venerdì 5 agosto 2011

il Venerdì di Repubblica 5.8.11
Viaggi pensierosi
Derrida
L’eterno giramondo che seguiva il destino facendo 31 chilometri
di Maurizio Ferraris

qui
 

il Venerdì di Repubblica 5.8.11
Inconscio
Il pilota nascosto che guida la mente
di Giuliano Aluffi

qui

il Venerdì di Repubblica 5.8.11
Quelle notti della taranta neel’Italia del boom
Ernesto De Martino 50 anni fa pubblicava La terra del rimorso

di Marino Niola
qui

il Fatto 5.8.11
Bonelli attacca Vendola: “Rischi pesantissimi”
Taranto dei veleni, lavoro contro salute
Caso Ilva, i carabinieri chiedono il sequestro ma l’impianto continua a produrre (e a inquinare)
di Ferruccio Sansa


Si ritiene necessaria l’emissione di un provvedimento cautelare reale, diretto all’evitare di protrarsi di attività illecite descritte nel-l’arco di 40 giorni di monitoraggio. È altresì fondamentale richiamare l’azienda agli obblighi di legge”. Il rapporto del Nucleo Operativo Ecologico (Noe) di Lecce (di cui Il Fatto è in possesso) è un macigno, perché l’azienda di cui si riferisce ai pm di Taranto è l’Ilva. Si richiede il sequestro dell'impianto di Taranto, che occupa 11.500 persone e produce il 70% del pil della provincia.
LAVORO contro salute: la gente sa che l’inquinamento entra nei suoi polmoni, con ogni respiro. Hanno paura gli abitanti e i lavoratori dell’Ilva, stretti tra il posto di lavoro e le giornate passate a 50 gradi nella cokeria. Timori confermati dalla Procura: disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose, inquinamento atmosferico sono i reati per i quali sono indagati tra gli altri Emilio Riva, 84 anni, presidente dell’Ilva sino al 2010, e Nicola Riva, attuale presidente. Accuse che gli imprenditori respingono (Il Fatto ieri ha cercato di raccogliere la versione dell’Ilva, senza risposta).
 Difficile dire che cosa sia più pesante per i cittadini di Taranto che vivono all’ombra dei 220 metri della ciminiera E 312 (la più alta d’Europa): se i timori per la salute e per il lavoro. O l’insicurezza: il 5 luglio è stata chiusa l’istruttoria per dotare l’Ilva del certificato Aia, l’Autorizzazione Integrata Ambientale. In molti hanno gridato a una vittoria per l’ambiente e la salute. Ma ecco arrivare l'allarme dei Noe.
A chi devono credere gli abitanti del quartiere Tamburi, case basse, colori spenti dalla polvere che si accumula su facciate, serramenti, vestiti stesi? Per capire bisogna guardare Taranto da lontano: l’orizzonte segnato dal fumo delle ciminiere, l’aria scura e l’acciaieria grande il doppio della città, a ridosso delle case.
 Un medico disse una volta: “O si sposta l’acciaieria oppure Taranto”. Pare impossibile dipanare il nodo. Mancano dati ufficiali sulla diffusione delle malattie, l’efficacia dei controlli – quando ci sono – è contestata. Il punto di partenza potrebbe essere il rapporto dei Noe: “Sono state osservate… consistenti emissioni riconducibili allo “slooping”, all’utilizzo improprio di sei torce al servizio delle acciaierie”. Segue una tabella con decine di episodi con “una nube rossastra… eccezionale e imponente”. I Noe parlano anche di “intense emissioni non convogliate… capaci di propagarsi oltre i confini dell’Ilva” derivanti dal riversamento sul terreno di scorie per raffreddarle. Si apre un nuovo capitolo sulle “emissioni diffuse”, che sfuggono finora ai controlli. Gli investigatori richiedono “il sequestro degli impianti”.
 Ma allora è giusto concedere l’Aia all’Ilva? Da una parte si schierano la Regione di Nichi Vendola e i sindacati, dall’altra ambientalisti e comitati. “L’autorizzazione mette delle certezze, toglie ogni alibi all’Ilva”, è convinto Rosario Rappa, segretario generale della Fiom Cgil. “Con l’Aia – assicura Lorenzo Nicastro, assessore regionale all’Ambiente – entreranno in vigore limiti emissivi più bassi rispetto a quelli vigenti, in linea con le migliori tecnologie disponibili”. Gli ambientalisti e i comitati contestano: “Si dà una patente di legittimità a un impianto che porta rischi pesantissimi”, è sicuro Angelo Bonelli, presidente dei Verdi. Pierfelice Zazzera (Idv) fa un elenco delle emergenze: “I parchi minerari, colline di sostanze tossiche che appena viene il vento finiscono nei polmoni, sono senza copertura come invece avviene all’estero. I famosi filtri per la ciminiera E312 non funzionano”.
 Fabio Matacchiera, un insegnante che guida il Fondo Anti-diossina aggiunge: “Non ci sono solo le emissioni dei 200 camini dell’acciaieria, ma anche i fumi diffusi non censiti. Poi c’è il nodo dei controlli. Gli uomini dell’Arpa, dai cancelli impiegano novanta minuti per arrivare alla ciminiera. Abbastanza per consentire, a chi lo volesse, di ridurre le emissioni. I campionamenti avvengono poche volte all’anno e di giorno” .
 Dalla cronaca notizie allarmanti. L’anno scorso sono state abbattute 650 pecore imbottite di diossina: pascolavano entro il limite di 20 chilometri dall’acciaieria fissato dalla Regione. Poi le analisi Asl rivelano presenze di policlorobifenili nelle acque del Mar Piccolo. Scatta il divieto di allevare le cozze: 24 operatori su 103 rischiano il lavoro.
 COSÌ SI VIVE a Taranto, dove la diossina si è accumulata per decenni nella terra, nell’acqua. Nell’aria che respiri. Ricorda Rappa: “Ci vuole un risanamento drastico. Ma il Governo ha destinato ad altro i soldi già stanziati”. Interessi enormi ruotano intorno al più grande impianto siderurgico del Paese. Non c’è da stupirsi se chi si schiera va incontro a minacce, anche di morte. Su tutto regna l’incertezza. Nel 2010 il Governo vara la legge “salva-Ilva” che rimanda al 2013 l'obiettivo di un nanogrammo per metrocubo di benzo(a)pirene in aria. La Regione risponde con una norma che prevede limiti più stringenti. “Bene – commenta Rappa – ma occorre dare mezzi all’Arpa per i controlli”.
 Qui si innesta la polemica di ambientalisti e comitati con la Regione: “Vendola annuncia novità che non ci sono. Si continuerà a morire”, sostiene Bonelli. Al governatore si attribuisce un atteggiamento morbido nei confronti dei Riva. Lui, Vendola, risponde così: “Abbiamo imposto all’Ilva una normativa drastica di riduzione delle diossine e poi una normativa anti-benzoapirene, portando controlli a tappeto su tutto il territorio”. Aggiunge: “Dobbiamo uscire dalla contrapposizione tra rispetto dell’ambiente e salvaguardia del lavoro. Non si tratta di cercare un compromesso bensì di conseguire il rispetto delle regole e imporre i giusti livelli di tutela ambientale”.
 I sindacati lo sostengono. Ma Rappa (Fiom) precisa: “In passato abbiamo difeso il posto di lavoro a scapito della salute. Oggi no, speriamo di salvare sia l’industria che la salute. Si può”. Gli ambientalisti non credono più a questa terza via. E neanche molti cittadini.

il Fatto 5.8.11
Viaggio tra i cuori neri che hanno conquistato il Nord
Svezia, alle radici della rabbia xenofoba
di Nicholas Kulish


Landskrona (Svezia) La famiglia Ahlgren, che vive nella cittadina industriale di Landskrona, ci aiuta a fare luce sulle ragioni della rabbia che ha favorito l’ascesa dei partiti xenofobi europei anche in Scandinavia.
 Michael Ahlgren, licenziato poco prima di Natale dalla Croce Rossa dove lavorava nella sicurezza, ha il tatuaggio della bandiera svedese sulla spalla sinistra e ha votato per i Democratici Svedesi, un partito nazionalista che alle comunali del 2006 ha ottenuto quasi il 25% dei voti. Michael e sua moglie non hanno peli sulla lingua: il governo spende denaro per i profughi, dicono, mentre la qualità della mensa scolastica delle figlie è scadentissima e non prevede la carne di maiale per non offendere la sensibilità dei musulmani.
 Ciò nonostante in città gli elettori che per primi hanno fatto suonare in Svezia il campanello d’allarme sulla gravità del sentimento anti-immigrati, stanno cominciando ad allontanarsi dal partito anche perché i principali partiti nazionali hanno fatto propri alcuni dei temi cari ai Democratici Svedesi. Landskrona, che festeggerà 600 anni nel 2013, è in prima linea nella battaglia per il futuro del Paese.
 DA ANNI la città soffre di tutti i mali delle moderne società occidentali: una popolazione sempre più vecchia, un numero sempre maggiore di immigranti e il tramonto delle industrie tradizionali. E naturalmente tutto questo sta mettendo in pericolo il famoso modello dello Stato sociale svedese tollerante e generoso. Lo scorso autunno il partito di estrema destra ha ottenuto per la prima volta 20 seggi nel Parlamento nazionale non solo battendo il tasto della disoccupazione, ma anche a causa di un diminuito senso dell’appartenenza a una comunità nazionale, della crescente criminalità e della sensazione diffusa tra molti svedesi che il governo abbia esagerato nelle politiche di accoglienza di profughi e immigrati.
A Landskrona un terzo della popolazione è costituito da immigrati e il tasso di disoccupazione supera il 10% rispetto al 6% nazionale. “Qui ci sono tutti i problemi tipici della transizione da una società industriale ad una post-industriale”, dice il professor Tapio Salonen che ha scelto questa città per uno studio di tre anni sui mutamenti economici e sociali. “Landskroma è il futuro”. Quando i cantieri Oresund, che davano lavoro a quasi tutta la città, chiusero i battenti nel 1981, molti se ne andarono in cerca di lavoro e gli appartamenti vuoti furono occupati in gran parte da profughi provenienti dall’ex Jugoslavia, prima, e dall’Iraq, dopo.
 IL MASSACRO del mese scorso in Norvegia ha indotto molti europei a porsi qualche interrogativo. Un esponente dei Democratici Svedesi ha dichiarato che la tragedia non sarebbe avvenuta in una “Norvegia norvegese”. Le polemiche sono state furibonde e lo stesso partito ha preso le distanze. Il segretario del partito, Bjorn Soder, condanna l’atto “insensato” di Anders Breivik. Fino al 1995 il segretario del partito era Anders Klastrom, con un passato neo-nazista. Oggi i Democratici Svedesi hanno posizioni più aperte su questioni quali i diritti dei gay e non sono più sostenitori della pena di morte. Soder ribadisce che gli immigrati debbono integrarsi nella società svedese e respinge l’ipotesi secondo cui il successo elettorale del suo partito si deve al voto di protesta del ceto medio: “Stando ai sondaggi abbiamo una base di simpatizzanti che concordano con la nostra piattaforma politica”, dice Sober. In seno al consiglio comunale di Landskrona molti provvedimenti passano con il voto dei Democratici Svedesi. “In passato si rispondeva meccanicamente no a tutte le loro richieste”, dice il presidente del Consiglio comunale, Torkild Strandberg: “Ma era un atteggiamento sbagliato”. Alle comunali del settembre 2010, i Democratici Svedesi hanno perso tre seggi passando dal 22,8% del 2006 al 15,8%. Nello stesso periodo, su base nazionale, hanno raddoppiato i voti. Secondo alcuni qui, coinvolgerli nella gestione della cosa pubblica è la strada giusta, quella che fa dire al costruttore di Landskrona Bengt Persson: “Per lo meno adesso ci ascoltano”.
(c) The New York Times News Service & Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 5.8.11
Mediterraneo, tomba per seimila disperati negli ultimi sette anni
Secondo “Fortress Europe” da gennaio a luglio di quest’anno nel Canale di Sicilia hanno perso la vita quasi duemila migranti
di Marzio Cecioni


Da culla di civiltà a tomba per i poveri del mondo. In questo si è trasformato il Mediterraneo. Quasi due mila persone hanno perso la vita negli ultimi sette mesi: uomini, donne e bambini che cercavano una vita migliore in occidente scappando da guerre, carestie e povertà e invece se li è presi il mare. Il racconto dei migranti soccorsi ieri a Largo di Lampedusa, che hanno parlato di decine di cadaveri gettati a mare, conferma che il Canale di Sicilia continua ad inghiottire vite da vent’anni. Ma nel 2011, stando ai dati di Fortress Europe il blog di Gabriele del Grande che tiene il conto di vittime accertate e dei “fantasmi” partiti soprattutto da Libia e Tunisia e mai arrivati si è battuto ogni record: 1.674 tra vittime e dispersi da gennaio al 31 luglio. 239 morti al mese, 8 al giorno. E considerando che cifre ufficiali non ce ne sono, i numeri potrebbero essere maggiori. La maggior parte delle vittime e dei dispersi proveniva dall’area sub sahariana ed era partita dalla Libia in guerra. In molte occasioni, non per scelta: diversi profughi arrivati a Lampedusa in questi mesi hanno infatti raccontato che o combattevano con il regime o si imbarcavano, spesso su carrette stracolme e senza pilota. Secondo Fortress Europe, dal 1994 quasi 6mila disperati hanno trovato la morte nel Canale di Sicilia: ben più della metà (4.547) risultano dispersi. Ecco l’elenco dei principali naufragi nel 2011. 11 febbraio: 40 immigrati dispersi; 14 febbraio: 22 dispersi; 14 marzo: almeno 60 persone erano a bordo di un barcone naufragato non lontano dalla Tunisia. 30 marzo: altro naufragio nel Canale di Sicilia e 7 persone morte, tra le quali una donna incinta e un bambino. 22 marzo: un barcone con 335 somali ed eritrei parte dalla Libia, ma nessuno dei passeggeri risulta sopravvissuto. 25 marzo: nessuna notizia anche di un barcone con 68 persone a bordo. 1 aprile: vengono ritrovati i cadaveri di 27 tunisini, di età compresa tra i 19 e i 23 anni. 3 aprile: 70 corpi sono stati recuperati dopo un naufragio davanti alle coste di Tripoli. 6 aprile: un barcone si rovescia nella notte in acque maltesi. Salvati in 51, ma a bordo erano circa 300. 6 maggio: un barcone con oltre 600 migranti è naufragato all'alba davanti alle coste libiche. Centinaia i dispersi. 2 giugno: almeno 270 dispersi. 1 agosto: 26 cadaveri vengono trovati in un barcone arrivato a Lampedusa.

l’Unità 5.8.11
Salva con nome
Creative Commons: la via moderna al diritto d’autore
di Carlo Infante


Creative    Commons    (comunemente siglato CC) è un nuovo protocollo giuridico relativo all’uso delle opere di creatività per la condivisione e l’utilizzo pubblico. Intorno a questo processo si è creato un vastissimo movimento d’opinione che ha visto protagonista Lawrence Lessig (ora consigliere di Obama) per l’affermazione degli open content, i contenuti aperti alle pratiche creative del remix e del riuso. Le leggi sul copyright inibiscono questi processi ed è per questo che la mission di Creative Commons, nato negli Stati Uniti a cui è, da qualche anno, affiliato Creative Commons Italia, stabilisce dei nuovi margini per l’uso creativo e condiviso delle opere di ingegno altrui nel pieno rispetto delle leggi. Si risponde alla rigidità del modello del copyright che afferma tassativamente “all rights reserved” (tutti i diritti sono riservati) con un nuovo concetto,“some rights reserved” (alcuni diritti sono riservati), proteggendo gli autori dagli abusi commerciali. Le licenze di tipo Creative Commons creano le condizioni per cui chi detiene diritti di copyright possa rilasciare parzialmente alcuni diritti e allo stesso tempo conservarne altri, grazie a una varietà di licenze che includono la destinazione di un bene privato al pubblico dominio.
Queste riconfigurazioni del vecchio diritto d’autore dovrebbero essere la risposta alla questione sollevata dalla AGCom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) che ha minacciato di censurare le informazioni on line che violino il copyright. Le reazioni sono state fortissime: non si tratta di legittimare piraterie e abusi del diritto d’autore bensì di aprire un dibattito parlamentare, politico a tutti gli effetti, sia sulla protezione dei contenuti sia sulla libertà di internet.
Va ripensata una disciplina del diritto d’autore che non si aggiorna dal 1941, inscrivendola nel contesto del web che sta creando straordinarie opportunità di nuova produzione culturale.
Si deve quindi riconoscere un sostanziale diritto degli autori delle opere d’ingegno che troppo spesso la Siae non sa contemplare, concentrata sul premiare pochi benemeriti e su logiche restrittive irragionevoli. Allo stesso tempo va incentivato il libero accesso ai contenuti in rete, per estendere una diffusione sempre più ampia dell’informazione culturale, favorendo sia gli autori sia gli utenti di quel “metamedium” che è internet, piattaforma che ricombina le informazioni, arricchendole del valore d’uso di chi le interpreta con creatività, come accade nel cosiddetto remix.
Gli scenari in cui circola la cultura, nelle sue diverse forme, da quella musicale a quella letteraria, stanno cambiando radicalmente e in questa mutazione risiede sia la nascita di una nuova cultura sia la possibilità di rilanciare le prospettive per possibili nuovi mercati.

l’Unità 5.8.11
Il dossier, all’indomani della morte del piccolo George, folgorato da un cavo in una roulotte
Il flop del sindaco. Avevano parlato di «una rivoluzione copernicana», non si è visto nulla
Il piano rom era solo uno slogan
L’ultimo fallimento di Alemanno
Nel tentativo di «ridefinire gli spazi attrezzati» l’operazione voluta dal sindaco di Roma ha prodotto solo «problematiche legate alla salute e alla sicurezza. E più di 30 bambini hanno perso la scuola».
di Luciana Cimino


George, che a fine agosto avrebbe compiuto un anno, è stato l’ultimo. Prima erano morti Raul, Fernando, Patrizia e Sebastian. Per i quattro fratellini carbonizzati in un campo abusivo di via Appia si commosse il presidente della Repubblica che volle incontrare la famiglia. E prima ancora c’era stato Marius, 3 anni, anche lui ucciso dal fuoco nella baracca dove dormiva. Sei bambini rom morti in un anno nella Capitale. E davanti a queste tragedia l’amministrazione comunale chiede alle comunità rom una maggiore «tutela dei loro figli, prima istanza di tutti i genitori» che passa, secondo il delegato alla sicurezza del sindaco, Giorgio Ciardi, «per l’adozione di stili di vita e comportamenti nuovi e corretti». È ovviamente con le condoglianze alla famiglia del piccolo George, Alemanno, vicesindaco Belviso e Ciardi assicurano che «il piano nomadi sarà portato a termine».
Ma a che punto è questo piano, vanto e croce della capitale targata centrodestra, varato a luglio del 2009 cavalcando l’onda emotiva dell’omicidio Reggiani? Alemanno parlò all’epoca di «rivoluzione copernicana», Maroni addirittura di «modello romano da esportare». A distanza di due anni quanto è stato fatto? Quanto è costato fino adesso e quanto si è dimostrato efficace?
Prova a mettere insieme numeri e dati l’associazione 21 Luglio che si occupa di diritti umani e in particolare di minori rom. L’associazione sta preparando un dossier che boccia senza appello sindaco e Giunta. «Un piano discriminatorio, segregativo, che sperpera soldi pubblici inutilmente, che viola costantemente i diritti umani, irrazionale, inefficace», e soprattutto che sta ancora al punto di partenza, nonostante i proclami, sintetizza Carlo Stasolla, presidente di 21 Luglio. «Roma ha ricevuto una montagna di soldi per questo piano: 34 milioni di euro, per prima cosa hanno fatto un censimento con cui spiega Stasolla hanno stabilito che la città poteva “tollerare” fino a 6000 rom, ma una città può mettere un numero chiuso su base etnica?». Alemanno vuol farsi vedere operativo e comincia con gli sgomberi, forse sperando in un ritorno di immagine. «Dagli 80 insediamenti informali che sarebbero dovuti essere smantellati si è passati ai 249 registrati nel maggio 2011. Sono stati più di 400 gli sgomberi forzati realizzati dall’amministrazione comunale con una spesa stimata di 5 milioni di euro». In pratica dopo gli sgomberi gli accampamenti abusivi si sono riformati perché le alternative non c’erano. E le soluzioni previste dal piano nomadi? Quello che tutta Europa ci doveva invidiare? «Secondo il Piano spiega ancora l’associazione si sarebbe dovuto provvedere alla costruzione di nuovi “villaggi attrezzati” perimetrati, videosorvegliati e controllati da vigilanza armata oltre ai 7 già presenti. In realtà lo sgombero del Casilino 900 e de La Martora hanno prodotto una ridefinizione demografica nei 7 villaggi attrezzati già esistenti con un incremento medio di circa il 30% della popolazione residente. La prima conseguenza è stata il grave abbattimento degli spazi vitali che ha portato all’insorgenza di problematiche legate alla salute e alla sicurezza, oltre al fatto che più di 30 bambini hanno perso la scuola».
NESSUN VILLAGGIO REALIZZATO
Ma il vero dato è che «nessun nuovo villaggio è stato realizzato e l’unico in fase di costruzione è quello de La Barbuta situato tra l’altro in una zona archeologica sopra una falda acquifera e all’interno del cono di volo del vicino aeroporto. Solo per i rilievi archeologici e per la bonifica necessaria (sarebbe stata riscontrata la presenza di amianto) è stata già spesa la cifra di 1.530.000,00 euro». Niente di fatto neanche per la struttura di transito: «Non è stata mai realizzata denuncia l’associazione al contrario sono stati aperti tre centri di accoglienza in cui sono accolti più di 500 rom con una spesa annua di gestione di circa 4 milioni di euro». Secondo i calcoli di 21 Luglio quindi il Campidoglio avrebbe già speso 24 dei 34 milioni previsti per il Piano. «I soldi stanno finendo senza fare nulla». E poi c’è il versante dei diritti umani. «In un rapporto del 2010 Amnesty afferma che quella di Alemanno è una risposta sbagliata, noi diciamo che ci sono una serie di violazioni infinite». Nota Stasolla: «Concentrare le persone in un posto su base etnica è come dire che tutti gli ebrei di Roma devono vivere in un ghetto, sarebbe concepibile oggi?». Secondo 21 Luglio «per gli sgomberi esistono delle convenzioni internazionali che vengono disattese, il fotosegnalamento non andrebbe fatto ai cittadini italiani e a chi è già in possesso di documenti, così com’è è una schedatura. I regolamenti dei campi, che sono militarizzati, violano i diritti alla privacy, alla salute, all’istruzione».
L’associazione vede nero sul futuro dei rom che vivono nella Capitale. «Con Alemanno non se ne esce, ma dubitiamo che le cose cambino anche con una giunta diversa. Nessuno candidato a sindaco vince le elezioni annunciando “voglio dare le case ai rom”. Occorre coraggio politico, si ottiene più consenso con la paura».

La Stampa 5.8.11
Cirenaica 1941 C’erano ancora i lager italiani
Dopo la conquista di Bengasi sono stati aperti gli archivi Spunta un documento su tre greci internati per spionaggio
di Lucia Annunziata


Ifratelli si chiamavano Nicola, Leonida e Stati, di cognome Nikoforais. Greci, dunque «cittadini di una nazione alleata all’Inghilterra», ma abitanti a Bengasi. Contro di loro «nessuna prova è stata riscontrata», ma ugualmente, il 23 settembre del 1941, il capitano dei CC.RR. Giovanni Agrigento, ne propone «l’internamento in un campo di concentramento». «Campo di concentramento»: la più cupa idea del Secolo Breve, indicata con burocratica indifferenza, rispunta in questi giorni su un documento italiano in Libia, ritrovato in un archivio di Bengasi, facendo riaffiorare dal dimenticatoio la storia di una famiglia e un altro frammento di verità sul passato imperiale italiano in Africa.
Il documento di cui parliamo è una nota dell’Ufficio Speciale di Istruzione di Polizia, di Bengasi, inviato, secondo la intestazione «Alla Regia Prefettura e Al Regio Avv Mil Tribunale Speciale per la difesa dello Stato in Libia». È stato trovato a Bengasi, insieme ad altri documenti di archivio, grazie alla ricerca di due uomini coraggiosi, uno dei quali è rimasto ucciso nel conflitto libico. Parliamo di Peter Bouckaert, che è il capo della Emergencies Unit (il gruppo che viene inviato nelle emergenze) di Human Right Watch, e Tim Hetherington, fotografo inglese che nel 2010 aveva avuto una nomination all’Oscar per il suo documentario «Restrepo» sulla Guerra in Afghanistan.
Hetherington è rimasto ucciso in aprile a Misurata nel corso di un bombardamento delle forze di Gheddafi. I due sono stati in Libia dall’inizio del conflitto, e insieme si sono concentrati sulla apertura degli archivi dopo la conquista da parte dei ribelli della municipalità di Bengasi. L’apertura degli archivi è uno dei momenti più importanti di ogni Guerra, di ogni caduta di potere: è lì dopotutto che è celata la verità su quello che è successo – basti ricordare qui, tanto per restare ai tempi recenti, all’importanza che ha avuto l’accesso agli archivi iracheni dopo la caduta di Saddam. Per Human Right Watch, che è la maggiore organizzazione internazionale di monitoraggio dei diritti umani, è di solito uno dei primi compiti.
In quello di Bengasi erano custoditi materiali inediti che rivelano oggi di cosa era davvero formato il consenso entusiastico intorno al raiss. Dagli scaffali saltano fuori infatti, insieme alle foto celebrative, anche le sconvolgenti riprese di alcuni esecuzioni: la più crudele (e significativa) è datata 1984 – cioè l’altro ieri in termini di periodo storico.
«Era un giorno di sole intenso. Migliaia di studenti di ogni classe erano stati trasportati in autobus allo stadio di basket di Bengasi racconta Bouckaert - al centro del quale c’è un giovane con tanti ricci scuri, una barba corta, che in ginocchio chiede pietà». Il giovane si chiama Sadiq Hamid Shwehdi, ha 30 anni ed è accusato di aver fatto parte di un complotto per uccidere Gheddafi. Un complotto ordito, secondo l’accusa, dai Fratelli Musulmani per conto degli Stati Uniti. Il filmato è su pellicola, sgranato dal tempo, in bianco e nero, e il condannato piange, solo al centro dello spazio del campo di basket, e confessa i suoi crimini,ma la sentenza viene eseguita comunque. La folla applaude. Una giovane donna si distingue per il suo entusiasmo per l’esecuzione, al punto da spingersi avanti a tirare una delle gambe che il condannato sbatte in aria mentre viene appeso per il cappio. Il cartellone dei risultati delle partite fa da sfondo anche a questo ennesimo lavoro di Huda Ben Amer, il boia preferito del Colonnello Gheddafi. Ben Amer ha lasciato la sua Bengasi solo pochi mesi fa, dopo la caduta della città in mano ai ribelli.
L’esecuzione di Shwehdi è parte di dodici simili condanne eseguite dopo un fallito attacco al Colonnello da parte del Fronte Nazionale di Salvezza della Libia, cui seguirono migliaia di arresti e queste spettacolari esecuzioni portate a termine, con ironica scelta, durante il Ramadan.
Il materiale italiano viene alla luce insieme a tutti gli altri – si tratta di un fascicolo intero e di alcuni fogli separati. Bouckaert legge l’italiano a sufficienza per capirne l’interesse e ce lo invia. Dalle carte risulta bene soprattutto una storia, quella dei tre fratelli greci, dalla quale, pur sotto il peso del greve linguaggio burocratico, viene fuori il clima di sospetto, ma anche di insicurezza, degli italiani in Libia. Questi tre fratelli hanno un negozio di fotografie nella piazza più importante di Bengasi, dedicata all’ammiraglio Cagni. Ci sono anche due sorelle che, come si vede dai documenti, a un certo punto vengono anche loro arrestate, ma poi rilasciate per mancanza di ogni indizio di crimine.
Il business dei Nikoforais va molto bene. All’epoca, va ricordato, le foto sono l’ultimo grido della tecnologia – l’intero secolo, si può dire, con i suoi conflitti e i suoi poteri totalitari, ha dato un’enorme spinta allo sviluppo di ogni attività su pellicola. Film e foto per la prima volta lasciano un corredo di testimonianze storiche, ma anche private: proprio le campagne d’Africa, con tutto il loro esotismo, concorrono a suscitare l’entusiasmo dei militari che inviano a casa migliaia di immagini. Le foto sono anche per la prima volta usate per le carte di identità diventate obbligatorie in aree di conflitto e in continenti attraversati da flussi migratori.
Anche a Bengasi i militari fanno la fila per entrare nel negozio e farsi fotografare. Il Circolo degli Ufficiali è tra Piazza Cagni e Via Torino, e il centro è un viavai continuo di giovani ufficiali agghindati nelle loro bianche uniformi e accompagnati da eleganti signorine.
L’attività va così bene che se ne accorgono anche le autorità e i soldati italiani. Sarà invidia, sarà sospetto nei confronti di cittadini stranieri, fatto è che arriva più di una segnalazione sul comportamento «ambiguo» (dice un documento) dei fotografi. Tuttavia, le autorità non trovano nessuna prova di «spionaggio» e archiviano la pratica. Viene poi l’attacco inglese a Bengasi, la fuga di molti italiani, la sconfitta per le nostre truppe, cui seguono i 56 giorni di «occupazione» inglese della città. È il 1941. Una occupazione breve che ancora oggi viene discussa dagli storici: perché gli inglesi si fermano e non vanno a Tripoli? Quando gli italiani riprendono il controllo della città si è ormai in piena mentalità di guerra. I fratelli greci vengono immediatamente arrestati, anche alla luce del fatto che durante l’occupazione, leggiamo sul documento dell’internamento, «hanno ottenuto dagli inglesi l’esclusiva delle foto tessera per la carta di identità obbligatoria», con «evidente vantaggio economico». Dopo questo contatto con i nemici, anche il passato sembra spiegarsi meglio, consolidando la convinzione che le foto negli anni «sono servite a schedare tutti i soldati italiani» per passare informazioni agli inglesi.
Anche di questo servizio di spionaggio non c’è prova. Ma ormai la guerra galoppa e la vecchia Bengasi è decisamente finita, con i suoi ufficiali in bianco, le sue partite di pallone e i suoi sogni di gloria. Alla fine, forse, quel negozio non aveva nemmeno più senso. I fratelli vanno nel campo di concentramento italiano. Nessun documento ci informa come e se ne sono mai usciti.

La Stampa 5.8.11
Intervista
“Credevamo che i campi fossero già stati chiusi”
Lo storico Del Boca: negli Anni 30 Balbo provò a smantellarli
di Paolo Mastrolilli


L’ esistenza dei campi di concentramento italiani in Libia era conosciuta, ma il fatto che fossero ancora aperti negli Anni 40 è una notizia. Le informazioni più interessanti che potrebbero ancora uscire dagli archivi di Tripoli, però, riguardano secondo me soprattutto i rapporti economici che abbiamo avuto con la Libia dopo la guerra». Lo storico Angelo Del Boca è un’autorità in materia: nessuno ha studiato la presenza italiana in Libia come lui. Perciò gli abbiamo chiesto di aiutarci a mettere nel contesto i documenti trovati da Human Rights Watch a Bengasi.
Che cosa si sa dei campi di concentramento?
«Erano una quindicina. Li avevano aperti negli Anni 30 Graziani e Badoglio, per combattere l’insurrezione di Omar el Mukhtar. Siccome l’esercito italiano non riusciva a sconfiggerlo, Graziani decise di fargli terra bruciata intorno, deportando l’intera popolazione della Cirenaica che lo sosteneva. Circa centomila persone furono rinchiuse nei campi e molte migliaia morirono. Alla fine lo stesso Omar el Mukhtar venne catturato e fu impiccato nel 1931 proprio a Soluch, uno di questi campi».
Soluch è anche la prigione dove nel 1941 la polizia italiana di Bengasi chiede di internare i fratelli greci Nikoforais, accusati di collaborare con gli inglesi.
«Questo dimostrerebbe che il campo era ancora aperto, ed è una novità. Dopo l’uccisione di Omar el Mukhtar, infatti, quei centri di detenzione avevano perso il loro scopo. Balbo, quando era diventato governatore della Libia, aveva deciso di cambiare completamente politica, anche perché odiava Graziani, e in parte lo stesso Mussolini. Tra le sue decisioni c’era stata anche quella di chiudere i campi di concentramento».
Come mai allora Soluch era ancora aperto nel 1941?
«Probabilmente a causa della guerra, che aveva riproposto la necessità di avere campi per i prigionieri. Del resto eravamo impegnati in un conflitto totale, anche se sbagliato, e avevamo il diritto di difenderci. Gli stessi inglesi avevano aperto campi per i prigionieri italiani in Egitto, Kenya, Sudafrica e India. Non era raro che in queste strutture finissero collaboratori e spie, che c’erano da una parte e dall’altra».
La scoperta di questi documenti a Bengasi significa che l’eventuale caduta di Gheddafi potrebbe far emergere nuove verità?
«A Bengasi si può trovare poco, piccole operazioni locali di polizia. A Tripoli potrebbe esserci qualcosa in più. Tempo fa, visitando il castello della città, entrai in una stanza dove c’era una montagna di fascicoli sull’epoca coloniale e la dominazione britannica: un omino veniva ogni tanto a metterne in ordine qualcuno. Informai il ministro degli Esteri, Andreotti, che mandò una delegazione per recuperarli. Gheddafi, poi, ha fatto registrare circa 30 mila cassette di interviste con i familiari delle vittime della politica coloniale italiane: io ne avrò sentite sessanta o settanta, ma il resto è ancora inedito».
Quali sono le informazioni più interessanti che la Libia potrebbe ancora rivelare?
«Sul periodo coloniale e la guerra sappiamo già molto, e non credo che Gheddafi avesse interesse a nascondere qualcosa. Però mi piacerebbe molto sapere come hanno investito i loro soldi ricavati dal petrolio, e che tipo di relazioni economiche hanno stabilito con l’Italia dopo il conflitto. Ad esempio sul rapporto con l’Eni, da Enrico Mattei in poi, ci sono sicuramente parecchie cose interessanti da scoprire negli archivi della Libia».

Nessun commento:

Posta un commento