Ragazzo di 26 anni prima vittima degli scontri a Croydon. Fischiati i politici: troppo tardi
Il primo ministro Cameron rientrato dalla Toscana. Scotland Yard: Duggan non ha sparato
Londra, blindati per le strade
Un morto e la violenza dilaga
Londra quasi sotto coprifuoco, con 16mila agenti e blindati per strada. La paura degli abitanti, le violenze anche tra i rivoltosi. E la notte dopo il secondo morto, ancora senza nome, non preannuncia niente di buono.
di Daniele Guido Gessa
Non un coprifuoco, ma poco ci manca. Le caserme di polizia della periferia di Londra hanno invitato le persone a stare chiuse in casa dopo il tramonto, ieri sera. Da Islington a Ealing, da Tottenham a Brixton, negozi chiusi, ristoranti sbarrati e scene da guerriglia urbana. Del resto, ieri, un altro ragazzo è morto, un 26enne di cui non è stata resa nota l’identità. Era rimasto ferito negli scontri nella notte fra lunedì e martedì, ma l’esatta dinamica della sua morte, anzi uccisione, è ancora da stabilire. Il Parlamento tornerà a riunirsi domani, per l’emergenza: ferie finite per i politici inglesi, così come son finite anche per il sindaco Boris Johnson, che ieri è stato persino contestato da decine di londinesi che ripulivano le strade distrutte come a Mogadiscio – il paragone è del giornale tedesco Spiegel.
Anche il primo ministro britannico David Cameron è dovuto rientrare in fretta e furia dalla Toscana. Ieri mattina è intervenuto e ha detto: «Faremo tutto il necessario per riportare all’ordine la città. Queste persone sentiranno la forza piena della legge. E chi è grande abbastanza per essere incriminato sarà punito». Precisazione d’obbligo, visto che persino un ragazzino di 11 anni è stato arrestato.
E quel «tutto» ha significato soprattutto 16mila poliziotti schierati nelle vie di Londra la scorsa notte, mentre è stato deciso che la Metropolitan Police potrà usare proiettili di gomma, di quelli che fanno molto male, mentre i primi blindati, neri come la notte, si sono visti per le strade della capitale. Del resto, ieri Cameron ha anche detto: «Questa città non è abbastanza presidiata». Così, fra le prime vittime dei tumulti, la spensieratezza del vivere in una delle più belle città del mondo. Ma difficile essere sereni con certe immagini nella testa.
La scena più toccante: una donna che salta dal primo piano di una casa in fiamme, verso le braccia di sconosciuti che cercano di afferrarla. Il video che provocherà tanta rabbia: un adolescente inerme che viene accerchiato da dieci coetanei, picchiato a sangue e rapinato. Negli scontri di Londra di questi giorni c’è di tutto: dai saccheggi alle sassaiole, dagli assalti a negozi e banche alle caserme di polizia incendiate. E soprattutto ci sono migliaia poliziotti schierati a difesa del difendibile e centinaia, se non migliaia, di rioter. Anche se più passa il tempo e più è difficile chiamarli semplicemente «rivoltosi», in quanto sì, alla base di tutto c’è la disperazione e spesso le 200 sterline al mese di assegno sociale. Ma molti londinesi ormai pensano che la violenza sia solo gratuita e spinta dalla voglia di un nuovo iPhone, di un televisore a cristalli liquidi o di vestiti firmati.
Fra lunedì e martedì, la terza notte di tumulti – scoppiati in seguito alla manifestazione contro l’uccisione di un giovane nero da parte della polizia, che ora ammette che il 29enne, Mark Duggan, padre di quattro figli non aveva risposto al fuoco – è stata la peggiore. In fiamme persino i quartieri «bene» della città: da Ealing a Walworth, a Clapham. Cinquemila chiamate ai vigili del fuoco in una sola nottata, oltre 20mila al numero di emergenza 999. E tanta gente che ieri mattina non è potuta andare a lavoro, per stazioni della metropolitana chiuse, incendi ancora in corso e, soprattutto, tanta, tanta paura. Il problema, ora, sarà appunto rendere fiducia ai londinesi, quando tutto sarà passato.
COINVOLTE ALTRE CITTÀ
Ma la fine dell’orgia di violenza pare ancora lontana e le sommosse si sono estese anche ad altre città del Regno Unito – seppur con minore virulenza da Liverpool, nel Nord, a Bristol, nell’Ovest. A Birmingham, centinaia di ragazzi incappucciati hanno affrontato la polizia e dato alle fiamme una caserma. A Manchester molti gli incappucciati in giro per la città. In tanti, ormai, parlano di una broken civil society, una società civile che si sarebbe rotta irrimediabilmente. Di certo la politica – prima di tutto quella di governo – dovrà cercare di dare una spiegazione, per quanto possibile, e di evitare di far associare da parte dei londinesi le violenze alla lunga stagione dei tagli alla spesa pubblica che sta interessando il Paese. L’opposizione, il Labour, lo ha detto, chi fra le righe, chi ad alta voce. Tutto questo sarebbe frutto del profondo disagio sociale, di larghe fasce della popolazione senza un lavoro e costrette a vivere con i benefit, di una esclusione che non è solo razziale ma che si basa anche sulle scuole che hai potuto o non potuto fare, a causa del tuo portafogli più e o meno pieno. Qualcosa si è rotto nella testa di migliaia di ragazzi che ora vanno in giro incappucciati, qualcosa ha smesso di funzionare. E già da tanto, sostengono gli analisti.
Intanto, a Londra, interi quartieri sono ormai feriti, quasi a morte. Si calcola che i danni abbiano già superato i 100 milioni di sterline, circa 120 milioni di euro. E si attende il bollettino di guerra di oggi, quando ormai a Londra sarà già passata la quarta notte di caos totale.
l’Unità 10.8.11
Intervista a R.J.Ellory
«Rabbia e disillusione, è la scuola che ha fallito»
Il giallista britannico: «I giovani non sanno più comunicare e non hanno fiducia in nulla. È molto dura per loro vivere oggi in una metropoli inglese»
di Rock Reynolds
Sono scene che abbiamo già visto, nel 1982 a Handsworth, e sono un sintomo dei nostri tempi. Ieri sera, da casa mia, a sei chilometri dal centro di Birmingham, si vedeva il fumo», R.J. Ellory, fine gentleman e scrittore, ha scelto di esorcizzare le sue paure metropolitane traducendole in storie ambientate in grandi città degli Stati Uniti ma adesso la trama della realtà si svolge direttamente davanti alle sue finestre. Tutto ciò che vede, ci confessa, lo sconvolge ma non lo sorprende. «In questo momento, sto tenendo una riunione con alcuni amici per decidere come dare una mano alla città. La polizia sta cordonando l'area intorno a Handsworth, quartiere a predominanza nera, perché dalle indicazioni emerse dal monitoraggio di Facebook e Twitter pare che si prospetti una notte di violenze. Io, mia moglie e alcuni amici impegnati nel volontariato vorremmo andarci per dare una mano, ma faremo quel che ci sarà concesso di fare».
L'uccisione di un uomo di colore da parte della polizia è una scusa pretestuosa? «Non ho informazioni dettagliate a disposizione, però alla fine si tratta del tentativo da parte di minoranze criminali di approfittare dello scompiglio e dell'agitazione regnanti, al solo scopo di abbandonarsi a saccheggi e atti vandalici».
Ha ragione il primo ministro Cameron a liquidare i disordini come mero teppismo? «Credo che siano bande di violenti, ma credo che vi sia qualche gruppo ristretto di esponenti della criminalità organizzata che incoraggia le gang per tenere quanto più a lungo impegnate le forze di polizia e poter commettere crimini più seri in tranquillità. Se riduci gli standard dell'istruzione, se crei una società in cui le persone ricevono soldi dallo stato senza lavorare, crei anche una cultura fondata sulla convinzione che è accettabile violare la legge. Basta solo qualche individuo distruttivo e criminale che approfitti della situazione». Come hanno reagito le autorità? «Si direbbe che siano state travolte dai fatti. Le nostre forze di polizia per tradizione non fanno uso di armi da fuoco, cannoni ad acqua, proiettili di plastica o gomma sul nostro territorio. Si tratta di misure utilizzate nell'Irlanda del Nord durante i troubles, ma non di recente. La polizia ha paura di intervenire con forza, anche perché teme di violare qualche diritto civile. L'indebolimento delle nostre forze di polizia è l'ennesima indicazione dell'estrema debolezza del nostro governo precedente, così impegnato a difendere i diritti dei criminali da scordarsi delle loro vittime».
È davvero dura la vita di un giovane in una metropoli inglese? «Durissima perché il sistema scolastico ha fallito. Ci sono ragazzi che finiscono gli studi senza saper leggere né scrivere. Non sanno comunicare e dunque gli manca la fiducia in se stessi, oltre che un obiettivo nella vita. Bisogna tornare al sistema e agli standard degli anni '40 e '50, formare buoni studenti, adolescenti entusiasti e in grado di comunicare, giovani che capiscano il valore del duro lavoro».
Pensa che i recenti scandali ai danni di Scotland Yard abbiano minato la fiducia della gente nelle forze di polizia? «Sicuramente. Oggi la fiducia nella giustizia e nella legge è bassissima in tutto il mondo. Sappiamo che si tratta di sistemi corrotti, che i politici sono soggetti alle stesse tentazioni della gente comune, che spesso sono avidi, interessati solo al proprio tornaconto, prezzolati dai media se non addirittura da cartelli della droga».
I dimostranti sono tutti giovani e incappucciati e sembrano divertirsi un sacco... «Non credo si tratti unicamente di adrenalina, ma anche di frustrazioni lungamente represse e di grande confusione esistenziale. I giovani non sanno qual è il loro posto nel mondo e, dunque, non sanno cosa fare delle loro vite. Non sono intimamente malvagi, solo disillusi. Arresti, condanne al carcere, servizi sociali, multe sono solo tamponi su ferite che si apriranno nuovamente se non troviamo la causa del male che li affligge e non la curiamo».
Repubblica 10.8.11
La Danimarca alza il suo Muro "Così teniamo lontani gli immigrati"
Sorgerà alla frontiera con la Germania. La rabbia di BerlinoLa recinzione voluta dai partiti di ultradestra sarà completata entro l´anno
di Andrea Tarquini
BERLINO - Cinquant´anni fa, la dittatura comunista della Sed al potere nell´allora Ddr, avviò la costruzione del Muro di Berlino. Sembrano ricordi lontani: chi è nato e cresciuto dopo il 1989, nell´Europa senza frontiere, difficilmente s´immagina una città tagliata in due da un confine blindato. Eppure un piccolo assaggio del passato sta per rivivere alla frontiera settentrionale della Germania, quella con la vicina, piccola e prospera Danimarca. Il governo di centrodestra di Copenaghen, ostaggio in Parlamento dei populisti d´ultradestra, ha deciso la costruzione di installazioni e impianti di controllo confinario. In privato, il governo tedesco parla con rabbia e fastidio di «gesto incomprensibile». Mezzo secolo dopo la nascita del Muro della vergogna voluto dall´impero totalitario sovietico, la nuova destra europea, secondo Berlino, impone un grave strappo al mondo senza frontiere di Schengen, e dà un colpo ai valori dell´Europa.
Povero ideale europeista, non bastava la tempesta sulle Borse e sull´euro. Proprio 50 anni dopo il Muro di Berlino, mentre la Germania riunificata in una solida democrazia si appresta a ricordare il tragico anniversario, in piccolo la scena si ripete. Farsa e non tragedia, si dirà. Però per i tedeschi, pensando ai doganieri danesi in uniforme pronti a installare barriere e dispositivi di controllo, con tutte le differenze del caso è impossibile non ricordare i Vopos, i Kampfgruppen e la Volksarmee der Ddr affaccendati a innalzare la barriera di mattoni e filo spinato alla Porta di Brandeburgo, col kalashnikov a tracolla.
La costruzione del mini-muro danese comincerà tra poche settimane, e sarà completata entro la fine dell´anno, ha detto il direttore dell´autorità doganale del piccolo regno, Erling Andersen. Sull´autostrada saranno installate due barriere, come passaggi a livello, pannelli elettronici che imporranno agli automobilisti di ridurre la velocità a 40 orari o se necessario ordineranno lo stop, e vie e piazzole laterali sull´autostrada per fermare, far parcheggiare e controllare i veicoli sospetti. Intendiamoci, c´è una differenza abissale tra la Ddr tardostaliniana e il centrodestra danese: Copenaghen non vuole impedire la fuga del suo popolo, ma far sì, dicono i governanti, «che meno criminali est europei, meno bande e mafie organizzate, meno contrabbandieri ci arrivino in casa».
L´idea non è nata negli uffici del debole premier liberale di destra Lars Lokke Rasmussen, ma ai vertici del ‘Partito popolare´, l´ultradestra xenofoba, euroscettica e anti-islamica, che non demorde nemmeno dopo lo shock della strage in Norvegia. Risuscitare le frontiere controllate è per la sua leader Pia Kjaersgaard (nota per la frase «se passeggiando incontro un musulmano vado sull´altro marciapiede») conditio sine qua non del voto favorevole alla riforma delle pensioni governativa. E Rasmussen si è piegato, ancora una volta. Berlino protesta, alcuni politici della Cdu (il partito della Cancelliera Merkel) propongono il boicottaggio turistico della Danimarca. Copenaghen non demorde, e senza troppo pudore la signora Kjaersgaard e i suoi liquidano la democrazia tedesca come «paese nevrotico ossessionato dal suo passato».
Repubblica 10.8.11
"Animali, piante e natura: ecco i diritti dell´ambiente"
di Marino Niola
Philippe Descola ha ereditato la cattedra di Lévi-Strauss a Parigi. E racconta come sta evolvendo la disciplina: "Ci sono tante forme di vita, dobbiamo tenerne conto"
In alcuni Paesi la tutela e il rispetto delle risorse vitali sono stati inseriti nella Costituzione. Bisogna imparare a coabitare
L´antropologia di Lévi-Strauss era una grande teoria sull´uomo. L´antropologia di oggi invece deve andare al di là dell´umano. L´uomo da solo non le basta più. Perché natura e cultura sono una sola cosa. Società e ambiente una sola casa. Le neuroscienze, l´etologia, la genetica, l´ecologia parlano chiaro. Noi bipedi col dono della parola non siamo l´ombelico del mondo, ma una parte del vivente, che ci piaccia o no. Sorride sornione Philippe Descola. Che ha preso il posto di Lévi-Strauss sulla cattedra di antropologia più prestigiosa del pianeta. Quella del Collège de France. Qui tutto parla ancora del maestro che ha rivoluzionato le scienze dell´uomo. Libri, schedari, oggetti esotici, sono proprio quelli descritti in Tristi tropici. «Ovviamente non sono l´erede di Claude Lévi-Strauss ma solo il suo successore», spiega con grazia.
Un uomo che aveva un´erudizione sterminata e preziosa, da savant d´altri tempi.
«E che non è più di oggi. La sua analisi dei miti è un virtuosismo funambolico. Opere come Il pensiero selvaggio e Il crudo e il cotto sono il prodotto di un talento personale molto vicino a quello di un artista. Era capace di ricordarsi di un frammento di racconto giapponese letto vent´anni prima e di collegarlo a dei miti degli indiani d´America o della Grecia che studiava in quel momento. O a un accordo della tetralogia di Wagner».
Lévi-Strauss ha fatto dell´antropologia uno dei grandi saperi del Novecento. Ha dimostrato che dietro le differenze tra le culture ci sono delle analogie nascoste che consentono di ricondurre la miriade di diversità a poche leggi generali, comuni a tutti gli uomini.
«Trattava le differenze tra le culture come variazioni di uno stesso tema musicale. E la sua grande lezione è che il compito dell´antropologia è quello di andare oltre le differenze di superficie, oltre l´etnografia, per raggiungere ciò che ci rende tutti egualmente umani».
O addirittura tutti viventi. Umani e non umani. In questo Lévi-Strauss ha anticipato quel sentimento dell´unità fra società e natura che coinvolge milioni di cittadini globali. Non è un caso che lei abbia scelto di ribattezzare la sua cattedra "Antropologia e natura" facendosi così continuatore del Lévi-Strauss più attuale e profetico.
«Il fatto è che gli uomini non sono soli sulla scena dell´umanità. E il resto, quello che di solito si chiama natura o ambiente, non è una nostra proprietà, né una nostra proiezione, né tanto meno una semplice risorsa a disposizione del nostro sviluppo. Le altre creature, animali, piante, minerali, sono altrettanti coinquilini del mondo. Non solo cose o forme di vita, ma veri e propri agenti sociali che hanno gli stessi diritti degli umani. E spesso dei tratti in comune, che non sono meramente biologici ma addirittura culturali. Ecco perché oggi l´antropologia non può più limitarsi all´uomo, ma deve estendere il suo sguardo su tutti gli esseri con i quali interagiamo e conviviamo».
E del resto la nostra idea di natura è piuttosto recente.
«Comincia a svilupparsi solo nel XVII secolo, all´inizio della modernità, quando il mondo viene diviso in due parti. Da una parte l´universo delle convenzioni e delle regole, ovvero la cultura. Dall´altra il mondo dei fenomeni e delle leggi di natura».
Da una parte la persona umana, dall´altra le non-persone, cioè tutto il resto. Ma in questo modo il vivente viene tagliato in due e separato da una parte di sé. È stata questa concezione a legittimare il dominio e lo sfruttamento. Dell´uomo come della natura?
«Certo. Oltre tutto questa opposizione fra cultura e natura, fra l´uomo e le altre creature, non è nemmeno universale. Molti popoli non la condividono. Basti pensare al primo capitolo della nuova costituzione dell´Ecuador che tutela proprio i diritti della natura. Dove la natura, a differenza che da noi, appare una sorta di persona vivente. Proprio come la Pachamama, la terra madre delle religioni mesoamericane».
Non a caso il presidente boliviano Evo Morales e un summit latinoamericano hanno riconosciuto che gli ecosistemi in quanto tali sono titolari di diritti. Un modo diverso di impostare i problemi che, anche alla luce di drammi come quello del Corno d´Africa, dovrebbe cominciare a influenzare l´agenda politica planetaria, soprattutto in tema di beni comuni.
«In molti paesi del mondo è inconcepibile che le risorse vitali siano privatizzabili. L´idea stessa che esista un mercato dei beni di sussistenza è un caso eccezionale nella storia dell´umanità. Già Aristotele nella Crematistica, la scienza della ricchezza, poneva in questione la legittimità della compravendita dei beni indispensabili per la sopravvivenza. Quel che è interessante è che oggi sempre più persone prendono coscienza del fatto che alcune risorse sono intoccabili perché non appartengono solo agli uomini ma a tutti gli esseri viventi. E addirittura all´insieme degli ecosistemi».
Cioè al pianeta nella sua totalità indivisibile, nella sua integrità vitale che comprende anche noi in quanto nati dalla terra.
«In questo senso l´antropologia ha un compito importante che è quello di far conoscere altri modelli di umanità. Mostrare in che modo le altre civiltà hanno affrontato e risolto problemi analoghi ai nostri».
Quali sono le tre grandi urgenze del nostro tempo?
«Ecologia, tecnologia e coesistenza con le altre civiltà. Tre questioni riconducibili a una sola, cioè come far coabitare, senza troppi danni, rinunce e conflitti, tutti gli occupanti del pianeta. E se non si arriva a questo ci sarà una catastrofe. Ambientale, demografica e informatica».
Perché informatica?
«Perché verremo sommersi da una valanga di informazioni sempre più incontrollabili, incongrue, pericolose».
Saremo sommersi anche da montagne di rifiuti digitali insomma. Ma la politica le sembra all´altezza del compito?
«Purtroppo no. Oggi vedo una grande pusillanimità nei politici e nei vari G7 o G20. Mancano di coraggio e di immaginazione. Sono sempre in ritardo sulla realtà. Anche perché sottovalutano il ruolo della cultura nell´elaborazione delle politiche sociali e ambientali. E di solito non si va molto oltre qualche pensierino politically correct sulla necessità del dialogo tra le culture. Ma non ci credono davvero».
Sembrano crederci sempre di più le persone comuni. I movimenti che agitano in questo periodo il mondo che sembrano fatti separati, sono forse i sintomi di un nuovo senso comune?
«Sì, sempre più persone sono consapevoli che il modello di sviluppo che ha retto il mondo in questi ultimi due secoli si sta sbriciolando. Direi che questi movimenti sono esercizi di futuro, i primi passi verso una nuova democrazia globale».
La Danimarca alza il suo Muro "Così teniamo lontani gli immigrati"
Sorgerà alla frontiera con la Germania. La rabbia di BerlinoLa recinzione voluta dai partiti di ultradestra sarà completata entro l´anno
di Andrea Tarquini
BERLINO - Cinquant´anni fa, la dittatura comunista della Sed al potere nell´allora Ddr, avviò la costruzione del Muro di Berlino. Sembrano ricordi lontani: chi è nato e cresciuto dopo il 1989, nell´Europa senza frontiere, difficilmente s´immagina una città tagliata in due da un confine blindato. Eppure un piccolo assaggio del passato sta per rivivere alla frontiera settentrionale della Germania, quella con la vicina, piccola e prospera Danimarca. Il governo di centrodestra di Copenaghen, ostaggio in Parlamento dei populisti d´ultradestra, ha deciso la costruzione di installazioni e impianti di controllo confinario. In privato, il governo tedesco parla con rabbia e fastidio di «gesto incomprensibile». Mezzo secolo dopo la nascita del Muro della vergogna voluto dall´impero totalitario sovietico, la nuova destra europea, secondo Berlino, impone un grave strappo al mondo senza frontiere di Schengen, e dà un colpo ai valori dell´Europa.
Povero ideale europeista, non bastava la tempesta sulle Borse e sull´euro. Proprio 50 anni dopo il Muro di Berlino, mentre la Germania riunificata in una solida democrazia si appresta a ricordare il tragico anniversario, in piccolo la scena si ripete. Farsa e non tragedia, si dirà. Però per i tedeschi, pensando ai doganieri danesi in uniforme pronti a installare barriere e dispositivi di controllo, con tutte le differenze del caso è impossibile non ricordare i Vopos, i Kampfgruppen e la Volksarmee der Ddr affaccendati a innalzare la barriera di mattoni e filo spinato alla Porta di Brandeburgo, col kalashnikov a tracolla.
La costruzione del mini-muro danese comincerà tra poche settimane, e sarà completata entro la fine dell´anno, ha detto il direttore dell´autorità doganale del piccolo regno, Erling Andersen. Sull´autostrada saranno installate due barriere, come passaggi a livello, pannelli elettronici che imporranno agli automobilisti di ridurre la velocità a 40 orari o se necessario ordineranno lo stop, e vie e piazzole laterali sull´autostrada per fermare, far parcheggiare e controllare i veicoli sospetti. Intendiamoci, c´è una differenza abissale tra la Ddr tardostaliniana e il centrodestra danese: Copenaghen non vuole impedire la fuga del suo popolo, ma far sì, dicono i governanti, «che meno criminali est europei, meno bande e mafie organizzate, meno contrabbandieri ci arrivino in casa».
L´idea non è nata negli uffici del debole premier liberale di destra Lars Lokke Rasmussen, ma ai vertici del ‘Partito popolare´, l´ultradestra xenofoba, euroscettica e anti-islamica, che non demorde nemmeno dopo lo shock della strage in Norvegia. Risuscitare le frontiere controllate è per la sua leader Pia Kjaersgaard (nota per la frase «se passeggiando incontro un musulmano vado sull´altro marciapiede») conditio sine qua non del voto favorevole alla riforma delle pensioni governativa. E Rasmussen si è piegato, ancora una volta. Berlino protesta, alcuni politici della Cdu (il partito della Cancelliera Merkel) propongono il boicottaggio turistico della Danimarca. Copenaghen non demorde, e senza troppo pudore la signora Kjaersgaard e i suoi liquidano la democrazia tedesca come «paese nevrotico ossessionato dal suo passato».
Repubblica 10.8.11
"Animali, piante e natura: ecco i diritti dell´ambiente"
di Marino Niola
Philippe Descola ha ereditato la cattedra di Lévi-Strauss a Parigi. E racconta come sta evolvendo la disciplina: "Ci sono tante forme di vita, dobbiamo tenerne conto"
In alcuni Paesi la tutela e il rispetto delle risorse vitali sono stati inseriti nella Costituzione. Bisogna imparare a coabitare
L´antropologia di Lévi-Strauss era una grande teoria sull´uomo. L´antropologia di oggi invece deve andare al di là dell´umano. L´uomo da solo non le basta più. Perché natura e cultura sono una sola cosa. Società e ambiente una sola casa. Le neuroscienze, l´etologia, la genetica, l´ecologia parlano chiaro. Noi bipedi col dono della parola non siamo l´ombelico del mondo, ma una parte del vivente, che ci piaccia o no. Sorride sornione Philippe Descola. Che ha preso il posto di Lévi-Strauss sulla cattedra di antropologia più prestigiosa del pianeta. Quella del Collège de France. Qui tutto parla ancora del maestro che ha rivoluzionato le scienze dell´uomo. Libri, schedari, oggetti esotici, sono proprio quelli descritti in Tristi tropici. «Ovviamente non sono l´erede di Claude Lévi-Strauss ma solo il suo successore», spiega con grazia.
Un uomo che aveva un´erudizione sterminata e preziosa, da savant d´altri tempi.
«E che non è più di oggi. La sua analisi dei miti è un virtuosismo funambolico. Opere come Il pensiero selvaggio e Il crudo e il cotto sono il prodotto di un talento personale molto vicino a quello di un artista. Era capace di ricordarsi di un frammento di racconto giapponese letto vent´anni prima e di collegarlo a dei miti degli indiani d´America o della Grecia che studiava in quel momento. O a un accordo della tetralogia di Wagner».
Lévi-Strauss ha fatto dell´antropologia uno dei grandi saperi del Novecento. Ha dimostrato che dietro le differenze tra le culture ci sono delle analogie nascoste che consentono di ricondurre la miriade di diversità a poche leggi generali, comuni a tutti gli uomini.
«Trattava le differenze tra le culture come variazioni di uno stesso tema musicale. E la sua grande lezione è che il compito dell´antropologia è quello di andare oltre le differenze di superficie, oltre l´etnografia, per raggiungere ciò che ci rende tutti egualmente umani».
O addirittura tutti viventi. Umani e non umani. In questo Lévi-Strauss ha anticipato quel sentimento dell´unità fra società e natura che coinvolge milioni di cittadini globali. Non è un caso che lei abbia scelto di ribattezzare la sua cattedra "Antropologia e natura" facendosi così continuatore del Lévi-Strauss più attuale e profetico.
«Il fatto è che gli uomini non sono soli sulla scena dell´umanità. E il resto, quello che di solito si chiama natura o ambiente, non è una nostra proprietà, né una nostra proiezione, né tanto meno una semplice risorsa a disposizione del nostro sviluppo. Le altre creature, animali, piante, minerali, sono altrettanti coinquilini del mondo. Non solo cose o forme di vita, ma veri e propri agenti sociali che hanno gli stessi diritti degli umani. E spesso dei tratti in comune, che non sono meramente biologici ma addirittura culturali. Ecco perché oggi l´antropologia non può più limitarsi all´uomo, ma deve estendere il suo sguardo su tutti gli esseri con i quali interagiamo e conviviamo».
E del resto la nostra idea di natura è piuttosto recente.
«Comincia a svilupparsi solo nel XVII secolo, all´inizio della modernità, quando il mondo viene diviso in due parti. Da una parte l´universo delle convenzioni e delle regole, ovvero la cultura. Dall´altra il mondo dei fenomeni e delle leggi di natura».
Da una parte la persona umana, dall´altra le non-persone, cioè tutto il resto. Ma in questo modo il vivente viene tagliato in due e separato da una parte di sé. È stata questa concezione a legittimare il dominio e lo sfruttamento. Dell´uomo come della natura?
«Certo. Oltre tutto questa opposizione fra cultura e natura, fra l´uomo e le altre creature, non è nemmeno universale. Molti popoli non la condividono. Basti pensare al primo capitolo della nuova costituzione dell´Ecuador che tutela proprio i diritti della natura. Dove la natura, a differenza che da noi, appare una sorta di persona vivente. Proprio come la Pachamama, la terra madre delle religioni mesoamericane».
Non a caso il presidente boliviano Evo Morales e un summit latinoamericano hanno riconosciuto che gli ecosistemi in quanto tali sono titolari di diritti. Un modo diverso di impostare i problemi che, anche alla luce di drammi come quello del Corno d´Africa, dovrebbe cominciare a influenzare l´agenda politica planetaria, soprattutto in tema di beni comuni.
«In molti paesi del mondo è inconcepibile che le risorse vitali siano privatizzabili. L´idea stessa che esista un mercato dei beni di sussistenza è un caso eccezionale nella storia dell´umanità. Già Aristotele nella Crematistica, la scienza della ricchezza, poneva in questione la legittimità della compravendita dei beni indispensabili per la sopravvivenza. Quel che è interessante è che oggi sempre più persone prendono coscienza del fatto che alcune risorse sono intoccabili perché non appartengono solo agli uomini ma a tutti gli esseri viventi. E addirittura all´insieme degli ecosistemi».
Cioè al pianeta nella sua totalità indivisibile, nella sua integrità vitale che comprende anche noi in quanto nati dalla terra.
«In questo senso l´antropologia ha un compito importante che è quello di far conoscere altri modelli di umanità. Mostrare in che modo le altre civiltà hanno affrontato e risolto problemi analoghi ai nostri».
Quali sono le tre grandi urgenze del nostro tempo?
«Ecologia, tecnologia e coesistenza con le altre civiltà. Tre questioni riconducibili a una sola, cioè come far coabitare, senza troppi danni, rinunce e conflitti, tutti gli occupanti del pianeta. E se non si arriva a questo ci sarà una catastrofe. Ambientale, demografica e informatica».
Perché informatica?
«Perché verremo sommersi da una valanga di informazioni sempre più incontrollabili, incongrue, pericolose».
Saremo sommersi anche da montagne di rifiuti digitali insomma. Ma la politica le sembra all´altezza del compito?
«Purtroppo no. Oggi vedo una grande pusillanimità nei politici e nei vari G7 o G20. Mancano di coraggio e di immaginazione. Sono sempre in ritardo sulla realtà. Anche perché sottovalutano il ruolo della cultura nell´elaborazione delle politiche sociali e ambientali. E di solito non si va molto oltre qualche pensierino politically correct sulla necessità del dialogo tra le culture. Ma non ci credono davvero».
Sembrano crederci sempre di più le persone comuni. I movimenti che agitano in questo periodo il mondo che sembrano fatti separati, sono forse i sintomi di un nuovo senso comune?
«Sì, sempre più persone sono consapevoli che il modello di sviluppo che ha retto il mondo in questi ultimi due secoli si sta sbriciolando. Direi che questi movimenti sono esercizi di futuro, i primi passi verso una nuova democrazia globale».
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