Beni ecclesiastici, troppi privilegi da parte dello Stato
Migliaia di cliniche e ospedali (e non solo) rastrellano profitti e andrebbero tassati al pari di quelli “laici”. Poco applicato il Concordato laddove definisce gli enti soggetti al fisco
di Vittorio Emiliani
«Opera pia, Opera piglia», recitava un sarcastico detto popolare riferendosi al fatto che le Opere Pie poco avessero di pio e molto di redditizio. Un altro detto non era meno corrosivo: «Opera pia, Opera mia». Ne parlai in un libro del 1977 dal titolo... profetico: «L’Italia mangiata» (Einaudi).
La discussione ogni tanto si riaccende su enti ecclesiastici e fiscalità statale (o locale), ma con scarso successo per chi vorrebbe privilegiare, giustamente, «gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto» e tassare alla stregua dei privati “laici” quanti svolgono attività redditizie.
A cominciare dalle migliaia di cliniche e ospedali (ben 4.712) che rastrellano profitti, in concorrenza con le strutture pubbliche e private. Il citato art. 7 del Concordato del 1984 è abbastanza chiaro in materia (pur con qualche ambiguità), distingue cioè fra gli enti religiosi e quelli che tali non sono e che quindi «sono soggetti alle leggi dello Stato» (fisco incluso). Poco applicato, temo. Secondo Mauro Favale di
“Repubblica”, l’esenzione dell’Ici fa guadagnare alla Chiesa 400 milioni, quella dell’Ires fra i 500 e i 900 milioni, mentre 1 miliardo arriva dall’8 per mille delle dichiarazioni Irpef. Persino il previsto assoggettamento alla futura imposta locale Imu è stato rattamente tolto dal decreto Tremonti. Non sia mai.
La Santa Sede, in modo diretto e indiretto, è proprietaria di un patrimonio immobiliare strepitoso (qualcuno lo dice pari al 20% del totale nazionale) accumulato e stratificato nei secoli, soprattutto a Roma, ma non solo.
Si tratta di decine di migliaia di edifici che non hanno fini di culto e di uno stock di aree fabbricabili di grandissimo peso e valore.
Quando si tracciò, per le Olimpiadi 1960, la Via Olimpica essa passò, guardo caso, valorizzandoli enormemente, quasi esclusivamente su terreni di proprietà ecclesiastica (come documentarono Giovanni Berlinguer e Piero Della Seta in un libro-inchiesta del tempo).
Poi c’è tutta l’area vasta del sommerso e la zona “grigia” delle istituzioni assistenziali rimaste, più o meno, nell’orbita della Chiesa.
Per esempio, le ex Opere Pie o Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza (Ipab) che, pubblicizzate da Crispi nel 1890, sono state rimesse in una sorta di limbo evaporando loro e i loro ingenti patrimonii (quelle bolognesi possedevano tutti i terreni lungo la Via Emilia): esse erano quasi 22.000 ai tempi di Crispi; se ne contarono 12.196 nel 1932 (in vista del Concordato del 1929 le fughe dai registri prefettizi si erano molto intensificate); negli anni ’80 si parlava di 6-7.000 Ipab in tutto. Interi quartieri o palazzi, terreni fabbricabili, cinema, supermarket, garage, ecc.
Attività che con l’assistenza non c’entrano per nulla. Né, tantomeno, con la religione.
Giorni fa il quotidiano dei vescovi, “Avvenire”, ha molto protestato contro i Radicali i quali avevano osato affermare che «basterebbe piazzare in un albergo una “cappellina” per poter dichiarare l’intero complesso adibito al culto». Per le ex Opere Pie bastò per dichiararne il «prevalente carattere educativo-religioso» e quindi evitarne il trasferimento a Comuni e Regioni continuando a lucrare copiose rette di ricovero o salate rette scolastiche.
A Roma poi le case generalizie che ospitano ogni anno centinaia di migliaia di turisti risultano circa 200. Quante e quali imposte pagano? Anch’esse sono dedite alla beneficenza o alle opere di culto?
Insomma, datemi del laicista, ma nell’evasione deprecata dal cardinal Bagnasco la Santa Sede ha una sua parte. Evidente.
l’Unità 22.8.11
Campagna di reclutamento Appello in rete per i nuovi militanti: «Siamo pronti alla battaglia»
Il Partito Nazionalista Italiano A settembre a Genova si terrà «la prima adunata delle legioni»
La nuova crociata del camerata Saya «Via negri, omosessuali e comunisti»
di Luciana Cimino
I nazionalisti di Saya cercano di nuovo adepti. Divisa che richiama le SS e disponibilità a formare le «legioni», cioè “ronde nere” contro gli stranieri. Il Pd «non è folklore, il governo intervenga».
ROMA. Sembrano nazisti da operetta, da film-parodia, e in effetti ci sarebbe da ridere se il fatto non fosse terribilmente serio: il Partito Nazionalista Italiano (Pni) cerca nuovi adepti. Ovviamente su Internet, tramite una campagna su Facebook che si chiama, a scanso di equivoci, «Legioni per la sicurezza e la difesa della Patria». E sul proprio blog, dove i militanti annunciano di «essere pronti alla battaglia». Contro chi? «Comunisti, omosessuali, zingari, ebrei, marocchini, albanesi e islamici di vario colore». Dietro c’è sempre lui, Gaetano Saya, personaggio già noto all’opinione pubblica e alle forze dell’ordine per i suoi (vani) tentativi di formare una milizia parallela in Italia. L'ultranazionalista Saya (che si definisce “massone”) e altre 20 persone furono accusate infatti nel 2005 di aver dato vita al Dipartimento Studi Strategici Antiterrorismo (DSSA). Tra le ipotesi di reato: associazione per delinquere, finalizzata a usurpazione di funzioni, rivelazione di segreti d’ufficio e illecito uso di dati riservati tratti dalle banche dati del ministero degli Interni. Per queste accuse Saia e Riccardo Sindoca, rispettivamente direttore generale e vicedirettore di Dssa, furono messi nell’estate 2005 agli arresti domiciliari. Il processo si è concluso poi nel marzo scorso quando il giudice ha dichiarato il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste. Ma Saya finì al centro della cronaca anche nel 2009, quando fu varata l’iniziativa delle cosiddette “ronde nere” e della “Guardia nazionale italiana”. Dopo un periodo di silenzio gli ultranazionalisti di Saya ricompaiono a maggio scorso chiedendo formalmente al leader dei Responsabili, Domenico Scilipoti, di prendere la guida del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale. E non era una boutade, tanto che Scilipoti ha risposto di sentirsi «onorato» per i tanti «punti di contatto con quella realtà: la patria, la famiglia, i valori cristiani». E che Scilipoti non avesse problemi di coscienza nei riguardi del ventennio si era capito quando copiò pedissequamente il programma dei Responsabili dal Manifesto Fascista di Gentile del ‘25. «Gli amici del Msi-Dn l'hanno sottolineato e io ne sono contento diceva Scilipoti, una volta scoperto il plagio del resto quel manifesto ha ancora degli elementi di grande attualità».
L’ADUNATA DI GENOVA
Ora i nazionalisti cercano nuovi militanti. E danno appuntamento alle “reclute” il 24 e il 25 settembre a Genova per la «prima adunata delle legioni». I simpatizzanti, dovranno prima aver inviato un modulo di iscrizione con foto tessera in cui indossano
una divisa che vuole ricalcare quelle delle Ss (camicia bianca, cravatta e cintura nera, stemma dell’Italia e fascia con il “sole nero”, simbolo del misticismo nazista) e che è acquistabile sul sito per 80 euro. E poi bisogna aderire al “Programma per la liberazione per l’Italia” in 25 punti. Tra questi: l’uscita immediata dall’Unione Europea (art.2), la nazionalità solo a chi ha il «sangue italiano» (art.4) e dunque l’espulsione immediata degli stranieri (art.7 e 8); la statalizzazione di tutte le imprese e di tutte le banche (art. 13). Non mancano tipici capisaldi del pensiero nazionalfascista come lo sport obbligatorio per tutti, la preclusione delle cariche di partito o statali alle donne, e, ovviamente, la limitazione completa della libertà di stampa. «E che ciò si avveri con l’aiuto di Dio», si conclude il manifesto. Sul blog via libera ai commenti contro i migranti, chiamati «nuovi barbari» e per difendersi dai quali occorre formare «nuove legioni». Poi contro gli ebrei e gli omosessuali che «vanno buttati fuori dalle istituzioni» e contro i comunisti il cui «obiettivo primario è l'invasione sistematica della nostra Nazione da parte di zingari, albanesi, marocchini ed islamici di vario colore, propendono affinché vengano riconosciute di fatto le famiglie tra omosessuali e vorrebbero affidare a questi pervertiti la custodia di bambini». Insomma pare che a distanza di due anni, ritorni a circolare l’idea «dell’esercito di popolo», come lo chiamano loro, o meglio, di nuove ronde nere. «Il governo intervenga» chiede Emanuele Fiano, presidente forum Sicurezza e Difesa del Partito Democratico, che commenta «l'apertura di una campagna di adesioni al Pni di Saya è una notizia di quelle che fanno accapponare la pelle. Ovviamente quando si tratta di questo personaggio è difficile saper selezionare tra le sue idee, quelle che richiamano la farsa e le notizie invece emblematiche di una cultura fascista, violenta e razzista». Il Pd chiederà al governo con «un'interrogazione urgente di compiere atti concreti nell’osservanza della legge» prima dell’adunata di settembre. E preoccupato è anche Aurelio Mancuso, presidente di Equality Italia: «Se si trattasse del solito folklore neo fascista si potrebbe anche lasciar correre ma questo e altri gruppi neo fascisti da un po’ di tempo si dimostrano assai attivi, e soprattutto corteggiati da alcuni settori della politica italiana, in particolare da Scilipoti e settori del centro destra».
Repubblica 22.8.11
Alla ricerca dell´autorità perduta
di Ilvo Diamanti
VIVIAMO un passaggio d´epoca. Questa crisi, infatti, non scuote solo le Borse, l´economia, la condizione di vita della gente. Ha aggredito, con violenza, anche il principio di autorità. Il Potere stesso, che a differenza dell´Autorità, non ha bisogno di legittimità e di consenso.
Dovunque, si assiste alla rapida e diffusa caduta di ogni autorità. E di gran parte dei "poteri" che regola(va)no il nostro mondo. Anzi, il mondo, in generale. Lasciamo per ultimo il nostro Paese. È sempre stato una "periferia", che oggi, però, appare priva di "centri". A partire dall´Europa dell´euro, una moneta senza Stato. E senza politica. Mentre l´Unione europea è un tavolo dove i governi nazionali si confrontano. In un gioco a somma negativa, perché nessuno, appunto, ha sufficiente potere per imporsi agli altri. Neppure i più forti. Si veda l´esito del vertice tra Sarkozy e la Merkel. Meno di nulla. D´altronde, Sarkozy e la Merkel, a casa loro, sono in profonda "crisi" di popolarità. Come i principali capi di governo europei. Senza parlare di noi, basti pensare a Zapatero, che ha indetto le elezioni per il prossimo autunno, annunciando che non si ripresenterà. Lo stesso Cameron, da un anno premier inglese, sta attraversando più di un problema. Per sedare le violenze esplose due settimane fa, a Londra e in altre città, ha dovuto mobilitare 16mila agenti. Lo stesso numero, più o meno, dei "tumultuosi". Cameron: ha usato la forza (pubblica), ma i tagli alla spesa ridurranno gli organici della polizia. E, per questo, è in polemica aperta con Scotland Yard. Esempio significativo del conflitto fra i poteri – e dunque dell´autorità – dello Stato (e che Stato!). Lo stesso Cameron, d´altra parte, ha accusato le famiglie di aver ceduto, se non perduto, la propria "autorità" rispetto ai figli. Per l´incapacità di dettare regole e valori. Ma per dettare valori e ancor più regole occorre Autorità. O almeno, potere. Meglio entrambi, insieme. Oggi chi è in grado di esercitarli? Allargando lo sguardo al mondo, chi comanda? Gli Usa? Certamente non più. Viviamo in un mondo multipolare. E gli Usa, oggi, sono coinvolti nella crisi finanziaria "globale", esattamente come gli altri Paesi dell´area di mercato. Anzi, la loro stessa debolezza ne è una causa. Un moltiplicatore. Il che ha eroso, rapidamente, la popolarità, dunque il "consenso" e la legittimità del presidente Obama, appena un anno fa, considerato il portabandiera di una stagione di rinnovamento globale. Oggi in difficoltà, quasi im-potente, dentro e fuori gli Usa. Nonostante sia investito di "poteri" ben più rilevanti rispetto ad altre democrazie, come la nostra. Dove in molti vagheggiano il modello presidenzialista (all´americana).
I "nuovi" potenti del mondo, per prima la Cina, agiscono, anch´essi, attraverso i "mercati" e le Borse. Controllano il debito pubblico americano. Ma ne sono, per questo, vincolati. La Cina, però, sconta un deficit di autorità. Perché non può costituire un "modello" internazionale, dal punto di vista dei diritti e dei valori che ne orientano il regime, sul piano interno.
La crisi finanziaria che scuote l´economia globale, d´altronde, riflette un´evidente incertezza di "poteri" e di regole condivise. Nessuno che sia in grado, davvero, di prevedere e di orientare il corso dei mercati – e delle Borse. La relazione tra finanza ed economia è debole (per usare un eufemismo). La politica ancor di più. Si dice, anzi, che la debolezza della politica e degli Stati sia causa della crisi delle Borse. Prive, a loro volta, di metri e, soprattutto, "autorità" in grado di regolarle. Le agenzie di Rating, con i loro "voti", possono produrre (e hanno prodotto) effetti pesanti. Ma sono, a loro volta, poco credibili, dopo la pessima prova offerta nel 2008, al tempo della crisi dei subprimes. Il Nobel dell´Economia, Paul Krugman, sul New York Times le ha definite, impietosamente, «clown». E ha riproposto, come prima causa della crisi finanziaria, la debolezza della politica e degli Stati (Uniti). Una crisi di autorità, insomma.
D´altronde, dal punto di vista geopolitico, è da mesi che poteri senza autorità, come quelli espressi dai regimi del Nord Africa e del Medio Oriente, sono stati investiti da potenti contestazioni - protagonisti soprattutto i giovani. Fino ad essere rovesciati. Dove, però, come in Tunisia e in Egitto ha contribuito l´esercito a rovesciare il "potere" precedente. Altrove, invece, (Libia e Siria, in particolare) si assiste a rivoluzioni ancora incompiute. Guerre civili. Rivolte represse nel sangue. Eppure irriducibili.
La crisi del Potere e - soprattutto - dell´Autorità, infine, è particolarmente visibile in Italia. Dove la Politica è debole, più ancora della Finanza e dell´Economia. Dove i leader di governo cercano di non dar nell´occhio. Si affidano alla supplenza di altri poteri (relativamente) più autorevoli, come la Bce. Mentre l´opposizione stenta a trasformare l´impotenza della maggioranza in potere. A guadagnare autorità. Il nuovo moto di insofferenza contro la casta non deriva solo dal riprodursi di un sistema di privilegi – e di corruzione – che, in effetti, non è mai cessato. Ma dall´assoluta perdita di autorità della classe dirigente. Soprattutto dei leader che governano il Paese da 10 anni, in modo quasi ininterrotto. Quelli che, fino a un anno fa, avevano trasformato Villa Certosa nella rutilante capitale estiva del Paese. Affollata di veline e velinari. Quelli che parlano di politica con un linguaggio antipolitico. Usano il turpiloquio come linguaggio pubblico. E alzano il dito non per mostrare la luna …
Come immaginare che possano riscuotere "prestigio" e deferenza tra i cittadini? Se riproducono i vizi e le debolezze del popolo, perché dovrebbero ottenere privilegi e riconoscimento da parte del popolo? Oggi che la crisi minaccia la condizione economica e sociale, la vita quotidiana di tutti?
Questa fase mi pare particolarmente insidiosa. Difficile da superare. È frustrata da un grande deficit di autorità – e di potere. Da una grande povertà di riferimenti etici e di comportamento. Un problema aggravato, (non solo) in Italia, dalla scarsità di attori e persone credibili. In grado di "dire" le parole necessarie a esprimere il sentimento del tempo. (Ne abbiamo tracciato una "Mappa", un mese fa, su Repubblica). Ma, soprattutto, di tradurle in pratiche coerenti. Di dare il buon esempio.
Eddy Berselli, prima di lasciarci, ha rammentato, profeticamente, (L´economia giusta, Einaudi) che "dovremo abituarci ad essere più poveri". Ma, a maggior ragione, diventa importante chi e come ce lo propone. Insomma: è una questione di autorità.
Repubblica 22.8.11
Paolo Conte: "Alla Favorita ho imparato a far cantare i paesaggi"
di Dario Cresto-Dina
"Io non faccio jazz e il mio pubblico è un altro In quella tenuta ho vissuto anni bellissimi tra grilli e lucciole"
"Odio sentire la mia voce, che è nascosta Alle volte penso: magari potesse essere qui Aznavour..."
L´artista e le estati alla "Favorita" tra le campagne piemontesi Qui è nato il suo gusto per i personaggi etnici e per i luoghi
MODENA.Un giorno di settembre scrisse una poesia, l´unica, su un´Aurelia grigia che passava lungo l´Aurelia nella pioggia mentre da un palazzotto anni ´50 un´Aurelia bionda guardava quei due grigi sciacquarsi in un´acqua non di mare e non di terra. Quel giorno Paolo Conte diventò egli stesso un paesaggio. Ricorda, oh sì, e si stupisce di non essere il solo a ricordare il nostro indugiare dentro il passato remoto che di solito ci sembra migliore di quello prossimo.
«Sono un timido matricolato», dice poco prima di indossare la faccia di Wyatt Earp, polvere di deserto e mistero selvaggio come certe canzoni, per mettere il braccio sulla spalla della ragazza che vuole la foto per papà e scoraggiare la signora che clicca vergognandosi nell´orgoglio della confessione: «Lei mi fa piangere». Sarà il caso o sarà la poesia, ma i luoghi che attraversa sembrano trasfigurare per meritarsi uno spazio loro nell´inquadratura e nel suo modo di guardare.
Succede anche qui, a Modena, mentre al bar Morsichino che sembra una drogheria di una volta beve un succo d´ananas, fuma una marlboro rossa, celebra il vino Carema e domanda dov´è Egle, la donna testimone di una vita. Sta a dieci chilometri, gli dicono, sta arrivando e lui posa l´ansia sul tavolino. Ha una t-shirt nera, pantaloni verde acqua, la faccia arata di un contadino che sa ascoltare e gli rimane appena mezz´ora prima del concerto. Le mani nel gesto intrecciano un nodo: «Odio sentirmi cantare, la mia voce nascosta, oscura. A volte mi dico: ah! se questa potesse cantarla Aznavour... ».
È stanco di farlo?
«Un poco. Mi pesa l´abitudine, mi pesano i concerti e gli alberghi. Ma mi piace ancora fare musica, comporre. Anche se le parole arrivano più tardi, magari dopo due anni».
Le sue canzoni sono luoghi. C´è un posto e i personaggi che lo popolano potrebbero stare solo lì. E così i loro sentimenti, buoni o malvagi che siano. Accetta la definizione di cantautore di paesaggi?
«Sì, lo sono. E forse sono il migliore o, almeno, è una mia specialità».
Penso a: «Te dentro un caffè, dentro il caffè uno specchio, dentro lo specchio una barca, la barca è per me». Si inizia sempre da un luogo?
«Già la musica pur nella sua astrattezza propone degli ambienti. Luoghi, segnali, colori soprattutto. Poi, i personaggi che descrivo sono in qualche maniera etnici, hanno una provenienza, una razza, qualcosa che li spiega. Tutto questo viene anche dall´esigenza teatrale o filmica che hanno le canzoni. Dire in poco spazio, indicare. E, poi, magari, ci sono i miei compiacimenti personali di autore e spettatore».
Che cosa trasforma una stradina moderna sotto la pioggia in ispirazione?
«Direi un posto in cui si nasconda la dinamica di un possibile racconto, un luogo in un certo senso sacro, un luogo che abbia uno stile. Questo per me».
Quale è stato il suo luogo santo?
«Le racconto una piccola storia. Vuole?».
La ascolto.
«Qualche anno fa, di notte sognando, sentivo che mi stavo arrampicando su per una riva ripida. C´era un´aria giallastra, un´atmosfera ocra da cui mi allontanavo salendo. Avevo l´impressione di rampignare verso il paradiso. E capivo che lo conoscevo, c´ero stato da ragazzo e non solo d´estate. Era "La Favorita", una tenuta nell´Astigiano che mio nonno aveva comprato poco prima della guerra. Lì ho vissuto con i miei per dieci anni indimenticabili. Lì è cominciato molto di me».
È ancora oggi capace di descriverla?
«Più di trenta ettari, tanto per le nostre zone, quaranta mucche, due tori, quattro enormi cavalli da tiro, una cavallina con il suo calesse. Tre cani da caccia, il sole bianco sulla terra, il profumo del mosto, l´odore buonissimo delle stalle. I grilli, il gufo nel buio, le lucciole e due alti cedri del Libano che ancora adesso riesco a scorgere in lontananza. E la fragranza notturna del fieno, che è quella che mi portava lontano».
Sembra l´immagine di un posto lento, quasi fantasmatico. Era così o è il suo modo di sentirlo?
«Non so, forse è la mia maniera di prendere appunti sulla vita. Il mio modo di fare il mestiere. Qualche frammento, qualche scheggia, arriva all´improvviso. Non tutto, almeno quasi mai. Poi c´è tanto lavoro di cadenze, di logica, di detto e non detto. Chiarezza e enigma, astratto e concreto. Le rime, gli accenti, l´interpretabilità».
Lei ha cantato suonatori di fisarmonica, ciclisti, puttane, assicuratori, ballerini di rumba, sfortunati gestori di bar, cassiere alascane, elettricisti, uomini e gatti svaniti in una tappezzeria. Nelle sue canzoni sembra esserci molto di Simenon. Qual è la sua letteratura preferita?
«Ho letto pochissimi romanzi e nessun personaggio mi ha particolarmente colpito. Fin da adolescente prediligevo la poesia, in particolare i novecentisti italiani. E Giorgio Seferis, lirico greco, il mio preferito. E ascoltavo, come tuttora, jazz arcaico e musica classica. Un po´ di lirica. Sono un Verdiano convinto».
Così si è seduto al pianoforte e si è detto: farò musica. E suo fratello Giorgio con lei. Tutto molto semplice?
«Da ragazzo avrei voluto studiare medicina, poi, per ragioni di convenienza famigliare - nonno, padre e zio notai - ho fatto per un po´ di tempo l´avvocato. Finché la musica non ha preso il sopravvento. Ricordo una vecchia battuta di Giorgio, di quattro anni più giovane, che scherza sempre sulle nostre differenze: in casa c´era uno smoking solo, lo hai preso tu».
Nasi tristi come salite, eleganze di zebra, labbra che si guardano, la campagna che abbaia, l´intorno che è solo pioggia e Francia. Si potrebbe andare avanti a lungo. Come nasce una canzone onomatopeica?
«Nel jazz arcaico o classico il linguaggio degli strumenti si è formato sull´imitazione della voce umana e dei versi degli animali. Quando mi sono messo a scrivere testi di canzoni non ho dimenticato quella tavolozza infinita. Ma c´è un altro aspetto: le parole lontane dal linguaggio parlato e rotolante mi danno di più sul piano dell´essenza poetica e ritmica».
Il jazz viene considerata una musica colta. Guardando il suo feeling con ogni tipo di pubblico non si direbbe.
«Semplicemente le confesso che non faccio jazz e che il mio pubblico non è quello del jazz. Se poi batte anche il piede mi fa piacere... ».
La musica è di per sé seduttiva?
«La seduzione è l´essenza stessa di tutte le musiche belle. Credo sia seduzione di se stessa, indipendentemente da eventuali pretese descrittive o dall´uso che se ne vuole fare».
Le capita di tornare nella vecchia casa di suo nonno, per toccare di nuovo quei muri?
«Non ci riesco. Oggi che alla Favorita c´è una scuola agraria non ho più avuto il coraggio di avvicinarmi».
Che cosa andrebbe a cercare lassù?
«Qualcosa, tutte le cose che non ho capito né allora né oggi. Oggi che il comprendonio dovrebbe essermi più a portata di mano».
C´è qualcosa di quel luogo in Diavolo Rosso, quelle falciatrici a cottimo che arrivano sulle aie bianche?
«Forse sì. Tutta la canzone è ambientata nella campagna profonda. Il valzer di vento e di paglia che risale le risaie e fa il verso delle rane è una immagine sia visibile sia sonora dell´apparire della morte. La morte è colei che falcia e lo fa a cottimo. Più taglia e più è contenta. Bastarda».
Che cos´è per lei la malinconia?
«Debolezza, delusione, disillusione più o meno motivata. Un rapporto inutile con il battere del tempo. La peggiore è quella colorata, la malinconia da luna park».
Paolo Conte apre il concerto in piedi, cerca il tempo sulle cuciture dei jeans. La prima canzone è "Cuanta pasiòn", dove le vigne stanno immobili nel vento forsennato. Sotto i portici di piazza Roma l´insegna illuminata di un negozio si affretta a entrare nel suo paesaggio. Dice così: «Profumeria specializzata per i capelli».
Repubblica 22.8.11
Gli archeologi tedeschi hanno esaminato le ampolle trovate nella tomba della potente faraona Hatshepsut Svelato il giallo della sua fine: l´unguento conteneva anche benzopirene, sostanza altamente cancerogena
Bella da morire 3.500 anni fa la regina d´Egitto uccisa da una crema
di Andra Tarquini
BERLINO. Fu una delle regine più belle, ammirate e potenti della storia antica, seppe imporsi come giovane donna di potere in un mondo maschile. Ma la rincorsa della bellezza perfetta, allora un mito per le classi al potere, le fu fatale: morì a soli 35 anni, dopo almeno 20 anni sul trono, uccisa dal cancro che le creme di bellezza le avevano provocato. È la tragica storia della mitica regina egiziana Hatshepsut, quella che la scienza ci ha svelato.
Grazie alle ricerche di un team di egittologi tedeschi dell´università di Bonn, il mistero della morte di Hatshepsut è oggi svelato. E così la ricchissima eredità dell´antico Egitto nella cultura mondiale si arricchisce a suo modo d´un monito: guai a fare l´impossibile per essere belli a tutti i costi. Cosmetica, medicine, trucco, e oggi lifting, botox e altri ritrovati, possono essere fatali.
Hatshepsut, come ce la tramandano gli storici, pitture e bassorilievi, la decrittazione dei geroglifici e il suo splendido busto esposto al Metropolitan a New York, fu una delle donne più belle, affascinanti e potenti dell´antichità. Visse attorno al 1450 avanti Cristo, e regnò per vent´anni sull´Egitto. "La prima delle donne elette che abbraccia Amun", significa, tradotto, il suo nome. Era astuta e intelligente, aveva l´istinto del potere. Figlia del faraone Tutmosi I° e di Ahmose, sposò il fratellastro Tutmosi II e fu la sua reggente. La sua incoronazione fu memorabile: lei si gettò ai piedi dei sacerdoti che le conferirono di fatto i pieni poteri. Come Nefertiti, come Cleopatra, la sua bellezza divenne simbolo e incarnazione del potere.
Hatshepsut regnò vent´anni, ma a lungo la sua morte e l´ubicazione della sua mummia furono un mistero. La sua tomba fu identificata pochi anni fa nella Valle dei re, nel maestoso complesso di templi funerari nell´attuale Deir el-Bahari. Adesso gli egittologi tedeschi hanno però risolto il giallo più difficile: la causa del suo decesso. È avvenuto per caso, ha spiegato Michael Hoeveler-Mueller, uno di loro. Il team tedesco, lavorando insieme ai colleghi egiziani, aveva trovato e fatto analizzare alcune piccole ampolle, alte circa 15 centimetri. Ampolle col sigillo di Hatshepsut, e che si credeva contenessero il suo profumo.
«Con quei flaconi abbiamo svelato un mistero antico di 3500 anni», afferma Hoeveler-Mueller. Nei flaconi, spiega, non era contenuto un profumo, bensì una crema di bellezza per la pelle, che probabilmente Hatshepsut usava per curare gli eczemi che la affliggevano e conseguire la bellezza perfetta. Un mito nell´antico Egitto, il quale vantava un´industria della cosmesi altamente sviluppata. Fascino, sex appeal, eleganza, cura d´ogni dettaglio, attenzione al messaggio erotico dell´abbigliamento e della pettinatura, erano canoni irrinunciabili per la regina, e per ogni donna o uomo al potere allora.
Ma la crema di bellezza di Hatshepsut fu la sua condanna. Era a base di olio di palma e olio di noce moscata, dicono i ricercatori, ma conteneva anche due sostanze altamente cancerogene. Cioè catrame e benzopirene, quest´ultimo reso tristemente famoso nell´età moderna per i veleni dell´Italsider di Taranto. Si supponeva già, spiegano i ricercatori di Bonn, che Hatshepsut soffrisse di cancro e diabete. Ma ora abbiamo praticamente la certezza che il tumore letale le fu scatenato dalla crema di bellezza. «Escludiamo ogni falsificazione, i sigilli della regina sui flaconi sono autentici», sottolinea Hoeveler-Mueller.
Destino amaro insomma, per Hatshepsut. Lei mostrò tra le prime che una donna poteva governare, ordinò grandi lavori pubblici e spedizioni punitive contro forze ribelli in Nubia e in Palestina. Ma l´imperativo della bellezza perfetta, che nell´antico Egitto valeva per donne e uomini, le fu fatale. Nefer, era la parola che lo indicava, da cui derivarono il nome di Nefertiti e del dio della bellezza Nefertem, detto anche "il signore della cosmesi". Lezioni amare, ma importanti anche oggi: meglio accettarci come siamo, e rassegnarci ai segni del tempo sulla nostra pelle.
Repubblica 22.8.11
Perché la biopolitica cambia alcuni concetti fondamentali
Corpi contemporanei e vecchie democrazia
Il potere, nelle sue dinamiche, si rivolge sempre di più alla nostra vita biologica
di Roberto Esposito
Che la democrazia contemporanea sperimenti qualcosa di più che una semplice battuta di arresto – una vera e propria malattia che ne blocca la crescita e ne riduce le potenzialità – è sotto gli occhi di tutti. Una serie di libri recenti, tra i quali il dialogo di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky sulla felicità della democrazia (Laterza), ne indaga genesi e fenomenologia, dal punto di vista dello scarto vistoso tra enunciazione dei principi ed esiti conseguiti.
Se compito primario della democrazia, uscita vittoriosa nello scontro con i totalitarismi, era l´allargamento della partecipazioni dei cittadini al governo della cosa pubblica, non si può dire che quest´obiettivo sia stato raggiunto. Al contrario ciò che oggi si registra è una progressiva spoliticizzazione tendente a degenerare, in contesti istituzionalmente fragili come quello italiano, verso forme di populismo regressivo (si veda a riguardo il volume collettaneo La democrazia in Italia, Cronopio).
Ciò detto, resta aperta un´altra domanda di fondo, forse ancora più spinosa perché non riguarda tanto la degenerazione della democrazia, quanto la sua grammatica costitutiva. Ci si può chiedere se non sia proprio questa ad essere entrata in dissonanza con la mutazione profonda che, almeno a partire dalla seconda metà del secolo scorso, coinvolge non soltanto la forma, ma la materia stessa della politica. Mi riferisco a quel salto di paradigma, identificato per primo da Michel Foucault con il termine di "biopolitica", ricostruito nella sua storia recente e nei suoi effetti di senso da Laura Bazzicalupo in un saggio omonimo (Biopolitica. Una mappa concettuale, Carocci 2010).
Di cosa si tratta? Del fatto che, nelle sue dinamiche, sempre più il potere si rivolge direttamente alla vita biologica degli individui e delle popolazioni. Naturalmente la conservazione e lo sviluppo della vita ha costituito fin dall´origine la cornice e l´obiettivo della politica. Ma con la differenza decisiva che, mentre nella prima fase della modernità il rapporto tra politica e vita passava per tutta una serie di mediazioni istituzionali, da un certo momento in poi quei filtri sono venuti meno. Da allora il centro della sfera politica, come anche la scena dei media, è stato occupato dalle vicende del corpo – prima confinate nell´ambito della sfera privata, se non nell´ordine della natura – con le conseguenze ambivalenti su cui ha richiamato recentemente l´attenzione Massimo Recalcati (in la Repubblica del 25 maggio scorso).
Ora il problema è che, almeno nella sua forma classica, la democrazia è stata pensata al di fuori di queste coordinate e anzi, per certi versi, in contrasto con esse. Dovendo riscattare l´eguaglianza dei cittadini dalle rigide distinzioni di ceto e di censo dell´antico regime, essa ha fatto necessariamente riferimento ad un soggetto puro, astratto da ogni determinatezza concreta, inteso come centro di imputazione formale di diritti e doveri uguali per tutti. E´ inutile dire come questa opzione abbia costituito un passaggio essenziale nella civilizzazione umana, di cui è necessario custodire ad ogni costo il nocciolo progressivo. Ciò non toglie che l´universalismo democratico evidenzi un limite rispetto alla particolarità di condizioni, fisiche e sociali, irriducibili alla figura stilizzata della persona giuridica.
Come può, una teoria come quella democratica, incardinata intorno al perno dell´eguaglianza formale, fare fronte ai bisogni e alle esigenze di segmenti socio-culturali non omologabili in una cornice unitaria? Se spostiamo l´attenzione dall´Europa agli Stati Uniti – certo non meno democratici di noi – tutte le culture politiche progressiste chiedono il rispetto delle differenze con l´argomento, difficilmente confutabile, che un´uguaglianza davvero giusta non è quella che parifica astrattamente condizioni diverse, ma quella che, al contrario, le compone in un mosaico capace di tenere conto, e anzi di valorizzare, tale diversità. Allo stesso modo immaginare di trattare i profughi che si ammassano alle nostre frontiere con i criteri, necessariamente formali, delle giurisdizioni dei singoli Stati o con una normativa valida in ogni contingenza, ci fa perdere il contatto con la concretezza drammatica della questione.
Anche da questo lato comprimere la realtà eccedente dei corpi viventi nella griglia omologante del soggetto giuridico significa spingerli in una zona di nessuno da cui rischiano di non avere scampo. Non è un caso che, nonostante le più nobili intenzioni di coloro che ne fanno uso, la nozione di "persona", dalla sua genesi romana fino a tempi non troppo remoti, ha costituito un dispositivo escludente rispetto ad esseri umani tenuti fuori da suoi confini appunto perché dichiarati non completamente tali – persone potenziali, semi-persone o addirittura non-persone.
E´ vero, come ha ricordato in più occasioni Stefano Rodotà, che è in atto un processo di "costituzionalizzazione della persona", orientato a spezzare il guscio dell´astrazione giuridica a favore di una presa in carico di differenze irriducibili, secondo il dettato delle più avanzate costituzioni democratiche, compresa quella italiana. Nella stessa direzione la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione Europea assegna un rilievo alla condizione specifica dell´infante, dell´anziano, del portatore di handicap, sciogliendo l´indifferenza della norma in una nuova dialettica tra uguaglianza e diversità. Ma si tratta di un percorso appena avviato, che richiede la costruzione di un lessico politico capace di abbandonare, superandole in una nuova sintesi, le dicotomie moderne tra pubblico e privato, persona e corpo, natura e storia.
Repubblica 22.8.11
Il saggio di Vaccari ci spiega come sia importante far parlare gli scatti
Anche le fotografie hanno un inconscio
di Michele Smargiassi
Questo testo ha vissuto per quasi 30 anni un´esistenza clandestina: ora finalmente si può rileggere scoprendo la filosofia delle immagini e che cosa è un autore
Tanti, troppi gli "artisti che usano la fotografia". Franco Vaccari invece si è sempre lasciato usare dalla fotografia. Perché scoprì che era l´unico modo per non diventarne schiavo, il tipo peggiore di schiavo: quello che crede di essere padrone. Questo suo Fotografia e inconscio tecnologico (Einaudi, pagg. 108, euro 17), piccolo grande libro finalmente ammesso sugli scaffali maggiori dell´editoria, ha vissuto per oltre trent´anni un´esistenza semiclandestina, pur essendo uno dei dieci testi teorici, l´unico italiano, indispensabili per comprendere la fotografia. Ed anche oggi c´è da scommettere che risulterà indigesto al milieu fotografico, perché afferma con lucida spietatezza quel che un fotografo, specie se "artista", odia sentirsi dire: che non è lui a fare le fotografie, che le fotografie si fanno da sole, o meglio che a farle è l´inconscio tecnologico che la nostra civiltà ha depositato nei meccanismi della fotocamera, che è perfettamente in grado di strutturare culturalmente l´immagine anche in assenza di un autore cosciente; il quale, povero illuso, crede di creare mentre, se va bene, "connota" con qualche fiocchetto un´immagine già autosufficiente e sensata, come l´automobilista appiccica le decalcomanie sulla carrozzeria dell´auto per far credere che sia unica e sua.
Si sente l´eco del dibattito sulla "morte dell´autore" che infuriava quando Vaccari, con le sue "esposizioni in tempo reale", irrompeva sulla scena della Biennale di Venezia esponendo una macchinetta per fototessere e una parete bianca su cui i visitatori appendevano i loro ritratti automatici. Ma anche se porta il segno delle tempeste culturali degli anni Sessanta, questo libro parte molto prima, dal concetto di "inconscio ottico" in Benjamin, dalla rivoluzione dell´objet trouvé di Duchamp; su cui raccoglie e cuce suggestioni teoriche apparentemente lontane, da Kracauer a Baudrillard, da Bourdieu a quell´altro autore fondamentale e semiclandestino che è Vilém Flusser il cui concetto di "apparato", ricorda giustamente Roberta Valtorta in prefazione, è complementare alle intuizioni dell´artista modenese.
Negli anni dopo il Sessantotto, quando «quel che si sapeva era diventato sospetto», Vaccari chiese alla fotografia di «farmi vedere ciò che non sapevo». La lasciò fare, disponendosi umilmente ad accogliere, con spirito surrealista, la «scrittura automatica» che gli avrebbe restituito. È proprio l´accettazione della casualità, dei doni misteriosi della fotocamera, delle «informazioni parassite» che entrano nell´inquadratura all´insaputa del fotografo, è la disponibilità ad essere solo un partner dell´apparecchio, per Vaccari, che legittima l´esistenza di un operatore chiamato fotografo.
Diminutio indigesta per il «narcisismo» dei presuntuosi fotografi-autori, che vivono con senso d´inferiorità la concorrenza creativa della macchina e cercano disperatamente di domarla, di «ridurre il coefficiente di indeterminazione», di cui si vergognano invece di riconoscere che è proprio questo lo specifico della fotografia, cioè che mette in forma quel che il fotografo non ha neppure visto; e allora cercano con «sovracodificazioni isteriche» di riportarne tutti gli elementi sotto il proprio controllo, finendo per trasformare la buona fotografia in cattiva pittura. Valeva un secolo fa coi pittorialisti, valeva trent´anni fa, e vale a maggior ragione oggi, quando l´insperato soccorso dei software di fotoritocco è una frusta miracolosamente piovuta nelle mani dei tremebondi domatori d´immagini.
Corriere della Sera 22.8.11
Kershaw divide gli storici britannici
di Antonio Carioti
Parlare di stroncatura forse è eccessivo, ma certo la recensione dello storico inglese Ben Shephard, pubblicata ieri da «The Observer», è molto critica verso The End. Hitler's Germany 1944-45 (editore Allen Lane), l'ultimo lavoro del più noto biografo britannico del Führer, Ian Kershaw. Il libro, in quasi seicento pagine, si propone di spiegare le ragioni per cui la popolazione e l'esercito del Terzo Reich continuarono a resistere fino all'ultimo nella fase finale della Seconda guerra mondiale, subendo perdite e sofferenze immense, benché non vi fosse più alcuna speranza di vittoria.
Il fatto è, sostiene Shephard, che quelle vicende sono già state narrate ampiamente più volte e Kershaw, pur dimostrando di padroneggiare bene la materia, non aggiunge alcuna interpretazione nuova, né esplora a fondo le questioni sollevate proprio dalla sua vasta e competente ricostruzione. Shephard ne elenca diverse: l'influenza del ricordo di quanto era avvenuto nella Prima guerra mondiale; il peso della tradizione militarista prussiana; il problema del rapporto tra il carattere nazionale tedesco e la «personalità autoritaria» studiata da Theodor Adorno.
Su questi terreni Kershaw non si spinge, conclude il recensore, mentre molto più fecondo appare l'approccio adottato da un altro studioso, Richard Bessel, che in un libro del 2009, Germany 1945, ha ricondotto a quegli eventi traumatici lo sradicamento definitivo della mentalità diffusa e dell'indirizzo culturale che avevano portato i tedeschi a combattere due guerre mondiali.
Più benevolo verso Kershaw si mostra invece un articolo dello storico Max Hastings, uscito ieri sul «Sunday Times». Il punto sollevato qui è un altro: l'indulgenza che vi fu nel dopoguerra verso gli alti ufficiali dell'esercito tedesco. Generali come Heinz Guderian ed Erich von Manstein, scrive Hastings, vissero tranquilli e rispettati nella Germania postbellica, mentre Kershaw dimostra che, per la loro complicità nei crimini di guerra nazisti e nella Shoah, avrebbero quasi tutti meritato la corda del boia.
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