mercoledì 3 agosto 2011

La Stampa 3.8.11
Giovani, indignarsi non basta
di Abraham B. Yehoshua

Sei mesi fa un giovane scrittore mi ha invitato come ospite di un suo laboratorio di scrittura. Sono arrivato a una casa in uno dei quartieri più eleganti di Tel Aviv il cui bel salone era affollato da una sessantina di giovani scrittori e poeti ansiosi di ricevere suggerimenti da un esperto collega. Prima di rispondere alle domande ho però detto loro: se fossi venuto a parlare della possibilità di riscattare il movimento laburista israeliano ci sarebbero state a malapena 3 o 4 persone ad ascoltarmi.
Mi sono ricordato di questo episodio osservando, stupito e soddisfatto ma anche preoccupato e confuso, le tendopoli sorte in questi giorni in Israele in segno di protesta contro la politica del governo. Una protesta decisa e autentica nella quale già si riconoscono segnali di aggressività da parte di giovani e meno giovani e incentrata, per il momento, su una sensazione di impotenza dinanzi al continuo e insostenibile aumento dei costi delle case e degli affitti. È chiaro tuttavia che dietro a tale protesta si nasconde un disagio più profondo, conseguenza del crescente indebolimento dello stato sociale e dei valori di solidarietà che sono stati per anni il fondamento dello stato ebraico. E nonostante l’economia israeliana abbia resistito bene alla crisi finanziaria globale sono stati i ceti medio bassi della popolazione a sobbarcarsi il fardello di questo successo al prezzo di una crescente difficoltà a sbarcare il lunario e di un divario sempre più ampio tra le classi sociali.
Ma questa protesta spontanea potrà trasformarsi in una presa di posizione politica e ideologica tale da garantire risultati a lungo termine in parlamento e una svolta nella linea politica dell’attuale governo? Oppure resterà una contestazione un po’ infantile, ricca di espedienti e di creatività mediatica che si esaurirà da sé, o in seguito a qualche rassicurante promessa di riforma, reale o immaginaria, già fatta dal governo Netanyahu?
Dopo tutto Israele non è la Siria o l’Egitto, nazioni prive di infrastrutture politiche e ideologiche in grado di incanalare le proteste o la «rivoluzione» democratica in atto. Israele non ha bisogno di Piazze Tahrir né di manifestazioni violente nelle principali città. Qui abbiamo partiti politici con lunghi anni di esperienza e i membri del partito laburista, di quello comunista arabo-israeliano e del Meretz alla Knesset, persone competenti e affidabili, conoscono bene i problemi sociali del Paese e già da molti anni parlano del crescente divario fra le classi e del fatto che, anche se il tasso di disoccupazione non è alto rispetto ad altri Paesi occidentali, molti lavoratori si trovano al di sotto della soglia di povertà. Tali rappresentanti propongono serie soluzioni economiche per alleviare il crescente malessere e costruiscono modelli ideologici su come mantenere lo stato sociale senza precipitare in un deficit finanziario come quello della Grecia o della Spagna. Purtroppo gli organizzatori della protesta delle tendopoli e altri cittadini in difficoltà non supportano pienamente la sinistra democratica e sono ancora indecisi se impegnarsi in un’attività politica in vista delle future elezioni. E mentre decine di migliaia di persone sfilano in cortei nelle strade delle grandi città solo poche decine sono disposte a presenziare ai raduni dei candidati del partito laburista in corsa per la leadership.
Per quale motivo? Non c’è dubbio che il tradimento del presidente Shimon Peres e del ministro della Difesa Ehud Barak, ex leader del Labour, che hanno spinto il partito a perseguire una politica sociale di destra e che poi, per opportunismo politico, lo hanno abbandonato unendosi alle fazioni di Sharon e Netanyahu, hanno danneggiato la reputazione del movimento socialdemocratico lasciandolo lacerato e impoverito. Ma ora che questo movimento cerca il riscatto grazie a leader seri, giovani o anziani, non potrà ricostruire una vera forza politica senza il sostegno dei ceti meno abbienti e senza l’entusiasmo di ragazzi che, usciti dall’apatia, hanno deciso di protestare coraggiosamente contro il governo.
Talvolta è la ricca e vivace vita culturale israeliana a prendere il posto di un’attività politica organizzata e pure le comunicazioni via Internet e la rete sociale Facebook creano un clima di beato narcisismo che non sprona la gente a recarsi a votare nel giorno delle elezioni. La destra israeliana è forte, ben organizzata e gode del sostegno incondizionato dei partiti religiosi che beneficiano di generosi sussidi, sia negli insediamenti illegali dei territori occupati sia nelle roccaforti dei centri di studio religiosi. E infatti non ci sono molti religiosi osservanti nelle tendopoli sorte nelle varie città. Se perciò i giovani organizzatori dell’attuale protesta non vogliono che il loro movimento rimanga un episodio isolato dovranno impegnarsi a portare avanti un grigio e costante lavoro politico per rivitalizzare il movimento socialdemocratico che ha dato ottimi risultati nel periodo della creazione di Israele e nel suo governo per lunghi anni. È vero, l’attività politica può essere sfibrante, frustrante e riservare non poche delusioni. Ma chi pensa di poter rimanere in disparte ed evitare di sporcarsi le mani lascerà il campo ad altri che porteranno avanti una politica di tipo diverso e si ritroverà in una tenda stretta e soffocante come parte di una protesta forse di tutto rispetto ma inefficace.

La Stampa 3.8.11
Ecco perché ho rinunciato al referendum anti-porcellum
di Stefano Passigli

Caro Direttore, alcuni mesi fa, assieme a grandi personalità della società civile, annunciai un referendum abrogativo degli aspetti più intollerabili dell’attuale legge elettorale. Oggi le chiedo ospitalità a nome del comitato promotore per annunciare la rinuncia a proseguire la raccolta delle firme ed illustrarne le ragioni. Scopo del referendum era in primo luogo obbligare il Parlamento a modificare il Porcellum, pena il vedere abolite in via referendaria quelle liste bloccate che sono un affronto alla democrazia rappresentativa, e quel premio che trasformando una minoranza di voti in una maggioranza assoluta di seggi mette a rischio le istituzioni della Repubblica. La legge risultante dal referendum manteneva la proporzionale già presente nel Porcellum, ma la correggeva in senso maggioritario abrogando qualsiasi deroga allo sbarramento del 4% e riducendo così la frammentazione introdotta dal turno unico del Mattarellum e rafforzata dal premio di maggioranza del Porcellum.
Iniziata la raccolta delle firme, alcuni parlamentari, tra cui Veltroni, Castagnetti e Parisi, con Di Pietro e alcuni esponenti del Sel, hanno annunciato un «contro referendum» per reintrodurre il Mattarellum. Malgrado il nostro tentativo di non dividere il fronte referendario dichiarando una moratoria nella raccolta delle firme e invitando ad una azione comune, gli stessi hanno egualmente depositato i loro quesiti, dichiarando apertamente di voler fermare il nostro referendum. Poco importa che i loro quesiti non fossero in grado di superare il vaglio della Corte Costituzionale e di far rivivere il Mattarellum. E poco importa che il turno unico del Mattarellum fosse - al pari del premio di maggioranza del Porcellum - la principale causa di quella disomogeneità delle maggioranze di governo che ha provocato il fallimento dei governi Prodi e Berlusconi. Nel momento in cui la crisi dei debiti sovrani rende necessario un massimo di coesione nazionale, e la crisi della maggioranza possibile il ricorso ad elezioni anticipate o a governi istituzionali, ci è sembrato prioritario non dividere le opposizioni. Di fronte a due referendum contrapposti, destinati ad un probabile fallimento che avrebbe compromesso per sempre le possibilità di modificare in via referendaria la legge elettorale, il comitato promotore - considerata la reciproca disponibilità a non procedere oltre - ha deciso di rinunciare alla raccolta delle firme. Se però torneremo a votare con le liste bloccate e il premio di maggioranza, è bene che i cittadini sappiano che la responsabilità è interamente di quanti hanno voluto un controreferendum puramente strumentale.
La nostra iniziativa non è stata però inutile. In primo luogo, la riforma della legge elettorale è tornata nel dibattito politico, e si è dimostrato che se il Parlamento fallisse nel compito di riformare la legge i cittadini avrebbero lo strumento per farlo. In secondo luogo, la nostra proposta ha mostrato l'inconsistenza di alcuni luoghi comuni propagandati negli ultimi anni: un esame comparativo mostra ad esempio che, eccezion fatta per la Francia, alternanza e competizione bipolare si accompagnano in tutta Europa a sistemi elettorali proporzionali variamente corretti, mentre nel sistema maggioritario per eccellenza - l’Inghilterra – il turno unico ha prodotto un sistema tripolare in cui un governo di coalizione si è formato solo dopo le elezioni. L’affermazione che il bipolarismo è il prodotto del maggioritario, mentre la proporzionale produce frammentazione e instabilità, è insomma decisamente smentita dalla realtà dei paesi europei.
Un ulteriore luogo comune è l’affermazione che con il voto i cittadini debbano eleggere non solo il Parlamento ma anche il governo. Mentre ciò avviene nei sistemi presidenziali, che però conoscono appositi pesi e contrappesi, in un sistema come il nostro che i Costituenti nel 1947 e i cittadini nel 2006 hanno voluto parlamentare, non si vede come si possa pretendere che elettori cui non è concesso di scegliere i propri rappresentanti debbano però eleggere il governo. Pretesa oltretutto ipocrita: l’attuale governo Berlusconi si regge infatti su di una maggioranza formatasi in Parlamento, e diversa da quella uscita dalle urne.
Infine, intorno al nostro referendum si è registrata un’imponente mobilitazione della società civile che domanda di non abbandonare la battaglia per modificare il Porcellum. A questa domanda porteremo risposta con la costituzione di un «Movimento per la riforma elettorale» che riproponga l’abolizione delle liste bloccate e del premio di maggioranza, e il cui primo atto sarà l’organizzazione, in autunno a Roma, di un grande convegno. Solo attraverso una selezione della classe politica che ridia spazio ai cittadini sottraendola alle oligarchie di partito, ed un ritorno ad un corretto equilibrio tra poteri che ne mantenga l’assetto previsto dalla Costituzione, potremo salvare il nostro sistema politico dal rischio crescente dell’antipolitica da un lato, e di partiti personali e di un’eccessiva concentrazione di potere dall’altro.
*Docente universitario ed ex parlamentare

l’Unità 3.8.11
Sentenza pubblica Dopo sette anni di attesa la condanna di due dei quattro frati accusati
Lawrence Grench il primo a denunciare gli abusi in lacrime: «Ora altri avranno più coraggio»
Malta, in galera i frati pedofili dell’orfanatrofio
Condannati a 5 e a 6 anni i due frati pedofili sotto processo a Malta per gli abusi sugli orfani. Il giudice per leggere la sentenza, per la prima volta pubblica, ha impiegato due ore. Fuori, lacrime di commozione delle vittime.
di Charlot Zhara


Dopo un'attesa di sette anni da parte delle vittime, è arrivata ieri una doppia sentenza di condanna per due frati della Società Missonaria di San Paolo riconosciuti colpevoli di abusi sessuali commessi dagli anni Ottanta fino al 2003. I due frati Charles Pulis e Godwin Scerri sono stati condannati rispettivamente a sei e cinque anni di reclusione.
La sentenza lunga nelle motivazioni più di 100 pagine è stata letta ieri mattina nel tribunale maltese presieduto dal magistrato Saviour Demicoli. I due frati – che hanno annunciato che ricorrerranno in appello – non hanno tradito alcuna emozione in aula mentre il giudice leggeva il dispositivo della sentenza per quasi due ore. Neanche mentre il giudice entrava nel merito delle prove degli 11 casi di abusi esibite dall’accusa, tutti ai danni di ragazzini di età compresa tra i 13 e i 16 anni al momento dei fatti, che erano sotto la loro custodia. Otto di questi caso sono accaduti nell'orfanatrofio di San Giuseppe a Hamrun mentre un'altro caso è accaduto nella colonia estiva di Marfa, sempre di proprietà della stessa società missionaria San Paolo.
Il terzo frate accusato di pedofilia – Charles Bonnett – è morto lo scorso gennaio all'età di 63 anni e quindi non è comparso in giudizio. Un quarto frate, Conrad Sciberras,
non è finito sotto processo perché aveva già abbandonato da tempo Malta e quando le accuse sono divenute pubbliche è rimasto a Roma della Casa generalizia della società San Paolo.
La condanna di ieri chiude un trauma che ha profondamente scosso la comunità cattolica maltese. E a differenza di quanto avvenne nel settembre di sette anni fa, quando emerse lo scandalo, e il giudice ordinò il divieto di pubblicazione di qualsiasi contenuto del processo, ieri il divieto è stato tolto e la lettura del giudizio pertanto è stata pubblica. Sicuramente ha giocato su questa decisione l’atteggiamento di papa Bendetto XVI che, durante la sua visita dell’aprile dell’anno scorso a Malta, proprio incontrando le vittime dell'orfanotrio di San Giuseppe, aveva chiesto un'accelerazione del giudizio nel caso sia penale sia ecclesiastico, nei confronti dei responsabili. Su quanto era avvenuto nell’orfanatrofio di San Giuseppe era stato infatti aperto un fascicolo da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede guidata dal monsignor Maltese Charles Scicluna, che si occupa dei casi dei preti pedofili in Vaticano. Ma proprio ad aprile Lawrence Grech, portavoce degli orfani violentati accusava la Curia maltese di cercare di insabbiare il processo ecclesiastico contro i frati.
Ieri parlando ai giornalisti fuori del tribunale, Grech, con le lacrime che gli scorrevano copiose sulle guance, si è detto soddisfatto delle condanne. «Adesso molte vittime che avevano paura a parlare, potranno avere più coraggio e far uscire tutta la verità», ha detto. «So che molti di loro hanno preso droga o tentato il suicidio, e persone come queste che oggi sono state riconosciute colpevoli sono responsabili anche di tutto questo perchè un trauma del genere non si dimentica, mai», ha insisito. «Le scuse non possono bastare, questi preti devono essere cacciati dalla Chiesa Cattolica», ha concluso.

il Fatto 2.8.11
Nàrraci, o Nichi, le gesta di don Verzé
di Marco Travaglio


Dev’esserci un misterioso black-out che ostruisce le comunicazioni fra Puglia e Lombardia. Ieri infatti, mentre a Milano è sempre più probabile il fallimento della Fondazione San Raffaele di don Luigi Verzé, sprofondata in un buco di quasi 1 miliardo, a Bari il governatore Nichi Vendola conferma “di voler investire 200 milioni di euro nel più grande ospedale pubblico del Mediterraneo, il San Raffaele del Sud, l’opera che Taranto merita”. Ospedale pubblico nel senso che i soldi li mettono i cittadini pugliesi: 60 milioni già anticipati al San Raffaele, altri 14-150 in arrivo, sempre a carico dei contribuenti. La gestione invece (la chiamano “sperimentazione gestionale”) resterà privata, privatissima, affidata alla stessa Fondazione del prete affarista, già cappellano di Craxi e di Berlusconi, ma anche di Vendola. Presentando a Milano il progetto con lui alla vigilia delle regionali del 2010, don Verzé ebbe a benedire la campagna elettorale del compagno Nichi: “È un uomo di grandissimo valore, di grandissima cultura, in grado di trasmettere idee e calore. Tutti segni del carisma che il Signore gli ha dato. Lo dovete eleggere ancora presidente della Regione Puglia. Almeno per altri 5-10 anni. Volete il San Raffaele a Taranto? Allora fate votare Vendola! Anche Berlusconi mi ha detto che lo stima molto, lo ritiene una persona per bene”. E ho detto tutto: “Io credo alla santità dell’uomo. E sia Berlusconi sia Vendola possiedono un fondo di santità. Se i pugliesi non saranno così illuminati da rieleggere Vendola, io lo nominerò comunque presidente del San Raffaele del Mediterraneo”. Un quadretto edificante, non c’è che dire, se non fosse che nella pia opera finanziata dalla Regione il San Raffaele non metterà un euro: il partner privato che si accollerà una parte dei costi verrà scelto con una gara di project financing, ma non sarà il San Raffaele (e meno male, visto che ha le casse vuote e 500 milioni di debiti coi creditori, tanto che qualcuno comincia a domandarsi che fine abbiano fatto i 60 milioni già anticipati dalla Regione Puglia). Fra l’altro la fondazione San Raffaele del Mediterraneo, appena nata, ha già dovuto cambiare presidente perché l’assessore al Bilancio Michele Pelillo, finanziatore istituzionale della società, aveva avuto la bella idea di mettere a presiederla un suo socio di studio, l’avvocato Paolo Ciaccia, costretto a dimettersi per le prevedibili polemiche sul conflitto d’interessi. Un replay del caso Tedesco, nominato assessore alla Sanità da Vendola malgrado la sua famiglia fosse fornitrice della Sanità regionale. Si dirà: molti malati di Taranto devono emigrare fuori città o fuori regione, dunque il nuovo mega-ospedale serve. Mica tanto: il San Raffaele dovrebbe rimpiazzare i due vecchi ospedali tarantini, il SS. Annunziata e il Moscati che, per quanto decrepiti, vantano 680 posti letto contro i 580 di quello nuovo. Le domande a questo punto nascono da sole. 1. Non è meglio, in una delle regioni col bilancio sanitario più dissestato, investire qualche milione per ammodernare i due ospedali esistenti, anziché buttare 200 milioni in uno nuovo che per giunta farebbe perdere 100 posti letto? 2. Cos’è saltato in mente a Vendola di affidarne la gestione (analisi costi-benefici, bando di gara per progettazione e costruzione, direzione sanitaria) al San Raffaele, “partner privato scelto – denuncia l’alleato Antonio Decaro, capogruppo Pd in Regione – in via diretta senz’alcuna procedura di evidenza pubblica”? 3. Non è opportuno rimettere tutto in discussione almeno ora, visti i “requisiti gestionali” dimostrati dal San Raffaele sull’orlo del crac? Onde evitare un nuovo caso Tedesco nella sanità pugliese, forse è il caso che Vendola risponda alle contestazioni dei suoi stessi alleati, ma soprattutto ai dubbi di tanti elettori, con un’adeguata “narrazione”. Possibilmente non in poesia, ma in prosa.

il Fatto 3.8.11
Le mie ragioni su don Verzé
di Nichi Vendola


Direttore, nel 2005 Taranto era una città agonizzante, con una classe dirigente impresentabile, con apparati burocratici spesso corrotti e incompetenti, con sistemi di potere diffusamente infiltrati dalla malavita. Il Comune, la Asl, lo Iacp (Istituto autonomo case popolari) erano autentici “buchi neri” e non solo dei rispettivi bilanci. Il più inquinato capoluogo del Sud era passato dalle gesta populiste di Giancarlo Cito alla finta modernità aziendale di Rossana Di Bello. Un disastro che porta Taranto al record del più importante dissesto finanziario dell’intera storia italiana. Sullo sfondo di queste miserie altre miserie, la povertà esplosiva di periferie in totale abbandono, l’ingorgo di ciminiere industriali mai monitorate e, per aria e nel mare, tonnellate di inquinanti di ogni tipo. Ecco Taranto. Una città appesa alle millanterie della peggiore destra italiana, ma anche una città malata, oppressa dai veleni e dalla paura, prigioniera della propria disperazione. Io ho impegnato l’azione della mia amministrazione su molti fronti: innanzitutto quello ambientale, imponendo all’Ilva una normativa drastica di riduzione delle diossine e dei furani, e poi una normativa anti-benzoapirene, portando i controlli a tappeto su tutto il territorio ionico.La politica è stata per decenni il notaio degli interessi dei grandi gruppi industriali allocati a Taranto, con noi è cambiata la musica. Poi abbiamo dotato la rete sanitaria del Tarantino di infrastrutture e grandi macchine, perché la domanda di salute è particolarmente pressante laddove per oltre un secolo la città ha vissuto con l’amianto e con altri ingredienti funesti. Ma il ciclo della salute non può che essere, insieme alle bonifiche ambientali, una delle grandi linee strategiche di un diverso modello di sviluppo. Il punto è tutto qui. I due ospedali tarantini, il Santissima Annunziata e il Moscati, sono due strutture vetuste ed obsolete, del tutto inadeguate ad attrarre una domanda di ricovero e cura che è in costante fuga verso il nord e verso il circuito privato. Ricordo a me stesso che la mobilità passiva (e cioè i ricoveri fuori provincia) della sola Asl di Taranto costa alla Puglia circa 120/130 milioni di euro all’anno: come se ogni anno la mia regione regalasse un nuovo ospedale alla Lombardia. Per questa ragione abbiamo deciso di dotare Taranto di un ospedale pubblico di livello internazionale, un’opera di oltre 200 milioni di euro.
MA CHE COS’È un ospedale? E cos’è un ospedale connesso all’università e quindi alla didattica e alla ricerca? Forse qualcuno pensa che si tratti di disegnare delle scatole e poi di riempirle di tecnologie e di équipe sanitarie. Non è così facile. Un ospedale è un’azienda che deve durare nel tempo, deve cercare di nascere in sintonia con le migliori pratiche mediche, deve essere una struttura che conosce la realtà epidemiologica del proprio territorio. Si poteva affidare a un qualche ufficio tecnico locale la pratica del nuovo polo della salute? Diciamo che la fantascienza mal si concilia con la prosa amministrativa. Abbiamo peccato nell’affidare al Centro ricerche dell’Università Bocconi la predisposizione del progetto preliminare? Io non credo. Potevamo scegliere di continuare a rattoppare i nosocomi esistenti? Certo, ma io penso che Taranto meritasse e meriti una risposta di radicale innovazione. Appunto: un polo della salute (cura, didattica, ricerca). Come lo facciamo? Qui entra in campo il San Raffaele di Milano, per una semplice ragione. Si tratta dell’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico che occupa il primo posto nella classifica italiana degli Ircs. Si tratta dell’Università privata anch’essa saldamente in testa alla classifica della qualità. Cosa fa la Regione Puglia con il San Raffaele di Milano? Regala soldi a don Verzé? E io ignoro forse che don Verzé è amico del premier? Provo a rispondere. Noi non regaliamo un euro a nessuno. La struttura è pubblica, noi non abbiamo alcuna cointeressenza finanziaria col San Raffaele di Milano, il fatto che don Verzé sia amico di Berlusconi non cambia la classifica della qualità scientifica del polo milanese della salute. A me sta a cuore solo Taranto. Il San Raffaele è partner di una fondazione in cui la Regione Puglia è l’attore centrale e controlla la cabina di regia di questo progetto: questa fondazione ha la gestione sperimentale dello start up e dei primi 3 anni di vita del futuro complesso sanitario. Finita la fase sperimentale la Regione decide come proseguire.
NEL NUOVO ospedale ci sono gli stessi identici posti letto previsti dal piano di rientro per i due nosocomi attualmente funzionanti. I contratti che medici e infermieri stipuleranno saranno quelli del pubblico impiego. Ovviamente noi, di fronte all’attuale crisi del San Raffaele di Milano, abbiamo sospeso la pubblicazione del bando per la progettazione, in attesa che la situazione si chiarisca. Se il San Raffaele fallisce noi cercheremo un nuovo partner e andremo avanti. Comunque andrà Taranto avrà il suo polo ospedaliero nuovo e sarà una grande opera pubblica. Lo dico ai miei critici in buona fede: le scelte sono tutte opinabili, chi ha responsabilità pubbliche deve ogni giorno assumere decisioni. Spesso si può sbagliare. Don Verzé è un diavolo di prete e non è lui il mio riferimento spirituale né intendo fare affari con lui (anche perché io non faccio affari).
STO SOLO tentando di dare una grande chance a una città che ha troppo sofferto. Caro Direttore, approfitto della tua generosa ospitalità per una nota a margine. Da circa 30 mesi rispondo, quasi tutti i giorni, sulle brutte storie della sanità pugliese. Non mi sono mai nascosto dietro a un dito, non ho mai minimizzato la portata della “questione morale” anche nel centrosinistra. Ho sempre riconosciuto il mio errore di presunzione (chi lavora con me non può farsi neppure sfiorare da tentazioni diaboliche). Tuttavia, ho anche rivendicato la radicalità e la tempestività con cui ho reagito alle prime avvisaglie delle inchieste. Anzi, ho cercato di fare di più. Ho voluto una legge, l’unica che c’è in Italia, che scolpisce un percorso di formazione e selezione del management sanitario, lo affida a selezionatori indipendenti e di grande autorevolezza scientifica, lo sottrae al negoziato con i partiti. Se Dio vuole, abbiamo sfidato la cattiva politica.

il Fatto 3.8.11
Ora lasci perdere quel diavolo di prete
di Marco Travaglio


La ringrazio doppiamente visto che alcuni colleghi non hanno avuto la mia stessa fortuna, pur ponendoLe interrogativi analoghi ai nostri da molto più tempo. Ma, se Le dicessi che le Sue risposte mi soddisfano, mentirei. La invito pertanto a un serrato confronto in redazione, magari dinanzi alle telecamere della nostra embrionale web-tv, per discutere più a fondo con qualcuno dei suoi storici oppositori. 1. Non ho mai pensato, né dunque scritto, che Lei “faccia affari” con chicchessia. Temo però che faccia fare dei pessimi affari alla Regione che Lei presiede. Per esempio, regalando l’intero ciclo dello smaltimento rifiuti al gruppo Marcegaglia, ricambiato con giudizi più che lusinghieri sul quotidiano di Confindustria, il Sole 24 Ore. Per esempio, affidando ad Alberto Tedesco, titolare di un mostruoso conflitto d’interessi familiare, la Sanità regionale. E, per esempio, scegliendo a trattativa privata, senza gara, il San Raffaele di don Verzé come partner privato della Regione per costruire e gestire il nuovo mega-ospedale di Taranto. Le mie, dunque, sono critiche politiche, non penali, anche se sconfinano quasi tutte nella questione morale: anzi, meglio, nell’irrisolto problema dei rapporti fra politica e affari. 2. Vedo che Lei accenna a un Suo “errore di presunzione”, ma non nomina mai il senatore Tedesco, suo ex assessore alla Sanità, indagato (con richiesta d’arresti domiciliari respinta dal Senato) per gravi reati che avrebbe commesso proprio nei due anni di presenza nella Sua prima giunta. Ancora non è chiaro perché Lei l’avessenominatoproprioallaSanitàquandoTedescoci ha raccontato lui stesso – Le aveva fatto presente che la sua famiglia possedeva aziende fornitrici della Sanità pugliese. Se è a quel caso che allude quando ammette l’“errore di presunzione”, Le fa onore l’autocritica, ma che c’entra la “presunzione”? In quel caso Lei ha dato provadiunapreoccupanteinsensibilitàaiconflittid’interessi, mettendosene in casa uno di proporzioni gigantesche,perfettamenteinlineacolsuoexpartito(Rifondazione) che se n’è sempre bellamente infischiato del conflitto d’interessi di Berlusconi (e dunque di tutti gli altri). Poi, quando è scattata l’indagine per corruzione, Lei si vanta di aver “reagito con radicalità e tempestività”, caldeggiando e/o accettando le dimissioni dell’assessoreinquisito(ecimancherebbealtro).MaLe pare normale mettere la volpe a guardia del pollaio e poi cacciarla quando – sai che sorpresa – viene beccata a mangiarsi le galline?
3. Anche sulla decisione di costruire un nuovo ospedale a Taranto, e per giunta di affidarlo al San Raffaele, le mie critiche sono squisitamente politiche, e anche un po’ morali, visti i rapporti di don Verzé prima con Craxi, poi con Berlusconi, e visto lo stato prefallimentare del San Raffaele. E vedo che, un po’ tardivamente, dopo le contestazioni dell’Idv, ora le obiezioni cominciano a muovergliele anche i Suoi alleati del Pd. Anzitutto, se il San Raffaele del Mediterraneo è una struttura pubblica (e, almeno per il finanziamento lo è, visto che la Regione spenderà 200 milioni di cui 60 già versati), s’imponeva una gara internazionale, visto l’importo dell’opera. Lei dice di aver scelto quasi due anni fa l’affidamento privato perché il San Raffaele è molto prestigioso e preferiva “un processo accelerato”: e allora perché del nuovo ospedale non è stata ancora neppure posta la prima pietra?
4. Apprendo che Lei considera don Verzé un “diavolo di prete”. L’ha scoperto di recente o lo pensava già l’anno scorso quando, in piena campagna elettorale per la Sua rielezione a governatore, presentando assieme a Lei il mega-progetto San Raffaele del Mediterraneo, quel diavolo di prete ebbe a definirla pubblicamente dinanzi a molti pugliesi in trasferta a Milano “un uomo di grandissimo valore, di grandissima cultura, in grado di trasmettere idee e calore”, “dotato di un fondo di santità come Berlusconi” e invitò tutti a “eleggerlo ancora presidente della Regione Puglia almeno per altri 5-10 anni”, impegnandosi in caso di mancata elezione a “nominarlo comunque presidente del San Raffaele del Mediterraneo”?
5. L’utilità o meno del nuovo ospedale – ne convengo con Lei – è “opinabile” come ogni scelta politica. Ma continuo a domandarmi come spera, Lei, di ridurre il turismo sanitario dei malati tarantini fuori città o fuori regione sostituendo due vecchi ospedali da 680 posti letto in tutto con unonuovoda580(comerisultaa me) o dotato degli “identici posti letto” (come mi scrive Lei). Oltre ai due ospedali tarantini esistenti, il Suo piano prevede di chiuderne altri tre nella provincia di Taranto, 18 in tutto nell’intera regione. Forse la sanità pugliese, una dellepiùindebitated’Italia,dovrebberisparmiarequattrini, rinunciando al faraonico San Raffaele per ammodernare le strutture esistenti e migliorare i servizi: sbaglio o in Puglia il tempo di attesa medio per una mammografia o un esame cardiologico oscilla fra i due e i tre anni? Oltretutto la Sua giunta, presidente Vendola, ha appena alzato l’aliquota dell’addizionale Irpef fino al tetto massimo per coprire il buco sanitario: non era megliocolmarloconi200milionidestinatiadonVerzé, invece di tassare un’altra volta i pugliesi?
6. L’unica risposta in prosa della Sua poetica lettera, è l’annuncio di sospensione del bando per la progettazione del nuovo nosocomio alla luce del mega-buco di 1 miliardo di euro che ha portato il San Raffaele sull’orlo del fallimento. Perché – scrive Lei – “se il San Raffaele fallisce, cercheremo un nuovo partner”. Monsieur de Lapalisse, quello che un quarto d’ora prima di morire era ancora vivo, non avrebbe potuto dire meglio. Il guaio è che lo stato di decozione del San Raffaele non è una scoperta dell’ultim’ora. Forse unagarapubblicaavrebbefattoemergereibuchineri della fondazione di don Verzé & Berlusconi fin dall’inizio. Tantopiù che gli affari pugliesi del San Raffaele sono racchiusi in una fantomatica società “13 maggio”, che associa don Verzé a due imprenditori già finiti sotto inchiesta (quelli della nota cooperativa ciellina La Cascina) e che era presieduta fino a un mese fa da Mario Cal, il braccio destro di quel diavolo di prete, ora prematuramente scomparso perché si è sparato quando la Procura di Milano ha messo il naso nei conti. Ecco, invece di attendere l’eventuale fallimento della Fondazione per cercare un nuovo partner, non sarebbe il caso di fermare le bocce e rimettere tutto il progetto in discussione? Magari un sostenitore come Lei delle primarie potrebbe promuovere un bel referendum tra i pugliesi, per sapere direttamente da loro quale soluzione preferiscono.
7. Taccio sull’incredibile speculazione edilizia che si cela dietro il progetto del nuovo ospedale, con la Fintecna Immobiliare (ministero del Tesoro, Tremonti-Berlusconi) che baratta la variante urbanistica necessaria per costruirlo sulle sue aree in cambio della destinazione a edilizia residenziale, uffici e centri commerciali di terreni riservati a verde, parcheggi, ospedali. Ma pure questo è un problema, non trova? 8. A proposito dell’Ilva di Taranto: il 26 giugno l’Arpa Puglia (controllata dalla Regione) vi ha riscontrato il doppio delle emissioni consentite dalla legge regionale. Il picco è stato registrato a maggio con la presenza di diossine e furani nei fumi delle emissioni del camino del siderurgico, con un valore medio di 0,70 nanogrammi al metro cubo (contro 0,40 consentiti). Dove sarebbe dunque il mirabolante miglioramento ambientale da Lei vantato? È fantascienza o prosa amministrativa? Narrazione, poesia o che altro?

il Fatto 3.8.11
Il decreto Maroni è legge, per 18 mesi reclusi nei lager
Passa al Senato la norma che estende la permanenza nei Cie L’opposizione si appellerà alla Corte di giustizia europea
di Silvia D’Onghia


La permanenza degli immigrati per 18 lunghi mesi nei Centri di identificazione ed espulsione è legge. Ieri il Senato ha convertito il decreto del ministro dell’Interno, Roberto Maroni, che in teoria dovrebbe recepire una direttiva comunitaria, con 151 sì e 129 no. La maggioranza ha fatto quadrato intorno al titolare del Viminale, per cui nulla ha potuto la compattezza (finale) di Pd, Idv, Udc e Terzo Polo. Qualche “errore” – si spera – nella votazione segreta degli emendamenti (chiesta dall’Udc) potrebbe infatti esserci stato, il che ha autorizzato Maroni a parlare di “principi condivisi”. Ma il risultato finale non cambia.
 Non sono neanche state ascoltate le voci che arrivavano da Piazza Navona, dove il Forum immigrazione del Partito democratico , la Cgil, la Federazione nazionale della Stampa, Articolo 21 e le associazioni che ogni giorno assistono gli stranieri si erano ritrovate per un sit-in di protesta. Certo, dicono gli organizzatori di “LasciateCie entrare”, un risultato positivo è stato ottenuto: nel-l’Aula di Palazzo Madama è passato, infatti, l’ordine del giorno della senatrice Pd Marilena Adamo che “impegna il governo a predisporre ed adottare le misure necessarie a consentire ai giornalisti e agli operatori dell’informazione l’accesso ai centri per immigrati e richiedenti asilo, modificando le regole d’accesso”.
 MA SI TRATTA di una vittoria parziale e non vincolante, che Maroni potrebbe decidere di non tenere in considerazione, e che comunque riguarda la circolare, firmata sempre dal ministro, che vieta alla stampa l’ingresso nei centri. Un provvedimento distinto dal decreto sui rimpatri. La piazza sa che i numeri al Senato non ci sono e il presidio dura giusto un’ora, neanche il tempo di aspettare la votazione. Al megafono si alternano i protagonisti di una protesta che vedrà, a partire da settembre, numerose altre iniziative.
 Con la consapevolezza, però, che le strade da percorrere sono molto lunghe. Guai, infatti, a nominare il capo dello Stato e la possibilità che non firmi il decreto Maroni. “Non si può tirare per la giacchetta il presidente della Repubblica, che ha altre funzioni”, è la cantilena del Pd, stavolta espressa dal senatore Vannino Chiti: “Dovremo invece vigilare sul ministero dell’Interno, che deve ritirare e modificare la circolare che limita l’accesso alla stampa”. Un po’ più di coraggio nelle parole dell’idv Felice Belisario: “Chiediamo a Napolitano un’attenta valutazione”. Gli strumenti da utilizzare sembrano essere quelli giuridici: il ricorso alla Corte costituzionale e quello alla Corte di Giustizia europea. Perché, se è vero che la normativa comunitaria prevede la possibilità che uno straniero rimanga in un Cie per 18 mesi, questa deve essere supportata dai caratteri della straordinarietà. E, invece, quello che accadrà in Italia è presto detto.
I 13 Centri di espulsione sono già, a tutti gli effetti, dei luoghi di detenzione preventiva, in cui gli immigrati vengono privati di diritti fondamentali (per esempio parlare con il proprio avvocato) e non conoscono il proprio futuro. Gli attuali sei mesi di permanenza (un tempo già abnorme) non sono sufficienti al Viminale per avere certezza dell’identificazione, ma soprattutto per reperire i fondi per i rimpatri o gli accompagnamenti alla frontiera. Se la polizia non ha la benzina per le volanti, figuriamoci se si trovano gli aerei per riaccompagnare in patria gli stranieri (oltre tutto in assenza di validi accordi bilaterali). E allora i 18 mesi servono a prendere tempo, ma soprattutto a calmare la pancia della Lega.
Bisognerà capire se la miccia accesa lunedì dai richiedenti asilo reclusi nel Cara di Bari continuerà a bruciare e se assisteremo ancora a scene come quella della settimana scorsa a Milano, quando un marocchino, con moglie e figli in Italia, ha tentato il suicidio dopo aver saputo che la sua detenzione era passata da 6 a 8 mesi.

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