mercoledì 24 agosto 2011

l’Unità 24.8.11
Manovra iniqua, sfida della Cgil
Sciopero generale il 6 settembre
Il rapido iter della manovra nelle aule parlamentari ha spinto la Cgil a stringere i tempi sullo sciopero generale, annunciando già ieri la data del 6 settembre. Bonanni e Angeletti contrari insieme a Pdl e Fiat.
di Marco Ventimiglia

Sarà martedì 6 settembre. Un' astensione dal lavoro di 8 ore annunciata dalla Cgil che coinvolgerà tutte le categorie di lavoratori, con manifestazioni articolate a livello territoriale «contro, e per cambiare, la manovra iniqua e sbagliata del governo». Uno sciopero generale le cui modalità, insieme alle proposte alternative al decreto anticrisi, saranno illustrate questa mattina dal segretario generale Susanna Camusso nella conferenza stampa prevista «in piazza, di fronte al Senato», nell'ambito del presidio organizzato del sindacato contro la manovra.
IL MANDATO DEL DIRETTIVO
Dunque la Cgil ha voluto accelerare i tempi, non aspettando la riunione del direttivo prevista per il 30 ed il 31 agosto per varare un'iniziativa così importante. A decidere ieri è stata direttamente la segreteria confederale, allargata ai segretari generali di categoria e territoriali, con un iter eccezionale, basato comunque sul mandato in tal senso ricevuto dal precedente direttivo svoltosi il mese scorso. Un 6 settembre che di fatto fissa il momento topico di una mobilitazione, quella di Corso Italia, che si è avviata ed ha preso corpo parallelamente al burrascoso e contraddittorio evolversi della manovra. Un percorso che si è cercato il più possibile di condividere, a partire dalla richiesta al governo di "un patto per la crescita" formulata alla fine di luglio e cofirmata dalla Cgil insieme ad altri sindacati, il mondo produttivo e le banche. Passando poi per la missiva di pochi giorni fa indirizzata a Cisl e Uil, nella quale si auspicava un'unità d'intenti di fronte al decreto e all' intervento del governo sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Unità d'intenti che manca, come non hanno perso occasione di ribadire Bonanni e Angeletti, censurando lo sciopero in buona compagnia, quel-
la del Pdl tutto e di John Elkann, acerba guida della Fiat.
Una decisione che è scaturita in modo unanime dalla segreteria confederale allargata, come ha sottolineato il segretario generale di quella Fiom che in altre occasioni si è trovata su posizioni divergenti rispetto a quelle del direttivo nazionale. La scelta dello sciopero «è stata presa dalla Cgil in un clima compatto ha raccontato Maurizio Landini -. Si tratta della risposta giusta e rapida per agire mentre il Parlamento sta discutendo la manovra, perché l'obiettivo è cambiarla». Già la rapidità. Quella che ha imposto un'accelerazione degli eventi per non rischiare di ritrovarsi in piazza a cose fatte, a leggere il testo di un decreto iniquo sulla Gazzetta Ufficiale. Quella stessa rapidità che adesso costringerà Corso Italia ad uno sforzo organizzativo, con soli dieci giorni a disposizione per allestire non uno ma molteplici eventi di grande portata su tutto il territorio nazionale.
BONANNI E ANGELETTI
Cisl e Uil, si diceva. Dall'una e dall'altra, con l'Ugl a dare man forte, sono arrivate critiche e ragionamenti già sentiti. «A che serve ha chiesto Raffaele Bonanni questo sciopero generale, che non è generale perché non vi partecipano tutti, ma di una parzialità che è sempre più parzialità?». Un' iniziativa semplicemente «stucchevole» per il segretario della Cisl. «Siamo di fronte all'ennesimo sciopero generale proclamato dalla Cgil in solitaria: non produrrà alcun effetto se non di far perdere un po' di soldi ai lavoratori», gli ha fatto eco il leader della Uil. Un Luigi Angeletti per il quale servirà piuttosto, il prossimo 1 settembre, «l'iniziativa con la Cisl davanti al Senato, dove è in approvazione la manovra, per sostenere le nostre chiare ed individuate proposte di modifica». Insomma, non basta nemmeno la conclamata emergenza per far lenire la contrapposizione, con la Cgil che resta nel mirino dei due sindacati "riformisti", come non perde occasione di celebrarli il ministro Sacconi.
Di tutt'altro tenore altre reazioni, provenienti dall'area dell'opposizione politica. Per Antonio Di Pietro, «invece di pretendere che la Cgil non proclami lo sciopero, la politica deve adoperasi affinché le ragioni della protesta vengano risolte a monte.
Queste derivano dall'atteggiamento criminale dell'attuale governo che vuole eliminare i diritti dei lavoratori di fatto abrogando l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori». Il presidente dell'Idv ha parlato di una riproposizione della «favola nella quale il lupo aggredisce l'agnello e poi ha addirittura da ridire se questi si lamenta».
Un’altra voce favorevole è quella di Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista, che ha definito «giusta e sacrosanta la scelta da parte della Cgil di proclamare lo sciopero generale contro le politiche inique e classiste del governo». Quanto alla maggioranza, in assenza di commenti ufficiali della Lega, forse presa dalle beghe con il Pdl, c'è da registrare proprio l'alzata di scudi del partito di Berlusconi. Da Cicchitto a Lupi, da Capezzone alla Boniver, è un florilegio di accuse alla Cgil, dove a definire lo sciopero prevale l'aggettivo "irresponsabile". Maurizio Sacconi ha tentato una modesta divagazione parlando di un'iniziativa ingiustificabile. «Lo strumento dello sciopero è legittimo ha aggiunto il ministro del Lavoro tuttavia credo che sia straordinariamete contraddittorio con le attuali esigenze di sostenere la produzione, la crescita e l'occupazione». Dulcis in fundo, il presidente della Fiat, John Elkann, che interrogato sullo sciopero a margine del meeting di Rimini ha svelato: «Non credo che ci dobbiamo unire a loro».

l’Unità 24.8.11
Bersani presenta la contromanovra. Ici Chiesa: esclusi dall’esenzione gli esercizi commerciali
Pd, contro la crisi 10 proposte
Equità, rigore e sviluppo sostenibile

1 Istituzioni più snelle e taglio ai costi della politica. Dimezzamento del numero dei parlamentari e delle Province. Revisione delle norme sugli appalti.
2 Dismissione e valorizzazione di immobili demaniali. Asta per le frequenze televisive.
3 Liberalizzazione di servizi professionali, distribuzione farmaci, filiera petrolifera, Rc auto, servizi bancari, reti energetici, servizi pubblici locali.
4 Politiche industriali per lo sviluppo sostenibile, il lavoro, il Mezzogiorno. Stabilizzazione dell’agevolazione fiscale del 55% per l’efficienza energetica.
5 Misure efficaci contro evasione fiscale. Tracciabilità, a fini anti-riciclaggio, dei pagamenti oltre i 1000 euro e, a fini anti-evasione, dei pagamenti superiori a 300 euro. Comunicazione da parte delle imprese dell’elenco clienti-fornitori.
6 Introduzione di un’imposta erariale ordinaria sui grandi valori immobiliari.
7 Imposta patrimoniale una tantum del 15% sui capitali scudati. Rinegoziazione dei trattati bilaterali con i paradisi fiscali transitati dalla “black” alla “white list” dell’Ocse (in particolare la Svizzera).
8 Ripristino dell’accordo per l’autonomia delle parti sociali raggiunto il 28 giugno scorso.
9 Ripristino del reato di falso in bilancio. Revisione della normativa sull’autoriciclaggio ed irrobustimento delle norme contro il caporalato
10 Interventi per l’efficienza della Giustizia, a cominciare dalla revisione delle circoscrizioni giudiziarie e dalla semplificazione dei riti nella giustizia civile.

l’Unità 24.8.11
Ridurre l’uso del contante, agire sulla dimensione delle imprese
Evasione fiscale. Quattro proposte per ridurla davvero
di Alessandro Santoro

In occasione di ogni manovra finanziaria torna, immancabile, la discussione sulla (cosiddetta) lotta all’evasione. Basta guardare le tabelle riassuntive degli impatti dei decreti 98 e 138 predisposte dalla Ragioneria Generale dello Stato per capire che gli importi attesi dai (modesti) provvedimenti antievasivi sono poco rilevanti. D’altronde, in anni recenti il governo di centro-destra ha attribuito ad altre misure (il redditometro, ad esempio) un notevole di recupero di gettito. Il punto, in effetti, non è quello di «dare i numeri», quanto piuttosto di affrontare razionalmente il problema partendo da alcuni punti fermi, senza i quali la discussione si trasforma in chiacchiericcio. Primo: esistono pochi confronti internazionali affidabili, ma da quel che sappiamo tutti i Paesi mediterranei, Grecia e Italia in testa, sono caratterizzati da livelli di evasione più elevati rispetto agli altri Paesi Ocse, sebbene nessuno tra essi, neppure i celebrati Stati Uniti, siano esenti dal problema. Secondo: è vero che i livelli di etica fiscale (tax morale, nella letteratura inglese) contribuiscono a spiegare i differenziali di evasione tra i diversi Paesi, ma non è vero che i fattori etico-culturali spieghino tutto, posto che, in una recente ricerca danese, è emerso che poco meno del 40% del reddito dei lavoratori autonomi viene occultato. Terzo (e conseguenze) :è l’opportunità che fa l’evasione, ed è riducendo le opportunità che si riduce l’evasione. Questo è particolarmente importante per un Paese come l’Italia che è caratterizzato (come la Grecia, e non è un caso) da un’elevata frammentazione produttiva, con 6 milioni di partite Iva di dimensione ridottissima, per i quali l’evasione è un ammortizzatore sociale poco costoso. Quarto: non è affatto vero che l’evasione in Italia è sempre rimasta uguale nel tempo: secondo le stime ufficiali dell’Agenzia delle Entrate rese note nel recente Rapporto Giovannini, l’evasione dell’Iva nel 2007 è diminuita di 3 punti di Pil e nel 2009 si è ridotta di 0,8 punti di Pil, dopo un lieve aumento nel 2008.
Il problema vero è che abbiamo solo delle intuizioni su cosa abbia causato questi fenomeni, ed è proprio da qui che bisogna partire per provare a sintetizzare i possibili interventi
1. E’ necessario arrivare anche in Italia, come avviene nel Regno Unito, ad una stima ufficiale dell’evasione delle principali imposte, annuale e basata su metodologie condivise e trasparenti, con un tentativo di stimare l’impatto dei singoli provvedimenti sulla propensione all’evasione. Solo in questo modo sarà possibile sottrarre le valutazioni sull’evasione e sui suoi andamenti al chiacchericcio televisivo, dove vengono spesso citati dati sbagliati o che si riferiscono a fenomeni diversi, condendoli, per di più di interpretazioni discutibili quando non palesemente false
2. L’enorme mole di dati di cui dispone l’Amministrazione finanziaria sui redditi dichiarati e presunti, i patrimoni, i consumi individuali va razionalizzata ed integrata attraverso informazioni sui patrimoni finanziari (eventualmente da inserire in dichiarazione). Queste informazioni vanno rese fruibili agli uffici periferici in modo che questi possano dissuadere preventivamente i titolari di redditi d’impresa e da lavoro autonomo senza sostituto d’imposta dal presentare dichiarazioni palesemente false.
Si tratta, in altri termini, di far sapere al contribuente che l’Amministrazione c’è e che l’Amministrazione sa, o quantomeno non è completamente al buio. Ciò consentirebbe, da un lato, di concentrare l’azione repressiva su un numero inferiore di soggetti e, dall’altro lato, costringerebbe l’Amministrazione stessa a razionalizzare le sue richieste di informazioni ai contribuenti, troppo spesso ripetute.
Si attuerebbe così un vero e proprio cambiamento di paradigma organizzativo, da quello quasi esclusivamente repressivo a quello preventivo
3. Nell’attesa che il cambiamento prefigurato al punto 2) si compia, devono essere ridot-
te tutte le opportunità di evasione, ad esempio introducendo ulteriori vincoli all’utilizzo dei crediti Iva in compensazione (misura introdotta nel 2008 e che ha fruttato un incremento di gettito di 6 miliardi),utilizzando le informazioni sui fornitori di beni e di servizi delle aziende strutturate e di maggiore dimensione e riducendo nella massima misura possibile l’uso del contante, avvalendosi per questo anche degli strumenti giuridici messi a disposizione dalla normativa internazionale contro il riciclaggio e incentivando l’uso degli strumenti di pagamento elettronici. Gli studi di settore vanno mantenuti in vigore, limitandoli ad un numero inferiore di soggetti, semplificandone e razionalizzandone la struttura logica e territorializzandoli sempre di più, anche in chiave di strumento di contrasto territoriale all’evasione.
4. Le politiche per la razionalizzazione della struttura distributiva e per l’aumento delle dimensioni medie delle imprese vanno considerate a tutti gli effetti come delle politiche anti-evasione, posto che, entro certi limiti dimensionali, la propensione all’evasione tende a diminuire all’aumentare della dimensione, perché la contabilità è uno strumento di controllo interno dell’organizzazione aziendale. Secondo l’ipotesi di una relazione ad U tra evasione e dimensione, la propensione ad evadere torna a crescere tra le imprese di grande dimensione, ma in questi casi assume forme e modalità del tutto diverse (ai confini con l’elusione) che richiedono strategie di contrasto diverse.
La differenziazione delle strategie di contrasto sulla base delle dimensioni e delle caratteristiche organizzative dei soggetti è la strada seguita sempre più spesso a livello internazionale, ma essa va perseguita cambiando gli obiettivi (e i connessi premi di risultato) dell’Amministrazione, che non possono basarsi esclusivamente sull’evasione contestata, ma anche sulla capacità di prevenire i fenomeni. Negli ultimi anni qualcosa sembra essere cambiato nel panorama politico, e in particolare nel centro-destra, dove si è passati dalla demagogia antitasse basata sugli ipotetici vampiri e sui condoni al recupero, e in taluni casi addirittura al rafforzamento, di provvedimenti varati o delineati dai governi di centro-sinistra. Si apre quindi un’opportunità di compiere una svolta quasi definitiva delineando una vera e propria strategia che va forse definita, più che di lotta all’evasione (espressione ormai abusata), di richiesta delle imposte dovute. Inutile dire che una simile opportunità sarebbe, forse definitivamente, sprecata se prevalesse la sciagurata ipotesi di varare un nuovo condono o scudo fiscale che dir si voglia.
*Ricercatore di Scienze delle Finanze

l’Unità 24.8.11
Intervista a Emma Bonino
«Rivedere un patto che baratta interessi con diritti umani»
Per la leader radicale è legittimo che le imprese italiane vogliano restare presenti a Tripoli
ma nel rispetto delle Convenzioni internazionali
di U. D. G.

In queste ore che sembrano cruciali per il destino di Muammar Gheddafi, Emma Bonino, leader dei Radicali e vice presidente del Senato, afferma: «I leader della “nuova Libia” non devono comportarsi come il regime che stanno combattendo. Ciò significa, ad esempio, non confondere giustizia con vendetta». E sull’Accordo bilaterale sottoscritto tre anni fa Da Berlusconi e Gheddafi, la leader radicale rimarca: «Quell’Accordo va seppellito una volta per tutte. Con la Libia del dopo-Gheddafi va definito un rapporto nuovo in cui i legittimi interessi economici delle nostre imprese non siano barattati con il mancato rispetto dei diritti di immigrati e rifugiati».
I leader europei chiedono che Muammar Gheddafi venga processato all’Aja.
«Nella speranza che la nuova Libia aderisca alla Corte penale internazionale, come sta facendo la Tunisia, è indubbio che la Corte de L’Aja darebbe la maggiore garanzia di una giustizia senza vendetta, a partire dal fatto che essa esclude per statuto la pena di morte».
Mentre a Tripoli si continua a combattere, le cancellerie europee già si attrezzano al «dopo-Gheddafi». Per quanto riguarda l'Italia, il ministro degli Esteri Frattini assicura: il Trattato bilaterale con la Libia verrà rispettato. «Frattini scambia il desiderio con la realtà. Gli errori commessi in passato sono stati giganteschi, e anche bipartisan salvo alcune, notevoli e lungimiranti eccezioni. Dovrebbe essere chiaro che nella nuova situazione che si sta creando in Libia tutto andrà rivisto. In particolare su immigrati, rifugiati, occorre chiarire se l'Italia intende proseguire nella vecchia, e sciagurata, politica o invece se intendiamo cambiare registro. Alla nuova Libia dobbiamo chiedere ben altre cose da quelle che avevamo pattuito con Gheddafi».
In concreto?
«Innanzitutto c'è da augurarsi, impegnandosi da subito in proposito, che la nuova Libia voglia far parte, a pieno titolo della Comunità internazionale, e quindi ratifichi tutte le convenzioni e i trattati internazionali, compresi quelli relativi ai diritti degli immigrati e dei rifugiati, garantendo conseguentemente la presenza e l'operatività delle agenzie Onu sul territorio libico. Invece di accreditare come interlocutori credibili personaggi legati al vecchio regime, l'Italia s'impegni per aprire un capitolo nuovo nelle relazioni con la Libia basato su convenzioni e accordi internazionali. Sia chiaro: ritengo del tutto legittimo che le imprese italiane vogliano continuare ad essere presenti in Libia, così come lo vogliono quelle francesi, inglesi e quant'altri, ma tutto questo deve avvenire nella trasparenza e nel rispetto delle Convenzioni internazionali. Se così fosse, non avrei alcun problema, perché non è che gli errori che sono stati fatti in passato debbano avere conseguenze anche nel presente e nel futuro. Chiaro è, però, che i rapporti di forza e anche la memoria di avvenimenti più recenti possano pesare negativamente. Altro che rivitalizzarlo. Quell'Accordo va sotterrato una volta per tutte. Con la Libia del dopo-Gheddafi va definito un rapporto nuovo in cui i legittimi interessi economici delle nostre imprese non siano barattati con il mancato rispetto dei diritti di immigrati e rifugiati». Allargando lo sguardo agli eventi che hanno segnato e stanno segnando il Nord Africa e il Medio Oriente, l’Europa si sta dimostrando all’altezza di questi eventi epocali?
«Direi proprio di no, nel senso che l’Europa nel mondo che si avvia al nuovo, in realtà tende a riproporre una politica antica, fondata su tre assi: soldi, mercato, mobilità. Ora di soldi non mi pare che ce ne siano tanti in giro da riversare nel Sud del Mediterraneo; quanto al mercato, anche qui non mi pare di vedere segnali di apertura dei mercati europei. Quanto alla mobilità, è difficile credere a questa “favola”, visto che per far fronte alla “invasione” di ventimila tunisini, abbiamo sprofondato gli Accordi di Schengen. Se questi sono i chiari di luna, è difficile essere ottimisti sul futuro».

Repubblica 24.8.11
Piccoli geni già a quattro anni s´impara di più prima della scuola
I neuroscienziati: "Sfruttiamo meglio l´età fertile del cervello"
La rivista "Science" spiega perché un´educazione precoce garantisce successo nella vita
L´Associazione pediatri suggerisce di leggere ad alta voce libri ai bimbi di sei mesi
di Elena Dusi

Le neuroscienze li chiamano "gli anni che durano per sempre", l´età fertile del cervello in cui si pongono le basi del successo futuro. Per questo lasciare i bambini da zero a 6 anni senza scuola né educazione è come lasciare una spugna senz´acqua e un campo senza aratro. "Probabilmente le avete dimenticate, ma le esperienze che avete fatto prima della scuola influenzano ancora oggi molti aspetti della vostra vita. A partire dalla confidenza con la matematica fino ad arrivare all´entità dello stipendio" scrive la rivista Science nello speciale "Investire presto nell´educazione". L´oggetto del contendere non è nuovo: a quale età sia meglio iniziare la scuola. Gli studi scientifici però lasciano ormai pochi dubbi. Da zero a 6 anni la mente di un bambino vive le fasi più tumultuose e decisive della sua formazione, quelle in cui l´apprendimento avviene con più naturalezza e ha effetti più duraturi. Le ultime ricerche rivelano capacità di manipolare numeri e parole insospettate fin dai primissimi mesi di vita. E la ricchezza del vocabolario di un bambino di prima elementare è in grado di dire molto sui suoi successi futuri all´università e sul lavoro.
«Chi ha architettato il sistema scolastico dell´infanzia non conosceva come si sviluppa il cervello» conferma Pier Paolo Battaglini, direttore del centro per le neuroscienze "Brain" dell´università di Trieste. «Nei primi 4 anni si raggiunge il picco di connessioni fra i neuroni. Il loro numero supera quello del cervello adulto. A quell´età saremmo esseri straordinari, se non fossimo partiti da zero. Dai 4 anni in poi le connessioni diminuiscono. Si ha il fenomeno della cosiddetta "potatura". Si mantengono solo le sinapsi più importanti». Già nel momento in cui un bambino inizia a parlare, appaiono le differenze di classe sociale. «I figli di genitori della classe media a 4 anni conoscono in media il 54% dei nomi delle lettere, mentre quelli delle classi sociali più basse ne conoscono solo quattro» spiega Marco Carrozzi, che dirige la neuropsichiatria all´ospedale infantile Burlo Garofolo di Trieste». E dal momento - sostiene Science - che "l´educazione precoce pone basi così importanti per l´apprendimento futuro, andrebbe presa sul serio almeno quanto il periodo della scuola".
Non così avviene in Italia, dove le strutture di nidi e materne sono ridotte all´osso. Di uno «spreco degli anni migliori per imparare» parla Benedetto Vertecchi, docente di pedagogia sperimentale all´università di Roma Tre. «Nei confronti dell´infanzia abbiamo un atteggiamento custodiale: i bambini piccoli vanno tenuti buoni e basta. Come quando, alla fine del ´700, i genitori iniziarono ad andare in fabbrica in Gran Bretagna e con i figli piccoli usavano uno straccetto imbevuto di gin. L´immagine oggi ci fa inorridire, ma non è poi così diversa dai grandi schermi degli asili. In Francia, al contrario, già le materne si pongono l´obiettivo di educare attraverso curricula speciali per la prima infanzia. I risultati si vedono. A 3 anni i bambini sono più autonomi, sanno allacciarsi le scarpe e usare la forchetta». Tanto gli Stati Uniti credono nella scuola anticipata, che per mantenere in classe un milione di bambini disagiati di 3 e 4 anni l´amministrazione spende ogni anno 7,5 miliardi di dollari. Anche in tempi di crisi nera. Il programma si chiama "Head Start": vantaggio in partenza. L´approccio americano, molto cognitivo, sfrutta spesso programmi al computer che misurano performance e incrementano competenze. In Italia la strada è diversa. Fra le poche iniziative per la prima infanzia spicca il programma "Nati per leggere" dell´Associazione culturale pediatri: una mamma o un papà con in braccio il bambino (a partire da 6 mesi) e un libro aperto da leggere ad alta voce e sfogliare. Tanto successo ha avuto il progetto, che recentemente l´Associazione gli ha affiancato "Nati per la musica".
L´idea trova entusiasta Italo Farnetani, professore alla Bicocca di Milano e autore di "Da zero a tre anni" e "L´enciclopedia del genitore": «Se incontrano la musica nei primi anni di vita, i bambini non la lasceranno più. È anche un ottimo sistema per farli tornare di buon umore». A differenza di videogiochi e software per apprendere, libri colorati e canzoni «non tolgono la gioia di essere bambini». Quanto alla scuola «sarebbe bene rendere universale l´asilo e iniziare le elementari con un anno di anticipo». Un bambino da 3 a 5 anni è infatti, secondo Farnetani, «come la memoria di un computer, che assorbe tutto ciò che vi viene immesso. Per questo ha bisogno di vivere in mezzo alla gente, ascoltare racconti, vedere volti e colori, vivere sensazioni. Non vuole rilassarsi nella solitudine e nel silenzio come un adulto stressato, ma ricevere stimoli di ogni tipo. Più gli si parla, meglio è».
L´importanza del dialogare con i bambini è stata confermata da una catena di studi degli ultimi 5 anni. "Tra la nascita e i 6 anni lo sviluppo del linguaggio è rapidissimo. La conoscenza delle parole e della sintassi a 3 anni è un indice della comprensione di un testo al liceo" spiega David Dickinson della Vanderbilt University di Nashville. Perfino la ricchezza di gesti ed espressioni del viso che i genitori usano con il figlio a 14 mesi influenzano la ricchezza del suo vocabolario a 6 anni. Da quanto un bambino ascolta gli adulti attorno a sé, spiega Science, dipenderà la sua capacità di comprendere le frasi a 18 mesi. E la varietà dei termini usati da madre o maestra a 30 mesi avrà effetto sulla ricchezza del vocabolario un anno più tardi. «Senza contare - aggiunge Carrozzi - che tra il 15 e il 20% dei bambini arriva alle elementari con alcune difficoltà, ma solo il 3% ha un vero disturbo come la dislessia. Intervenire prima dell´inizio della scuola permette spesso di risolvere i problemi alla radice».

Repubblica 24.8.11
L´importante non è il sogno ma assentarsi da se stessi
È un "oggetto del desiderio" oscuro Dobbiamo esserne inconsapevoli per esserne appagati
Lo psicoanalista Adam Phillips che parteciperà al Festival della Mente spiega cosa significa dormire
di Adam Phillips

Quando, nel Sogno di una notte di mezza estate, Bottom dice a Titania: «Ma, ti prego, non permettere a nessuno della tua gente di svegliarmi. Mi viene addosso una certa esposizione al sonno», capiamo che è piuttosto stanco, e supponiamo, come suggerisce efficacemente il commentatore dell´edizione Arden, che «esposizione», che significa sia scoprirsi che spiegare, è «una storpiatura di "disposizione"», ossia una tendenza naturale ma anche l´intenzione di disporre della proprietà di qualcuno.
Una naturale inclinazione al sonno è più plausibile di una spiegazione del sonno, poiché dormire è qualcosa che facciamo quando non siamo consapevoli di ciò che stiamo facendo. Quando dormiamo, quando recitiamo in una commedia, quando siamo prigionieri di un incantesimo, non possiamo al tempo stesso spiegare cosa stiamo facendo senza svegliarci o senza spezzare l´incantesimo. Come cerca di mostrarci la commedia, possiamo trovarci in un unico luogo per volta, ma spesso siamo in due luoghi simultaneamente. Ma cosa può dire il mio sé sveglio del mio sé che dorme? Non molto. Anziché dormirci sopra, dormiamo per smaltire le cose, come se pensassimo che il sonno fosse una liberazione; come se il sonno ci permettesse di fuggire dalle cose, anziché rielaborarle.
È dal sonno che ci accorgiamo di esserci o meno, se stiamo perdendo o ritrovando noi stessi, se siamo assenti o presenti; ma l´aspetto forse più interessante è che il sonno è la nostra esperienza, originaria e molto probabilmente perduta, di un´assenza che al tempo stesso non è un´attesa. Talvolta - anche se più spesso da bambini - non vediamo l´ora di svegliarci, ma senza sapere perché, senza aspettarci nulla. Risvegliarci ogni mattina per anni e anni potrebbe rassicurarci del fatto che possiamo ritrovare quanto abbiamo perso, che dal nulla può venire qualcosa, che non possiamo ricordare interi frammenti dell´esperienza proprio perché non li avevamo mai dimenticati, che abbiamo bisogno di "staccare", e così via.
In più, non siamo mai abbastanza grandi per il sonno, che Seamus Heaney chiama «l´esperienza pre-riflessiva vissuta» dell´infanzia. È come se avessimo bisogno di essere regolarmente assenti a noi stessi, e in un modo che non può essere espresso; possiamo parlare del sonno come di un fenomeno - gli scienziati, e le persone che ci osservano mentre dormiamo, possono dirci come siamo, cosa diciamo - ma non potremo mai riferire ciò che abbiamo fatto, ciò che è successo, se non nel modo più banale («Ho dormito davvero bene», «Ho avuto una notte terribile», e così via). Il sonno, in altre parole, è un bisogno di cui possiamo avere esperienza solo nell´attesa, e come attesa. Possiamo desiderarlo ma non averlo, possiamo avere esperienza del prima e del dopo, ma mai del sonno in sé. Nessuno dirà mai, se non nel sonno, «sto dormendo davvero bene».
Talvolta possiamo raccontare un sogno, ma non il sonno durante il quale abbiamo sognato; non abbiamo esperienza dei sogni come di qualcosa che accade durante il sonno (niente nel sogno ci dice che stiamo dormendo). Il sonno è una delle nostre attività più intime e profonde, e possiamo saperne qualcosa solo da qualcun altro. Così, se pensassimo al sonno come a un´esperienza, questa modificherebbe radicalmente l´idea di ciò che può essere un´esperienza; se pensassimo al sonno come a un oggetto della conoscenza, confermerebbe che dipendiamo dagli altri per ottenere questa conoscenza; e se pensassimo al sonno come a un oggetto del desiderio - e come a uno dei paradigmi originari o a un modello del desiderio - potremmo ridefinire radicalmente l´oscurità di tali oggetti.
Dopotutto, il sonno occupa il nostro tempo più di ogni altro fra i nostri primissimi desideri; e, naturalmente, è l´unico dei nostri desideri che non può essere soddisfatto da qualcun altro (il genitore può creare le condizioni per il sonno, ma non può dare al bambino il sonno). Poniamoci due domande: che genere di oggetto del desiderio è il sonno? E cosa può dirci a proposito del desiderio? Non sarebbe strano se il sonno fosse il modello di molte cose che facciamo. E non sarebbe strano se tendessimo a non notarlo. Poiché dormire è qualcosa che facciamo senza sapere di farlo.
Il sonno è un «oggetto del desiderio» particolarmente oscuro perché non è un oggetto, e non ha una collocazione nel mondo esterno. Se è da qualche parte, è dentro di noi come una disposizione, un bisogno, un processo; ma a differenza degli altri appetiti dobbiamo esserne inconsapevoli per esserne appagati. E probabilmente lo consideriamo un mezzo in vista di un fine, non un fine in se stesso; vogliamo ciò che ci può dare, non pensiamo al sonno come a uno scambio, e in questo senso la nostra capacità di dormire è un modello della nostra capacità di bastare a noi stessi, dato che il sonno è qualcosa che ci procuriamo da soli.
Voler dormire significa volere qualcosa che nessuno ci può dare, ma che chiunque può impedirci di fare. Così, in quanto oggetto del desiderio, posso sempre dormire, ma io o qualcun altro possono impedirmelo. Gli altri, fra cui anch´io, devono permettermi non tanto di «prendere» sonno, ma che «mi venga» sonno, come dice Bottom. Il sonno non è qualcosa che possiamo prendere, ma solo ricevere. Così, quando diciamo «prendere sonno» stiamo commettendo un errore categoriale. Se vedessimo nel sonno il modello dell´oggetto del desiderio, se cominciassimo a vedere nel desiderio qualcosa di più simile al desiderio di dormire, ci comporteremmo in modo molto diverso. Ad esempio, rinunceremmo alla soddisfazione per assaporare l´attesa. E non penseremmo che sia possibile, o che abbia molto senso, raccontarlo.
(Traduzione di Francesco Zago)

Corriere della Sera 24.8.11
Il vero albero (laico) della vita
Perché siamo tutti figli di una gigantesca fiamma che brucia lentamente
di Edoardo Boncinelli


Ci siamo sempre interrogati sulla natura della vita, questo affascinante fenomeno così diffuso e imponente sul nostro pianeta e così raro nel resto dell'universo conosciuto.
Gli organismi viventi nascono, si sviluppano, crescono e si riproducono. Queste loro caratteristiche ci sono note da sempre e sono particolarmente adatte per definire la vita stessa, ma richiedono qualche spiegazione; spiegazione che non si presenta affatto semplice, tanto è vero che si è ritenuto a lungo che la materia animata fosse qualcosa di intrinsecamente diverso da quella inanimata. Così molti furono colpiti nel 1828, quando un chimico tedesco sintetizzò in laboratorio una sostanza organica, l'urea. Si capì allora che non c'era niente di magico nella materia vivente, che era fatta invece degli stessi atomi di cui è fatto tutto il resto e che obbediva probabilmente alle stesse leggi.
Oggi siamo molto lontani da quei tempi. La chimica organica e la biochimica ci hanno rivelato tanti particolari della materia vivente, e ci hanno mostrato ad esempio che molte molecole biologiche — tra cui il Dna e le proteine — hanno la forma di macromolecole, sono cioè costituite da una successione di componenti fondamentali ripetuti più volte. Si presentano insomma come frasi, composte di parole e queste ultime di lettere.
La genetica e la biologia molecolare, da parte loro, ci hanno chiarito i dettagli di molti dei meccanismi biologici, primo fra tutti quello della codificazione del messaggio genetico da parte del Dna. Oggi tutti sanno che in ciascuna delle nostre cellule esiste un'enorme macromolecola di Dna, che porta le «istruzioni per l'uso» necessarie e sufficienti per nascere, svilupparsi, crescere e replicarsi. Si tratta di un gigantesco «testo» che noi chiamiamo genoma e che stiamo tentando di decifrare in tutta la sua complessità.
I progressi delle discipline biologiche sono stati poi tali e tanti da farci pensare che siamo abbastanza avanti nella comprensione del fenomeno vita e da far dire a qualcuno di essere riuscito a creare la vita in laboratorio. È quello che ha fatto Craig Venter non molto tempo fa, a coronamento di una serie veramente impressionante di esperimenti. Possiamo considerare vita sintetica ciò che ha ottenuto Venter col suo gruppo? E se le cose non stanno ancora in questi termini, quanto siamo distanti dal raggiungimento di tale obiettivo?
Per rispondere a tali domande dobbiamo chiederci che cosa è la vita nella sua essenza, non fosse altro che per verificare quanto abbiamo veramente capito e quanto ci resta ancora da capire. Non bisogna dimenticare che alla vita è stato a lungo associato un paradosso che riguarda proprio la sua essenza. Nell'universo in cui viviamo tutto procede spontaneamente verso il disordine, la perdita di ordine e di organizzazione, mentre la vita è intrinsecamente creazione e mantenimento dell'ordine stesso. Sono almeno cinquant'anni che questo non è più un paradosso. Ai tempi della Seconda guerra mondiale è stato infatti chiarito che ogni essere vivente crea sì ordine, localmente e temporaneamente, ma a spese di un aumento della disorganizzazione di ciò che lo circonda, in modo che il saldo totale è sempre comunque a favore di un aumento di disordine. A parte la soluzione del paradosso, ci piacerebbe capire meglio per quali sue proprietà la vita sa fare tutto quello che sa fare, un interrogativo che presenta tutt'oggi un grande fascino.
Che cos'è un essere vivente? Un aggregato di materia organizzata limitata nel tempo e nello spazio, capace di metabolizzare, di riprodursi e di evolvere. Si può dimostrare che tutto questo non sussisterebbe se ogni organismo vivente non fosse attraversato da un perenne flusso di materia, di energia e di informazione. La definizione di essere vivente potrebbe fermarsi qui, ma ci sfuggirebbe la cifra forse più genuina della vita stessa: la sua globalità.
Le sue caratteristiche precipue e la sua impressionante continuità suggeriscono che la vita nel suo complesso costituisca un unico grande evento, una sorta di immensa unica fiammata, che dura senza interruzione da quasi quattro miliardi di anni. Da cosa nasce questa idea?
Ogni fatto di questo mondo può essere studiato tenendo conto di due dati fondamentali: a quali leggi obbedisce e quali sono le sue «condizioni iniziali». Per fare un esempio concreto, consideriamo la traiettoria di un corpo in movimento. Le leggi che il suo moto segue sono sempre le stesse, ma fa una bella differenza se è stato lanciato qua o là, in su oppure in giù, a grande velocità o con poca spinta iniziale. Per calcolare il suo comportamento non si può insomma prescindere dalle condizioni iniziali del fenomeno.
Ebbene, per i processi biologici le condizioni iniziali sono tutto: un uovo fecondato si svilupperà in una maniera invece che in un'altra a seconda della specie a cui appartiene e della cellula da cui parte. Il nuovo organismo che si sta sviluppando lo fa sulla base di particolari condizioni iniziali, che lo legano strettamente a tutti gli eventi biologici che lo hanno preceduto e che sono efficacemente compendiati nel suo genoma, una specie di pratico «riassunto delle puntate precedenti». Non c'è bisogno di ricominciare ogni volta tutto daccapo, quindi, perché il genoma è in grado di riassumere l'essenziale di ciò che è successo fino a un attimo prima a carico dell'evento vita e prende di fatto il posto di migliaia e migliaia di fatti biologici passati.
La vita insomma deriva soltanto dalla vita, da millenni, senza interruzione, non perché obbedisca a leggi diverse da quelle della materia inanimata, ma perché parte da condizioni iniziali specifiche molto, molto particolari.
Ciò non impedisce che qualche nuovo essere possa «salire sul carro in corsa», essere cioè sintetizzato in laboratorio ex novo come hanno fatto Venter & C., a patto che rispetti tutte le regole del gioco, compreso il possesso di un genoma che ne garantisca l'appartenenza all'evento vita.
La vita ci appare in sostanza come un unico evento, una specie di gigantesca fiamma che brucia lentamente e da cui partono mille e mille fuochi e fuocherelli individuali, che non sono però mai fisicamente disgiunti dalla fiamma principale.
Direi che non c'è niente di più affascinante e appassionante dello studio delle eccezionali peculiarità di questa sorta di laico «rovo ardente».

Corriere della Sera 24.8.11
Canetti e Marie-Louise: nessun grande amore, lei era soltanto una del suo harem
dal nostro inviato Mara Gergolet


BERLINO — Una storia lunga cinquant'anni e centinaia di lettere. O meglio, un'illusione di appartenenza, che ha nutrito libri (per lui) e quadri (per lei), che si credeva reciproca e che invece gli anni hanno rivelato per quel che era: un amore totale, per la scultrice Marie-Louise Motesiczky; un legame con una donna che era solo una delle tante, per Elias Canetti.
La corrispondenza — che si legge come un romanzo — tra il premio Nobel, «l'ultimo grande scrittore mitteleuropeo», e la scultrice, da qualche anno celebrata e paragonata a espressionisti come Kokoschka, è stata appena pubblicata in Germania («Liebhaber ohne Adresse», Briefwechsel 1942-1992, Hanser, München). Non che il legame fosse ignoto. Canetti è uno dei soggetti principali della Motesiczky. Ma non si conoscevano i contorni drammatici della loro relazione.
I due si incrociano a Vienna negli anni Trenta. Marie-Louise appartiene a una famiglia dell'aristocrazia ebraica ricca e colta. Nella casa sul Ring Hofmannsthal recitava le sue prime poesie. Elias è un immigrato arrivato dal paesino bulgaro di Ruse che con energia e carisma si fa strada nelle cerchia intellettuale viennese. Ma è a Londra, entrambi in fuga dal Terzo Reich, che le loro strade s'intrecciano. Lei gli offre aiuto, ricrea un piccolo mondo émigré asburgico. Diventano amanti. Una relazione nota (come altre) alla moglie di Canetti, Veza, che si accontenta nell'harem del marito di essere rispettata dalle amanti più giovani.
Ma il loro è anche un rapporto tra due artisti. Lui crede nei suoi quadri (che lei non ha necessità di vendere, tanto che verrà scoperta solo negli anni 80 e subito esposta alla Tate). Le scrive «che ragazzo pieno di talento sei!» (usando il maschile). Lei prova soggezione di fronte a un intelletto mobilissimo e magnetico, a cui per decenni scriverà intermezzando il Tu al Lei. Però Canetti, quando è per lunghi periodi a Londra, vive da lei: qui ha uno studio, la sua biblioteca. E alla morte di Veza Canetti, Marie-Louise crede che sia solo per una forma di rispetto verso la moglie scomparsa che non le chiede — lei ha ormai oltre 60 anni — di sposarla.
Poi, nel 1973, l'atroce delusione. Marie-Louise scopre per caso, da due giornalisti, che Canetti un anno e mezzo prima si è sposato a Zurigo con una giovane restauratrice, Hera Buschor, da cui ha una figlia. Scrive alla donna, si umilia spiegandole che la madre 91enne vive «nell'illusione che io da trent'anni appartenga a Canetti» pregandola di non fornire alla stampa foto di loro due insieme, perché la vecchia potrebbe vederle. Scrive anche a Canetti. E lui, nella risposta, prima le dice «vedo nero per Israele» (eravamo al tempo della guerra dei Sei giorni, ndr), poi le parla delle sue «conferenze, conferenze, conferenze; la Fiera di Francoforte, sempre gente». Poi la rassicura che tornerà presto a Londra, «il posto dove sto meglio e forse riuscirò a scrivere». Torna sempre, nelle lettere, l'ossessione della scrittura, l'unico approdo veramente cercato da Canetti, mentre Marie-Louise vorrebbe altre parole. Lei insiste a cercarlo: «Ricorda — gli dice — che negli ultimi dieci anni il mio amore per te ha affondato le radici a una profondità dove non si può più recidere». Invano. Nel 1983, senza aver mai superato il trauma, sentendo su di sé ancora in rigetto e il rifiuto a favore di una donna giovane che, a differenza di lei, avrebbe potuto essere madre, lo supplica: «Ti prego di non scrivermi più».
Dieci anni dopo, la National Portrait Gallery commissiona alla Motesiczky ormai famosa un ritratto di Canetti. Marie-Louise lavora solo con una vecchia foto e i ricordi a quello che sarà il suo ultimo quadro. Ma stavolta sarà Canetti a non apprezzarlo. 

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