Vendola, D’Alema alla fine dell’intervento non esita a indicare la sua alternativa: “Ai vertici del partito e come amministratori sta emergendo una giovane classe dirigente che è in grado di prendere le redini del governo del Paese”. E, primo su tutti, cita Nicola Zingaretti.
il Fatto 23.7.10
Pd, il miglior sostegno a B.
di Giuseppe Tamburrano
Un altro discorso del “predellino”? Ma la posta è più alta: lo farà dal predellino di un camion? Una nuova “adunata oceanica” a piazza San Giovanni? Una presenza ancora più invadente sul video?
Che cosa c'è in programma per l'estate di Berlusconi per ridare fiato al suo partito? Rifarà, come suggerisce Cicchitto, rimasto prigioniero della Prima Repubblica, il partito d'antan con sezioni, tessere, congressi? Sposterà uomini, chiamerà altre facce, costituirà nuovi uffici e regie? Possiamo sbizzarrirci per capire come Berlusconi “lavorerà” il partito. Alla stessa guisa della massaia con la pasta, il pane non viene diverso. E la ragione è semplice: quello è il Pdl: un partito “appeso” a Berlusconi. Proliferano fondazioni, associazioni, giornali che esprimono gruppi in cerca di e in lotta interna per spazi di potere: ma operano al servizio di Berlusconi.
IL PDL È UN coacervo di personaggi, notabili, clientele, comitati d'affari che ruotano attorno a Berlusconi. È uno schema associativo neo-feudale con signori, vassalli, valvassori, valvassini che controllano il potere locale, in nome di Berlusconi, che procacciano voti, influenze e svaghi e in cambio ricevono lo status di popolo di Berlusconi. Berlusconi può cambiare l'ordine dei fattori: il prodotto non cambia: è destinato a proliferare nuove “fondazioni”; a sprofondare nella corruzione e ad essere incalzato dall'esercito degli astenuti, già ormai più del 40%. Ma anche questo esercito non ha armi per sloggiare Berlusconi. Il vero sostegno di Berlusconi non è tanto il Pdl quanto il Pd che non è e non appare essere una credibile alternativa. E nella democrazia se non vi è una opposizione percepita come credibile, i governi non cadono ma brancolano.
NON È IL PARTITO il terreno su cui deve misurarsi Berlusconi. La crisi ha investito clamorosamente la sua leadership politica, come è emerso con il contrasto tra lui, Alfano, Letta e altri, oltre che con Fini e Napolitano sulla proposta relativa alle intercettazioni (occorre aggiungere anche il contrasto su un altro terreno con Tremonti).
Un commentatore cauto come Massimo Franco ha definito, sul Corriere della Sera del 21 luglio, Berlusconi “impotente”.
Dia alla crisi endemica del partito lo sbocco politico fisiologico. Si dimetta. Corra il rischio di un governo senza di lui: un rischio allo stato delle cose assai remoto perché non è immaginabile un governo contro il Pdl e la Lega. Si tratterebbe di una crisi extraparlamentare. E poiché non è intervenuto un voto di sfiducia il presidente della Repubblica dovrà rinviare Berlusconi alle Camere. Berlusconi può fare un governo nuovo e un programma “serio” (visto che ha praticamente eretto uno scudo contro le inchieste a suo carico e ha il tempo di dedicarsi ad altro): nascerebbe insomma un Berlusconi bis, il quale verifica la sua maggioranza davanti alle Camere. Sarebbe un passaggio importante perché nel corso della crisi si possono aprire nuovi scenari – Casini? – ed è più agevole il chiarimento con Fini e il confronto anche numerico tra le rispettive forze. Il governo si può rafforzare o in caso contrario si va ad elezioni anticipate. E non è da escludere che possa nascere un governo provvisorio con il compito di cambiare la legge elettorale: cosa che non riuscì a Marini al termine dell'altra legislatura, anche se tutti i materiali erano pronti.
In conclusione, la crisi che attraversa la coalizione di governo è gravissima perché è morale e politica. Una tale crisi non può risolversi nel Pdl, ma deve entrare nella sede naturale che è il Parlamento.
il Riformista 23.7.10
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