lunedì 15 agosto 2011

l’Unità 15.8.11
L’intervista La presidente Maraschio: «Colpo durissimo per il Paese»
Il ministro Galan: «Faremo di tutto per scongiurare questa ipotesi»
«Uccidono la Crusca? Ora se ne assumano tutte le responsabilità»
Nicoletta Maraschio, a capo dell’Accademia della Crusca, l’ente che tutela la nostra lingua, alza le mani. «La manovra ci farà sparire. Da tre anni chiediamo al Governo una tutela. Ma non ci ascoltano».
di Stefano Miliani

Una villa medicea presso Firenze, che vigila sulla lingua italiana dal 1612. Per i 150 anni del nostro paese si sono sprecate le affermazioni sull'importanza dell'italiano come elemento che ha legato un territorio diviso. Ora la Crusca rischia di venir soppressa con la manovra: è tra gli enti con meno di 70 dipendenti insieme all'Istituto per l'Africa e l'Oriente, quel che rimane del Coni e altri istituti. Nicoletta Maraschio, docente universitaria e presidente dell'Accademia, è incredula: «Non posso credere che la cancelleranno. Ma questo è anche il senso della precarietà in cui istituzioni come le nostre sono costrette a sopravvivere. E allora piuttosto che continuare a farci stare in queste condizioni si prendano la responsabilità di chiuderci. Ma se la prendano loro». Responsabilità che il ministro dei Beni Culturali, Galan, non intende assumersi: «Troveremo la soluzione per non far morire questa istituzione storica che è l'unico baluardo a salvaguardia delle radici della lingua italiana». E intanto Nicoletta Maraschio ha già annunciato una lettera-appello a Napolitano per scongiurare la chiusura della Crusca, Professoressa, stando alla manovra voi siete candidati a sparire. Non posso credere che lo faranno davvero. Non si sapeva se l'Accademia era davvero nell'elenco, invece pare di sì. Nel 2009 Brunetta e Calderoli la salvarono tirandola fuori dall'elenco degli enti inutili, ora non so se si farà riferimento a un decreto legge di dicembre che ne riprende uno del 2009. Fatto sta che siamo tra gli enti non economici con meno di 70 dipendenti. Quanti siete? Abbiamo 6 dipendenti, tre in biblioteca e tre in segreteria. Poi gli accademici che saranno più di 50 studiosi di tutto il mondo, e che lavorano a titolo gratuito, come me. Eabbiamo i collaboratori che vivono in condizioni di totale precarietà con contratti a progetto in base ai soldi che troviamo. Variano da 20-30 persone e sono quelli che concretamente mantengono il sito, digitalizzano le opere, aggiornano l'archivio e così via.
Cosa vi servirebbe?
Da tre anni cerchiamo di avere una legge apposita che definisca una nostra natura giuridica pubblica e preveda una dotazione ordinaria, finora non ci siamo riusciti. Noi e i Lincei di Roma siamo le uniche accademie pubbliche italiane: non credo loro abbiano 70 dipendenti ma hanno una legge che forse li tutela. Non posso credere che il governo cancelli un'istituzione secolare come la Crusca legata al nostro vocabolario, che è un riferimento fondamentale per l'italiano dal 1612 a e oggi siamo un istituto di ricerca attivo in tutti i settori. Vedremo se hanno il coraggio di farlo. Quale è il vostro ruolo?
Tutti i paesi del mondo hanno un' istituzione che si occupa della lingua nazionale. Questo è nostro ruolo da secoli e abbiamo fatto da modello per gli altri paesi. Cancellare la Crusca cosa significa? Nel 2011 si è detto e ridetto che la lingua è il collante fondamentale e l'identità in un paese diviso socialmente e linguisticamente. E si cancella l'istituzione che è garante della lingua?
Siete un ente che spreca soldi?
(scoppia in una sonora risata, ndr). Passo il tempo in accademia, non prendo un euro, è un lavoro volontario come quello degli accademici. Dal ministero dei Beni culturali riceviamo circa 190mila euro. Tutti gli altri soldi, oltre un milione di euro, li dobbiamo trovare noi attraverso rapporti con enti, istituzioni, grazie all'associazione degli Amici della Crusca, con una convenzione con Cnr, con il contributo annuale della Regione (per il 2011 darà 200mila euro). Attraverso un lavoro enorme nostro ci procuriamo soldi per sopravvivere ma senza poter programmare il futuro: sono sicura dei soldi fino al 31 dicembre ma dopo non so cosa succederà. Se mi arrivassero solo i fondi del ministero, allora non importerebbe nemmeno fare il decreto, chiuderemmo.

l’Unità 15.8.11
Manovra letale
Non risparmiano neppure la sanità
di Ignazio Marino

Dopo tre anni la destra che governa l’Italia è stata costretta ad ammettere che la crisi c’è e che il Paese versa in una situazione drammatica. Per quasi mille giorni, Silvio Berlusconi e i suoi ministri hanno ridimensionato ripetutamente il problema, accusando di “disfattismo e “pessimismo” chiunque osasse levare una voce di critica costruttiva. Poi, in una drammatica vigilia di Ferragosto, hanno varato una manovra straordinaria che, senza dubbio, colpisce i più deboli, imponendo sacrifici amari. Abbiamo sentito ripetere in questi giorni che la sanità non sarà indebolita, che non sono stati previsti nuovi tagli o nuove tasse. Dopo i colpi di forbice indiscriminati della manovra varata a luglio e l’imposizione di due ticket irragionevoli, una notizia del genere dovrebbe servire per rassicurarci. Ma temo, purtroppo, che non corrisponda a verità: se l'anticipazione di un anno del federalismo, annunciata sabato da Roberto Calderoli, porterà con sé anche l’avvio dei costi standard, il Servizio Sanitario Nazionale sarà cannibalizzato da un sistema che non tiene conto delle reali esigenze di ciascuna Regione.
Il ministro della Salute Ferruccio Fazio, a mio avviso, dovrebbe affrettarsi a fare chiarezza su questo punto: la riforma federalista della sanità italiana, così come concepita dalla destra, è già confusa e poco lungimirante, anticiparla di un anno sarebbe irresponsabile. E, soprattutto, il governo dovrebbe spiegare come la attuerà, se neppure i nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) sono stati approvati. I Lea definiscono le cure, gli accertamenti e gli interventi medici e chirurgici che il Servizio Sanitario Nazionale è tenuto a garantire a tutte le persone sull’intero territorio: quelli italiani sono vecchi di dieci anni e non tengono perciò conto dei tanti progressi tecnologici ottenuti nel tempo. Questo ritardo danneggia ovviamente i pazienti e mette in difficoltà gli operatori sanitari: la medicina per fortuna non è la stessa del 2001, ma tale è rimasta per il governo. Non aggiornare il tipo di terapie attuabili, ad esempio, per curare una neoplasia, significa incrinare l’efficacia e l’efficienza delle cure.
Al “governo del fare” del nostro presidente del Consiglio, imprenditore tanto pragmatico e concreto, sarebbe bastato continuare nel 2008 il lavoro già iniziato dal Governo Prodi: i Lea infatti erano già stati riscritti, sarebbe stato sufficiente un timbro. Uno sforzo troppo impegnativo per la destra?
Non è tutto. Le prestazioni previste dai Livelli Essenziali di Assistenza andrebbero verificate periodicamente in modo da impedire che vi siano disparità di trattamento, ad esempio, tra gli ammalati di Aosta e coloro che vivono a Trapani. Si tratta di controlli cruciali per non costringere i pazienti alla cosiddetta migrazione sanitaria, che spinge ogni anno circa un milione di persone dal sud al nord in cerca di una rete di assistenza funzionante ed efficiente. Questo fenomeno è davvero preoccupante e diffuso: per citare un caso recente, la compagnia aerea Trawel Fly e gli ospedali Riuniti di Bergamo hanno sottoscritto una convenzione che garantisce tariffe ridotte del 25% sui voli per chi sceglie di curarsi nel nosocomio bergamasco. Niente di male, ovviamente, ma la Trawel Fly collega l’aeroporto di Bergamo con i maggiori scali del sud Italia (Catania, Crotone, Lamezia Terme, Lampedusa, Napoli, Olbia, Pantelleria, Reggio Calabria). Non credo sia un caso che tali intese commerciali si sviluppino coinvolgendo ospedali del nord e pazienti del sud: questa è la realtà su cui il governo avrebbe dovuto intervenire, anche applicando l'articolo 120 della Costituzione che prevede il commissariamento per le Regioni che non sono in grado di garantire la qualità delle cure.
Introdurre i costi standard in questo contesto, significherebbe punire in maniera intollerabile i cittadini del sud, già vessati da servizi sanitari regionali inefficienti, senza far nulla per migliorare le loro condizioni di vita nel momento più fragile, quello della malattia. Non basta dire alle regioni, questo è quanto deve costare la cura per un tumore o una tac, per il resto sbrigatevela da sole. Non è un federalismo responsabile e porterà solo danni, perché si considerano solo gli aspetti economici e finanziari.
Servono, invece, una valutazione e una verifica complessiva, che tengano conto anche delle gravi difficoltà gestionali nelle regioni del centro-sud. Ma forse è la strada leghista che avrà la meglio: non serve una riforma responsabile ma un federalismo dell'abbandono, per cui chi vive al nord ha gli ospedali che funzionano e non si interessa del destino del sud. Oppure, ancor peggio, un federalismo cannibale, per cui si dirà ai cittadini del sud: “venite da noi al nord, pagate e sarete curati”. Senatore Pd

l’Unità 15.8.11
Anubis e la canicola
Il mondo pieno di dei li ha persi tutti
di Massimo Adinolfi

Si leva il Sole nella valle del Nilo. Al suo fianco riappare Sothis, ossia Sirio, la Stella dardeggiante, che annuncia, fedele e vigile come un cane, lo straripamento del grande fiume, dalla cui piena annuale dipende la vita e la prosperità del popolo egizio. Sono i giorni più caldi dell’anno, i giorni della canicula, e per un mese circa, dal 25 luglio alla fine di agosto, Sirio, la stella canicolare, la più luminosa della costellazione del Cane Maggiore, sommerà la sua luce ardente e il suo calore a quello del grande Sole. Dinanzi a Sirio sta nella volta celeste Anubis, il dio sciacallo, dal corpo umano e dalla testa canina, che Friedrich Creuzer associava senz’altro alla stella. Dio della mummificazione, signore delle necropoli, Anubis rappresentava anche il circolo dell’orizzonte, la linea che separa il visibile dall’invisibile, e così l’ombra dalla luce, e la morte dalla vita. Entro quel sottile circolo gli uomini conducevano un’esistenza, la cui misura era scandita dalle inondazioni del fiume, dal moto degli astri, dal volere degli dèi (e del Faraone).
Cos’è oggi il nostro solleone? Che fine hanno fatto Sirio, la stella del cane, e il dio canide Anubis? Che cosa rimane di quell’antica sapienza sotto la canicola estiva? Non è solo colpa della precessione degli equinozi se la levata eliaca di Sirio non coincide più con l’inizio del caldo torrido, e con un senso cosmologico della vita. C’è un celebre passo di Baruch Spinoza, che dà immediatamente l’idea di quanto il mondo moderno si sia allontanato dall’immenso patrimonio religioso e simbolico dell’antichità. Il filosofo olandese sta spiegando nell’Ethica quale equivocità affetti le nostre parole, e dovendo fornire un esempio indiscutibile sceglie proprio quello che fa al caso nostro: nonostante abbiano lo stesso nome, dice infatti, in nulla convengono tra loro il cane segno celeste e il cane animale latrante. Tra l’uno e l’altro, tra l’animale e la stella non c’è che omonimia. Evidentemente, Spinoza non può sospettare che ci sia stato un tempo in cui una divinità teriomorfa, un dio con la testa di cane poteva far da mediatore fra l’animale e la costellazione, e un cane o uno sciacallo che s’aggirasse randagio fra resti di carcasse animali sotto il sole rovente d’Egitto poteva essere sacro a un dio, e oggetto di culto nella città, Khasa, a lui consacrata. Eppure ci sono voluti millenni prima che gli animali diventassero soltanto animali, e gli dei si allontanassero definitivamente dal mondo. Il cristianesimo ha avuto la sua responsabilità, nel processo di sdivinizzazione. È in Plutarco che ascoltiamo la voce dell’oracolo annunciare che il grande Pan è morto. E di quell’oracolo si appropriò Pascal, avendo in animo di condurre la prima apologia moderna della religione in assenza di qualunque dimostrazione fisico-teologica dell’esistenza di Dio, che cioè si fondasse sulla bellezza del creato per trovare in esso tracce del divino. (Qualcun altro proverà divinizzando la Storia, ma la cosa non riuscirà gran che bene, e anzi finirà in tragedia). Nel Medioevo, però, il retaggio dei culti pagani non si è disperso in un giorno. Di animali strani sono piene le cattedrali, né è mancata la rappresentazione cinocefala di un santo, Cristoforo, che, guarda caso, si festeggia proprio il 25 luglio (ed è curioso pure che molti altri santi, che hanno tutti a che fare con i cani, si festeggino nei mesi estivi come san Domenico, san Rocco o san Bernardo, tutti santi agostani). In molte icone bizantine San Cristoforo ha la testa di cane, proprio come il dio Anubi. E come lui è un traghettatore: Cristoforo vuol dire infatti «colui che porta Cristo», e la leggenda vuole che Cristoforo fosse un soldato di fattezze gigantesche, trovatosi un giorno ad attraversare un fiume, e chiamato a portare sulle spalle un bambino. Durante il guado, il peso del bambino crebbe enormemente, e poco mancò che il gigante non annegasse. Quel bambino era Cristo, l’immane reggitore dell’universo. Morale della favola: se presso gli Antichi sono i movimenti degli astri a governare l’esistenza degli uomini, con Cristo è piuttosto un Dio fatto uomo a portare su di sé il peso del mondo e a salvarlo. Ma oggi? Dove sono più spalle così robuste da sostenere il nostro cammino? E che ne è dei cani, nella calura estiva? Oggi, che le vie di animali, uomini e dèi si sono separate, vediamo i cani aggirarsi solitari come nelle pagine di Rafael Courtoise, scrittore uruguaiano contemporaneo che in Vite di cani (Oedipus edizioni, traduzione di L. Sessa), li fa correre senza guinzaglio e senza meta in un’afa opprimente: «Il selciato è muto. Arroventato dal sole della metropoli. Un deserto di cemento, senza volto, sono le tre del pomeriggio. Fa caldo. Un cane corre». Corrono i cani inseguendo odori che ignoriamo: «Il peso schiaccia la canicola, il cane corre sulla pelle del calore come se si bruciasse le zampe». Non c’è annuncio più eloquente dell’arsura, della sete di senso dell’uomo contemporaneo, di un cane ossuto e ischeletrito che si aggira sperduto sotto la canicola, nell’ora più torrida della giornata. E cosa resta all’uomo, alla sua ombra gettata dal sole contro uno scalcinato muro, se non qualche sillaba storta e secca, come recita uno dei più celebri ossi
di Montale? Dal mondo pieno di dei degli antichi a un mondo in cui non se ne indovinano più le tracce, e il sole a picco inaridisce l’esistenza. Una delle più sgradevoli rappresentazioni della povertà di senso del mondo contemporaneo è oggi nel cinema originale e crudele di Ulrich Seidl, ed è di nuovo la Canicola (Gran Premio della Giuria, Venezia 2001) a darne la spietata rappresentazione. Nel film, si compongono sei storie del tutto ordinarie, in cui per un’umanità madida di sudore che si aggira desolata sotto il sole non sembra ci sia più senso né comprensione alcuna. Werner Herzog ha scritto a proposito del cinema di Seidl che sembra aspirare a un film «che faccia desiderare agli spettatori di non essere mai nati», e che tuttavia proprio in questa aspirazione «si annida una profonda nostalgia, un’utopia». Ma quale utopia? Forse soltanto quella di una bella giornata, in cui un «sole invincibile», per dirla con Camus, non fiacchi più l’uomo ma anzi lo rinvigorisca. Camus sapeva però come non fosse semplice unire i due pensieri che dischiudono all’uomo quella luce. Scrisse infatti nei suoi Taccuini: «La miseria mi impedì di credere che tutto sia bene sotto il sole e nella storia; il sole mi insegnò che la storia non è tutto». Ma chi sa oggi protestare contro la miseria mantenendo intatto l’amore per il sole che piove, anche lui, sui giusti e sugli ingiusti?

Repubblica 15.8.11
Le confessioni di Marrazzo "Perché andavo in via Gradoli"
intervista di Concita De Gregorio


Piero Marrazzo due anni dopo si racconta. Lo scandalo, le dimissioni, la solitudine. Una confessione: "Ho sbagliato per fragilità, chiedo scusa. Un uomo pubblico deve controllare le sue debolezze". E poi: "Non ero drogato né omosessuale. Ma ricattabile sì Perché i trans? Sono donne all´ennesima potenza, rassicuranti"
Sono il figlio di Joe Marrazzo, mio padre lo voleva morto la mafia. Ce la farò. Ora sconto il mio errore, la vita è davanti

Due anni di silenzio dopo lo scandalo che lo travolse. Oggi l´ex presidente della Regione Lazio racconta il suo "errore". Per il quale ha chiesto scusa: alla famiglia prima di tutto. Ma dice anche: mi tesero una trappola e io non potevo accettare quel ricatto

Nel corso di questa intervista, iniziata la sera del primo turno delle amministrative di maggio con le proiezioni che continuamente irrompevano dai cellulari e finita ad agosto a Monterano, borgo abbandonato dove è nata una quercia dentro una chiesa disegnata dal Bernini, Piero Marrazzo ha detto ventiquattro volte "perché io sono il figlio di Joe Marrazzo". L´ultima volta - era il giorno del congedo di Paolo Ruffini dall´azienda - lo ha detto a proposito della Rai: "Perché io sono entrato per la prima volta alla Rai da bambino per mano a mio padre". Nei primi due incontri, segnati dalla sua estrema diffidenza e in definitiva dal tentativo reciproco di capire se saremmo riusciti a parlare della "cosa", ha raccontato solo della sua famiglia. Del padre, del padre e poi ancora del padre, per ore. Della madre americana, la cui vita è un romanzo. Delle figlie ragazze, i loro studi. Con grandissima prudenza della moglie Roberta, "certo che la amo ancora, come sempre". In ultimo della loro figlia bambina. Il secondo incontro è finito così, con una lunga pausa alla domanda "come ha raccontato quello che è successo a sua figlia di dieci anni?".

Nel corso di questa intervista, iniziata la sera del primo turno delle amministrative di maggio con le proiezioni che continuamente irrompevano dai cellulari e finita ad agosto a Monterano, borgo abbandonato dove è nata una quercia dentro una chiesa disegnata dal Bernini, Piero Marrazzo ha detto ventiquattro volte «perché io sono il figlio di Joe Marrazzo». L´ultima volta - era il giorno del congedo di Paolo Ruffini dall´azienda - lo ha detto a proposito della Rai: «Perché io sono entrato per la prima volta alla Rai da bambino per mano a mio padre». Nei primi due incontri, segnati dalla sua estrema diffidenza e in definitiva dal tentativo reciproco di capire se saremmo riusciti a parlare della "cosa", ha raccontato solo della sua famiglia. Del padre, del padre e poi ancora del padre, per ore. Della madre americana, la cui vita è un romanzo. Del fratello. Delle figlie ragazze, i loro studi. Con grandissima prudenza della moglie Roberta, «certo che la amo ancora, come sempre». In ultimo della loro figlia bambina. Il secondo incontro è finito così, con una lunga pausa alla domanda «come ha raccontato quello che è successo a sua figlia di dieci anni?». Dopo un paio di minuti ha risposto: «Le ho detto che papà è andato alla festa sbagliata». Poi due mesi di silenzio, come se quella frase fosse stato tutto quel che c´era da dire.
Al suo ritorno da un viaggio in Armenia - ha ricominciato a girare documentari per la Rai - ci siamo incontrati di nuovo. Grotta romana di Stigliano, il luogo dove i soldati feriti andavano a recuperare le forze e a curarsi. Catacombe da cui si esce risorti. «Magari funziona», sorride. Una settimana prima otto persone, tra cui tre carabinieri, erano state rinviate a giudizio per tentata estorsione ai suoi danni.
Soddisfatto?
«Come potrei essere soddisfatto? Sono due anni che vivo solo, che non parlo di questo con nessuno, che provo a ritrovare il bandolo della vita. Sono il figlio di Joe Marrazzo, ce la farò. Ce l´ho fatta già. Ma la soddisfazione, mi creda, in questa storia non è contemplata».
Un paio d´ore più tardi ne abbiamo parlato. Avrei solo sei o sette domande, gli ho detto. Cos´è successo davvero quella sera, perché, cosa non si perdona, a chi attribuisce le responsabilità, cosa le è successo nella vita politica e privata in quei mesi, come pensa il futuro, se la politica la tenta ancora o se è una storia finita. Va bene? «Va bene. Ma solo perché in cima o in coda a queste domande c´è una sola cosa che sento di dover dire. Pubblicamente, alle persone che si sono fidate di me».

Che cosa? «Che ho sbagliato. Ho fatto un errore. Di questo errore voglio chiedere scusa. Ho sbagliato, scusatemi. Ecco. Solo questo».
Sono passati più di due anni da quel giorno. L´errore è stato andare in via Gradoli, andarci con l´auto di servizio, assumere droga, fidarsi della persona sbagliata, non aver capito, non averlo detto a chi avrebbe potuto, non aver denunciato il ricatto? Di quale errore parla?
«Un errore più grande di tutti questi. Una mia fragilità di fondo, un bisogno privato e così difficile da spiegare, una mia debolezza. Un uomo che assume un incarico pubblico non può avere debolezze. Le deve controllare. Per questo mi sono dimesso, per quanto fossi vittima di un reato come oggi quei rinvii a giudizio dicono. Vittima, non colpevole. Ma l´aspetto giudiziario è secondario: so di non aver commesso reati, di non aver violato alcuna legge. Umanamente però, nei confronti della mia famiglia, e politicamente, verso i miei elettori e la comunità che governavo, ho sbagliato. Così mi sono dimesso».
È andato a far visita a una persona per motivi privati con l´auto di servizio.
«È vero. È stata in molti anni la prima volta che è successo. Avevo sempre usato la mia macchina. Quel giorno ero confuso, stanco, ho avuto un impulso di andare lì subito. Un impulso, ecco un errore grave. C´erano anche ragioni di sicurezza: non avrei mai dovuto muovermi da solo - secondo le regole - e ogni volta che lo facevo era complicatissimo. Quel giorno non ho avuto l´energia di allestire un meccanismo complicato. Ero stanco, volevo andare lì e dimenticare il resto. Ho fatto parcheggiare lontano, ma certo questo non scusa. È stata la prima volta, e naturalmente l´ultima».
C´era della droga nella stanza.
«Non faccio uso di droghe. Mi sarà successo tre o quattro volte nella vita, a distanza di molti anni. Da ragazzo, un paio. Un paio da adulto. Sono pronto a fare l´analisi del capello per dimostrarlo. So che non è un argomento, ma sono certo che moltissimi "insospettabili", anche tra gli attuali miei censori, non potrebbero dire altrettanto. Quel giorno è successo: anche in questo ho sbagliato. Penso al messaggio devastante che ho mandato, soprattutto ai più giovani».
Vedeva abitualmente quella persona? Era come si è scritto "la sua fidanzata"?
«Assolutamente no. Per anni non ho visto nessuno. Mi era capitato in passato di avere rapporti con prostitute, come a volte agli uomini accade - specie se oberati dal dovere di essere all´altezza delle aspettative, pubbliche e private. Ho fatto un intenso lavoro terapeutico in questi anni per capire. Intendo capire le ragioni del mio comportamento».
Un lavoro di analisi?
«Sì. Ho provato a capire attraverso l´analisi, e la parola e l´ascolto, che cosa mi fosse davvero accaduto. Credo di dovere alla terapia molte delle risposte».
Diceva della fatica di essere all´altezza delle aspettative.
«So che non è bello da sentire e non è facile da dirsi, ma una prostituta è molto rassicurante. È una presenza accogliente che non giudica. I transessuali sono donne all´ennesima potenza, esercitano una capacità di accudimento straordinaria. Mi sono avvicinato per questo a loro. È, tra i rapporti mercenari, la relazione più riposante. Mi scuso per quel che sto dicendo, ne avverto gli aspetti moralmente condannabili, ma è così. Un riposo. Avevo bisogno di suonare a quella porta, ogni tanto, e che quella porta si aprisse».
Non c´entra l´omosessualità? Ricorda la battuta del presidente del Consiglio: almeno a me piacciono le donne? Se fosse, lo direbbe?
«La ricordo. Io non sono omosessuale. Non ne faccio un vanto, ma non lo sono. È così. Ho amato solo donne. Moltissimo, e con frequente reciprocità. Dai transessuali cercavo un sollievo legato alla loro femminilità. Il fatto che abbiano attributi maschili è irrilevante nel rapporto, almeno nel mio caso. Non importa, non c´è scambio su quel piano. È il loro comportamento, non la loro fisicità, quello che le rende desiderabili. Ma temo che ogni parola possa suonare come una giustificazione: non è quello che voglio. Quando sei padre le scelte in questo ambito, giuste o sbagliate che siano, se date in pasto alla pubblica opinione fanno male non a te ma ai tuoi figli. È questo che non mi perdonerò mai».
Lei aveva un appuntamento in via Gradoli quella sera?
«Non esattamente. Sono andato per suonare alla porta. Il desiderio è questo: suoni alla porta, e si apre. Poi riposi».
E se l´appartamento fosse stato occupato da altri?
«Sarei andato via».
Un rischio enorme.
«In effetti».
E come spiega allora la trappola. L´orchestrazione, la cocaina, il video?
«Aspettavano che arrivassi. Era successo altre volte. È un giro così. Ho saputo nei mesi successivi che quei cosiddetti rappresentanti dell´ordine erano coinvolti in molti altri episodi. Un sistema. Avrei dovuto accorgermene ma le difese, come le ho spiegato, in quei momenti sono molto basse. Non dimentichi, comunque, che nel mio caso è scattata l´azione giudiziaria solo perché io ho denunciato i fatti. È il nodo centrale: tutto è avvenuto perché ho denunciato, testimoniato. Se non l´avessi fatto nulla sarebbe emerso».
Quanto le costava tutto questo? Come poteva disporre di tanto denaro?
«Sono stato per molti anni un professionista affermato. Non ho accettato la candidatura per motivi economici, sono abituato a vivere del mio. Quello che ho guadagnato è frutto del mio lavoro, ho speso solo soldi miei».
Due persone sono morte: Brenda e il pusher Cafasso. Si è parlato della mano dei Servizi segreti. Si è detto che gli appartamenti di via Gradoli fossero controllati dai servizi.
«L´idea che mi sono fatto è che la dietrologia non aiuta mai a capire. C´è un´inchiesta in corso, bisogna aspettare. I giornali non sempre hanno aiutato la ricerca e la comprensione dei fatti, in questa vicenda. Ho letto in prima pagina sul Corriere un´intervista sulla morte di Brenda che non avevo mai rilasciato».
Quel video girava da mesi.
«Sì, ma nessuno mi stava ricattando. Io l´ho saputo dopo. Ho ricevuto una sola telefonata, non personalmente tra l´altro, molto ambigua. Non ho dato risposta. Non c´era un tentativo di estorsione in corso: se ci fosse stato, le assicuro, lo avrei denunciato mesi prima. Cosa sarebbe cambiato?».
La sua ricandidatura alla Regione, per esempio.
«Non mi sarei mai ricandidato sapendo di essere sotto ricatto. Difatti non è avvenuto».
Berlusconi l´ha avvertita dell´esistenza del video.
«Sì, era il 19 ottobre del 2009».
Cosa le ha detto? Come mai aveva il video?
«Mi ha detto che lo aveva avuto da uno dei suoi giornali a cui era stato offerto. Si è proposto di aiutarmi».
E lei cos´ha pensato? Che volesse aiutarla o tenerla sotto scacco?
«Ho pensato solo che non potevo restare in una posizione di tanta debolezza. Che comunque quella telefonata segnava uno spartiacque. Che non avrei più potuto fare il mio lavoro con la stessa autonomia, responsabilità, libertà. È stato l´inizio della mia decisione di parlare. C´è voluto un po´ di tempo, dovevo prima dirlo in famiglia».
Sua moglie non sapeva niente delle sue abitudini, neppure di quelle remote, precedenti al vostro incontro?
«Lei cosa pensa?».
Immagino sia un no. Non ha mai pensato di parlargliene?
«No. Anche questo è stato un errore, di cui non so più come chiederle scusa. Ma è molto complicato, è qualcosa che riguarda davvero le nostre vite private».
Oggi siete separati.
«Purtroppo sì. Sono stati mesi molto duri per lei. Un giorno è persino uscito un articolo di giornale in cui si diceva che ricevevo una transessuale in Regione. Non era vero, non è vero, non l´ho fatto né l´avrei fatto mai. Questa persona è stata probabilmente indotta a dirlo in un tentativo orchestrato da altri di screditarmi anche sul piano della condotta pubblica. Un piano su cui so di non avere macchie. Quando sono andato in Procura a rendere dichiarazioni spontanee sull´episodio mi hanno detto: non c´è alcuna deposizione in proposito, non può dichiarare sul niente».
Lei dice di non avere macchie sul piano della conduzione della Regione. Nei mesi in cui si immaginava che a qualcuno convenisse tenerla sotto ricatto, però, si è molto parlato di alcune sue indulgenze in materia di sanità. Si diceva che Angelucci venisse in Regione in tuta da ginnastica, come fosse a casa sua la domenica, e che la trattasse da padrone.
«Veniva in tuta, è vero. Era un suo problema, non un mio problema. Lo facevo sedere, lo ascoltavo, e poi gli dicevo di no. Ho detto molti no, parlano gli atti per me. La sfido a trovare una singola carta che dimostri un mio trattamento di favore verso gli Angelucci. Non esiste. Al contrario, vedrà. Ho toccato interessi molto consistenti, e non solo a danno dell´imprenditore che lei nomina. La sanità è un territorio esteso, gli interessi sono trasversali. E poi c´è stata la tutela dell´ambiente nelle zone del basso Lazio, gli appetiti dell´edilizia sui parchi, il racket dei rifiuti. A Fondi ho commissariato il mercato ortofrutticolo inquinato dalla camorra e ho fatto saltare le speculazioni urbanistiche intorno al lago dichiarandolo "monumento naturale". Su questo ci sarebbe molto da dire. Ho scontato un isolamento ed un´ostilità assolute, dopo. Bipartisan, si dice in politica».
Si è sentito isolato anche a sinistra?
«Cambiano i caratteri, le modalità private di relazione fra persone. Alcuni sono stati più cortesi e compassionevoli, anche questo può essere umiliante, altri più sferzanti. In sostanza hanno tutti concordato sulla straordinaria opportunità che offriva la mia uscita di scena. Circolavano sondaggi che mostravano come avrei vinto comunque le elezioni. Non me ne sono curato, sono andato via. Avevo sbagliato. Che io sparissi dalla scena pubblica in quel momento - Polverini era la candidata di Fini, ricorda? - faceva comodo e piacere a molti non solo sul piano locale. In ogni caso avevo davvero altro a cui pensare. Per un mese intero sono stato in un convento».
Era Montecassino, da dove ha scritto la lettera al Papa?
«Non ho scritto al Papa. Dopo qualche giorno a Montecassino, e ancora oggi sono grato al Padre Abate e alla comunità monastica per come mi hanno accolto, ho sentito il bisogno di scrivere al cardinal Bertone per spiegare i motivi che mi avevano spinto a chiedere ospitalità. Non erano giorni facili, sapevo quale disagio potevo causare. Il senso di quella lettera era "la mia vita riparte da qui". Ricordo le parole "non posso che sedermi all´ultimo banco". A Montecassino ho ripreso in mano due libri, le confessioni di Sant´Agostino e l´autobiografia di Simenon. Il primo mi ha aiutato a capire che se hai conosciuto il male non devi più nasconderti, devi continuare a guardarlo in faccia. Nella vita di Simenon mi interessava il tema dei sensi di colpa di un padre. Ecco, sono ripartito da questo».
E oggi, che cosa pensa? Tornerebbe in politica? Se ne parla molto.
«Lo so, lo so. So che molti lo temono, anche fra gli "amici". Ho conservato un rapporto straordinario con le persone, con la gente per strada. Mi chiedono sempre, anche stasera - ha visto? - presidente, quando torna? Le persone comuni capiscono benissimo le vicende della vita, sanno distinguere, sanno giudicare e trarre le conseguenze. Sanno anche perdonare, se la colpa è una debolezza e non una frode ai loro danni. Ne sono sicuro, lo so perché lo vedo. La distanza di questa politica dalla vita reale è diventata il vero problema del paese. Hanno paura - tutti, nelle loro blindate stanze - di tutto ciò che è autentico, anche nell´errore. La popolarità, il consenso di chi non sia manovrabile, ricattabile è per loro un pericolo tremendo. È la misura del loro limite. Quelli che si comportano come se avessero un mandato a vita per rappresentare gli altri sono uno dei problemi della nostra politica. Chi governa deve essere chiamato a farlo dai cittadini ed avere la loro fiducia. Parlare di liste civiche, dei protagonismi di questo o quel personaggio in un momento di crisi come questo mi sembra fuori luogo, miope e presuntuoso insieme. Detto questo: da uomo pubblico non ci si dimette».
In che senso?
«Lasci l´incarico, ma non lasci mai il carico di responsabilità che hai agli occhi degli altri. L´ho capito a mie spese. Un giorno Enrico Mentana, col quale avevo lavorato al Tg2, mi ha detto: Piero, è inutile girarci intorno. Ogni uomo pubblico viene ricordato per un episodio e tu sai che lo scandalo è entrato nella memoria collettiva per sempre. È vero, e ho apprezzato la sua franchezza, ma sentivo che c´era qualcosa di più. C´è la vita di un uomo, la vita prima e la vita dopo. Questo la memoria collettiva, per quanto impietosa, non può cancellarlo».
Lei era ricattabile, mi pare che questo resti il punto.
«Ero ricattabile, sì. Infatti è andata com´è andata. Però vorrei che si ricordasse sempre che mi sono dimesso, che era una debolezza privata, che non ho fatto torto a nessuno se non alla mia famiglia. Che la corruzione era in chi avrebbe dovuto proteggerci e non credo alle "mele marce", non posso credere che nessuno vedesse e sapesse tra chi comandava quel nucleo criminale. Che gli interessi enormi che ho toccato sono ancora tutti lì, che le vicende umane sono state devastanti per molti e letali per alcuni. Ma io sono il figlio di Joe Marrazzo, mio padre lo voleva morto la mafia. Ho sbagliato e chiedo scusa, lo chiederei a lui prima che agli altri se fosse qui. Per il futuro vedremo, nessuno di noi può darselo da solo. Sconto il mio errore come è giusto. La vita è davanti».

Repubblica 15.8.11
Emanuele Severino
“Ecco perché anche morire è un festa”


Il filosofo racconta se stesso in un´autobiografia Dall´infanzia al dolore per la perdita della moglie. "È una ferita restata aperta, la mia vita è cambiata"
Non temo la morte Ho paura dell´agonia Non voglio finire in ospedale e non voglio nessun accanimento terapeutico
L´idea che la verità possa illuminare l´individuo è un dogma. Mette al riparo, non cura il dolore ma lo circonda
Sono stato un bambino allegro fino alla scomparsa di mio fratello. È stato lui, normalista a Pisa, ad aprirmi alla filosofia
Le mie memorie non so a chi possano interessare. Quando parlo dei ricordi ecco che cominciano a suonare come falsi

BRESCIA. Ha superato con tranquilla determinazione gli ottant´anni, ha affrontato con disperata calma la scomparsa della moglie, ha scritto un´autobiografia (Il mio ricordo degli eterni, Rizzoli) che è un insieme di ricordi, ma anche un tentativo di offrire al lettore un ritratto personale di Emanuele Severino. Eppure, parlare di sé non gli piace. Non ama mettere al centro il Severino in carne e ossa, quel privatissimo individuo attraversato da passioni ed emozioni. È come se quel mondo segnato da una storia individuale non condividesse nulla con il piano della speculazione. È come se al nostro cospetto si disegnasse una netta separazione tra agire e volere da un lato e pensare dall´altro.
Le dà fastidio parlare della sua vita?
«Non so a chi possa interessare. Si tratta di un´esistenza come tante altre. Fatta di memoria ed esperienze. Ma nel momento in cui io parlo dei miei ricordi, ecco che essi cominciano a suonare falsi».
Non ci sono ricordi veri?
«Ci sono nel senso di ricordi nella cui esistenza io credo. Ma è proprio perché credo nella loro esistenza che essi sono falsi. Sono cioè stati separati dal modo concreto in cui furono vissuti. Io credo di essere stato un bambino, fino a un certo punto della sua vita, allegro. Ma questo credere non è una verità indiscutibile, bansì una fede. Per questo ho avuto molti dubbi sullo scrivere un´autobiografia».
Eppure l´ha fatto. Cosa l´ha spinta?
«Potrei risponderle che è la vanità, il bisogno che il Severino in carne e ossa sente di essere conosciuto anche negli aspetti meno noti. E potrei aggiungere che ci sono peccati ben più gravi di quello di scrivere di sé. Come voler vivere, voler parlare, voler dire la verità».
Tutte cose ben più che lecite.
«Certo, non lo discuto. Ma rientrano tutte in una forma di volontà di potenza. E la volontà non ha nulla a che vedere con la verità».
Ma possiamo distinguere tra una volontà buona e una volontà cattiva.
«La distinzione è infondata. E non posso neppure decidere, come fa certa saggezza orientale, di prendere la distanza dalla volontà. Perché anche il non volere è una forma di volere».
Lei, con un atto di volontà, scrive un´autobiografia e nel farlo si consegna all´errore, al fraintendimento, alla non verità. Non mi pare un gran risultato.
«D´accordo. Ma nessuno di noi può non vivere. E così mi è capitato di compiere quell´errare che è la scrittura e di praticare il genere autobiografico. Io so che dalle mie pagine trapelano vanità e puerilità, so di aver preferito alcuni ricordi ad altri, e di aver usato un linguaggio accattivante, quando avrei dovuto essere duro ed essenziale. Nondimeno l´ho fatto. Perché una cosa è vivere credendo che la vita non sia peccato - nel senso di errore, di non verità – altro è vivere sapendo che tutto ciò che si fa, anche il gesto più amoroso, appartiene alla follia essenziale cui l´uomo è legato».
Insomma racconta se stesso ma, al contempo, mette in guardia dal voler dare un particolare significato alla sua vita?
«Metto in guardia dal darle un significato di verità. Ovviamente anche il filosofo vive. Come tutti gli altri. Ma ciò che chiamo filosofia è lo sguardo sulla verità che è presente in ogni uomo. Questa presenza non è testimoniata dal linguaggio, che preferisce parlare del rapporto tra me e lei, o di ciò che chiamiamo vita».
A proposito del linguaggio lei non ha mancato di essere autocritico.
«Accadde in relazione al mio primo libretto: La coscienza, pensieri per un antifilosofia. Era scritto con la melassa, in uno stile che cedeva alla retorica. Mi fa rabbrividire il pensarci ancora. Ed è il rischio che posso aver corso con l´autobiografia. Il linguaggio deve essere senza fronzoli».
Parlando di lei, accennava al fatto di essere stato un bambino allegro.
«Lo sono stato fino alla tragica scomparsa di mio fratello. Fu lui ad aprirmi alla filosofia. Lui – normalista a Pisa durante la guerra – a parlarmi con entusiasmo di Gentile. La sua morte mi gettò nella costernazione. La stessa cosa, ma forse più dolorosa, l´ho rivissuta con la morte di mia moglie. Con lei siamo stati insieme per più di sessant´anni. Ho il rimorso di non averle forse dato tutto quello che avrei potuto».
Eravate una coppia solida. Viaggiavate spesso assieme.
«È vero. Per me era inconcepibile muovermi senza di lei e fino all´ultimo ci siamo spostati all´unisono. Mi torna alla mente il nostro ultimo viaggio. A Cuba. Ero stato invitato e accolto con tutti gli onori. Finita la parte professionale, ci misero a disposizione per una vacanza una stanza in uno degli alberghi più belli di Varadero. Ricordo che durante una notte si alzò un vento freddo – che lì chiamano il "fronte freddo" - che investì con furia la vetrata. Il suono di quel vento era simile all´ululato dei lupi. Esterina stava già male. Ebbe paura di quell´ululato. Mi prese la mano nel letto e me la strinse. E io ebbi il presagio che la sua vita stava finendo».
In che modo ha affrontato il dolore che ha provato quando è scomparsa?
«Come lo affronto, direi. Perché è una ferita restata completamente aperta. La mia vita è cambiata. Per certi versi è diventata intollerabile».
L´aiuta la filosofia?
«È un dogma l´idea che la verità possa illuminare l´individuo. Non sono io che capisco la verità, ma è la verità che capisce se stessa. Eppure so che la filosofia ha messo al riparo questo dolore. Non lo ha curato, ma circondato».
Mettersi al riparo è quanto cerchiamo nei momenti di crisi.
«È una delle esperienze fondamentali della storia dell´uomo. Noi veniamo al mondo e ci imbattiamo nel dolore e nella morte. Tutta la grande cultura è nata come difesa da questi eventi terribili. Prima con il mito, poi con la filosofia, infine con la scienza e la tecnica si è cercato il riparo. L´uomo, credendosi effimero, ha bisogno di protezione. Ma ciò che si cerca nel riparo è quanto di più inautentico si possa ottenere».
È anche una risposta alla paura della morte.
«Sarà parte dell´argomento che affronto nel prossimo e ultimo libro, col quale concludo la mia lunga ricerca iniziata sessant´anni fa. Morire è essere nella possibilità estrema, nel tramonto del contrasto tra verità e vita. Solo a quel punto finirà ogni dolore e ogni contraddizione. Questa idea non ha nulla a che vedere con la concezione cristiana della resurrezione».
Sembra quasi che l´attenda con gioia.
«Non temo la morte. Essa è una gran festa. Semmai ho paura dell´agonia. Il morente può esibire qualcosa di osceno. Per questo, quando sarà il momento, non vorrò una morte pubblica, in un ospedale. Ma una morte al riparo dagli occhi estranei e soprattutto priva di qualunque accanimento terapeutico. Questo per me significa morire con dignità».
Perché, contrariamente a ciò che si pensa, la morte dovrebbe essere una gran festa?
«Perché siamo destinati a una Gioia infinitamente più intensa di quella che le religioni e le sapienze di questo mondo promettono. I nostri morti ci aspettano. Esterina mi attende. Come una stella fissa del cielo».
Nei riguardi di sua moglie lei ha detto di aver provato rimorso. Cos´è che si rimprovera?
«Nel confessare il rimorso, la prima preoccupazione è stata di non voler passare per il marito perfetto, l´uomo pieno di virtù coniugali. Sono certo che avrei potuto essere migliore di come sono stato. Ma non so fino a che punto sarebbe dispiaciuto a mia moglie se io fossi stato una persona diversa».
Ma lei avrebbe voluto essere migliore?
«Forse più presente. Aver dedicato il proprio pensiero alla filosofia ha significato sacrificare in parte la vita familiare. Mio figlio, che fa lo scultore e che legge e discute i miei libri, ha criticato il mio modo di essere padre. E così anche mia moglie che pure non ha mai smesso di aiutarmi, di farmi sentire migliore di quello che probabilmente sono».
La rattrista non esserlo stato?
«Sì, anche se esito nel confessarlo. Quando sono in pubblico evito di lasciar trapelare il mio lato malinconico. Penso che sia sempre meglio non coinvolgere la gente con dei cupi pensieri».
Se ne vergogna?
«No, tanto è vero che gliene parlo. Diciamo che tendo a non voler essere compatito. Meglio forti nello stato d´animo piuttosto che patetici».

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