lunedì 25 luglio 2011

Corriere della Sera 25.7.11
Rousseau, un illuminista avversario della modernità
di Giuseppe Bedeschi


Credo che qualunque docente universitario di discipline filosofiche o politologiche possa testimoniare che, quando egli svolge il proprio corso su Rousseau, esso viene seguito con grande attenzione da un numero molto elevato di studenti. A me è capitato più volte, e di recente, in occasione di un seminario rousseauiano organizzato dalla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pisa, al quale sono stato invitato, mi hanno colpito sia il grande afflusso di studenti sia la tensione vibrante della discussione che è seguita. Ciò non può stupire. Molti sono i tasti che Rousseau ha toccato con accenti appassionati, che parlano ancora alla coscienza contemporanea: il pensatore ginevrino ha respinto qualunque forma di dispotismo; ha rivendicato la libertà come dimensione essenziale dell’uomo, senza la quale egli perde la propria umanità; ha teorizzato il corpo sovrano come formato da tutti i cittadini senza esclusione alcuna, quale che sia la loro condizione sociale (nessuno l’aveva fatto prima di lui). E ha sviluppato una critica aspra e intransigente della democrazia rappresentativa, in quanto separata dal popolo (una Camera di deputati pensa in primo luogo a se stessa e ai propri privilegi!) e frutto di compromessi fra oligarchie sociali, o, per venire a tempi più vicini, fra oligarchie politiche e partitiche. Quest’ultimo è un punto molto delicato, se si pensa che poco più di sessant’anni fa uno studioso della forza di Joseph Schumpeter sostenne che la teoria democratica «classica» sbagliava quando riteneva che, in un sistema democratico, il popolo possedesse un’opinione razionale e definita intorno ad ogni problema, e che esso la traducesse in pratica scegliendo i propri rappresentanti. Il funzionamento effettivo della democrazia, diceva Schumpeter, era (è) tutt’altro, e per capirlo bisogna capovolgere le parti. Infatti l’elemento decisivo del processo democratico è, secondo Schumpeter, la leadership, non il popolo: le varie leadership si presentano sul mercato politico, e con le loro formule, i loro slogan e le loro parole d’ordine «plasmano» (o manipolano?) le opinioni degli elettori; così conquistano il consenso necessario per vincere le elezioni e governare. Ora, ritornando a Rousseau, non c’è dubbio che vari aspetti del suo pensiero mostrano una impressionante modernità. E tuttavia, io credo, ci sono anche aspetti del pensiero rousseauiano che costituiscono un vero e proprio «rifiuto della modernità» . Ho cercato di dimostrarlo in un mio libro apparso l’anno scorso, intitolato appunto Il rifiuto della modernità. Saggio su Rousseau (Le Lettere). Sull’ultimo fascicolo della «Rivista di filosofia» (n. 2) un illustre studioso di Illuminismo e di storia del pensiero scientifico, Paolo Casini, nel corso di una elegante e dotta recensione del mio libro, cerca di confutare la mia tesi. Ma io resto del mio avviso, perché non mi pare che Casini colga il «rifiuto della modernità» che c’è in Rousseau. Un rifiuto che si manifesta, per esempio, nella convinzione del Ginevrino (quanto diffusa ancora oggi!) che sia impossibile arricchirsi senza impoverire gli altri. «Com’è possibile — dice infatti Rousseau — arricchirsi senza contribuire ad impoverire gli altri; e che cosa si dovrebbe dire di un uomo caritatevole il quale cominciasse con lo spogliare tutti i suoi vicini per avere poi il piacere di fare l’elemosina?» . È evidente che, affermando ciò, Rousseau presuppone come costante la quantità di beni disponibili in una data società, sicché egli esclude che un uomo possa arricchirsi aumentando la produttività del proprio lavoro, senza nulla togliere agli altri, e anzi accrescendo la quantità complessiva di ricchezza sociale disponibile (come ben sapeva Adam Smith). Questa posizione costituisce la base della demonizzazione che Rousseau ha fatto (a partire dal Discorso sulle scienze e le arti) dello sviluppo economico, e della scienza e della tecnica che sono alla base di tale sviluppo. Ma anche a proposito della critica rousseauiana della democrazia rappresentativa, nonostante le importanti intuizioni che essa contiene, non dobbiamo cedere alle lusinghe del concetto, tanto splendente quanto astratto, di «volontà generale» . Bertrand de Jouvenel ha parlato del «carattere mistico» di questo concetto. Infatti la «volontà generale» teorizzata da Rousseau è «infallibile» e «indistruttibile» . E non è affatto detto che essa coincida con la volontà della maggioranza dei cittadini. Anzi, è assai difficile che ciò avvenga, perché (dice il Ginevrino) il popolo spesso non vede quel bene che pure vorrebbe. E dunque, come ha osservato Giovanni Sartori, non è la «volontà generale» che deve risolversi nella volontà popolare, ma è la volontà popolare che deve risolversi nella «volontà generale» (cioè in una entità astratta e compatta, che non ammette molteplicità di opinioni né dissensi). Donde il carattere pedagogico-autoritario della democrazia rousseauiana.

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