venerdì 26 agosto 2011

Repubblica 26.8.11
Siamo ancora nell’era del pensiero debole?
A che punto è il pensiero? Debole, forte o esistenziale?
Postmoderno o neo-realismo? Su questo tema ecco le idee di quattro studiosi Per capire dove va la filosofia. E non solo
di Raffaella De Santis

Postmoderni o neorealisti? O anche: pensiero debole o pensiero forte? Interpretazioni o fatti? Sono alcuni degli interrogativi che stanno animando il dibattito filosofico, dopo la pubblicazione su Repubblica, lo scorso 8 agosto, del manifesto con cui Maurizio Ferraris ha presentato il New Realism, il "nuovo realismo" filosofico, con l´intento di sorpassare l´impasse del postmoderno e le sue "derive" ermeneutiche. Da quel primo intervento ne è scaturito un dialogo tra Ferraris e Gianni Vattimo, tra chi vuole riportare la concretezza della realtà al centro della riflessione e il padre del pensiero debole. Ed è allora partendo proprio da quel dialogo, pubblicato su queste pagine il 19 agosto, che abbiamo deciso di ospitare interventi di filosofi e studiosi. Scrive Paolo Legrenzi, psicologo cognitivo all´università Ca´ Foscari di Venezia: «Oggi il vento è cambiato. Due grandi tradizioni di ricerca, l´evoluzionismo e lo studio del cervello, stanno occupando la scena». E Petar Bojanic, allievo di Derrida, tra i fautori di un ritorno al realismo filosofico, mette in guardia dagli eccessi delle interpretazioni, perché in questo modo finisce che «anche il passato può essere riscritto». Così se Pier Aldo Rovatti ricorda l´inizio di quel percorso che trent´anni fa portò alla nascita del pensiero debole, difendendo l´anima "politica" delle posizioni di allora: «Nasceva come uno strumento di lotta contro ogni violenza metafisica», Paolo Flores d´Arcais rintraccia in Abbagnano, Bobbio e Geymonat i precedenti che hanno avuto il merito di riportare la filosofia su un terreno neo-illuminista.
Il New Realism sarà oggetto di una tavola rotonda il prossimo novembre a New York, all´Istituto Italiano di Cultura, mentre a primavera è previsto un convegno internazionale a Bonn, organizzato dallo stesso Ferraris insieme a Umberto Eco, John Searle, Markus Gabriel e Petar Bojanic.

Repubblica 26.8.11
La visione che ci restituisce il mondo
di Paolo Legrenzi

Nella psicologia è circolata per molto tempo l´idea che quel che conta sono le interpretazioni, e non i fatti. Anzi, sono le interpretazioni stesse a creare i fatti. In una variante di psichiatria sociale, il matto era, semplificando (ma non tanto), il risultato di chi lo classificava come tale. Cambiata la società, eliminata l´etichetta, trattati i matti da persone normali, il problema si sarebbe ridotto, se non dissolto. In forme meno grossolane, questa stessa idea permeava altre scienze umane.
Oggi il vento è cambiato. Due grandi tradizioni di ricerca, l´evoluzionismo e lo studio del cervello, anche grazie a nuove tecniche di osservazione, stanno occupando la scena. L´uomo è un pezzo della natura biologica, e non è poi così speciale. L´idea che sia lui a costruire il mondo, con le sue categorie di osservazione e d´interpretazione, è al tramonto. Si celebra così la fine del presunto primato dell´interpretazione sui fatti. Non ci si era mai spinti ad affermare che leggi scientifiche – come, poniamo, la legge dei gas –, fossero interpretazioni del comportamento dei gas. E tuttavia per le scelte individuali e le società era così. Circola poi, ancor oggi, una variante politica, nel senso che chi detiene il potere politico e i media può "costruire" la realtà. Era questo cui alludeva Donald Rumsfeld, il segretario alla difesa del secondo Bush, quando affermava, dopo la caduta del comunismo: «Ora il mondo lo facciamo noi».
Questa versione "forte" del credo "interpretativo" è fallita miseramente. I fatti si vendicano nella politica estera americana. I fatti presentano il conto. Il potere politico può, anche per molto tempo, far sì che l´opinione pubblica riconosca un fenomeno "da un certo punto di vista", ma non può fare di più.
Quando s´insegna psicologia, al primo anno di studi, si deve contrastare lo spontaneo "realismo ingenuo" degli studenti. Esso consiste nel pensare che noi vediamo il mondo così com´è, semplicemente perché è fatto così. In realtà il nostro sistema percettivo è un intreccio di meccanismi inconsapevoli che ci "restituisce" il mondo in seguito a una complessa elaborazione di ipotesi su quello che c´è là fuori. E anche il pensiero umano funziona così. Questo però non implica sposare la tesi che la mente crea il mondo. Al contrario, la mente dell´uomo e degli altri animali fa ipotesi su come funziona il mondo e le aggiorna continuamente perché l´azione umana cambia il mondo. Questa è la tensione che sbrigativamente si etichetta con il binomio natura/cultura.
Agli psicologi cognitivi piace che in filosofia stia emergendo una posizione chiamata "nuovo realismo". Non possono concordare né con il realismo ingenuo, né con la rozza idea che siamo noi a creare i fatti con le nostre interpretazioni. Per quanto concerne la versione politica, questa tesi si è sconfitta da sola.

Repubblica 26.8.11
Perché serve una prospettiva diversa
di Petar Bojanic

Nel gennaio scorso Ferraris e io eravamo a Parigi, e al termine di una sua conferenza sul futuro della decostruzione qualcuno gli ha chiesto: «Ma perché senti tutta questa necessità di richiamarti al realismo e ai fatti? In fondo, le interpretazioni possono dare libertà». Ferraris ha risposto: «È vero. Ma possono anche negare tutto, comprese le peggiori tragedie della storia». Ripensandoci, è lì che è nata l´idea di un convegno sul "New Realism".
Il realismo è la grande novità filosofica dopo trent´anni di postmoderno, ed è un punto a cui sono arrivato, per parte mia, lavorando su una "fenomenologia dell´istituzionale" che, rispetto a Ferraris, è più aperta alle proposte di Foucault. Sull´essenziale però siamo d´accordo. Derrida, il nostro comune maestro, ci ha resi attenti alla necessità di decostruire, di smontare, di non fermarsi alle apparenze (perché ovviamente non tutto quello che appare è reale, ci sono anche le allucinazioni, lo sappiamo bene). Ma di farlo con una prospettiva di speranza, la speranza, appunto, che la decostruzione potesse portare emancipazione e verità. Se trascuriamo questa circostanza, si finisce nel nichilismo, una posizione che costituisce un problema non solo dal punto di vista teorico (perché è una negazione del sapere) ma anche, e soprattutto, dal punto di vista morale, perché se si sostiene che tutto è fluido e tutto è interpretabile anche il passato può essere riscritto.
C´è un altro segnale importante che, secondo me, viene dal "Nuovo Realismo", e che è particolarmente significativo per chi, come me, si è trovato a vivere e a lavorare in situazioni culturali molto diverse e a volte contrapposte (dall´Inghilterra alla Francia alla Serbia). Il postmodernismo, malgrado la sua pretesa di cosmopolitismo filosofico, era in effetti una teoria che si limitava alla cosiddetta "filosofia continentale". Con la svolta realistica si sta facendo esperienza di un dialogo tra scompartimenti un tempo non comunicanti, per esempio fra temi che vengono da filosofi analitici, come Searle, e temi che vengono da filosofi continentali, come Derrida.
Questo aspetto non mi sembra puramente formale, e tocca la sostanza del lavoro filosofico. Perché "Nuovo Realismo" significa confrontarsi sulle cose, senza limitarsi a chiedersi l´un l´altro "da dove parli?", il gioco postmoderno che spesso riduceva i confronti filosofici alla deferenza nei confronti dei rituali della propria tribù di appartenenza.
(L´autore è direttore dell´Institute of Philosophy and Social Theory di Belgrado. Tra le sue pubblicazioni recenti: World Governance uscito nel 2010 per "Cambridge").

Repubblica 26.8.11
L´idolatria dei fatti
di Pier Aldo Rovatti

Il pensiero debole, nato 30 anni fa grazie a un reading curato da Gianni Vattimo e da me, ha avuto una imprevedibile diffusione internazionale. Certo, anche le sciocchezze possono andare in giro per il mondo e trovare ascolto. Non so se questo sia il caso, e comunque non mi affretterei a darlo per morto.
In autonomia dallo stesso Vattimo, con il quale tuttora condivido lo stile, la funzione e il senso di questo modo di pensare, e soprattutto la sua potenzialità emancipatoria, ci ho lavorato sopra da allora, puntando sui temi del gioco e del paradosso, senza di cui credo che si possa capire poco della difficile realtà in cui viviamo (e spesso ci dibattiamo).
L´amico Ferraris lavorava gomito a gomito con me e con Vattimo, poi ha ritenuto opportuno andare per la sua strada che oggi chiama "nuovo realismo". Ho letto con molta attenzione il suo dialogo con Vattimo e sono rimasto – come molti – alquanto perplesso. Vi ho trovato un´eccessiva semplificazione. Come accade quando si vuole tirare troppo la coperta dalla propria parte, si rischia di deformare un poco le cose.
Innanzi tutto, pensiero debole e postmodernità non possono essere sovrapposti. Forse la postmodernità ha fatto il suo tempo, mentre il pensiero debole era e rimane una maniera di leggere l´intera filosofia, mettendovi decisamente al centro la questione del potere. Nasceva infatti come uno strumento di lotta contro ogni violenza metafisica e di conseguenza sospettava di ogni fissazione oggettivistica della Verità (con la iniziale maiuscola). Non si presentava come un semplice discorso teorico, aveva una valenza esplicitamente "politica", e il carattere di una mossa etica che Vattimo chiamava pietas (cioè, sostanzialmente, un ascolto del diverso) e che per me era un contrasto tra pudore e prepotenza per guadagnare uno spazio di gioco nelle maglie strette dell´uso dominante della teoria.
Quando, oggi, si riduce tutto ciò a una querelle semplificata tra fatti e interpretazioni, si corre il pericolo di evacuare proprio questa sostanza etico-politica e di ridurre il pensiero debole a una specie di barzelletta. Non esistono fatti nudi e crudi che non abbiano a che fare con qualche interpretazione, questo è un fatto, così come sono fatti (duri e provvisti di effetti) le singole interpretazioni. Che oggi ci sia il sole o piova non mi dice niente sulla realtà in cui stiamo vivendo e nella quale temiamo di soccombere. Anzi, c´è da chiedersi perché qualcuno abbia bisogno di costruirsi questo paraocchi lasciando fuori dalla vista le cose più importanti. Il pensiero debole nasceva, poi, in una particolare consonanza con il pensiero critico di Michel Foucault e con le sue analisi del potere microfisico e della società disciplinare. Ora, che abbiamo potuto conoscere meglio le sue ultime ricerche, il debito si è allargato, e non è un caso che Foucault non trovi nessuna cittadinanza nel cosiddetto new realism di Ferraris.
Un punto fa da spartiacque, e riguarda la verità. Foucault ci ha insegnato, con un gesto nietzschiano, che la storia (sì, la storia!) è un susseguirsi di giochi di verità, il che significa che i valori del vero e del falso si trasformano, sono la posta in gioco di un pesante e determinato conflitto, vengono di volta in volta innalzati sulle bandiere dentro una lotta di posizioni e per ottenere vantaggi. Dal dispositivo di potere (reale) non si evade con un semplice colpo di filosofia, e quando si eternizzano le categorie, cercando di fissare cosa è veramente reale, non si fa altro che assumere una posizione dentro il dispositivo, che lo sappiamo oppure no. Mi chiedo cosa abbia da dire il nuovo realismo a questo riguardo, una volta che si sia sgombrato il campo da contrapposizioni un po´ di scuola e un po´ artificiose, dato che nessuno dubita che la realtà abbia una consistenza e produca effetti. Sicuramente non lo dubitano coloro che hanno trovato nel pensiero debole molti attrezzi per la loro cassetta.

Repubblica 26.8.11
La terza via di Camus
di Paolo Flores d’Arcais

Se l´esoterismo iper-metafisico di Heidegger e la traduzione più casareccia fornita da Gadamer degli inconcludenti e compiaciuti labirinti iniziatici del "mago di Messkirch" avesse nutrito la cultura di destra, non vi sarebbe stato alcun problema. Ma quel forsennato vaticinare ha invece colonizzato la cultura democratica in Italia fin dall´inizio degli anni Sessanta, sia in versione neo-teologica, sia ermeneutica (fratelli coltelli, ma entrambi heideggeriani anti-illuministi perinde ac cadaver), ristabilendo una egemonia spiritualistico-idealistica sulla filosofia che invece era stata finalmente mandata in frantumi dalla consapevolmente variegata "vague" neo-illuminista cui avevano dato impulso Abbagnano, Bobbio e Geymonat. Se si aggiunge il marxismo eretico di Della Volpe e della sua scuola, c´erano già allora tutti gli elementi per costruire quella filosofia di "New Realism" che Maurizio Ferraris, ora caldeggia contro il suo maestro e gli esiti prevedibilissimi dell´ermeneutica nichilista e del post-moderno. Mezzo secolo buttato. Comunque, meglio tardi che mai.
Il fenomeno come è noto è stato europeo, e ha riempito anche gli scaffali di oltreatlantico. In Francia avevano a disposizione i lavori di Camus e Monod, sontuosi di grande pensiero sobrio, per dar vita a quella sintesi di esistenzialismo e naturalismo empirico che costituisce la speranza di una "filosofia dell´avvenire", ma la moda irrazionalistica ha imposto genealogie e microfisiche di Foucault e torrenziali elucubrazioni autoreferenziali di Derrida, mentre negli Usa Rorty, in nome di Dewey, faceva piazza pulita del razionalismo di quel grande pensatore riformatore. Il tutto giustificato dalla necessità di liberarsi dalla oppressione di un "essere" inteso staticamente, troppo "autoritario", si è detto. Eppure, bastava farne proprio a meno, dell´Essere, comunque declinato e sbarrato, questa personificazione del predicato più generico e dunque più vuoto, questa Ipostasi che costituisce il tributo della filosofia all´animismo.
E invece, tutti a "indebolire" l´essere per meglio salvaguardarlo rispetto a neo-illuminismi e "scientismi". Per evitare il punto cruciale dello scoglio su cui la tradizione di Hume e del giovane Marx antihegeliano e di Freud (e della riflessione filosofica su Darwin) aveva già portato a far naufragare ogni spiritualismo e antimaterialismo: riconoscere alle scienze della natura l´indagine sull´essere e all´esistenza individuale e collettiva la sovranità sul dover-essere. Ma con un esistenzialismo così sobrio, naturalista-scientista, sarebbero stati liquidati i barocchismi sull´"invio dell´essere", questi sì ad alto potenziale autoritario (totalitario, anzi), visto che qualsiasi aspirante Führer potrà arrogarsi il ruolo di "Unto" dell´essere. È paradossale, perciò, che Vattimo, per tenere aperta la prospettiva dell´emancipazione e dell´eguaglianza (più che legittima), anziché scegliere la via maestra e diretta della separazione quasi manichea tra fatti e valori, dunque tra scienze della natura e ideologie dello spirito (solo le componenti scientifiche delle discipline socio-storiche rientrano nel primo ambito), continui ad insistere sulla linea "non ci sono fatti, solo interpretazioni". Perché ogni menzogna viene così santificata.

l’Unità 26.8.11
Articolo 4. Nel decreto di Ferragosto introdotte norme che contrastano con il voto di giugno
I movimenti referendari sul piede di guerra. Rilievi anche dalla commissione Affari costituzionali
Privatizzazione dei beni comuni. La manovra affossa i referendum
Il contrasto tra le disposizioni della manovra e l’esito dei referendum di giugno è stato segnalato dalla stessa maggioranza in commissione. E suscita ora proteste e appelli alla mobilitazione dai movimenti promotori
di Francesco Cundari

Il tentativo di affossare il risultato dei referendum sui beni comuni del 12 e 13 giugno non potrebbe essere più esplicito. Approfittando dell’emergenza finanziaria, il governo ha inserito nella manovra norme che sono in palese contrasto con il risultato plebiscitario di appena due mesi fa. Un tentativo dichiarato di forzare ovunque possibile la privatizzazione dei servizi pubblici locali, come se niente fosse, che suscita naturalmente la protesta e la mobilitazione di tutti i movimenti che per i quesiti referendari si sono battuti.
A segnalare la violazione della volontà popolare che si è espressa nei referendum di giugno non sono però soltanto i movimenti che li hanno promossi, ma parte significativa dello stesso Pdl. Nel merito, infatti, la commissione Affari costituzionali ha parlato mercoledì con cristallina chiarezza.
Il parere «non ostativo» della commissione sulla manovra del governo è «condizionato» alla riformulazione di una lunga serie di disposizioni contenute nel decreto di ferragosto, a cominciare dall’articolo 4, che «introduce disposizioni volte a liberalizzare i servizi pubblici locali di rilevanza economica, al fine di creare le condizioni per l’apertura al mercato».
I RILIEVI DELLA COMMISSIONE
In proposito, i rilievi della commissione sono molto precisi: «Appare necessaria, al fine di evitare possibili censure di incostituzionalità e perché sia assicurato il pieno rispetto della volontà popolare, un’attenta verifica della compatibilità di tale nuova disciplina con gli effetti abrogativi prodotti dall’esito di due dei quattro referendum popolari del 12 e 13 giugno 2011 relativi, rispettivamente, alle modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica e alla determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito».
Dunque, come ricorda il parere autorevolissimo elaborato dalla commissione Affari costituzionali (e al suo interno proprio dai membri del Popolo della libertà), il primo quesito referendario non riguardava semplicemente l’acqua, ma tutti i «servizi pubblici locali di rilevanza economica».
LA LETTERA DEL FORUM PER L’ACQUA
Non può stupire pertanto la protesta che viene dai promotori dei referendum di giugno. Il Forum italiano dei movimenti per l’acqua ha indirizzato una lettera aperta al presidente della Repubblica e a tutte le forze politiche.
«Il governo non solo non ha ancora attuato le indicazioni referendarie si legge nel testo ma, con la manovra economica in fase di discussione parlamentare... ha riproposto in altra forma la sostanza delle norme abrogate con volontà popolare». Il Forum contesta poi il fatto che «nell’articolo 5 si arrivi a dare un premio in denaro agli enti locali pur di convincerli a lasciare al mercato delle privatizzazioni i propri servizi essenziali per le comunità: un premio che dovrebbe servire per fantomatici investimenti infrastrutturali quando invece ai Comuni vengono sottratti trasferimenti essenziali per le loro funzioni». Tutto questo, prosegue la lettera, costituisce «una chiara violazione della Costituzione poiché il popolo italiano si è pronunciato con referendum contro l’affidamento al mercato di tutti i servizi pubblici locali previsti dal Decreto Ronchi, e tale decisione è vincolante per almeno cinque anni (come affermato dalla giurisprudenza costante della Corte Costituzionale)».
L’APPELLO DEI GIURISTI
L’appello dei giuristi estensori dei quesiti sui beni comuni, sottoscritto tra gli altri anche da Alex Zanotelli, da Giorgio Airaudo della Fiom e dall’ex magistrato Livio Pepino e dal direttore editoriale del Manifesto Gabriele Polo, ha raccolto in poche ore cinquemila adesioni.
«La lettura della manovra di ferragosto e del dibattito politico che ne ha accompagnato la presentazione scrivono gli estensori dell’appello produce una sensazione di profonda preoccupazione in chi ha a cuore la democrazia e i beni comuni».
LA DENUNCIA DEL CODACONS
Dalla parte dei difensori del risultato dei referendum del 12 e 13 giugno si schiera anche il Codacons. «Appare incredibile scrive in una nota che il governo, approfittando dell’importanza di una manovra urgente, cerchi di intrufolare una norma palesemente illegale». L’associazione dei consumatori si dice pronta a ricorrere alla Consulta. E ribadisce: «L’articolo sottoposto mesi fa a referendum, il 23 bis del decreto legge 25 giugno 2008 numero 112 riguardava tutti i servizi pubblici di rilevanza economica, non solo quello idrico».

l’Unità 26.8.11
Bersani: «Come possiamo stupirci se la Cgil sciopera?»
A Pier Luigi Bersani non piace la polemica che si è aperta nell'opposizione e all'interno del suo stesso partito sullo sciopero generale indetto dalla Cgil per il 6 settembre. Per questo ha scritto una nota sul sito del Pd.
di S.C.

«Con tutto quello che il Pd stesso pensa e dice della manovra, dovrebbe forse stupirsi di uno sciopero o di una qualsiasi altra forma civile di mobilitazione o di protesta?» A Pier Luigi Bersani non piace la polemica che si è aperta nell'opposizione e all' interno del suo stesso partito sullo sciopero generale indetto dalla Cgil per il 6 settembre. Mentre Idv e sinistra radicale aderiscono alla giornata di mobilitazione e chiedono al Pd di fare altrettanto, mentre il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini critica la decisione presa da Corso Italia e chiede al Pd di «abbandonare ogni ambiguità» e dire «da che parte sta», mentre nello stesso Pd c'è chi, come Beppe Fioroni, sostiene che «bisogna opporsi punto e basta a uno sciopero assurdo e controproducente», Bersani scrive sull’home page del sito web del partito una nota piuttosto chiara: parte sottolineando che di fronte a una manovra iniqua e regressiva come quella che vorrebbe approvare il governo, il Pd non si stupisce che sia stato indetto uno sciopero. E continua così: «Piuttosto, si prenda sul serio quello che diciamo da tempo. Noi rispettiamo l’autonomia di ogni scelta sindacale e siamo presenti laddove organizzazioni sociali e civili o movimenti sono in campo con obiettivi compatibili con i nostri. Saremo dunque presenti a tutte le diverse iniziative che i sindacati e le forze sociali vorranno assumere per chiedere correzioni alla manovra nel senso dell' equità e della crescita». Dopodiché, Bersani sottolinea anche che il Pd è «un partito» che fa il suo «mestiere» e che è invece «da irresponsabili» l’atteggiamento dimostrato dal governo, che «lavora per dividere» il fronte sindacale. «Se si vuole far vivere il prezioso patto del 28 giugno fra le parti sociali è evidente che l'articolo 8 del decreto va eliminato o riformulato in modo accettabile per i contraenti». Parole che per ora contribuiscono ad evitare nuove tensioni su questo argomento nel Pd. E che vengono apprezzate dalla stessa Susanna Camusso. Per il segretario della Cgil «è uno strano dibattito» quello avviato tra chi sostiene che il Pd dovrebbe aderire e chi chiede invece che vi si opponga: «Mi pare una gara inutile». Mentre giudica una «posizione corretta» quella espressa da Bersani. «Il Pd dice al termine di un'audizione in Senato ha presentato una proposta di merito sulla manovra: ci sono alcuni punti di convergenza con la nostra e altri no. Legittimamente rispettano le scelte che facciamo, come noi rispettiamo le scelte che fanno loro».

l’Unità 26.8.11
Martin Luther King
Non può vivere senza di lui quel sogno americano di uguaglianza e felicità
Domenica a Washington alla presenza del Presidente Obama, il National Mall si arricchirà di una nuova statua: 48 anni dopo aver pronunciato il discorso «I Have a Dream», il reverendo, simbolo della lotta per i diritti civili, entrerà a far parte del pantheon nazionale
di Sara Antonelli

Nel 1791, nel suo progetto per la capitale degli Stati Uniti d’America, l’architetto e urbanista Pierre L’Enfant disegnò un viale della lunghezza di un miglio fiancheggiato da aree verdi: il National Mall. Posto a sud della Casa bianca, il Mall sarebbe stato un percorso monumentale lungo il quale avrebbero trovato posto musei e statue commemorative. Un paese giovane come gli USA ancora non aveva ancora nulla di tutto questo, ma sia L’Enfant, sia il suo committente, il presidente George Washington, sia «l’architetto» della nazione, Thomas Jefferson, l’autore della Dichiarazione d’indipendenza e il vero ispiratore del progetto di L’Enfant, confidavano che i fasti sarebbero arrivati rapidamente.
The City of Washington si proponeva di materializzare sul territorio la bontà di un esperimento politico mai tentato prima: «Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali...». L’eleganza e la magniloquenza che ancora oggi caratterizzano la città ci spingono a credere che il progetto sia riuscito. Al punto che passeggiando per le sue strade alberate, tendiamo a ignorare la presenza asfissiante di migliaia di bandiere o il fatto che fuori dal bellissimo centro si estende un ghetto depresso. Tendiamo cioè a dimenticare di trovarci al centro di un’idea blindata. Il National Mall ne illu stra però molte delle contraddizioni.
Diversamente dal piano originale, il Mall non è mai diventato un viale, bensì un lungo spazio verde, un pantheon en plein air deputato a un’epica che pare non chiudersi mai: ogni volta che si aggiunge un nuovo monumento, il racconto si rinnova. Oggi si presenta chiuso, a Est, dal Congresso, un palazzo modellato sul Campidoglio, e a Ovest dal Lincoln Memorial, un tempio neoclassico. Tra i due, snocciolati non come in una parata noiosa, ma secondo un emozionante progetto narrativo, monumenti quali il Vietnam Veterans Memorial (una cicatrice sulla terra), il National II World War Memorial (la narrazione per tappe e per «fronti» della vittoria del bene sul male), il Washington Monument (l’obelisco centrale attorno al quale ruota tutto il sistema) e lo Ulysses S. Grant Memorial (una statua equestre che ricorda la vittoria nordista nella Guerra civile). Ai lati del Mall, i musei e le istituzioni culturali più prestigiose del paese. A Sud, dove lo spazio si apre alle acque del Tidal Basin, il Franklin Delano Roosevelt Memorial (un’epica popolare), quindi il Thomas Jefferson Memorial, un tempio gigantesco che ospita, come in un sacrario, la statua colossale del presidente intellettuale e il testo della Dichiarazione.
Statue e monumenti, spesso accompagnate da parole, compongono un racconto contrappuntistico che non ha un inizio possiamo prendere a percorrerlo da dove vogliamo e che si dipana liberamente, seguendo il desiderio del visitatore e grazie a un gioco di rimandi che attraversa epoche, materiali, colori o direttrici. Capita che i monumenti si guardino tra loro (Grant guarda Lincoln che a sua volta dà le spalle al più distante Generale Robert E. Lee Memorial), o che riflettano i visitatori (il Vietnam Memorial), o che si lascino percorrere sia con timore reverenziale, quando esprimono un idealismo ineguagliabile (il Lincoln Memorial), sia con semplicità, quando sono alla nostra altezza (FDR Memorial).
Oppure che intimoriscano per l’imponenza con cui rappresentano un’idea pura (il Washington e il Jefferson Memorial).
Da domenica 28 agosto, alle 11, alla presenza del presidente Barack H. Obama, il racconto dell’epopea nazionale si arricchirà di un'altra tappa: di un monumento che, col suo ingresso nello spazio narrativo, sarà destinato, come gli altri in passato, a modificare tutti gli equilibri fin qui stabiliti. Esattamente 48 anni dopo aver pronunciato, proprio sulle scale del Lincoln Memorial, il discorso «I Have a Dream», Martin Luther King entrerà a far parte del pantheon nazionale.
Il MLK Memorial, disegnato dal Roma Design Group di San Francisco, è il primo monumento del Mall a non commemorare un presidente o un soldato, bensì un uomo di pace. Il monumento, all’altezza del civico 1964 (l’anno della firma del Civil Right Act) di Independence Avenue, si compone di tre parti che, complice il confortante mormorio dell’acqua, raccontano una storia in sequenza. Il motore narrativo è naturalmente la statua che raffigura MLK: si presenta come un blocco appena staccatosi da un enorme portale che, evidentemente, la imprigionava in uno stato di abiezione («Out of a Mountain of Despair», una citazione da «I Have a Dream»). Pur essendo ancora incastonata in una roccia gigantesca («The Stone of Hope», altra citazione), la statua si presenta in posizione avanzata e prospiciente uno spazio aperto e incontaminato (le acque del Tidal Basin circondate dai ciliegi).
Va detto subito che, sebbene le spalle, la schiena e i piedi della statua siano ancora mescolati alla roccia, il corpo di MLK non è quello agonizzante degli schiavi di Michelangelo, che lottano contro la materia che li trattiene MLK ha già lasciato la sua «Mountain of Despair» ma quello forte di chi ha superato gli ostacoli, che non si è fermato né si fermerà davanti ad alcun divieto.
Il 28 agosto del 1963 MLK aveva detto: «E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti». Se oggi una parte della statua che lo rappresenta è ancora nella roccia non è per impedirne il movimento la statua comunica forza d’animo, dinamicità e determinazione bensì per indicare che la «Mountain of Despair» che è rimasta letteralmente alle sue spalle non può essere dimenticata, e che l’opera di liberazione e rigenerazione della nazione non è ancora conclusa.
Per i visitatori che, passando dal portale, accedono già da lunedì 22 allo spazio monumentale, tale percorso simbolico è chiarissimo. Dall’ingresso come divelto, avanziamo verso una grande roccia che si affaccia sul mare, ma senza ancora sapere cosa raffigura. Giungiamo quindi in un emiciclo che, proteggendo amorevolmente il macigno, le offre uno sfondo storico: è l’agone di King, punteggiato di parole che hanno accompagnato tutte le sue battaglie. Continuiamo ad avanzare fino a poter osservare la roccia frontalmente e scoprirvi le fattezze di MLK che guarda dritto davanti a sé a braccia conserte. Le dimensioni della statua sono enormi: il reverendo è un gigante di granito chiaro che, affacciato sul Tidal Basin, osserva serio e pensieroso il Jefferson Memorial.
Posto a metà strada tra Lincoln (alle sue spalle) e Jefferson, il MLK Memorial stravolge il rapporto che, almeno fino a oggi, univa i due monumenti preesistenti: la linea retta che collegava il loro idealismo. E come se quel 28 agosto del 1963, dopo aver pronunciato «I Have a Dream», MLK fosse disceso dal Lincoln Memorial per incamminarsi risoluto verso il Jefferson Memorial. Come se, appena finito di parlare, avesse puntato dritto verso le parole della Dichiarazione e verso il suo autore uno dei più ricchi schiavisti del suo tempo per rimproverarlo e per dire che l’idea di uguaglianza e felicità della nazione funziona solo se tra i due presidenti c’è MLK. In caso contrario la linea ideale si rompe, il collegamento cade, l’epica non tiene, il paese va in pezzi.

Repubblica 26.8.11
Un Paese senza guida
di Adriano Prosperi

A nessun italiano può far piacere che sul Washington Post si legga: «In Italia c´è un buffone come Silvio Berlusconi». Fa male scoprire quale sia il nostro contributo al generale deficit di leader nel mondo contemporaneo. Nella crisi attuale - finanziaria, economica e politica - delle democrazie occidentali, c´è una domanda di leadership politica. L´opinione pubblica si risveglia dal sonno della fiducia nelle forze spontanee dell´economia e della finanza e sente il bisogno di uomini di Stato capaci di dire verità amare e di assumersi le loro responsabilità. Ma c´è un aspetto tutto italiano di questa crisi: l´avere un leader che nessuno prende sul serio nel vasto mondo. L´autore che ha formulato quella sprezzante definizione è l´economista Nouriel Roubini, colui che Tremonti definì con l´epiteto sprezzante di «Nostradamus» quando anni fa segnalò l´avvicinarsi della tempesta a cui lo stesso Tremonti guarda ora con occhio smarrito e impotente. Non che la ricetta di Roubini sia facile da applicare: ma il suo merito è quello di chiarire quanto sia stata sbagliata la strada seguita finora.
Bisogna - scrive Roubini - rimettere il lavoro e il capitale umano al centro della politica, ricostruire un giusto equilibrio tra funzionamento dei mercati e produzione di beni, abbandonare il modello anglosassone del laissez-faire e quello europeo del welfare pagato con l´irresponsabile incremento del deficit statale. La corsa drogata alla intermediazione finanziaria e la redistribuzione della ricchezza dal lavoro al capitale conducono il capitalismo all´auto-distruzione. La politica fiscale dovrebbe puntare alla creazione di posti di lavoro e investire risorse nelle infrastrutture necessarie alla crescita; e le risorse dovrebbero essere raccolte con una tassazione progressiva sulla ricchezza reale (non certo come si fa in Italia colpendo pigramente il lavoro dipendente, l´unico costretto a dichiarare i redditi). E bisogna soprattutto investire nel capitale umano perché crescano generazioni capaci di competere nel mondo globalizzato. L´alternativa ha molti nomi tutti cupissimi: si chiama stagnazione, depressione, crescita della disuguaglianza, della povertà, della disoccupazione, della disperazione: con prospettive di instabilità politica e sociale, come quella che si annuncia nel brontolio di tuono di tante agitazioni di massa.
Amara è la soddisfazione che l´analisi di Roubini può dare alle minoranze che in Italia protestano da anni contro i tagli alla scuola pubblica e alla ricerca, contro una politica del lavoro tesa solo a cancellare i diritti dei lavoratori, contro un liberismo parolaio fatto di condoni a ripetizione per le ricchezze accumulate illegalmente e di misure vessatorie contro l´esercito del lavoro, quello regolare e quello di riserva dell´immigrazione clandestina. Sono anni e anni che si erodono le fondamenta intellettuali e morali del Paese, affamando la ricerca, disprezzando le istituzioni di cultura, impoverendo gli insegnanti, diffondendo quotidiane iniezioni di volgarità nei canali televisivi monopolizzati dal nostro casalingo tycoon. Oggi, nel mezzo della crisi, si continua per quella via, come mostra il colpo di penna che cancella in cambio di un microscopico risparmio istituzioni come l´Accademia della Crusca ma si arresta timoroso davanti alle penali per i capitali esportati illegalmente. In questo momento le forze politiche che finora si sono dimostrate capaci solo di far crescere l´evasione e la corruzione si presentano con aria umile (qualcuno dice di avere anche un cuore che sanguina) a chiedere il contributo delle opposizioni nel riformulare qualche dettaglio minore della manovra finanziaria. Una manovra come questa non può essere figlia di nessuno. Nei momenti di crisi un Paese deve sapere se c´è qualcuno che lo governa o no. A meno che il popolo italiano non si senta rassicurato dalla canottiera nazionalpopolare di Bossi esibita nel sinedrio leghista riunito in Cadore per il compleanno di Tremonti. Ma forse ci vuole altro per rassicurare i pensionati sulla sorte dei loro risparmi; altro per riaccendere nei giovani la fiducia nel loro futuro.

Repubblica 26.8.11
L’esilio della politica
di Guido Carandini

Quella che viene spacciata per una ciclica crisi economica e finanziaria è invece qualcosa di assai più serio e storicamente inedito. È in realtà l´esito di una vera e propria controrivoluzione del capitale che, divenuto globale, ha ridotto a brandelli i poteri che le rivoluzioni dei secoli scorsi avevano conferito alle democrazie nazionali, cioè i poteri di controllo sul mondo degli affari e la forza di imporre agli Stati un generoso welfare a difesa delle classi più deboli. La crisi attuale è dunque il crepuscolo della politica democratica delle nazioni decaduta da baluardo dei diritti sociali a passivo strumento del nuovo potere capitalista senza frontiere.
Ne è prova la decadenza, nella piccola Italia come nei grandi Stati Uniti, di governi, parlamenti e partiti, insomma delle istituzioni tradizionali della democrazia. Ormai più che i governi eletti sono le maggiori banche e i fondi privati della finanza mondiale a decidere le sorti dell´economia, perché la politica ha smarrito la capacità di contrastare l´ingordigia degli affari con una forza all´altezza dei tempi in cui viviamo. Quelli cioè della transizione dall´era moderna all´era globale, l´immensa metamorfosi che ha reso la politica una docile preda del capitale.
Nell´era globale il progressivo cadere delle barriere nazionali ha prodotto l´unificazione mondiale dei mercati e con essa il parallelo tramonto delle ideologie sia democratiche che autoritarie (nazionalismo, liberalismo, socialismo, comunismo, ecc.). Al loro posto il capitalismo ha insinuato nelle coscienze una pervasiva religione sociale ispirata all´etica del guadagno e al culto del denaro.
Per indebolire la democrazia il capitale non l´ha attaccata frontalmente, ma con una duplice sfida trasversale. In primo luogo, per riprendersi il suo pieno potere, ha assunto la forma globale e la democrazia, perdute le frontiere nazionali, ha smarrito il suo habitat naturale. In secondo luogo ha minato il cuore stesso del sistema democratico insinuando di soppiatto al suo interno un nuovo assolutismo, quello delle aristocrazie del capitale che abrogano il potere dei governi eletti di imporre un limite alla rapacità del mondo degli affari. Disarcionando la politica quelle aristocrazie hanno minato il potere sia dei partiti di sinistra difensori dei bisogni e diritti collettivi, sia dei partiti di destra fautori del liberalismo individualista, riducendo entrambi a esercitare - i primi loro malgrado e i secondi a loro vantaggio - un potere delegato dal sistema degli affari mondiali che mira soltanto alla massimizzazione dei profitti.
La restaurazione del predominio capitalista sulla democrazia politica è inoltre la maggiore causa delle perverse alleanze fra poteri di governo e poteri di affaristi, come avviene in Italia con Berlusconi e Mediaset, in Inghilterra con Cameron e la Sky di Murdoch e negli Usa con i conservatori del Congresso e gli affaristi di Wall Street.
Per riconquistare un ruolo coerente con la nuova realtà del capitalismo globale non è sufficiente che le democrazie dei piccoli Paesi assumano dimensioni più ampie e integrate, per esempio in una rinnovata Unione europea. Quella continentale degli Usa non la rende immune dagli attacchi trasversali del capitalismo. Ci vuol altro. Occorre cioè una trasformazione che riguardi in primo luogo i soggetti della democrazia che, prima della controrivoluzione del capitale, erano i singoli cittadini che eleggevano parlamenti democraticamente attivi, mentre ora votano per assemblee ridotte a casse di risonanza di interessi affaristici.
Per ripristinare un efficace potere di controllo sul capitalismo occorrono nuovi soggetti, nuove forze collettive di giovani generazioni che per riappropriarsi del proprio futuro devono, mi sembra, fare due cose. In primo luogo rinunciare ai vecchi strumenti della rivolta e dello scontro frontale che sono diventati armi spuntate. Si è rivelato di nuovo più efficace l´approccio trasversale se attuato dalle forze collettive in rete aventi una potenza d´urto democratica assai maggiore degli asfittici partiti e partitini di vecchio conio. Ne abbiamo viste all´opera molte, giovanili e femminili, audaci portatrici di spinte anti-autoritarie in Italia, Israele, Spagna, Libia, Tunisia, Egitto, Siria, India e Brasile.
In secondo luogo quelle forze devono liberarsi dall´inquinamento culturale imposto dalla propaganda capitalista. Cioè convincersi che la sopraffazione dei diritti democratici, da parte di un capitalismo lasciato senza freni, è massimamente dovuta alle lusinghe di quella onnipresente religione sociale che si ispira all´etica del guadagno e al culto del denaro, inculcata dal mondo degli affari per raggiungere i suoi scopi. Che sono principalmente i seguenti.
Primo: legittimare nell´opinione pubblica qualsiasi impresa, anche illegale, che favorendo l´occupazione genera redditi e quindi soddisfa bisogni individuali spesso al prezzo della distruzione di bisogni collettivi, come per esempio la sicurezza e la difesa dell´ambiente. Sono esemplari i casi del disastro nucleare giapponese, dei catastrofici inquinamenti da perdite dei pozzi petroliferi e del fenomeno generale della selvaggia speculazione edilizia.
Secondo: anestetizzare la protesta e le lotte delle classi sfruttate ed emarginate, illudendole che la soluzione dei loro problemi si trovi solo nella "crescita economica" e non esiga invece la preliminare difesa dei loro diritti democratici, compreso quello di poter controllare se un dato tipo di crescita sia benefico o nocivo per la collettività.
Terzo: indebolire lo Stato facendolo apparire come il responsabile delle crisi anziché come la maggiore risorsa per superarle, come era stato dimostrato ampiamente in passato dall´intervento della spesa pubblica nelle fasi di debole congiuntura economica.
Occorrerà dunque una vera e propria rivoluzione culturale democratica per sottrarre alla religione del guadagno e del denaro la supremazia su ogni altro valore etico e senso della vita, sia individuale che collettiva. Un compito immenso per le nuove generazioni che dovranno recuperare la politica dal suo attuale forzato esilio affinché nel mondo del capitale globalizzato non abbia il sopravvento una crescita economica che sia principalmente basata sulla corruttrice brama dei profitti, sulla speculazione finanziaria e immobiliare e sulla devastazione dell´ambiente.

Repubblica 26.8.11
Le parole per combattere la paura. La filosofa Michela Marzano racconta la sua storia
Così ho combattuto con la mia anoressia
Rivela "gli anni passati con la fame, quando mi punivo per ogni caloria ingoiata"
L´autrice suggerisce il ruolo (e il peso) delle aspettative del padre
Esce il nuovo libro auto-biografico della studiosa "Volevo essere una farfalla" Una confessione dei suoi disturbi alimentari e del disagio che ha vissuto
di Daria Galateria

«PENSAVO che non ne avrei mai parlato. Che sarebbe rimasto per sempre il mio segreto. Che non avrei permesso a nessuno di sfiorare le mie fratture e le mie debolezze. Poi, pian piano, raccontare la mia storia è diventata una necessità. Perché l´anoressia non è una cosa di cui ci si deve vergognare.
´anoressia non è né una scelta, né un´infamia. L´anoressia è un sintomo. Che porta allo scoperto quello che fa veramente male dentro. La paura, il vuoto, l´abbandono, la violenza, la collera. È un modo per proteggersi da tutto ciò che sfugge al controllo. Anche se a forza di proteggersi si rischia di morire. E per imparare a vivere si deve avere il coraggio di dare un senso a tutta questa sofferenza.
Certo, per uscirne non esistono formule magiche. Come pretendono alcuni. Come forse sarebbe bello che fosse. Ma esiste qualcosa che è più forte delle semplici formule: la forza delle parole. Quelle che permettono di ripercorrere mille e mille volte sempre le stesse cose. Gli stessi attimi. Le stesse incertezze. Gli stessi rimpianti. E poi, come per magia, il pensiero riappare. E ci aiuta a ritrovare il bandolo della matassa. Quell´istante preciso in cui qualcosa si è interrotto. E che prima ci si illudeva di poter dimenticare per fare "come se" nulla fosse mai accaduto. Barricandosi dietro ad un pensiero razionale capace, certo, di spiegare tutto, ma in realtà incapace di aprire la porta ai perché della vita. E allora ho capito come mai avessi deciso di diventare una filosofa. Perché se c´è una disciplina che fa dei "perché" il punto di partenza e di arrivo è proprio la filosofia. Non quella astratta né quella perentoria. Ma quella incarnata che si costruisce intorno all´evento, come direbbe Hannah Arendt. Quell´evento che appare nel mondo e lo trasforma. E che obbliga, nonostante tutto, a trovare alcune risposte.
Io queste risposte le ho trovate. Ed è anche attraverso la mia anoressia che ho imparato a vivere. Senza quella sofferenza, forse, non sarei diventata la persona che sono. Probabilmente non avrei capito che la filosofia è un modo per raccontare la finitezza e la gioia. Gli ossimori e le contraddizioni. Il coraggio immenso che ci vuole per smetterla di soffrire e la fragilità dell´amore che dà senso alla vita. È questo che ho voluto raccontare nel mio libro. Per condividerlo con gli altri. Per mostrare che c´è un modo per uscirne. Una filosofia della resistenza e della speranza».

Rivela "gli anni passati con la fame, quando mi punivo per ogni caloria ingoiata"
L´autrice suggerisce il ruolo (e il peso) delle aspettative del padre
Esce il nuovo libro auto-biografico della studiosa "Volevo essere una farfalla" Una confessione dei suoi disturbi alimentari e del disagio che ha vissuto

Ora che Michela Marzano pubblica il romanzo della sua anoressia (Volevo essere una farfalla, Mondadori, pagg. 210, euro 17,50) diventa palese e affascinante l´uso letterario che aveva fatto della malattia già nei saggi filosofici. La Marzano ha disseminato nei suoi studi centinaia di sintomi. Usa spesso la parola "disincarnato", "smaterializzato", e anche, per il mondo modellato dalle imprese (Estensione del dominio della manipolazione), il termine "gabbia", che nel romanzo è associato al corpo anoressico. Volevo essere una farfalla si propone come una scrittura scucita. Ma non puoi raccontare una storia? le chiede il compagno; ma lei vuole usare una scrittura ellittica, "disincarnata" appunto; "quando si ha una bella idea non si riesce a darle carne, a farla vivere".
Michela Marzano ha iniziato il suo racconto molti anni prima di questa Farfalla, che dice "gli anni passati con la fame, a punirmi per ogni caloria ingoiata, a mangiare e vomitare tutto", e suggerisce il ruolo (il peso) delle aspettative del padre - "voglio scrollarmi di dosso il peso del dovere, voglio sentirmi leggera"; "Con me papà è sempre stato troppo pesante - per anni, ho fatto di tutto per diventare leggera come una farfalla… In termini di chili, s´intende": un padre che compare, letteralmente a ogni pagina, a chiedere la perfezione.
Sotterraneamente, già nei saggi Michela Marzano si è trovata a assumere argomenti e metafore dal suo passato anoressico. Negli interventi sull´"abietto" per esempio: "da ab e jectus, i lemmi di repulsione, ribrezzo rinviano alle nozioni di sporcizia, rifiuto e impurità, che troviamo spesso associate al corpo e alle sue escrezioni. La parola puro designa al contrario ciò che è pulito, immacolato, impeccabile". Ha scritto (La filosofia del corpo) che "il corpo è impuro per antonomasia perché ingerisce, digerisce, assimila, espelle e secerne". Ha studiato la body-art dell´artista Orlan, che con le sue performances chirurgiche "si serve della sua carne per esibire l´immagine ideale che ha di se stessa".
La pornografia (Malaise de la sexualité) mette avanti un corpo "smaterializzato, immune da invecchiamento e imperfezioni". Il corpo è il luogo di interrogativi esistenziali; è lo "strumento tramite il quale possiamo dimostrare quale specie di essere morale noi siamo". Per costruire la sua nuova "filosofia del corpo" (Penser le corps, Dictionnaire), la Marzano ha attraversato l´evangelista Matteo ("tutto ciò che entra nella bocca passa nel ventre e va a finire nella fogna; tutto questo rende immondo l´uomo"), Nietzsche, Proust ("quando siamo ammalati, ci rendiamo conto che viviamo incatenati a un essere di una specie differente che non ci conosce: il nostro corpo"), Amos Oz, il cyberspazio - in cui gli avatar "non sono più infastiditi dalla pesantezza del corpo".
Ma a un gioco, a uno svelamento più pericoloso siamo chiamati dal romanzo. "Preferisco lasciare delle tracce. Degli indizi. Tutto è collegato. Basta mettere insieme i pezzi e il puzzle si fa da solo". Dunque, questa storia è un puzzle. L´autrice non dirà tutto, lo avvisa in esergo. E allora eccoci autorizzati a indagare tra le righe del racconto che si vuole, è inutile dirlo, esile, frantumato e leggero. "Mio padre il francese lo capisce appena"; e: "di filosofia non ne capisce molto": quasi che le scelte di fondo di Michela Marzano, filosofa di grande seguito in Francia, siano state forme di fuga e scelte di autonomia rispetto all´onnipotente papà; certo, una sfida.
La sua scrittura non appartiene al genere del mécontemporain, praticato, in Francia, dagli scontenti del presente, gli "scontemporanei" vituperatori del mondo. La protagonista-farfalla esibisce i suoi successi - "non capita a tutti vincere il concorso alla Normale di Pisa": anche se la tesi, cui si presenta a quota 35 chili, avrà come tema (ancora il problema della perfezione) l´"essere e il dover essere". Semmai il testo si apparenta al genere dell´autofiction, tra biografia e racconto; e replica i brevi capitoli di Passione semplice di Annie Ernaux o di Incesto di Christine Angot, storie incandescenti narrate in termini oggettivi e spogli. Ma la Marzano sceglie di esprimere l´area dei sentimenti con formule codificate, a volte dolcemente adolescenziali o datate, come le citazioni da cantilene, canzoni o poesie di scuola (Pascoli, Cocciante, Cyrano): tessuto linguistico infilzato a tratti, per inchiodare la farfalla, e poterla studiare, da un termine filosofico. L´intento vigile è tradito dalle riprese dalla letteratura dell´anoressia, la Nothomb (si sente "un imbuto attraversato dal cibo"), Isabelle Caro, la modella fotografata da Toscani, la prostituta Nelly Arcan, la "piccolina di papà" suicida dopo il successo di Putain.
Scorrono a lampi le amichette, la tbc, la casa avita, le terapie di gruppo, le analisi, i concorsi, gli amori, le conferenze (quando la filosofa si inceppa e invece di dire peur, paura, dice père). Un professore, da bambina, profittava di lei; perché il padre non se ne è accorto? Forse, nell´anoressia, "non c´è nulla da capire"; avvisava la Sontag di non interpretare la malattia come metafora. Certo però ha tutto di un "sintomo". Certo "c´è stato un non-amore". Che cosa non ci viene detto? C´è anche, bellissima, una ricetta, "per vivere veramente dovremmo smettere di voler riparare il passato". Come abbiamo letto all´inizio, "sono anni che ho smesso di cercar di cambiare mio padre".

Repubblica 26.8.11
Al Meeting di Rimini tra i militanti di Comunione e Liberazione: fede, passione civile e la potenza economica di una holding
“Noi, il popolo di Dio”
di Michele Smargiassi

«E adesso voi relativisti come la mettete?». Incrocia le braccia, si dondola sulla sedia, stringe gli occhi e aspetta la risposta. La mettiamo, cosa? «Con Fukushima. Con Oslo. Col crollo delle borse…». Un terremoto, un pazzo assassino, una crisi economica: scusa, che c´entra il relativismo? Filippo sfodera un sorriso beffardo da "qui ti volevo", studia filosofia a Milano, ci sa fare con le parole: «Come fate a cavarvela con il vostro pensiero debole, il vostro scetticismo sistematico? Vi siete costretti a dubitare di tutto, e adesso avete paura di tutto».
L´auditorium B7 della Fiera di Rimini si riempie come un uovo, e sono diverse migliaia di posti. Da tre decenni il Meeting è l´ecclesìa ferragostana di Comunione e liberazione, il movimento più autosufficiente e solido della Chiesa cattolica, potenza che ama spesso ospitare i potenti, oggi Elkann e Marchionne, ieri Berlusconi e l´altroieri Tanzi e Gardini, che prega Dio e applaude il Capitale. Ma adesso migliaia di famigliole, di ragazzi, stanno correndo ad ascoltare un filosofo, Costantino Esposito, cantare le lodi di qualcosa che il denaro e i potenti non sanno più garantire: la Certezza. Un´ora di escursione sulle cime ostiche del pensiero («Mi capite? Mi state seguendo?») fino alla vetta: «La vera certezza è appartenere a Qualcuno». «Ho capito solo questo, ma per me è abbastanza», applaude convinta l´infermiera Ilaria di Padova.
È più che abbastanza. È una rivincita. Lungamente attesa. Alla trentaduesima edizione, il Meeting di Rimini mette da parte i titoli astrusi del passato per una frase trasparente e definitiva: E l´esistenza diventa una immensa certezza. Ripetuta ovunque, sulle pareti, sulle magliette, nei titoli delle conferenze, la certezza della scienza, la certezza nell´informazione… Frase pescata da un libro del fondatore don Giussani, fu scritta diversi anni fa, ma è venuto solo adesso il momento giusto per giocarla, calandola sul tavolo come una briscola nell´anno dello spaesamento globale, nell´estate del nostro scontento planetario.
(il seguito dell’articolo non è disponibile su Internet)

La Stampa 26.8.11
“Mr. Ikea, un vero nazista anche dopo la guerra”
Nuove rivelazioni in Svezia sul fondatore del gigante dei mobili economici
di Francesco Saverio Alonzo


LO SCANDALO SI RIAPRE I documenti dicono che aderì a un partito di estrema destra fino al 1955
IL PERDONO DEGLI EBREI Lo ha ottenuto dopo le prime ammissioni. Ma adesso tutto potrebbe ricominciare

STOCCOLMA. Ingvar Kamprad Ottantacinque anni, ha creato l’industria del mobile super-economico Ikea, che in Svezia è non solo un gigante economico ma quasi un elemento di identità nazionale. Le accuse di nazismo fanno male
Di lui si era già parlato in passato come di un giovane e ingenuo seguace del nazismo svedese, ma in un libro appena uscito, dal titolo «E nel Wienerwald sono rimasti gli alberi», la giornalista televisiva Elisabeth Aasbrink rivela particolari che addossano al fondatore di Ikea (l’azienda dei mobili a basso prezzo), l’ottantacinquenne Ingvar Kamprad, responsabilità ben più pesanti che, sia pure appartenendo a un’epoca passata, gettano su di lui ombre oscure che difficilmente possono essere diradate.
Nel libro della Aasbrink si rivela che Ingvar Kamprad non solo era iscritto al partito nazionalsocialista svedese con la tessera numero 4.014, ma faceva parte del gruppo d’azione Sss che aveva il compito di arruolare nuovi camerati, fra il 1941 e il 1945. La sua ammirazione per il leader del nazismo svedese, Per Engdahl, era sconfinata ed egli continuò ad aderire al partito neonazista che Engdahl fondò dopo la fine del secondo conflitto mondiale con la denominazione di «Nysvenska rörelse» (Movimento nuovo svedese) che divenne la fucina di movimenti di estrema destra.
Kamprad ammirava a tal punto Engdahl che in una recente intervista concessa appunto alla Aasbrink lo aveva definito «un grande uomo», pur asserendo di non condividerne le teorie naziste.
Elisabeth Aasbrink presenta, nel suo libro, dossier sino ad ora segreti dei servizi di sicurezza svedesi nei quali Ingvar Kamprad, già nel 1943, ossia quando aveva appena diciassette anni, era definito «nazista». Durante gli Anni Cinquanta, il Movimento nuovo svedese non seguiva le classiche linee naziste e anziché sulle differenze razziali si basava sulla cultura, attenuando l’atteggiamento antisemita.
Heléne Lööw, docente di storia all’università di Uppsala, spiega: «Intorno agli Anni Trenta-Quaranta, erano molti i giovani che cercavano un’identità politica ed erano facili prede della propaganda. Anche nei primi Anni cinquanta, si verificò un sbandamento sulla scia del contrasto fra Est ed Ovest. Ma il fatto che Kamprad abbia aderito, fino al 1955, al movimento neonazista approfondisce la conoscenza del suo carattere ed è strano che egli non ne abbia parlato prima, quando furono rivelate le sue simpatie giovanili per il nazismo. L’Ikea è quasi un'istituzione nazionale svedese ed è interessante discutere di questa materia».
Nel libro si parla di un ragazzo ebreo che, sfuggito allo sterminio, fu assunto come garzone dalla famiglia Kamprad e di come Ingvar fosse rimasto legato a lungo a lui da una profonda amicizia. «E io volevo sapere spiega la Aasbrink - come fosse possibile essere amico fraterno di un ragazzo ebreo e allo stesso tempo ammirare un tipo come Engdahl che era il massimo esponente svedese dell’antisemitismo e un acerrimo nemico della democrazia. Ma Kamprad mi disse: lo considero un grande uomo e continuerò a farlo per tutta la vita».
Sarebbe stata la nonna di Ingvar, Fanny Kamprad, originaria dei Sudeti, a destare nel futuro fondatore del colosso mondiale Ikea l’ammirazione per Adolf Hitler, che aveva restituito alla Germania la sua terra natale, ridando ordine al Paese.
Kamprad ricorda che in casa della nonna giungevano riviste eleganti a colori che, sotto la regia di Joseph Goebbels, illustravano i miracoli del nazismo.
L’impegno politico fra i 15 e i 26 anni viene definito dallo stesso Kamprad «un peccato di gioventù» e qui in Svezia sono in tanti a dire che la ragione della «persecuzione» di Kamprad affonderebbe le radici nel desiderio di mettersi in mostra da parte di giornalisti e scrittori e nell’invidia.
Contrariamente a quanto si è verificato in passato, quando si gettavano addosso ad Ingvar Kamprad accuse di ogni genere, l’Ikea si è trincerata dietro un «no comment» che suona stonato.
Bertil Torekull, che scrisse a suo tempo la biografia di Kamprad, dice: «Ingvar è per i massmedia svedesi un lecca-lecca che difficilmente si vuole lasciare. Ma non credo che queste nuove rivelazioni danneggeranno l’Ikea.
Quando il giornale Expressen svelò, verso la metà degli Anni Novanta, l’appartenenza di Kamprad al partito nazista, Ingvar inviò i suoi più alti funzionari a contattare la più importante lobby ebrea negli Stati Uniti, temendo un boicottaggio. Le sue scuse e la spiegazione che si trattava di un peccato di gioventù furono accettate e i suoi negozi non furono boicottati, non solo ma Ikea ha addirittura aperto un grande magazzino del mobile in Israele. Ma ho paura che certi personaggi che vogliono mettersi in mostra non lasceranno in pace Ingvar Kamprad finché egli sarà in vita».

Corriere della Sera 26.8.11
Duecento anni per riscrivere la Bibbia
«Il testo resta Sacro, ma ogni epoca ha moltiplicato gli errori. Noi li correggiamo»
di Francesco Battistini

GERUSALEMME — E Mosè disse: l'Altissimo disperse il genere umano «secondo il numero dei figli di Dio». Disse proprio così, nel Deuteronomio. Il numero dei figli di Dio. Ovvero tante divinità, non una sola. Un elemento di politeismo. Questo sembrano raccontarci oggi i Rotoli del Mar Morto, i più antichi manoscritti della Bibbia. Ma questo non ci tramandarono i masoreti, gli scribi che verso la fine del primo Millennio rilessero, ridiscussero, corressero il Vecchio Testamento. Si capisce: il politeismo era un concetto incompatibile, inaccettabile, insostenibile nel canto di Mosè. E allora, zac: invece d'interpretare, di dare una lettura teologica a quel passaggio, meglio tagliare, sbianchettare con un po' di monoteismo. E ricopiare in un altro modo: «Secondo il numero dei figli d'Israele», settanta come le nazioni del mondo, diventò la versione giunta fino a noi. Un ritocchino: «Come ne sono stati fatti parecchi — dice il biblista Rafael Zer della Hebrew University di Gerusalemme —. Per i credenti, la fonte della Bibbia è la profezia. E la sua sacralità rimane intatta. Ma noi studiosi non possiamo ignorare una cosa: che quelle parole sono state affidate agli esseri umani, sia pure su iniziativa e con l'accordo di Dio. E di passaggio in passaggio, gli errori ci sono stati e si sono moltiplicati...».
Una parola, la Parola. Sulla Bibbia si giura e si prega, nella Bibbia si spera e si crede. Ma quale Bibbia? Il Pentateuco Samaritano, la versione dei Settanta, la Vulgata, la Bibbia di Re Giacomo? Su uno dei più alti colli gerosolimitani, in una delle più grandi biblioteche del mondo, nella Hebrew University che fondarono Einstein e Freud, nel silenzio degli ulivi e al riparo da ogni curiosità — se chiedete al bidello dove si riuniscono, allarga le braccia e non sa dirvelo —, c'è un team di biblisti che da 53 anni ha l'ambizione di pubblicare l'ultima, definitiva, incontestabile stesura del Vecchio Testamento. «The Bible Project», l'Accademia della Bibbia. Decine d'esegeti, in gran parte ebrei, ma in consultazione costante coi colleghi delle università pontificie e di Friburgo. Riunioni mensili. Bollettini interni e totalmente riservati. La raccomandazione di non parlarne troppo in giro. Secondo un progetto tanto ambizioso quanto lento: in mezzo secolo sono usciti solo tre libri sui 24 della Bibbia ebraica (39 per i cristiani, che li contano in modo diverso), un quarto e un quinto sono imminenti. L'ultimo componente dell'originario comitato scientifico è morto poco tempo fa a 90 anni. E l'intera opera, si prevede, non finirà prima di due secoli: intorno al 2200, o giù di lì.
«È un lavoro enorme», spiega don Matteo Crimella, studioso milanese dell'Ecole Biblique vicina alla Porta di Damasco, che conosce il progetto: «Si riparte dal Codice di Aleppo, il più antico manoscritto masoretico, per offrire un testo critico con tutte le varianti possibili. La novità è che si tiene conto dei manoscritti di Qumran, facendo un salto di mille anni rispetto al Codice di Leningrado che è sempre stato la base di tutti gli studi. E si censisce, si compara il materiale disponibile in ogni parte del mondo». L'evoluzione della Parola attraverso i millenni.
Compulsando manoscritti ebraici, notazioni certosine, traduzioni greche, siriache, latine, copte, etiopi, papiri egiziani, edizioni veneziane cinquecentesche, testi pisani, amanuensi samaritani, rotoli in aramaico, perfino citazioni del Corano...
Picconando le certezze degli ultraortodossi che credono in una sola Parola divina, inalterata e inalterabile. Ogni pagina ha una riga di testo e una serie d'apparati: la traduzione alessandrina più antica, le lezioni basate sui testi del Mar Morto, le citazioni rabbiniche e del Talmud, le differenze di vocalizzazione, il commento. Facendo risaltare evoluzioni, correzioni, censure. Alcune volute, altre casuali. «Si sa che ogni testo biblico tramandato a mano o sotto dettatura non è mai uguale — spiega il professor Alexander Rofe, israeliano nato a Pisa, per quarant'anni docente della Hebrew University —. I testi del 400 a.C. erano come un imbuto rovesciato: per una parola che entrava, ne uscivano molte di più. Ma due secoli e mezzo dopo, accadde l'inverso. L'imbuto si rovesciò nell'altro verso. E nel Tempio qualcuno disse: ecco, questo è il testo ufficiale. Da lì, tutti i libri vennero corretti. E se un libro era molto divergente, non potendolo distruggere, lo si seppelliva. Fu in questo modo che si cominciò a riflettere sulla Sacra Scrittura, ma senza preservarla».
Una palingenesi di secoli. Così diventò la Bibbia. Dove a correzione s'aggiungeva correzione. Dove qualche setta ci metteva del suo. Dove i tardo-bizantini segnalarono le precisazioni ortografiche. Tanto che, verità ormai consolidata, il Vecchio Testamento che leggiamo oggi non è quello che leggevano in origine.
Nel Libro dei Proverbi, per esempio, quando una versione dice che il giusto è «saldo nella sua integrità», un'altra parla della «sua morte», introducendo un concetto d'aldilà caro ai Farisei: i due termini, molto simili, sono egualmente illustrati da «The Bible Project» con tutte le possibili interpretazioni. Altri casi? Il Libro di Geremia, hanno concluso i biblisti della Hebrew University recuperando frammenti qua e là, è più lungo d'almeno un settimo rispetto alla versione generalmente accolta. Con differenze non notevolissime, ma comunque differenze: alcuni versi, che riguardano una profezia sulla presa babilonese del Tempio, più che una profezia sembrano un'aggiunta successiva, a fatti compiuti.
L'Accademia della Bibbia di Gerusalemme non è sola. Progetti paralleli, e altrettanto autorevoli, procedono in Germania e a Oxford. Ma nessuno sembra avere la stessa pretesa di completezza e di monumentalità. «Di sicuro, siamo di fronte alla più estesa edizione critica del Vecchio Testamento mai tentata nella storia», certifica il professor David Marcus, del Seminario teologico ebraico di New York, sostenitore del progetto. Nel 1958, quando Michael Segal riunì per la prima volta il comitato di studi sulla collina della città sacra alle tre religioni, annunciò che «quello che stiamo facendo dev'essere nell'interesse di chiunque abbia interesse alla Bibbia». Nemmeno lui profetizzò tanta difficoltà e lentezza, anche se poteva immaginarlo: niente sarebbe stato facile, per recuperare gli antichi documenti. Mentre parlava, da Aleppo arrivò in Israele il famoso Codice su cui cominciare gli studi. Per miracolo, era stato salvato dall'incendio d'una sinagoga siriana. E di contrabbando, nascosto dentro un elettrodomestico e sotto uno strato di latticini, a riportarlo nel mondo dei biblisti era stato un messaggero che nessun Malachia o Isaia avrebbe mai profetizzato: un commerciante di formaggi.

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