martedì 9 agosto 2011

l’Unità 9.8.11
Il contagio Brixton dopo Tottenham, scontri anche in centro: oltre 200 arresti
Polizia sotto accusa Inchiesta sulla morte del giovane all’origine dei tumulti
Un’altra notte di fuoco nelle strade di Londra Il governo: «Criminali»
Dai sobborghi di Tottenham alla centralissima Oxford street e poi Brixton e di nuovo in centro. Scontri, saccheggi, vandalismi un po’ ovunque ieri a Londra. Il sindaco Boris Johnson rientra dalle ferie, governo in allarme.
di Daniele Guido Gessa

Londra si sveglia stamattina come una città messa a ferro e fuoco. Ieri i disordini si sono estesi a tutta la fascia urbana della metropoli. Non solo il sobborgo nord di Tottenham dove la violenza di piazza è scoppiata sabato notte ma anche la zona a Sud del Tamigi e persino la centralissima Oxford Street è stata interessata da incendi, devastazioni e sassaiole nella seconda notte di disordini.
Gli scontri sono ripresi nel pomeriggio di ieri nei dintorni di Mare Street, nel centrale quartiere di Hackney e sono ricomparsi nel Peckham, dove un bus è stato dato alle fiamme, poi vicono all’ospedale di Lewisham al tramonto. I tumulti, sostengono le forze dell’ordine, sono passati dalle rivendicazioni razziali per l’uccisione di un giovane nero da parte della polizia giovedì scorso alla criminalità gratuita e confusa di quelli che i tabloid del Regno Unito si sono affrettati a chiamare «anarchici». Una cosa è certa, solo i microblog su Twitter sono riusciti a seguire le tracce di questi «fuochi».
LA POLIZIA NEL MIRINO
La Metropolitan Police ha fatto sapere che le sommosse di ieri sono state, appunto, organizzate sui social network. Assalti e saccheggi, incendi di auto, accoltellamenti, poliziotti feriti – oltre un centinaio – e risse furibonde. Ora, monta anche la polemica. Il sindaco, il conservatore Boris Johnson, ieri sera ha alla fine accettato di interrompere le vacanze per tornare in città, su caldo invito del ministro degli Interni Theresa May, evidentemente, che ne ha dato l’annuncio. Le critiche hanno investito la stessa Metropolitan Police, che, dicono i giornali, non è stata in grado di prevenire le violenze – con uno degli alti ufficiali partito in ferie alla vigilia dei riots – e ha sottovalutato le conseguenze dell’uccisione del giovane Mark Duggan, colpito da un proiettile durante un inseguimento per il suo arresto. È emerso persino che Duggan non avrebbe sparato contro la polizia, come invece la Met si era premurata di sostenere. E così, anche se il vice premier Nick Clegg ha chiarito che «la violenza che abbiamo visto nulla ha a che fare con la morte del signor Duggan», oggi partirà un’inchiesta sulla vicenda presso la High Barnet Coroner's Court, a partire dai referti dei test balistici sulla sparatoria.
Intanto i vandali i più giovani appartenenti al «popolo dei benefit», cioè alla larga fascia di popolazione a cavallo fra disoccupazione e disagio sociale, che vive grazie ai sempre più magri aiuti di Stato si sono accaniti contro i negozi anche a Brixton, teatro, negli anni Ottanta dei più violenti scontri di piazza che Londra abbia mai visto. C’è il rischio che quel record di violenza venga superato, visto che persino le vie centrali dello shopping sono state colpite e che gli arresti sono già 215, 25 dei quali con una precisa incriminazione.
A Londra si teme che i riots, cioè i tumulti di piazza, possano continuare per giorni, se non per settimane. Con una macchia sempre più indelebile sull’efficienza della Metropolitan Police, tanto che il Comitato olimpico per sedare la polemica ha riconfermato la sua stima per i bobbies londinesi in prospettiva dei giochi dell’anno prossimo.
Negli scontri per la verità di politico, questa volta, pare esserci ben poco. Anche il ministro dell’Interno May è arrivata alla conclusione che «abbiamo a che fare con criminalità pura e semplice».
Le gang di giovani che assaltano Londra non rivendicano un cambio di regime, non urlano contro il primo ministro David Cameron e non ce l’hanno con la coalizione di governo fra conservatori e liberaldemocratici. Eppure per l’ex sindaco di Londra, il laburista Ken Livingston «la colpa di tutto è anche il taglio alla spesa pubblica fatto dal governo. Quando si chiudono i centri per i giovani, questa è la conseguenza». 

l’Unità 9.8.11
Giovani senza futuro e senza istruzione
Coesione sociale in tilt
È una società fortemente classista, forgiata dal thatcherismo e non del tutto corretta dal Labour: ha minato le prospettive di una generazione. Che ora esplode in una rabbia cieca
di Marco Simoni

Londra aveva conosciuto manifestazioni di grave violenza solo pochi mesi fa, in occasione delle proteste per l’aumento delle tasse universitarie. Alla luce dei fatti di questi giorni, anche quella violenza era indicativa di qualcosa di più profondo, di un particolare malessere inglese in un fenomeno che coinvolge molti Paesi europei: fratture sociali che si allargano e il dato generazionale sempre presente sia pur in modi che cambiano da Paese a Paese. Negli ultimi anni il crimine a Londra è diminuito, ma sono aumentati i reati e le violenze a colpi di coltello che hanno coinvolto giovani e giovanissimi.
Chi deve crescere dei figli a Londra, nel resto del Paese la situazione è meno critica, impara presto che la scuola pubblica non è uguale per tutti. Dopo il terzo compleanno del primogenito bisogna scegliere a quale scuola elementare mandarlo. Le scuole ammettono i bambini sulla base della distanza fisica dalla porta di casa all’edificio scolastico, si tratta pertanto di una scelta solo teorica. In pratica, le poche scuole pubbliche di qualità pur ricevendo centinaia di domande possono offrire un posto solo ai bambini che abitano nel raggio di cinquecento metri. Ognuno pertanto va alla scuola che capita, o a quella che si può permettere.
Il sistema pubblico era stato affossato nel ventennio della destra thatcheriana, e i pur massicci investimenti del Labour hanno lasciato ancora molta strada da compiere. Mancano le risorse alle scuole e sono insufficienti i servizi di comunità per contribuire a tessere una trama sociale degna di questo nome. Di conseguenza, nella maggior parte dei quartieri poveri di Londra, sterminate periferie di case basse che distano ore sui mezzi pubblici dal centro, le scuole elementari continuano ad avere risultati disastrosi, con anche il 40% dei bambini che non supera l’equivalente del nostro esame di quinta.
In Inghilterra non c’è una discussione sulla precarietà, per due ragioni opposte. Per la corposa classe media con accesso – sia pur faticoso – all’istruzione di buona qualità, i lavori precari sono comunque accompagnati da tutele minime sconosciute ai nostri standard e sono normale gavetta di un futuro più stabile. Invece, per le masse, minoritarie ma nutrite, di lavoratori non qualificati, la precarietà occupazionale è l’unica forma esistente. Certo, in presenza di diritti fondamentali, ma con limitatissime prospettive di crescita economica intergenerazionale, e persino di stabilità economica individuale.
Questo non vale solo per le comunità di origine afro-caraibica, protagoniste dei saccheggi di Tottenham, ed è l’evidente conseguenza di un sistema formativo molto classista che accentua le problematiche economico-sociali. In tempi di crisi economica, il destino di un limbo da lavoratore povero senza prospettive diventa ancora più realistico, e i desideri consumistici e commerciali sempre più irrealistici. Tuttavia i saccheggi organizzati con i messaggini del telefonino di ultima generazione non rappresentano alcuna rivolta o protesta politica. Sono organizzati da persone che rimangono fuori dai meccanismi di rappresentanza collettiva e che non sono portatrici di identità al di fuori del piccolo orizzonte di quartiere. Essi rimangono, e vengono giudicati, per quel che sono: saccheggi, devastazioni, rapine operate con la scusa della motivazione antipoliziesca per rimediare l’ultimo modello di scarpe da ginnastica.
Allo stesso tempo, essi pongono con forza la questione politica della coesione sociale che il governo del Labour aveva provato ad affrontare, anche con qualche successo: con serie misure contro la povertà; nella scuola e nella sanità; nei centri per l’orientamento di giovani e giovanissimi, centri anche di socialità e incontro fondamentali in una città come Londra frammentata in quartieri dai debolissimi legami sociali autonomi. Questi centri sono sorti ovunque negli scorsi quindici anni e sono stati i primi a essere colpiti – letteralmente chiusi – dai tagli del governo di Cameron.
La lezione di oggi è che si trattava di politiche insufficienti, ma semplicemente tornare indietro fa apparire lo slogan della Big Society di David Cameron come un espediente retorico privo di contenuti.

Repubblica 9.8.11
Il 19 agosto di 20 anni fa il tentato colpo di Stato che sconvolse l´Urss
Gorbaciov: vi racconto il golpe minuto per minuto
di Fiammetta Cucurnia


Vent´anni dopo, Mikhail Gorbaciov racconta i tragici giorni del golpe di Foros. Quello che accadde nella dacia sul mare di Crimea tra il 18 e il 21 agosto 1991 si è impresso nella sua memoria. E dalle sue parole trapela la rabbia di quei tre giorni che sconvolsero l´Urss.

L´isolamento nella Dacia in Crimea, i telefoni bloccati, il malore di Raissa. Vent´anni dopo Mikhail Gorbaciov racconta gli ultimi giorni dell´Urss

Vent´anni dopo, Mikhail Gorbaciov racconta i tragici giorni del golpe di Foros. Quello che accadde nella dacia che guardava il mare di Crimea tra il 18 e il 21 agosto del 1991 si è impresso nella sua memoria in modo indelebile, minuto per minuto. E dalle sue parole ancor oggi trapela tutto lo sgomento e la rabbia di quei tre giorni che segnarono la fine della sua vita politica alla guida del Cremlino e sconvolsero l´Unione Sovietica al punto che quattro mesi più tardi, nei giorni di Natale di quello stesso anno, il Paese crollò.
«Arrivato a Foros mi resi subito conto che non sarebbe stata una vacanza normale. Per tutto il periodo precedente, la pressione su di me era stata martellante. Da destra e da sinistra, tutti mi chiedevano misure d´emergenza».

«Ma io contavo sul nuovo Trattato d´Unione. Era pronto, lo avremmo firmato di lì a pochi giorni. E avremmo rifondato l´Urss su nuove basi. Anche a Foros capivo, soprattutto intuivo, che bisognava fare presto. Non mi lasciava il pensiero di dover rientrare al più presto, un indistinto senso di urgenza. Avevo già fatto arrivare l´aereo che doveva riportarci a Mosca. Era domenica, quel 18 agosto, quando tutto cominciò. Io avevo appena parlato al telefono con Shakhnazarov, anche lui in Crimea, al sanatorio Juzhnij. Fu l´ultima telefonata, prima che isolassero i telefoni. Erano esattamente le 16,32, quando attaccai. Si scoprì solo dopo che gli ufficiali del Kgb erano già pronti dietro le spalle delle telefoniste: avevano ordine di tagliare le linee alle 16,30».
Ma lei era ancora all´oscuro di tutto.
«Saranno state le cinque del pomeriggio quando fui avvisato che era arrivato un gruppo di dirigenti, Baklanov, Boldin, Shenin, Varennikhov e Plexanov. Mi sorpresi molto. E dissi al capo della guardia presidenziale, Medvedev, che non aspettavo visite. Cercai di chiamare Krjuchkov. Fu lì che scoprii che nessuno dei miei telefoni funzionava più, neppure la linea strategica. Raissa Maksimovna era in veranda e leggeva i giornali. Andai da lei e le raccontai tutto. Le dissi che era difficile immaginare cosa avessero in mente, ma potevamo aspettarci il peggio. Ci spostammo nella stanza da letto. Intanto i pensieri si affollavano in testa. Pensavo: non accetterò né minacce né ricatti. Raissa mi disse che qualunque cosa avessi deciso, lei sarebbe stata al mio fianco. Allora mettemmo al corrente mia figlia Irina e suo marito Anatolij. Una quarantina di minuti dopo, uscii dalla stanza e mi trovai di fronte il gruppo. Fu Baklanov a parlare. Disse che era stato formato un Comitato per lo stato d´emergenza. Che per salvare il Paese dalla catastrofe dovevo firmare il decreto sullo stato d´emergenza. Disse anche che Eltsin era già stato arrestato, poi precisò che sarebbe stato arrestato sulla via del ritorno, intendeva da Alma Ata, in Kazakhstan, dove si trovava. Volevano darmi l´impressione che tutto era già fatto. Solo dopo scoprii che avevano portato con sé numerose varianti di documenti che, secondo loro, io avrei potuto firmare. Ma io respinsi fermamente il ricatto. Non avrei firmato niente. Ero indignato. "Ci vogliono misure adeguate?" dissi. "Bene. Convocate il Soviet Supremo, il Congresso dei deputati. Decidiamo. Ma rispettando la Costituzione. E la legge". Blaklanov rispose che io ero molto provato dalla tensione di quegli anni, mi propose di farmi da parte, trasferendo i poteri a Janaev, per tornare poi a cose fatte. "Il lavoro sporco lo facciamo noi", disse. Rifiutai anche quella proposta miserabile. Così intervenne Varennikov: "Allora, dia le dimissioni". Io persi la pazienza. Se ne andarono seguiti dalle mie invettive».
Ma in quel momento eravate già prigionieri?
«Appena li vidi, capii che si erano coperti le spalle. E infatti presto ne ebbi conferma. I telefoni erano muti. Fuori era stata messa una doppia fila di guardie. Nessuno poteva entrare né uscire, perfino il personale di servizio che abitava in paese e la sera avrebbe dovuto tornare a casa. I miei collaboratori che si trovavano all´interno, come Cernjaev, non poterono più andarsene. Ci dissero che il nostro aereo era stato richiamato a Mosca. Niente giornali, niente posta, niente tv. Per fortuna avevo portato con me un piccolo transistor Sony. Lo usavo la mattina mentre facevo la barba e all´ultimo momento lo avevo messo in valigia. Era l´unico contatto con il mondo. Ma il 18 agosto il mondo ancora non sapeva quel che stava accadendo e la radio mandava in onda le solite trasmissioni. Noi ci organizzammo».
Temevate una lunga prigionia?
«Non sapevamo come sarebbe andata a finire. Raissa Maksimovna cominciò a tenere un diario che pensavamo di nascondere, nella peggiore delle ipotesi, perché la verità non scomparisse con noi. Anatolij aveva il compito di tenere in custodia la radiolina, e che nessuno sapesse che l´avevamo. Fu solo alle sette del mattino seguente, il 19 agosto, che i ragazzi sentirono per radio la notizia che era stato formato un Comitato per la situazione di emergenza. Diceva che "a causa delle sue condizioni di salute e l´impossibilità di svolgere le funzioni di presidente dell´Urss, i poteri passano al vice presidente Ghennadij Janaev". Qualche ora prima, Anatolij aveva avvistato a largo alcune grosse navi militari».
Lei che cosa fece?
«Mandai in avanscoperta il più alto in grado della mia guardia, chiedendo che venissero immediatamente ripristinati i contatti col mondo esterno e un aereo per tornare a Mosca. Scoprimmo che altri uomini armati di Kalashnikov presidiavano il territorio della dacia. Noi per parlare uscivamo in balcone, non era escluso che ci fossero delle cimici. E facevamo passeggiate dalla parte del mare, sperando che qualcuno ci vedesse e potesse raccontare che stavo bene. Ma la spiaggia era deserta. Intanto i ragazzi erano riusciti a fabbricare un´antenna di fortuna per la radio. Scoprimmo così che Eltsin non era stato arrestato. Verso le cinque del pomeriggio furono evacuati gli ingegneri militari per le telecomunicazioni. Io chiesi di nuovo un aereo per Mosca. A quel punto, la radio cominciava a trasmettere la conferenza stampa dei golpisti: un ammasso di menzogne. Eravamo in mano a un gruppo di pazzi criminali. Tutto poteva accadere. Decidemmo di razionare i viveri e Irina nascose un po´ di frutta per le bambine. Raccogliemmo anche le medicine che avevamo portato con noi: avremmo usato solo quello che era stato acquistato prima del 17 agosto. Poi la notte, con la nostra videocamera girammo un video, in cui mi rivolgevo ai russi, perché sapessero la verità. Avremmo cercato di farlo uscire, in qualche modo, o, nella peggiore delle ipotesi, l´avremmo nascosto. Facemmo tutto in silenzio. Irina e Anatolij ci lavorarono fino all´alba. Poi tagliammo il nastro in quattro parti con la forbicetta delle unghie, e le avvolgemmo in una carta sottile. Il resto della cassetta lo facemmo sparire».
Quando cominciò a capire che il golpe stava andando male?
«Già il 20 agosto, dopo aver ascoltato attentamente le radio occidentali, mi resi conto che le cose non stavano andando come previsto. E ne ebbi conferma all´indomani, mentre nuove navi da guerra si affacciavano sul golfo, con l´improvviso arrivo di Krjuchkov, Jazov, Lukjanov e Ivashko. Mi era chiaro che volevano tentare un´ultima carta per convincermi. Ma quello del 21 agosto fu un giorno difficilissimo per noi. Alle tre Irina correndo annunciò di aver sentito alla Bbc che Krjuchkov aveva permesso a una delegazione di venire a Foros per rendersi conto delle mie condizioni. Raissa si spaventò moltissimo. Pensò che per mostrarmi malato mi avrebbero prima annientato. La paura la paralizzò, letteralmente, non poteva più muovere il braccio e non riusciva a parlare. Un ictus. Ci sono voluti due anni perché si riprendesse.
Verso le cinque arrivarono. Diedi ordine alla guardia che mi era rimasta fedele di aprire il fuoco se qualcuno avesse cercato di entrare senza il mio consenso. Cosa che Lukjanov e Ivashko fecero, tra l´altro, dicendo che loro non avevano nulla a che spartire con i golpisti. Io dissi che non avrei parlato con nessuno finché non avessero ripristinato le comunicazioni. Alle 17,45 i telefoni furono ricollegati. La prigionia era finita. Parlai subito con Eltsin, con gli altri capi delle repubbliche e con Bush. Incontrai la delegazione russa guidata da Rutskoj. Jazov e Krjuckov non li volli ricevere».
La fotografia del vostro arrivo a Mosca, mentre scendete la scaletta dell´aereo con la piccola Ksenja avvolta nella coperta, resta nella nostra memoria come una delle immagini più emozionanti della storia di quegli anni.
«Lasciammo Foros alle 11 della sera del 21 agosto, dall´aeroporto di Belbek, con l´aereo di Rutskoj. Nello stesso aereo, ma in un altro salone, tornava a Mosca anche Krjuchkov. Arrivammo a Vnukovo alle due di notte. Non so dirvi quello che provai, un misto di sentimenti si affollava dentro di me. Mi sentivo un altro uomo, in un altro Paese. Ma ci vollero giorni per ricostruire il quadro degli avvenimenti: troppe erano le informazioni che ignoravo».
In Russia colpire i leader scomodi quando erano lontani da Mosca era quasi un´abitudine, perché nonostante le sue inquietudini decise di partire?
«Ero stanchissimo. Politicamente, fino a quel giorno i golpisti si erano dimostrati degli incapaci. Ma non avrei mai immaginato che avrebbero tentato una simile avventura. Fu un errore. Non avrei dovuto lasciare il Cremlino».
Mikhail Sergheevic, nei giorni seguenti lei sembrava convinto che tutto potesse tornare a posto. Quando si rese conto che tutto era perduto?
«Fu elaborato un nuovo Trattato d´Unione. Dopo il Congresso, anche Eltsin disse: "l´Unione continuerà ad esistere". Invece, non fu così. Ma ancor oggi non posso dire che tutto è andato perduto: il processo messo in moto dalla perestrojka non si è mai fermato e la Russia va avanti nel suo cammino, difficile, questo sì, verso la democrazia».

Repubblica 9.8.11
I martiri dimenticati
di Viktor Erofeev


Mi fa paura pensare al passato della Russia. È troppo pieno di sofferenze, vane speranze, anni di fame, torti subiti, corpi insepolti, delusioni. Le nostre vittorie ci sono costate troppo care, e le sconfitte sono sempre state troppo facili. Abbiamo acquisito una rara esperienza, un´indifferenza storicamente fossilizzata. Ciò nonostante, tra gli avvenimenti degli ultimi decenni io intravedo una macchia di luce. Ogni anno che passa diventa più nebulosa e sfuocata, eppure c´è: parlo del fallimento del golpe dell´agosto 1991.
Una sorta di favola con un quasi-finale felice (il finale è la nebbia che l´avvolge). La gente disarmata contro centinaia di carri armati. Gli intellettuali contro i generali. Il popolo contro la menzogna. Non so da dove sia spuntato quel popolo russo insorto con tanta consapevolezza, perché non l´avevo mai visto così prima d´allora; e non so neppure dove sia andato a finire, perché così non l´ho mai più rivisto. In fin dei conti, della perestrojka di Gorbaciov nell´estate del 1991 tutti erano ormai ben stanchi. La perestrojka si reggeva su begli slogan, ma non conteneva altro che il caos e un crescente carovita, il rafforzarsi del nazionalismo e della malavita, e continue promesse. Cominciava a vacillare quell´impero plurisecolare messo insieme poco per volta dagli zar e da Stalin, che rappresentava la più grande conquista e l´orgoglio della Russia. Quell´impero che spaventava e affascinava il mondo intero, e che era sempre stato al centro dell´attenzione dei media: ed ecco che apparve lo spettro del nulla e dell´assurdo.
Nello stesso periodo però comparve in Russia un fenomeno inedito per il nostro paese: la libertà. Essa soltanto ci permise di resistere al golpe. Un colpo di stato contro le riforme era inevitabile: Gorbaciov stesso lo comprendeva, ma non sapeva come opporvisi. I tre principali ministeri deputati alla sicurezza dell´URSS, i tre organismi di difesa costituiti da esercito, polizia e cechisti, insieme al Comitato Centrale del PCUS che andava ormai perdendo il suo peso politico, decisero di porre fine al disfacimento di quello Stato grandioso e crudele. Ben pochi oggi ricordano i nomi degli autori del golpe – del resto, tra loro non vi erano grandi nomi, ma solo dei funzionari con una concezione distorta della grandezza dello Stato; tutti ricordano invece le mani tremanti del loro pessimo leader (che tra l´altro era vicepresidente dell´URSS e braccio destro di Gorbaciov), nella conferenza stampa convocata per dichiarare lo stato di emergenza. Gorbaciov si ritrovò agli arresti domiciliari in Crimea, e come un eroe dell´epos popolare Boris Eltsin (all´epoca presidente della Federazione Russa, componente e sostegno fondamentale dell´URSS) lanciò la sua sfida ai golpisti. La gente di Mosca si mobilitò in difesa della libertà, schierandosi in massa intorno alla Casa Bianca, il quartier generale di Eltsin. C´erano tutti i miei amici: musicisti, scrittori, cantanti rock… Tre giovani caddero vittime degli scontri tra gli insorti e i carri armati nel tunnel di via Novyj Arbat, non lontano da casa mia.
Quel 19 agosto io ero in Francia, sulla spiaggia assolata di Saint-Nazaire, in preda alla disperazione. Sapevo che i golpisti mi avrebbero messo in carcere per il semplice fatto che ero un libero scrittore russo e non facevo mistero delle mie convinzioni antisovietiche. Non volevo tornare nell´URSS, ma non volevo neppure emigrare in Europa. Mentre ero sulla spiaggia mi scovò chissà come la televisione francese: dichiarai tutto il mio odio per i golpisti ed esortai la comunità internazionale a lottare contro di loro. L´ironia volle che pronunciassi il mio discorso pieno di sdegno sulla spiaggia, e la sera stessa mi rividi al telegiornale sullo sfondo di due belle ragazze francesi che giocavano a badminton in topless.
Di notte in albergo ascoltavo radio Svoboda, una radio americana in lingua russa, e pian piano dalle notizie che arrivavano cominciò a delinearsi qualcosa di totalmente insolito. La gente non aveva paura. I giornalisti si coalizzavano per difendere la libertà di parola. L´eco di Mosca, un´emittente liberale attiva ancora oggi, cominciò a trasmettere in clandestinità. L´esercito era in dubbio sul da farsi, e lo stesso valeva per i diplomatici. Il golpe si stava sfasciando da sé. Soffriva di impotenza come i suoi decrepiti fautori politici. Il colpo di stato era iniziato con la trasmissione alla tv sovietica del balletto di Tchajkovskij Il lago dei cigni – tutte le altre trasmissioni erano state pavidamente cancellate; e si concluse con l´abolizione della bandiera rossa sovietica e con l´abbattimento del monumento a Dzerzhinskij (il capo dei cechisti nel partito di Lenin) sulla piazza antistante la sede del KGB. I golpisti come tanti bambini si precipitarono a chiedere scusa a Gorbaciov in Crimea, ma lui li spedì dritti in prigione. Gorbaciov stesso, d´altronde, rientrò a Mosca non certo da trionfatore; ed ebbe inizio l´era di Eltsin, che fu altrettanto tortuosa della perestrojka di Gorbaciov.
Tornai a Mosca passando per l´autostrada di Minsk: era dissestata per il passaggio dei carri armati della divisione Tamanskaja, basata nei pressi di Mosca, che i golpisti avevano lanciato alla conquista della capitale. In città si sentiva il profumo della libertà, forte come quello estivo dei tigli in fiore. L´attività del PCUS venne dapprima sospesa e poi del tutto proibita. Mi sfuggì persino una lacrima! Sembrava che da lì in poi le cose sarebbero soltanto migliorate…
Sono passati vent´anni. Sulle tombe dei tre eroi non si vedono fiori. Nel punto in cui sono caduti sventola una bandiera tricolore sbiadita dal sole – pochi sanno perché si trova qui. Quando ricorre l´anniversario della morte del golpe si radunano le sparute manifestazioni dei liberali. Due anni fa a Mosca e a San Pietroburgo per qualche motivo le autorità cittadine le hanno proibite del tutto. Gradualmente va crescendo la percentuale di cittadini russi che si dichiarano più favorevoli che contrari al golpe del ´91… Non amo pensare al passato della Russia.
(Traduzione Mirella Meringolo)

Repubblica 9.8.11
Lee Jasper, attivista per i diritti delle minoranze:
"Il malcontento covava da anni, frutto di tanti abusi"
intervista di Rosalba Castelletti


Jasper, ex consigliere delle minoranze etniche, è un attivista per i diritti dei neri
Lee, leader della protesta attacca governo e polizia "Rabbia contro le bugie"

"Gli agenti hanno raccontato cose non vere, è questo che ha scatenato le violenze"
La gente non decide da un giorno all´altro di appiccare le fiamme È un processo lungo frutto di tanti abusi: è il malcontento covato per anni a scoppiare
Qui la disoccupazione è altissima e il governo che fa? Taglia i servizi pubblici e ogni iniziativa sociale. Bisogna tornare a dare fondi alla comunità

LONDRA - «Dov´è il sindaco Boris Johnson quando ce n´è bisogno?», chiede dinanzi alle telecamere Lee Jasper, l´ex consigliere speciale per le minoranze etniche dell´ex sindaco londinese Ken Livingstone. «Dovrebbe stare qui, non in vacanza!». Alle sue spalle un gruppo di afroamericani annuisce, applaude, solleva la mano destra in segno d´approvazione. Siamo a Brixton Road, la via che attraversa il distretto di Lambeth, a Sud di Londra. Un largo tratto è stato isolato dopo i disordini di domenica notte. È qui che Jasper tenne quello che egli stesso definì un discorso «molto, molto arrabbiato» poco prima che esplodessero gli scontri del 1996. Oggi torna a cavalcare il malcontento per muovere accuse contro il governo. «In quest´area mancano i fondi. Vi è un alto tasso di disoccupazione. E il governo cosa fa? Taglia i servizi pubblici e ogni iniziativa sociale. Tornate a dare soldi alla comunità!». E poi rivolto al primo cittadino: «Boris, se mi senti, muovi il c… e vieni a Londra».
Non usa mezzi termini questo potente oratore nato a Oldham 49 anni fa - madre bianca, padre giamaicano - che, trasferitosi a Londra, nel giro di pochi anni è diventato un´attivista razziale, onnipresente in decine di comitati e organizzazioni, e che si è sempre attirato in eguale misura lodi e polemiche. Come le accuse di frode mossegli contro dall´Evening Standard che nel 2008 lo costrinsero ad abbandonare l´incarico di consigliere di Livingstone, ma da cui fu assolto da una commissione d´inchiesta. «Razzismo istituzionale», definì l´episodio.
Oggi, oltre che per Johnson e per il governo conservatore, ne ha anche per la polizia. «Gli agenti si sono dimostrati totalmente insensibili. Hanno impiegato giorni a presentare le proprie condoglianze alla famiglia di Mark Duggan (l´uomo ucciso giovedì scorso, ndr). E nessuno ha dato loro notizie sullo sviluppo delle indagini sulla sua morte. Qui a Brixton abbiamo un buon rapporto con la polizia. Ieri, prima della notte di violenze, c´è stato un festival. Eccezionale, vero ragazzi?». «Yeah!!», risponde il suo capannello di ascoltatori. «Ma quel che è successo a Tottenham - continua - riguarda anche noi. Ogni morte nelle mani della polizia riguarda anche noi». E se c´è una cosa che a Jasper ha attirato lodi è stato il suo lavoro come presidente del gruppo consultivo laico nell´Operazione Trident, la campagna contro la criminalità nelle comunità nere lanciata dopo gli scontri degli Anni ‘80. La stessa operazione che ha portato all´arresto e all´uccisione di Duggan. E su cui Jasper, come molti, solleva sospetti. «La versione iniziale della polizia si è rivelata sbagliata. Abbiamo bisogno di verità. Abbiamo bisogno di risposte. È questo che ha scatenato le proteste: la gente di Londra vuole sapere».
A chi ribatte che, saccheggiare centri commerciali e incendiare abitazioni e auto non è il modo giusto di domandare giustizia, risponde: «La gente non decide da un giorno all´altro di appiccare le fiamme. È un lungo processo. Sono tutti gli abusi subiti, tutto il malcontento covato per anni a scoppiare. Ecco cosa succede quando una comunità viene abbandonata a se stessa, quando la politica non se ne fa carico. Condanno le violenze, ma solo in parte. Condanno molto di più la violenza economica: la disoccupazione, la mancanza di opportunità che nega ai giovani un futuro. È una violenza che non viene riconosciuta. Ci si sofferma sul sintomo e non sulla patologia: il sintomo sono le violenze di sabato, ma la patologia è l´alienazione di un´intera comunità lasciata a se stessa».

Repubblica 9.8.11Lo scrittore Hanif Kureishi, conoscitore del malessere delle periferie
"Questo è solo l´inizio adesso la rivolta contagerà tutta l´Europa"
di Valeria Fraschetti


Gli abitanti di questi rioni non sono altro che i più poveri della società. Non saranno mai classe media

«Questi tumulti non sono che l´inizio di una stagione di rivolte che durerà anni e contagerà il resto d´Europa», parola di Hanif Kureishi. E c´è da starlo ad ascoltare, perché lui, nato da padre pachistano e madre inglese, scrittore e drammaturgo britannico tra i più letti in Italia, conosce bene il malessere che si nasconde dietro le violenze esplose in vari quartieri disagiati di Londra. Non solo nei sobborghi poveri e multietnici della capitale ha ambientato alcuni dei suoi romanzi più celebri, a partire dal Budda delle periferie (Bompiani). Ma anche il quartiere in cui vive con la sua famiglia, Shepherd´s Bush, a West London, non è poi così diverso da quello di Tottenham, epicentro delle guerriglie urbane. «Sono aree dove tantissimi ragazzi girano armati e fanno uso di droghe, i trentenni non hanno mai lavorato e mai lavoreranno, cittadini britannici, e non immigrati, che perlopiù sono dei paria di un sistema economico di cui non sono mai riusciti a far parte».
Signor Kureishi, i disordini "non hanno niente a che vedere con la morte del giovane" ucciso dalla polizia, come sostiene il vicepremier Clegg?
«Scaturiscono da un malessere con radici principalmente economiche. Non a caso la rabbia si è scagliata soprattutto contro i negozi, simbolo dell´accesso al benessere che gli viene negato».
Da quali fattori?
«La crisi economica del 2008 ha colpito i poveri più duramente. E gli abitanti di questi quartieri non sono altro che i più poveri della società. Non appartengono alla classe media: non diventeranno mai medici o professori. Per molti il passatempo principale è il crimine, al massimo il rap. Vivono in aree dove la disoccupazione è tra le più alte del Paese. Per di più, con la consapevolezza che la loro condizione s´aggraverà ancora di più nei prossimi cinque anni. Era prevedibile che un qualsiasi pretesto avrebbe fatto esplodere la situazione».
Perché proprio ora? Le misure di austerità approvate dal governo Cameron si stanno facendo sentire?
«Certo, i tagli hanno ridotto i sussidi di disoccupazione, i centri giovanili e altri servizi sociali. E il disagio monta».
Come lo arginerà il governo?
«Ci vogliono investimenti, soldi. Che il governo non ha. Come del resto non ne hanno Italia, Grecia, Spagna. Per questo credo che siamo solo all´inizio di un periodo di forte instabilità sociale».
Cosa accomuna queste rivolte con quelle del 1985? Anche allora scoppiarono durante un periodo di forte austerità.
«Come oggi, i Tory erano al potere, la disoccupazione alta e la criminalità diffusa»
Contro la quale lo Stato ha fatto poco?
«Ci sono stati investimenti e progressi, soprattutto con Blair. Ma c´è bisogno anche le comunità facciano la loro parte, sradicando la cultura del fallimento presente. Ma ora è impossibile: la gente non ha più speranza».

Repubblica 9.8.11
Il dramma dell´eroina femminista "Assassinata in casa dal marito"
L´autrice ceca scriveva romanzi sull´inferno coniugale
di Andrea Tarquini


Berlino - Era l´eroina della causa delle donne e della letteratura femminile, nei suoi romanzi raccontava senza censure la tragedia della violenza quotidiana che le mogli subiscono dai mariti nel quotidiano nascosto della vita coniugale. Adesso è morta, uccisa a coltellate, e il sospetto assassino è suo marito. Sembra una storia dall´Afghanistan o dal Pakistan, invece il teatro del dramma è la postmoderna, laica e civilissima repubblica cèca. E il caso scuote il paese, come crimine di cronaca nera inatteso e traumatizzante, forse il primo di tale gravità dalla fine della dittatura nell´autunno-inverno del 1989.
L´eroina tragica del dramma si chiamava Simona Monyova, aveva 44 anni. E´ stata trovata morta nella sua casa di Brno, dove viveva da tempo col marito Boris. Giaceva a letto, trafitta da una raffica di pugnalate, e quando i soccorritori sono accorsi nell´appartamento non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. Boris era accanto a lei, anche lui gravemente ferito da coltellate. È stato subito ricoverato nell´ospedale più vicino, e finora la polizia non ha potuto interrogarlo. Eppure gli inquirenti vedono in lui l´indiziato numero uno. E amiche e conoscenti di Simona lo accusano. Il grande pubblico è con loro, e compiange l´eroina perduta.
Simona scriveva volentieri, pubblicava almeno due libri ogni anno. Bruna, alta, bella, sempre sorridente a ogni apparizione ufficiale, si era sempre presentata al grande pubblico come la narratrice di tragedie di altre donne, in nome della causa femminile. Con Boris, cresceva tre figli, e lui era stato l´editore di alcuni dei suoi romanzi, e così l´aveva lanciata. Nessuno dunque sospettava quanto gli investigatori cèchi ora presumono. I libri di Simona narrano sempre storie di mogli spezzate dalla violenza maritale. "Dolori del cuore", uno dei più venduti, racconta di un matrimonio che inizia nella gioia totale, attraversa intrighi, gelosia, sesso brutale e panico davanti all´invecchiamento, e finisce in uno scontro violento e in voglie di vendetta totale. «Ho tratto il tema da racconti di amiche e conoscenti», aveva detto Simona alla presentazioni. Ma adesso un suo amico dice di aver ricevuto da lei un sms tragico: «Simona mi ha confessato di essere stata percossa e violentata per undici anni dal marito», ha detto al quotidiano popolare Blesk.
La polizia indaga, forse gli investigatori rileggono anche le pagine di un altro libro di Simona, "La donna dai sentimenti selvaggi". Una frase sul sito web della scrittrice dà da pensare: «La marcia nuziale mi evoca sempre il pensiero delle musiche marziali con cui i soldati vanno all´attacco al fronte». Anche nella "Nuova Europa", la vita moderna e i traumi del postcomunismo vedono le donne tra le prime vittime.

Repubblica 9.8.11
Una sinistra senza innovazione
di Roberto Esposito


‘Cambia il vento´ – è lo slogan che dai manifesti affissi sui muri delle nostre città racconta l´inversione in atto dei rapporti di forza tra governo ed opposizione. Non si tratta semplicemente del dato, pure rilevante, che per la prima volta il Pd supera virtualmente il Pdl nelle intenzioni di voto degli elettori. E neanche soltanto del palese sfaldamento del centrodestra, ormai esteso a tutti gli ambiti, dall´economia, alla giustizia, alla politica internazionale. È come se un flusso di energia – una speranza e insieme una volontà di cambiamento –, per troppo tempo interrotto, avesse ripreso a scorrere nelle vene del Paese.
E tuttavia si può dire che i partiti di centrosinistra stiano intercettando tale domanda? Che il vento nuovo che gonfia le sue vele si stia trasformando in effettiva forza politica? La risposta a questa domanda non può essere positiva. La debolezza della destra non si traduce automaticamente in rafforzamento della sinistra. Permane, e si fa perfino più evidente, la difficoltà di quest´ultima a passare da una politica reattiva – cioè di contrasto dell´azione dell´avversario – all´affermazione di una proposta capace di recepire e potenziare la spinta che arriva dalla società.
Non mi riferisco tanto alla endemica difficoltà di tenere insieme l´anima riformista con quella radicale o agli elementi di opacità che appannano la questione morale. C´è qualcosa di più profondo – in questo deficit di proposta politica – che si potrebbe riassumere nella incapacità di dar vita ad un grande processo costituente. Per farlo, la sinistra dovrebbe mettere mano al nodo che non è mai riuscita a sciogliere, tra conservazione ed innovazione. Entrambe evidentemente sono necessarie, purché combinate in un equilibrio che non sacrifichi l´una all´altra, e che soprattutto non scambi il loro ruolo.
Ebbene è esattamente su questo che la sinistra italiana ha mostrato più di un´esitazione. Non sempre ha saputo conservare i propri valori originari – in particolare il principio di giustizia e di difesa dei ceti più deboli – senza i quali essa perde perfino la propria ragion d´essere. Per far ciò avrebbe dovuto tener fermo il primato della politica nei confronti di poteri, come quelli della nuova economia finanziaria, che si ritengono sciolti da vincoli collettivi. Intendiamoci: nessuna forza politica può chiamarsi fuori dalla necessità di evitare il rischio del tracollo economico; ma questa etica della responsabilità non esime dalla necessità di esprimere un giudizio critico sul modello di sviluppo e farne scaturire scelte conseguenti.
Nel tempo è andata prevalendo l´idea che per essere pienamente moderna, la sinistra dovesse restringere il proprio orizzonte di scelta all´interno delle alternative imposte dal nuovo mercato mondiale – anche quando questo chiedeva di scambiare diritti acquisiti contro il mantenimento del posto di lavoro. A tale fraintendimento della idea di innovazione si è spesso accompagnato un atteggiamento conservativo sul piano istituzionale. Anche qui la sinistra ha agito spesso in stato di necessità. Contro gli attacchi alla Costituzione portati dalla destra, essa non poteva che schierarsi in sua difesa. Senza lo scudo di una Costituzione di grande saggezza come quella italiana, il rischio del deragliamento dei diversi poteri dal loro alveo naturale sarebbe stato ingente.
Ma il nucleo profondo di ogni Costituzione – e massimamente della nostra, nata nel crogiuolo di uno straordinario passaggio storico – non riposa mai su se stesso. Vive sempre nella tensione dialettica tra la stabilità del potere costituito e la carica innovativa del potere costituente. In questo senso la fedeltà allo spirito di una Costituzione sta nella capacità di adeguarla ai mutamenti dell´orizzonte storico in cui anch´essa è inserita. Se, per esempio, in rapporto alla connessione dichiarata tra democrazia e diritto al lavoro, i padri costituenti non potevano fare di meglio, circa la definizione dello ‘straniero´ in rapporto ai cittadini italiani, la nostra carta costituzionale resta legata ad una stagione ormai esaurita.
È perciò che una sinistra insieme innovativa e fedele a stessa deve essere prima di tutto capace di adeguare il proprio lessico ad una fase diversa da quella che l´ha vista nascere. Pensare di risolvere i problemi del nostro tempo, in rapidissima evoluzione, con i nobili paradigmi della tradizione classica non può portare lontano. Può valere, certo, a difendere i confini della democrazia dai rischi che la insidiano. Ma non quando, alla fine di un´esperienza senza futuro, come quella del berlusconismo, si tratta di dar vita ad un grande progetto di rinnovamento.

Repubblica 9.8.11La moglie del presidente americano assassinato a Dallas credeva che dietro il delitto ci fosse il braccio destro di JFK Lo rivelò in un´intervista che doveva restare segreta per 50 anni. Ma adesso quei nastri sono finiti in un documentario
Jackie: "Johnson uccise mio marito"
di Vittorio Zucconi


La vedova rivelò i suoi sospetti allo storico Schlesinger dopo l´attentato del 22 novembre ‘63
Parlò anche di amori e tradimenti e confessò la sua relazione con Gianni Agnelli

È la voce della Prima Vedova d´America a parlare dall´oltretomba e a formulare un´accusa tremenda, per ora senza prove: Jacqueline Kennedy era convinta che "l´infame", che l´assassino, fosse quell´uomo di fronte a lei sull´aereo funebre, quel Lyndon Johnson che aveva preso il posto di suo marito.
Questo, nella propria rabbia e nella propria disperazione di vedova e di donna tradita due volte, prima dal marito in vita e poi dal suo vice presidente in morte, Jacqueline Bouvier Kennedy disse allo storico Arthur Schlesinger pochi giorni dopo quel funerale che tutto il mondo guardò piangendo con lei e con i bambini. Fu una confessione segreta che sarebbe dovuta restare segreta per mezzo secolo. Ma che la figlia Caroline ha cominciato a svelare a pezzi e brandelli, scatenando un altro capitolo sensazionale del libro infinito dei misteri kennedyani, se le sue rivelazioni sono autentiche e se davvero questo dice la voce dal passato.
Dalla fine del 1963, dunque qualche settimana dopo avere dovuto lasciare la Casa Bianca insieme con i due orfani, John John e Caroline, a oggi, i nastri della lunga confessione di Jackie a Schlesinger, allo storico che più di ogni altro aveva contribuito a creare il mito di "Camelot", della corte kennediyana, sono rimasti chiusi nella cassaforte della Biblioteca ufficiale di JFK a Boston. Jackie aveva ordinato che restassero sottochiave per mezzo secolo, rendendosi conto dell´enormità delle accuse. Ma ora che uno dopo l´altro i Kennedy "veri" se ne sono andati e restano soltanto gli avanzi di una dinastia tramontata, che John John il principe ereditario è sprofondato con il proprio Piper nelle acque davanti a Hyannis Port, che Ted l´ultimo grande vecchio è stato sepolto e lei è rimasta sola, Caroline ha rotto il sigillo del silenzio.
Sono cominciate a sgocciolare accuse terribili, come quella diretta al vice presidente Lyndon B. Johnson di essere stato il ragno che aveva tessuto la tela con altri "pezzi da 90" texani per attirare Kennedy a Dallas, dove l´odio dei "JR", dei miliardari, dei bovari e petrolieri per il presidente troppo liberal, troppo di sinistra, troppo yankee, troppo nordista, era implacabile, e tramare per eliminarlo. Filtra come un vento acre la collera di una donna che dietro il sorriso diafano ed enigmatico, sotto gli abiti di "haute couture" che indossava per il pubblico da magnifica mannequin del mito, sapeva tutto delle porcherie del marito, raccontando a Schlesinger di avere trovato slip da donna ovviamente non suoi sparsi per la casa. E di avergli reso pan per focaccia, racconta in quei nastri ascoltati dalla figlia Caroline, tradendolo con uomini come Giovanni Agnelli, il presidente della Fiat durante vacanze italiane e con il suo attore preferito, il bellissimo William Holden.
Più che il Castello di Re Artù, che la propaganda degli Schlesinger, il narratore dei "mille giorni", o le parole alate di Ted Sorensen, il trovatore che diede le ali all´oratoria kennedyana dal discorso inaugurale in poi, la Casa Bianca di quegli anni sembra essere stata una corte dei Borgia, un nido di avvelenatori e ballerine, di pugnalatori e di favorite. Sono soltanto frammenti, questi che la figlia sta facendo cadere dalla tavola dei misteri, e non necessariamente verità, perché non é affatto dimostrabile che Jackie sapesse davvero chi avesse mandato Lee Harvey Oswald con un fucile a cannocchiale al sesto piano del deposito di libri a Dallas. Ma sono gocce di piombo fuso.
Alcune delle cose che Caroline sta facendo uscire, secondo i media come il Daily Mail inglese che hanno raccolto queste anticipazioni, per preparare il mercato al libro che sta scrivendo e per i documentari che la network Abc diffonderà in autunno, collimano con ciò che sappiamo e che è stato da tempo scoperto. La candida villa della famiglia modello, ostentatamente cattolica nella opportunistica devozione, assisteva a orgette e inseguimenti di segretarie attorno alle scrivanie, all´assunzione di impiegate disponibili, come le due ragazze che il Servizio Segreto aveva soprannominato "Fiddle" e "Faddle", agli incontri brutali e rapidi in piedi nei guardaroba con la "bambola" mandata dal padrino mafioso Sam Giancana, Judith Campbell, all´andirivieni notturno di Bob, il fratello, attraverso il tunnel sotterraneo che collega la Casa Bianca all´adiacente ministero del Tesoro, che Bob usava per entrare e uscire non visto dai reporter. Un clima da dormitorio universitario, da "Animal house", che gli apologeti più tardi tenteranno di giustificare con gli «squilibri ormonali» di un presidente costretto a continue cure di steroidi per il morbo di Addison, un´afflizione grave delle ghiandole surrenali.
Anche i sospetti sul vice Lyndon Johnson, il gigante texano e boss ferreo del Senato che John e Bob Kennedy avevano indicato come candidato alla vice presidenza pur sapendo che Johnson detestava quei due turd, quegli stronzetti di Boston come ripeteva a tutti, scattarono subito dopo le esplosioni dei colpi. Johnson era stata una nomina di ripiego, un´astuzia tattica, fatta dopo il rifiuto di tre "prime scelte", indicato dai fratelli Kennedy soltanto per fare un gesto verso il Texas e l´elettorato del Sud che minacciava di far perdere le elezioni. Entrambi, John ("Jack" come era chiamato dagli amici) e Bob restarono di stucco quando LBJ accettò, intrappolandoli nel loro gioco e costringendoli a portarselo alla Casa Bianca.
Da questo intenso disprezzo fra due uomini, e due clan, fra i Kennedy e i Johnson, fra gli irlandesi bostoniani e i texani, a immaginare che il vice sia stato l´ideatore e il promotore dell´assassinio con la complicità della sua "gang", occorre compiere un salto che gli storici e i ricercatori non si sentono di fare e che la furia di una donna offesa e sfrattata dal nuovo inquilino della propria casa, può invece giustificare. Ma spiegherebbe la frettolosa rapidità con la quale il nuovo presidente, colui che aveva giurato sul Boeing 707 che trasportava la bara di JFK, davanti a Jackie in tailleur ancora imbrattato dal sangue e dagli schizzi di cervello del marito, chiuse l´inchiesta ufficiale condotta dal giudice Warren. Riguardiamo quella foto ufficiale, la sola scattata sull´Air Force One in volo di ritorno verso Washington nella notte di venerdì 22 novembre 1963: una vedova insanguinata, la bara del morto e l´uomo che lei, dentro di sè, credeva essere l´assassino. Un triangolo di odio shakespeariano che neppure quarant´anni hanno potuto estinguere e che continua ad ardere.

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