il Venerdì di Repubblica 29.7.11
Viaggi pensierosi
Heidegger
La montagna incantata dove lo spirito non andava in vacanza
di Maurizio Ferraris
l’Unità 29.7.11
Viaggi pensierosi
Heidegger
La montagna incantata dove lo spirito non andava in vacanza
di Maurizio Ferraris
l’Unità 29.7.11
Tirato in ballo in ogni polemica interna il leader del Pci viene ancora frainteso
Quando Berlinguer era comunista
Con le polemiche sui casi Tedesco e Penati, a vent’anni esatti dalla sua pubblicazione, si torna a discutere della famosa intervista di Enrico Berlinguer sulla questione morale. Una riflessione che continua a dividere.
di Francesco Cundari
Dall’inizio degli anni Ottanta a oggi, tutte le principali battaglie combattute all’interno della sinistra si sono svolte entro i confini di un identico canovaccio, un immaginario spazio della legittimità nel quale ciascuno, come in una danza, ha compiuto i suoi passi e le sue giravolte, senza mai uscirne. Una sorta di capoeira politico-culturale che ha al centro l’intervista di Enrico Berlinguer sulla questione morale, pubblicata su Repubblica il 28 luglio 1981. Intervista rievocata ancora in questi giorni su tutti i maggiori quotidiani, sull’onda delle inchieste che hanno toccato, questa volta, il Partito democratico, come in tutte le occasioni in cui scandali di qualsiasi genere ed entità hanno coinvolto, lambito o sconvolto gli eredi del Partito comunista italiano. Una specie di nemesi.
Quando il muro di Berlino e il Pci erano ancora in piedi, all’evocazione della questione morale (nel Paese) seguiva regolarmente la rivendicazione della (propria) «diversità comunista» e sempre più spesso la denuncia di un’irreparabile «mutazione genetica» (nei socialisti, colpevoli di avere scelto l’accordo con la Dc). Dall’altra parte, nel corso degli anni, si sarebbe replicato con l’accusa di moralismo, strumentalizzazione politica delle vicende giudiziarie, demonizzazione stalinista dell’avversario (e soprattutto dei partiti concorrenti nel campo della sinistra, come i socialisti). Questo canovaccio, con pochissime modifiche e ancor minori aggiornamenti, sarebbe sopravvissuto alla caduta del muro di Berlino, del Pci e del Psi. Persino il concetto di «diversità comunista», all’apparenza così inseparabile da quel tempo e da quel partito, sarebbe invece sopravvissuto (eccome!) alla fine del comunismo e alla conseguente perdita del corrispondente aggettivo. Tanto che oggi, a difendere la trincea della «diversità» del Pd dagli attacchi di avversari e alleati sulla nuova questione morale che coinvolgerebbe il partito, in prima fila si possono trovare, per dire, Rosy Bindi o Dario Franceschini.
In fondo, era ancora a questo antico copione che si riferiva implicitamente Pier Luigi Bersani nella sua recente lettera al Corriere della Sera, quando spiegava di non rivendicare, di fronte alle polemiche suscitate dai casi Tedesco e Penati, una «diversità genetica» del suo partito, ma di voler dimostrare una «diversità politica».
Il cuore della denuncia berlingueriana, in quella famosa intervista a Eugenio Scalfari, consisteva nella denuncia della «occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti». Col tempo, da una rievocazione all’altra, sarebbe stata raccontata come un atto d’accusa contro i partiti in generale, quindi contro quel «consociativismo» di cui proprio Berlinguer fu additato come il massimo responsabile per buona parte della sua vita, infine direttamente contro l’invadenza della politica. Quasi che il segretario del Partito comunista italiano potesse essere una sorta di liberista ante litteram, un seguace di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, un fautore della separazione tra politica ed economia, delle privatizzazioni e del non-intervento dello Stato.
L’obiettivo polemico di Berlinguer erano invece i partiti di governo e il loro sistema di potere. Quello che poneva era, innanzi tutto, un problema democratico. La causa della degenerazione, per lui, era la mancanza di ricambio, il blocco del sistema, il veto (di origine internazionale) all’accesso dei comunisti al governo.
«Le cause politiche che hanno provocato questo sfascio morale: me ne dica una», lo incalza Scalfari. «Le dico quella che, secondo me, è la causa prima e decisiva: la discriminazione contro di noi», risponde seccamente il segretario del Pci.
In ogni caso, quell’intervista avrebbe suscitato molti dubbi anche nel partito, e persino tra i dirigenti più vicini a Berlinguer. «Le cose sono dette in modo irritante annotava in quei giorni nel suo diario Alessandro Natta gli altri sono ladri, noi non abbiamo voluto diventarlo! C’è una verità sostanziale, ma il tono è moralistico, settario, nel senso di una superiorità da eletti, da puri». E ancora: «Il rischio che la critica delle pratiche in atto possa divenire critica della funzione dei partiti c’è, che la condanna appaia generale e sommaria, che il metro di giudizio risulti quello morale e non quello politico... che la contrapposizione tra gli altri e noi diventi così profonda da non lasciare margine a nessuna politica, da isolarci, da alimentare una intransigenza morale, una denuncia radicale ma sterile». Difficile negare, comunque la si pensi nel merito, che molto di queste previsioni si sarebbe rivelato azzeccato. Anche oggi.
D’altra parte, la discussione sulla figura di Berlinguer, sulla necessità di riscoprirlo o invece di «dimenticarlo», per usare l’urticante espressione adottata da Miriam Mafai in un suo saggio (Dimenticare Berlinguer, Donzelli), sarebbe rimasta sempre legata a quella intervista e alle relative polemiche. Probabilmente anche più del giusto, per un leader politico che per formazione, volontà e prestigio fu innanzi tutto un leader internazionale, le cui prese di posizione eterodosse all’interno del movimento comunista finivano sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Un leader impegnato prima di ogni altra cosa nell’impossibile impresa di favorire un’evoluzione democratica del socialismo reale. Di qui il tentativo fallito dell’eurocomunismo, l’impegno nella distensione, la costante oscillazione tra strappo e rivendicazione del proprio legame internazionale. Un leader che proprio per questo sarebbe stato sempre ricordato come un punto di riferimento essenziale, da tutti coloro che quel sistema volevano cambiarlo, a cominciare da Mikhail Gorbaciov.
l’Unità 29.7.11
Questione morale e problema politico
di Michele Prospero
Chi l’avrebbe mai detto che il colloquio di Berlinguer sulla questione morale sarebbe diventato il manifesto dell’antipolitica?
In quell’intervista a Scalfari di trent’anni fa la denuncia della degenerazione dei partiti era molto forte. Per certi versi, il leader comunista recuperava una linea sotterranea, sempre presente nella cultura politica italiana dell’Ottocento, che, già con Minghetti, temeva una inevitabile frizione tra il partito e l’amministrazione. A un governo degli onesti contro il malaffare si appellavano spesso nel secondo dopoguerra alcuni ambienti politici ed economici vicini ai repubblicani. Soprattutto Visentini vi faceva affidamento, trovando talvolta orecchie sensibili anche a sinistra allorché essa ammiccava a governi “diversi”. Ma Berlinguer non era un epigono della destra storica e nemmeno una quinta colonna di influenti minoranze tecnocratiche. Il suo grido contro l’invasività della politica non era certo un invito a sbarazzarsi dei partiti in nome della autonomia del potere economico. Quello che su Repubblica descriveva a tinte fosche la ormai degenere realtà di partito era un Berlinguer in difficoltà e costretto sulla difensiva. La politica della solidarietà nazionale si era arenata. La convergenza tra la Dc del preambolo (anticomunista) e il nuovo Psi (craxiano) era solo agli inizi ma già metteva fuori gioco il Pci. Quel rapporto di arido controllo del potere, che diede vita al pentapartito, in effetti approfondì la crisi storica della prima repubblica. La Dc conservava il suo potere coalizionale cedendo però la guida del governo a formazioni molto minoritarie. Il Psi acquisiva una centralità sistemica ben remunerata ma l’onda lunga dei consensi tardava a produrre effetti. Quella convulsa fase determinò, con la deroga esiziale alla regola aurea che vuole Palazzo Chigi appannaggio del partito di maggioranza relativa, anche una mutazione genetica dei socialisti, come snaturati per un eccesso di potere in confronto
alle forze effettive raccolte nelle urne. Rispetto a questo sistema politico, Berlinguer cavalcava la carta della ripulsa totale dei rapporti di complicità stretti da partiti sempre più onnivori. Oggi si dimentica che, a sorreggere il radicale smascheramento della decadenza etica dei partiti quali protagonisti di un modello clientelare-collusivo di modernizzazione, era la categoria più negletta e respingente del berlinguerismo, cioè quella di diversità. Contro i partiti di mero potere, Berlinguer evocava la nobiltà della causa ideale che solo un militante rivoluzionario poteva avvertire. Chi presenta oggi un improbabile Berlinguer teorico della politica leggera, cioè alfiere di un partito che si occupa solo delle regole e non della gestione del potere, occulta che per lui solo il militante comunista poteva cogliere, nelle insidie di un presente inospitale, il carattere sublime di una causa elevata di cambiamento da servire con uno spirito quasi religioso. Fino all’ultimo Berlinguer ha rivendicato la fertilità di una concezione leninista del partito che rifiutava ogni omologazione a pratiche deteriori che l’avrebbero sì legittimato rendendolo però uguale alle altre formazioni politiche. Come è curiosa la cultura politica italiana. Proprio chi, e con più sdegno, ricusa la nozione quasi antropologica di diversità rilancia poi le ingiallite pagine sulla questione morale trascurando che la identità comunista e la questione morale erano intrecciate irreversibilmente. Non si poteva prendere l’una e lasciar cadere l’altra, come pretende qualche maldestro macchinista dell’odierna antipolitica che fa di Berlinguer un inerme paladino della politica debole da espellere da ogni postazione di comando per riverire possenti oligarchie economiche, giudiziarie e mediatiche.
l’Unità 29.7.11
Sorpresa! L’indulto non era sbagliato
Le recidive calano
In cinque anni solo il 33,92% dei detenuti beneficiati dal provvedimento è rientrato in cella. Mentre la quota di chi non ne ha usufruito è al 68,45% Gli italiani tornati a commettere reati superano di 13 punti gli stranieri
di Luigi Manconi
Ese, alla resa dei conti, il tanto bistrattato indulto del 2006 si rivelasse un provvedimento parziale, ma – oltre
che sacrosanto – assai utile? Una misura, gravata da limiti e carenze, ma efficace e, soprattutto, molto meno nociva sul piano sociale di quanto si sia detto e scritto.
In effetti, quel provvedimento di clemenza è stato uno dei più controversi e diffamati dell’intera legislazione repubblicana. Approvato, come prescrive la norma da i due terzi del Parlamento (oltre l’80%), è stato misconosciuto dalla gran parte di coloro che lo votarono. Mai una legge che aveva avuto tanti padri e madri era stata così repentinamente rinnegata dai legittimi genitori. Molte le ragioni. In primo luogo, il carattere parziale del provvedimento, non accompagnato da una contestuale amnistia (che avrebbe potuto ridurre il numero dei procedimenti e alleviare il lavoro dei giudici), e non sostenuto da adeguate misure di accoglienza e di integrazione per gli scarcerati. Ma, soprattutto, a pesare sull’opinione pubblica e a determinare quel ripudio da parte del legislatore furono due fattori: l’incapacità di reggere l’impatto che i reati commessi dagli indultati avrebbe avuto sul senso collettivo di insicurezza e la contestuale e irresponsabile campagna mediatica.
È decisivo ricordare che, dal 2006 al 2007 (periodo che comprende i mesi successivi all’approvazione dell’indulto) l’informazione televisiva nazionale sulla cronaca nera passa dal 10,7% al 23,7% (come ha documentato il centro di ascolto di Gianni Betto). Inevitabilmente un simile affollarsi di “notizie criminali” crea una sensazione di ansia collettiva e di allarme sociale, tali da esigere l’individuazione di una causa (l’indulto, appunto) e la demonizzazione di quanti avrebbero contribuito a determinarla (sia i parlamentari che vollero quella misura sia chi di essa beneficiò). Ma, a distanza di 5 anni, una ricerca condotta da Giovanni Torrente e da chi scrive per conto di A Buon Diritto onlus, mostra una realtà tutt’affatto diversa: e quanto quella percezione di insicurezza generalizzata fosse alterata e frutto di manipolazione. La premessa è che indulto e amnistia sono, per loro stessa natura, misure di eccezione per un tempo d’eccezione. Ovvero provvedimenti di emergenza per una situazione estrema, in attesa che si ponga mano alle riforme strutturali: le uniche, come è ovvio, che possano risolvere davvero le grandi questioni dell’amministrazione della Giustizia e dell’esecuzione della pena. Ma intanto esaminiamo le conseguenze del provvedimento d’eccezione del 2006, con riferimento al principale allarme allora diffuso: «escono dal carcere e tornano a delinquere».
La ricerca prima ricordata affronta di petto proprio questo nodo, permettendo di verificare come quella misura, pur con tutti i suoi limiti, ebbe un esito positivo. L’indulto ridusse l’entità della popolazione detenuta per un periodo di tempo sufficiente a impedire che il disastro si traducesse in una tragedia e che, dai quasi 62mila reclusi, si arrivasse a 80mila. Ma il risultato più significativo è forse un altro. La recidiva dei beneficiari dell’indulto si attesta sul 33,92%. Una percentuale elevata ma da confrontare con quella relativa alla recidiva tra quanti non hanno beneficiato dell’indulto. L'unica rilevazione sul lungo periodo al riguardo è quella dell’Ufficio Statistico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che ha mostrato come il 68,45% dei soggetti scarcerati nel 1998, nei successivi 7 anni, sia rientrato in carcere una o più volte. Siamo dunque a una percentuale più che doppia (Tabella 1). E questo conferma una tesi avanzata verso la fine degli anni '70 dal Centro Nazionale di prevenzione e difesa sociale, presieduto da Alfonso Beria d’Argentine: i provvedimenti di clemenza approvati in quegli anni non avrebbero provocato un aumento della recidiva.
Ma la nostra ricerca riserva altre sorprese. Intanto va notato (pur se si tratta di dati ancora parziali) che la recidiva cala ulteriormente tra coloro che beneficiano dell’indulto mentre si trovano sottoposti a una misura alternativa al carcere (Tabella 3). In altre parole, scontare la pena in condizioni meno afflittive e meno disumane può contribuire alla riabilitazione sociale (e a non reiterare il reato). Ancora. Il tasso di recidiva fra gli italiani è di circa 13 punti percentuali superiore a quello degli stranieri (Tabella 2). Quest’ultima circostanza svela, in maniera inequivocabile, quanto gli stereotipi e le campagne politiche fondate sugli stessi – possono avere le gambe davvero corte.
P.S. Per riprendere il discorso sulle riforme strutturali, che vadano oltre lo stato d’emergenza, è utile partire dall’intervista rilasciata dal nuovo ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma al Corriere della Sera. Il ministro afferma la necessità di «un programma di depenalizzazione dei reati minori» e contro l’ «eccessiva criminalizzazione»: il fatto, cioè, «che le leggi prevedono la sanzione penale per violazioni» che andrebbero punite con «sanzioni amministrative o civili». Parole sante. Che
coincidono puntualmente con quanto è stato raccomandato, con inappuntabili argomenti, dalle relazioni conclusive delle Commissioni per la riforma del Codice penale, presiedute prima da Carlo Nordio (centro destra) e poi da Giuliano Pisapia (centro sinistra), su incarico rispettivamente del governo Berlusconi (2001-2006) e del governo Prodi (2006-2008). Ma è impossibile non far notare al ministro Nitto Palma che il governo del quale entra a far parte ha operato in senso esattamente opposto. Valga un esempio: illeciti amministrativi, quali erano fino a due anni fa, ingresso e soggiorno irregolari in Italia sono stati trasformati in fattispecie penale, con relativa detenzione. Il che ha portato in cella migliaia e migliaia di stranieri, responsabili di «violazioni» che andrebbero punite, al più, «con sanzioni amministrative o civili». Ecco una manifestazione di «eccessiva criminalizzazione» che, oltre a gridare vendetta davanti a Dio e agli uomini, incrementa il sovraffollamento del sistema penitenziario. Con esiti che sono sotto gli occhi di chi li vuole vedere.
l’Unità 29.7.11
Intervista a Abraham Bet Yehoshua
«La Palestina va divisa in due Stati sovrani Israele deve accettarlo»
Lo scrittore israeliano: «Giusta l’iniziativa di Abu Mazen alle Nazioni Unite per il riconoscimento unilaterale. Netanyahu deve sostenerla e tornare a trattare»
di Umberto De Giovannangeli
Da israeliano che ha sempre ritenuto che la nostra sicurezza non potesse fondarsi solo sulla forza militare, mi sento di dire che oggi non dobbiamo vedere come una minaccia mortale, una provocazione, l'annunciata iniziativa palestinese alle Nazioni Unite. Se di una sfida si tratta, è una a cui rispondere positivamente, rilanciando da subito il negoziato di pace». A sostenerlo è Abraham Bet Yehoshua, tra i più affermati scrittori israeliani contemporanei.
Il presidente dell'Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha ribadito l'intenzione di chiedere all'Assemblea generale delle Nazioni Unite di settembre di pronunciarsi sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha definito questa iniziativa come una forzatura unilaterale...
«Non la considero tale. Così come eviterei di considerare nemici d'Israele tutti quei Paesi che decideranno di sostenere la risoluzione palestinese. Di tutto abbiamo bisogno tranne che di alimentare una sorta di “psicosi dell'accerchiamento”, per la quale Israele sarebbe circondato da un mondo ostile, che va da Ahmadinejad a Obama, dai protagonisti delle rivolte arabe all'Europa “filo palestinese”...».
Resta il fatto che la leadership israeliana considera l'iniziativa di Abu Mazen un ostacolo alla ripresa delle trattative... «Il muro contro muro non favorisce di certo il dialogo così come non mi pare nell'interesse d'Israele indebolire la leadership di Abu Mazen, dipingendolo come un avventurista o come un burattino manovrato da Hamas. Israele ha una carta da giocare per disinnescare questa “mina”...».
Quale sarebbe questa carta?
«Sostenere la richiesta palestinese alle Nazioni Unite e riaprire subito dopo il tavolo negoziale in cui affrontare tutte le questioni cruciali che nella risoluzione ventilata, per ciò che è dato sapere, non sono affrontate: mi riferisco al ritorno dei profughi, allo status di Gerusalemme, alla smilitarizzazione dell'entità statuale palestinese. La debolezza d'Israele è nell'assenza di una visione strategica, nel coltivare l'illusione di poter fermare il tempo e proiettare all'infinito l'attuale status quo. Di una cosa resto convinto: non è ammissibile che un popolo possa ritrovare la propria patria a spese di un altro che ne viene privato. La divisione della Palestina in due Stati sovrani non è solo una necessità politica e l'unico modo per realizzare la pace in Medio Oriente: è un imperativo morale che la Comunità internazionale dovrebbe garantire con tutta la sua forza, politica e militare, senza compromessi».
Netanyahu ha ripetuto più volte di non essere contrario, in linea di principio, ad uno Stato palestinese... «Quale miglior occasione di quella “offerta” da Abu Mazen per dare seguito politico a questa asserzione di principio! Tanto più che la risoluzione prospettata da Abu Mazen farebbe riferimento ad uno Stato palestinese entro i confini del '67...». Confini che non terrebbero conto, ribatterebbe Netanyahu, della sicurezza d'Israele...”.
«Preoccupazione sacrosanta, assolutamente condivisibile. A patto che...».
A patto che?
«La questione della sicurezza non venga utilizzata per una forzatura, questa sì unilaterale: quella di ridefinire i nuovi confini dello Stato d'Israele inglobando quella parte di West Bank su cui sorgono gli insediamenti, tutti gli insediamenti. Gli insediamenti non assicurano la sicurezza d'Israele, semmai è vero il contrario. La sicurezza risiede nella smilitarizzazione dello Stato di Palestina, da basi militari, israeliane e internazionali, da dislocare lungo la valle del Giordano, al confine orientale del futuro Stato. Si tratta di una situazione transitoria, per il tempo necessario a consolidare la nuova realtà, i due Stati, sul campo. Metto l’accento sulla necessità di tali misure come sulla loro transitorietà. Condizione, quest’ultima, che non appartiene agli insediamenti».
Negoziare la pace. Qual è la questione davvero cruciale tra le tante ? «La definizione dei confini. Questo è il punto di svolta. Perché la mancanza di confini fra due nazioni è una delle cause principali del sangue versato in tutti questi anni. La divisione fisica, territoriale, è il mezzo per porre fine al disegno del Grande Israele e della Grande Palestina. Mi lasci aggiungere che la definizione dei confini non è solo un esercizio diplomatico ma è, per noi israeliani, anche qualcos’altro, di molto più profondo».
In cosa consiste questo «altro»?
«Definire i confini ci impone di ripensare noi stessi, rivisitare la storia di Israele e tornare agli ideali originari del sionismo, per i quali l’essenza dello Stato di Israele non si incentrava nelle sue dimensioni territoriali né in un afflato messianico, bensì nella capacità di fare d’Israele un Paese normale. Lei mi chiedeva cos’è per me la pace? La risposta è semplice e al tempo stesso terribilmente difficile da realizzare: la pace è la conquista della normalità. E quando ci sarà la pace e il quadro normale dello Stato d’Israele consentirà il riconoscimento definitivo del consesso dei popolo, e in particolare dei popoli dell’area in cui ci troviamo, ci renderemo conto che "normalità" non è una parola spregevole ma, al contrario, l’ingresso in una epoca nuova e ricca di possibilità, in cui il popolo ebraico potrà modellare il proprio destino, produrre una propria cultura completa. Si dimostrerà il modo migliore per essere altri e diversi, unici e particolari come lo è ogni popolo senza preoccuparci di perdere l’identità». Perchè la fine dell’occupazione può divenire un efficace antidoto contro l’affermarsi di una cultura e di una pratica estremista in Israele?
«Perchè spazza via quella cultura dell’emergenza sulla base della quale c’è chi tende a mettere tra parentesi qualsiasi altra cosa. Noi non stiamo parlando di territori di oltremare, stiamo parlando di città palestinesi che sono a pochi chilometri da Gerusalemme o da Haifa. Si confiscano terre palestinesi illegalmente, si permette che coloni che risiedono in insediamenti illegali possano compiere atti provocatori contro i palestinesi senza per questo incorrere nelle pene che analoghe azioni comporterebbero se commesse in Israele e contro altri cittadini israeliani. Questa logica colonialista e militarista rischia di trasformarsi in un cancro le cui metastasi aggrediscono il corpo sano di Israele. Per questo continuo a pensare che una pace con i palestinesi non è una concessione al “nemico” ma un investimento che Israele fa su di sé, sul proprio futuro: quello di un Paese normale»
l’Unità 29.7.11
La politica è giovane se sa sognare
di Daria Colombo
Come può la sinistra avvicinare le nuove generazioni? Rivendicando il diritto all’ideale e soprattutto ascoltandole e accettandone le differenze Solo così sarà in grado di togliere i ragazzi dall’angolo in cui si sentono messi
Come coinvolgere le nuove generazioni è un quesito che la politica si pone da che esiste.
I partiti pensano da sempre che la soluzione sia lavorare per la diffusione delle loro idee e affinché queste si trasformino in ideali, specie presso i giovani. Spesso però, quando poi si trovano a fare i conti con alcune normali peculiarità dei ragazzi, come l’impazienza, la voglia di sperimentare, a volte l’inconsapevole demagogia, il valore aggiunto della freschezza di idee o della novità passa in secondo piano e le nuove leve vengono quasi sempre emarginate o costrette a gavette interminabili. Non lo si può certo attribuire solo a questo, sta di fatto che da un trentennio assistiamo ad un implacabile allontanarsi dei ragazzi dai partiti.
Ma perché i giovani oggi ci appaiono così inesorabilmente estranei dalla politica?
Cominciamo col prenderci le nostre responsabilità... Chi ce l’avrebbe detto all’epoca della fantasia al potere, quando eravamo così impegnati ad «ammazzare i padri», che i nostri figli avrebbero considerato i sessantottini come dei noiosi «bacchettoni»? Eppure i ragazzi cresciuti in un clima culturale eccessivamente politicizzato, lo hanno spesso percepito come troppo ingombrante e ne hanno preso le distanze, pur conservandone quasi sempre i valori.
Certamente un contributo nefasto all’allontanamento dalla politica l’ha dato il berlusconismo con il suo populismo cinico che ha inculcato nei ragazzi (e negli adulti senza solidi anticorpi) l’idea amorale che gli affari di tutti si risolvono facendosi ognuno gli affari propri, a cominciare da chi ci governa.
Inoltre, oggi, i ragazzi cresciuti dopo la caduta del muro di Berlino, ci piaccia o no, sentono come anacronistici gli strumenti e le forme di lotta del novecento e gli stessi contenitori che li propongono e sentono l’urgenza di un cambiamento dei partiti considerandoli spesso impermeabili a quanto accade fuori di loro.
Come parlare dunque ad una generazione cresciuta nelle varie sconfitte, talvolta senza neppure percepirle, mobilitata solo sui diritti insidiati o negati (università, scuola pubblica, diritto allo studio), nella sordità o in antitesi ai partiti ?( L’Onda, nel 2008 apriva i suoi cortei con striscioni che invitavano i politici a «starne fuori»...)
«I giovani ritornano se si percepiscono come partecipi di un cambiamento reale», dichiara Alessandro Capelli, 25 anni, dottorando in Statale, uno dei principali leader della campagna di Pisapia a Milano, indirizzata ai giovani.
«Premesso che io credo che i partiti siano indispensabili, penso anche che sia necessario salvarli da loro stessi continuabisogna farli ritornare ad essere un luogo attrattivo. Cominciamo con le “Primarie ovunque”, che hanno un clamoroso effetto traino, soprattutto su noi giovani, altrimenti tutto appare preconfezionato da una burocrazia che ha paura della sua stessa ombra». E ancora «Bisogna capire che la partita la si gioca tutti assieme, contaminandoci, ripensandosi come sinistra, in un modo nuovo. Oggi i ragazzi vivono una precarietà lavorativa ma anche esistenziale, si sentono messi nell’angolo o usati».
Racconta la sua esperienza, Alessandro.
«Con Giuliano (il neo sindaco) abbiamo avuto da subito la percezione di essere realmente parte del progetto. Ci è stato dato spazio di discussione, ci è stato permesso di affiancare le nostre competenze a chi aveva più esperienza di noi, non siamo stati usati solo come ragazzi-immagine o dei distributori di volantini ma portatori di esperienze diverse, ci siamo sentiti elementi fondamentali nella presa di decisioni, si fidavano di noi... Certo non sarebbe stato possibile smuovere l’immaginario giovanile su un progetto calato dall’alto o che non si differenziasse concretamente dallo status quo».
Insiste sul fatto che a Milano ma anche a Napoli e a Cagliari non hanno vinto perché il loro progetto era più di sinistra, ma perché lì hanno intercettato l’urgenza di cambiamento dei ragazzi, i quali magari hanno scoperto solo strada facendo di essere di sinistra, in quanto slegati dalle logiche operative in atto.
Vanno usati, quindi, questi giovani per ricondurli alla politica, in senso buono naturalmente. Non bisogna temere di dar loro delle responsabilità, ma alimentare la loro capacità di sognare di avere degli ideali. Ma cosa significa in concreto?
Intanto ricordiamoci che la coscienza e gli orientamenti ideologici che durano nel tempo si formano quasi sempre in famiglia e nella scuola, durante l’adolescenza. Imprescindibile quindi accompagnare, indirizzare, sostenere queste istituzioni nel loro compito di formazione. Da lì parte (o no) la consapevolezza che la legge non è coercizione ma garanzia, lì si imparerà (o no) il gusto del confronto.
Inoltre dall’offerta culturale e di socializzazione dipenderà, o meno, se i giovani sentiranno la necessità di chiudersi nelle loro stanze con i loro videogiochi e le loro paure. Bisognerà quindi tornare ad affascinarli, incantarli, non certo alla maniera superficiale ed interessata di Berlusconi, ma tentando di toccare le loro corde più intime: rivalutare il loro diritto al sogno, ricordandogli che non devono mai arrendersi. E poiché la distanza dei giovani dalla politica oggi pare diffusa secondo la nuova ideologia di edonismo proprietario berlusconiano che, vivaddio, comincia a mostrare la corda, cerchiamo di fargli capire la supremazia del contenuto sull’immagine, l’importanza della parola, senza schiacciarli di chiacchere ma aiutandoli con comportamenti coerenti. (Qualche doppio o triplo incarico in meno, ça va sans dire...) Cominciamo noi a capire e ad accettare che non siamo migliori di loro, forse più fortunati, perché i nostri vent’anni hanno coinciso con una rivoluzione culturale planetaria, mentre loro sono cresciuti con le veline. Rispettiamo, noi sinistrorsi, così ideologicamente difensori delle diversità, le diversità dei nostri figli, con un po’di quella umiltà impensabile per i nostri genitori quando tentavano di trasmetterci i loro credo.
Si sa che difficilmente un giovane possiede una visione omnicomprensiva della società e che più facilmente ne avrà una parziale. Oggi i ragazzi viaggiano sul web, fanno volontariato, stanno nei movimenti e nelle associazioni, oltre che nei partiti. Ma è anche vero che questi sono altri luoghi della politica, altrettanto legittimi. Per tanto quella parte dei politici, che c’è, e che vuole sinceramente coinvolgere i giovani senza timore di passare le armi, meglio farebbe a riconsiderare questione: non si chieda come avvicinare i giovani alla politica, ma come la politica possa interagire con i giovani che hanno lecitamente scelto altri percorsi. Forse scoprirà che i ragazzi non sono poi così lontani.
I NUOVI MEDIA
Ringiovaniamo la politica insomma, cercando di evitare preconcetti, facendo confluire la nostra storia e le nostre idee in un partito moderno, che non potrà mai più essere autoreferenziale ma sempre più permeabile alle spinte esterne, consapevole dei numerosi segnali di movimento più o meno carsici di una società ricca di fermenti e di idee che è cambiata non solo in quantità di informazioni ma anche in qualità di pratiche. Bisognerà imparare che la spontaneità non è un segno di avversione verso i partiti né tantomeno la loro morte. Sarebbe dannoso rinunciare alle tecniche di convincimento tradizionali della militanza ma la cultura digitale intesa come l’insieme di pratiche multimediali, i social media come Facebook o Twitter, hanno ampiamente dimostrato di essere in grado di generare cambiamento sociale. Venti milioni di utenti su Facebook e una miriade di giovani italiani con una buona conoscenza dell’uso dei nuovi media può essere in grado di fare la differenza. Va da sé che questi debbano diventare strumenti della politica anche per ascoltare i giovani, per fare le proprie analisi e applicarle alle piattaforme politiche di governo che non possono più essere elaborate solo sulla base delle discussioni interne ai partiti. Di più, usino i partiti i nuovi media anche per avvicinarli questi giovani, per creare nuove forme di collaborazione, per informarli con chiarezza degli obbiettivi, delle decisioni anche impopolari reputate necessarie spiegandone i motivi, per comunicare le sconfitte come le vittorie.
Si sa che i ragazzi non sono granché inclini alla mediazione e men che meno al compromesso, strumenti indispensabili nella pratica politica, ma non si dia per scontato che se applicati con chiarezza non possano non essere accettati anche da coloro ai quali la vita non li ha ancora insegnati. Non è che chi è nato nel periodo post ideologico non possieda dei valori, per coinvolgerlo nella politica attiva occorrerà convincerlo che li si possono esprimere attraverso la rappresentanza dei partiti, insostituibile strumento democratico per risolvere anche i problemi dei giovani.
l’Unità 29.7.11
La Chiesa non è a destra
di Giuseppe Vacca
Il fondo di Galli Della Loggia (L’inquietudine dei cattolici, Corriere della Sera del 25 luglio) sembra mosso da una preoccupazione politica ravvicinata, quella che nel «disfacimento politico» della Seconda Repubblica si verifichi una saldatura fra Pd e Terzo Polo che, nell’eventualità di una prossima legislatura costituente, potrebbe rendere ancor più difficile il compito di ridisegnare il centrodestra dopo l’uscita di scena di Berlusconi.
Inserendosi nel dibattito sempre più vivo nel mondo cattolico al riguardo, Galli propone che si metta mano alla formazione di una «nuova Dc» saldamente schierata «a destra», cioè idealmente e programmaticamente «contrapposta» al Pd. Tuttavia, il fondamento della sua proposta non è congiunturale, poiché riguarda innanzitutto la collocazione della Chiesa, che dell’operazione dovrebbe essere il pilastro. Il ragionamento di Galli poggia su una proiezione della Chiesa nel mondo della «globalizzazione» che evoca problemi troppo complessi per essere affrontati nel breve spazio di questo articolo. Mi limiterò quindi a discutere la sua tesi limitatamente alle posizioni che la Chiesa italiana è venuta assumendo nell’ultimo anno, via via che si veniva intensificando la crisi della Seconda Repubblica.
Considero emblematica l’intervista del presidente della Cei, cardinale Bagnasco, al Corriere della Sera del 17 marzo scorso, innanzitutto perché si colloca nel solco della «nuova laicità» a cui hanno dato impulso il presidente Napolitano e Benedetto XVI negli ultimi anni, mostrando di condividere l’assillo della «emergenza educativa» e l’esigenza della collaborazione di credenti e non credenti nella società e nelle istituzioni per presidiare l’unità morale, i legami sociali e la coesione nazionale del popolo italiano. Ma l’intervista appare ancora più significativa se si considera la data in cui è stata pubblicata: la ricorrenza del centocinquantenario dell’unità d’Italia. Mi pare quindi evidente l’intento di manifestare innanzitutto la premura della Chiesa per il destino della nazione italiana impiegando parole attente e calibrate su cui conviene riflettere. Mostrando di condividere la percezione che vi siano dei seri rischi per «l’unità nazionale», il cardinale Bagnasco ha sottolineato che essi possano essere evitati in relazione alla «capacità del Paese di trovare una sua collocazione nello scenario globale», aggiungendo che «la Chiesa, che è una rete globale per vocazione e nei fatti, può dare un contributo importante». Questa, in verità, non è cosa inedita; ma Bagnasco ha proseguito con un richiamo all’interesse della Istituzione per il destino dell’Italia che costituisce il vero punto focale della sua intervista: «Dovremmo farci tutti più consapevoli egli ha detto del peso storico del nostro Paese, che è universalmente noto per la sua cultura e per la sua arte, ma che rappresenta pure il cuore del cattolicesimo». In altre parole, ha richiamato tutti a riflettere su quanto possa essere fecondo per la nazione italiana il fatto di ospitare sul suo territorio il governo mondiale della Chiesa. Non meno importante appare poi il profilo della nazione italiana a cui il cardinale accenna: è il profilo della nazione democratica e repubblicana, scolpito nella Costituzione, che egli considera «troppo seria, importante e costitutiva di una società e di uno Stato per esporla a incertezze che riguardano l’identità e la fisionomia di un popolo».
Da queste fondamenta discendono una chiara posizione politica della Chiesa nella crisi attuale, un orientamento culturale altrettanto netto ma per nulla chiuso, e un’indicazione di metodo storico particolarmente significativa per l’esercizio del discernimento politico. «La Chiesa non intende certo identificarsi con l’una o l’altra parte politica ha detto il cardinale ma svolgere il suo servizio a beneficio di tutti, credenti e non credenti». Il rispetto della autonomia della politica ribadito in termini inequivocabilmente conciliari è il contrario dell’indifferenza culturale; anzi, è il presupposto perché la Chiesa eserciti il suo magistero senza correre il rischio di essere accusata di vere o presunte «interferenze». E l’asse culturale in base a cui rivendica la prerogativa di esercitarlo è il confronto tra le diverse idee «di libertà e umanità» che caratterizzano il mondo contemporaneo. Non credo che per i non credenti sia auspicabile una deriva nichilistica della modernità; dunque, non può essere considerata altrimenti che come un invito al dialogo l’affermazione fatta dal cardinale Bagnasco che «troppo spesso si definisce ingerenza la semplice presenza, che disturba il fondamentalismo laico perché propone una prospettiva antropologica incompatibile con l’idea di immanenza assoluta e individualistica».
Per tornare, quindi, all’articolo di Galli Della Loggia, è pensabile, prima ancora che auspicabile, che sia la Chiesa a dare oggi l’impronta a una rimodulazione della destra italiana? È ovvio che nelle vicende umane nulla si può escludere. Ma mi sembra quantomeno improbabile che la Chiesa possa essere interessata a «contrapporre» una «nuova Dc» al Partito democratico. A poco più di un anno dall’avvio della sua stabilizzazione, il Pd sembra orientato ad assumere un profilo politico e culturale riassunto con efficacia nel libro-intervista di Bersani (Per una buona ragione, edito da Laterza). Mi limito a richiamarne la definizione del Pd come «partito della Costituzione e della Repubblica» anche perché forte dell’esperienza dell’Ulivo e fecondato dalla vitalità del «riformismo cattolico» che impresse nella Costituzione l’impronta più profonda e duratura dei suoi valori. Inoltre per rapporto alla proposta di Galli Della Loggia, conviene citare almeno un passo dell’Intervista di Bersani. «Noi possiamo, anzi dobbiamo evitare egli dice il bipolarismo etico (...). L’Italia può essere il Paese della ricerca in comune anziché della contrapposizione. L’Italia è favorita dalla presenza della massima guida spirituale cattolica, dall’impegno di credenti in tutte le forze politiche e, non da ultimo, dalla grande tradizione popolare della sinistra che, anche nel tempo dello scontro più aspro, ha sempre cercato di armonizzare le spinte ideologiche dentro un senso comune profondamente intriso di volontà di dialogo sui valori della persona».
Mi sembra dunque credibile che la presenza del Pd possa favorire la pluralità dell’impegno politico dei cattolici, piuttosto che il loro raggruppamento in un partito «di destra» che non si vede perché dovrebbe avere come unico scopo la contrapposizione ad esso. Converrebbe piuttosto domandarsi se il Pd sarà capace di sviluppare la sua cultura politica e i suoi comportamenti seguendo l’ispirazione sintetizzata a grandi linee nelle parole del suo segretario. Ma di questo non mancherà l’occasione di riparlare.
il Fatto 29.7.11
Indignati a Gerusalemme
Crisi anche in Israele, giovani contro Netanyahu
di Roberta Zunini
Gli indignati israeliani, che da due settimane protestano in tutto il Paese contro il caro vita e l’inflazione, domani usciranno dalle loro tende di fortuna per marciare uniti verso l’ufficio del primo ministro Netanyahu. Ai giovani e ai tanti indigenti che non riescono più a sopravvivere nella “terra promessa”, si uniranno anche i medici che da giorni sono entrati in sciopero. La loro indignazione del resto è molto simile: chiedono l’aumento dei salari, sempre più inadeguati a far fronte all’incremento del lavoro e alla simultanea perdita del potere d’acquisto dei loro salari.
LA MARCIA, a cui parteciperanno anche i rappresentanti del gay pride, sarà un atto d’accusa nei confronti delle politiche liberiste del premier Bibi Netanyahu, leader dei conservatori del Likud. Che questo movimento dal basso possa mandare davvero in crisi il governo, è la sua trasversalità: la working class così come il ceto medio – la maggior parte vota Likud – sono esausti. Affittare una casa o attivare un mutuo è diventato un problema serio per tutti, tranne che per i ricchi ebrei americani che hanno drogato il mercato, acquistando seconde case nel cuore di Tel Aviv a prezzi esorbitanti. Così acquistare una casa costa il doppio rispetto a cinque anni fa e affittare uno scalcinato bilocale nel centro di Tel Aviv costa quanto a piazza di Spagna e in ogni caso intorno ai mille e cinquecento euro mensili. A provare il carattere sempre più politico della protesta è la certa – stando alle ultime notizie date dal quotidiano Hareetz – partecipazione alla marcia di domani della leader del partito di centro Kadima, Zipi Livni.
Il Labour party, da pochi mesi orfano di Ehud Barak, che ha preferito lasciarlo pur di rimanere ministro della Difesa nell’attuale governo di destra, invece resta in silenzio. Contribuì, in accordo con il Lijud a rivedere verso il basso il welfare. Fu uno dei passi falsi più clamorosi di questo partito, che da tempo non rappresenta più una credibile alternativa alla destra e ai partiti religiosi. Anche i giovani coloni e gli ultraortodossi vorrebbero protestare e si sono affacciati sempre più numerosi sulle piazze di Gerusalemme e Tel Aviv, dove i manifestanti hanno bloccato le arterie principali con sit-in permanenti.
“Nessuno ha intenzione di andarsene – dice Roi, un giovane medico di Tel Aviv – per entrare alla facoltà di medicina bisogna superare test durissimi e dopo tanti sacrifici ora mi trovo ad avere uno stipendio con cui riesco appena a pagarmi un monolocale e a comprare da mangiare. Esco poco perché sono stanco e ho spesso turni di notte ma non è possibile vivere così, sempre attenti a tutto. E comunque una casa decente non potrò comprarla se i prezzi resteranno questi”. Ma Roi non è certo il più sfortunato. Shira è un avvocato, laureata da due anni, che lavora in uno studio associato di Gerusalemme: “Non riesco a vivere da sola. Devo condividere l’appartamento con due colleghi. Prendiamo troppo poco, abbiamo appena aperto lo studio. Le cose però non vanno molto bene. La gente comune non ha i soldi per pagarci e spesso aspettiamo mesi prima di venire pagati”.
DUE SOLDATESSE che vivono nel sud di Israele si lamentano perché, essendo di stanza a Tel Aviv, hanno dovuto affittare un appartamento. “Quando ci danno i congedi di due o tre giorni non possiamo tornare al sud e quindi condividiamo casa con due ragazzi di Jaffa. Loro lavorano in una casa in un centro commerciale e in una casa di riposo”. I soldati di leva fino a qualche anno fa avevano delle agevolazioni ma ora non più. E il malcontento nell’esercito non è un bel presagio per il governo Netanyahu che ha dovuto rinunciare a un viaggio in Europa per occuparsi di piani urbanistici e smorzare le proteste con iniziative di edilizia popolare. Disegni di legge che sono già stati bollati come insufficienti. Nelle strade di Tel Aviv e di Gerusalemme, le due città principali, aumentano di giorno in giorno barboni e giovani senza tetto. Nei pressi della stazione degli autobus di Tel Aviv, ai giovani gay senza tetto, sbattuti fuori di casa dai genitori e costretti a prostituirsi, si aggiungono costantemente ragazzi ebrei e arabi israeliani disoccupati.
Il sole e il mare di questa città, un tempo meta ambita di tutti i giovani israeliani, non bastano più a scacciare le preoccupazioni per un futuro sempre più incerto. Ma a questo punto il futuro è incerto anche per qualcuno che vive nella strada più bella e costosa di Gerusalemme: Bibi Netanyahu, che ieri ha dovuto rinunciare alla partenza per un giro di consultazioni sull’imminente procalmazione dello Stato palestinese all’assemblea dell’Onu.
Ultra destra xenofoba: la lunga cecità europea
di Flore Murard-Yovanovitch
qui
il Fatto Saturno 29.7.11
Bancarotta rossa
Aprile 1991. Perché fallì il sogno sovietico
di Marco Onado
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