giovedì 18 agosto 2011

l’Unità 18.8.11
Il caso Le raccolte di firme, l’appello dell’Anpi e il Pd in campo contro la soppressione delle feste laiche
Reazioni Magherita Hack: «Una vergogna». Articolo 21: «Vogliono regolare i conti con la Costituzione»
25 aprile, ora la rivolta corre sul web «Non rubateci la storia»
C’è chi, come il sindaco di Senigallia, dichiara la «disobbedienza civile»: «Qui il 25 aprile lo festeggeremo lo stesso». E c’è chi e sono tanti manda il suo avvertimento al governo: «Il 25 aprile e il 1 ̊ maggio non si toccano».
di Roberto Brunelli

Rubare la storia? Non si può. Questione di simboli, di valori, di identità di un paese. Chiedete ad un americano, solo per fare un esempio, cosa succederebbe se la Casa Bianca proponesse di spostare il 4 luglio, giorno dell’Indipendenza, al 6 luglio. Chiedete ad un francese, se gli dicessero che la presa della Bastiglia non si festeggia più. E allora, non cui si può certo stupire del fatto che l’Italia si ribelli al norma inserita nella manovra «lacrime e sangue» che delibera lo spostamento del 25 aprile, del Primo maggio e del 2 giugno, ossia la loro soppressione de facto come giorni festivi: sul web la protesta corre veloce, da nord a sud si registrano appelli e raccolte di firme, prendono posizioni politici, partigiani, intellettuali. A Senigallia, il sindaco Pd dichiara che opporrà una forma di «disobbedienza civile»: «Qui il 25 aprile lo festeggeremo lo stesso».
È che certe scelte non arrivano mai per caso, non sono mai neutre: e allora vien da pensare male, visto che in ballo ci sono l’antifascismo, la Liberazione, la lotta partigiana, il lavoro, gli elementi fondanti della carta costituzionale, di continuo strattonata dall’attuale compagine di governo. Ovviamente l’Anpi si è mossa per prima, raccogliendo le firme, e subito si sono mossi tanti pezzi di società civile. Perché la festa dei lavoratori, la liberazione dal nazi-fascismo e la festa della Repubblica sono «simboli di beni comuni, di un patrimonio che appartiene a tutti e che come tale va tutelato». Vieppiù che dall’applicazione della norma non scaturirebbe alcun vantaggio economico, anzi. Secondo il calcolo dell’associazione degli operatori turistici che non ha esitato a rivolgersi al ministro Brambilla l’accorpamento delle feste laiche alla domenica costerà 6 miliardi di euro in termini di fatturato. La Federalberghi, dal canto suo, osserva come il teorico aumento della produttività che scaturirebbe dallo spostamento delle feste corrisponderà anche una depressione dei consumi. Complimenti, bella manovra davvero.
Si fa sentire il Pd («si sostiene che serve per aumentare la produttività, ma non sono forse ‘più produttivi’ i valori che quelle date rappresentano?», si chiede Roberto Montanari della direzione nazionale del partito), e si preparano gazebi e raccolte di firme alle feste dell’Unità. Invita alla mobilitazione l’associazione Articolo 21: «Il segnale è inequivocabile: vogliono cancellare gloriose pagine di storia. Di quella storia combattuta dagli italiani per riconquistare la libertà cancellata dal fascismo, per darsi una struttura statuale libera e democratica, per costruire sul lavoro il proprio presente e il futuro». A proposito di Articolo 21, dicono il suo portavoce, Beppe Giulietti, ed il senatore Pd Vincenzo Vita: «Puzza di veccia ideologia questa manovra: di voglia di regolare i conti con la Costituzione, con lo Statuto dei lavoratori e persino con la memoria storica. Anche per questo è invotabile».
UN PAESE SENZA STORIA
Tra gli altri, appoggia l’appello dell’Anpi l’astrofisica Margherita Hack: «Dobbiamo opporci a questa vergogna. Con la scusa del risparmio si procede nella direzione di voler cancellare quelle che sono state le tappe più significative della recente storia d’Italia, della riconquista della democrazia, delle lotte partigiane dopo la buia parentesi della dittatura fascista e delle leggi razziali».
Improbabile che Tremonti si legga quel che esce sul web. Ma quel che scrive Ginseng73 è una sintesi perfetta: «Un paese che non rispetta la propria storia finisce per essere un paese senza storia. Ed è lì, nel vuoto dei valori, che nascono le pagine più buie». Ecco perché è vietato rubare la storia.

Repubblica 18.8.11
Privilegi
Quando il potere pretende delle rendite illegittime
di Massimo L. Salvadori


Dalla necessità di garantire un reddito a chi faceva politica alle degenerazioni di oggi: così i costi sono diventati una sorta di impunità che scatena le polemiche
È naturale che in un momento di pesante crisi economica lo sguardo si volga anzitutto ai politici chiedendo loro di dare il buon esempio
Nelle assemblee rappresentative nazionali e regionali si sono raggiunti livelli retributivi tali da essere collocati ai vertici nel continente
I privilegi più dannosi sono quelli di denaro. Ciascuno, vedendoli, se ne sente offeso
La vera non violenza significa anche rinuncia ai privilegi che la coscienza non può accettare
C´è una disuguaglianza politica che consiste nei privilegi di cui alcuni godono a danno di altri

Siamo in una tempesta di indignazione contro i "privilegi" dei rappresentanti del popolo, a partire anzitutto dai parlamentari. Al coro che si leva contro di loro, si unisce quello contro i titolari di pensioni troppo elevate, buonuscite da capogiro, e via dicendo, fino ad arrivare a quanti beneficiari, spesso in vero poveracci senza arte né parte, di piccole rendite quali le pensioni attribuite ai falsi invalidi. Sia chiaro: i privilegi verso i quali giustamente più ci si deve indignare sono quelli di cui godono i potenti, i ricchi o assai benestanti, che usano del loro potere per difenderli quanto più possibile. Accanto ai titolari di privilegi legittimati dalla legge vanno collocati tutti coloro che, grazie alla "tolleranza" di un potere politico troppo compiacente, godono del privilegio illegale di privare mediante l´evasione fiscale il paese di immense risorse che risanerebbero i bilanci pubblici e alzerebbero di molto il livello dei servizi collettivi. Orbene, è naturale che – in un momento di pesantissima crisi economica nazionale e internazionale nel quale i governanti si apprestano a imporre grandissimi sacrifici alla popolazione, colpendo in primo luogo gli strati meno abbienti – lo sguardo si volga anzitutto ai politici chiedendo loro di dare il buon esempio tagliando decisamente i costi della politica.
Che cosa vuol dire propriamente privilegio? Ce lo dice la radice latina, privilegium, che significa «legge o disposizione che riguarda una singola persona» o più persone di analogo status. Un tempo i grandi privilegiati erano gli alti esponenti del clero e i nobili di sangue; oggi sono i figli di una democrazia e di un sistema economico e sociale che presentano forti segni di degenerazione. Nel 2005 due parlamentari e giuristi diessini, Cesare Salvi e Massimo Villone, pubblicarono un libro che suonò l´allarme, dal titolo significativo Il costo della democrazia. Essi misero a nudo come il costo della politica fosse diventato eccessivo, segnato da ingiustificabili rendite alle quali occorreva mettere mano. Il saggio fece un certo rumore, ma lo struzzo cui era destinato riuscì senza sforzo a digerire il rospo. Seguirono poi clamorose inchieste di carattere giornalistico che contribuirono in maniera determinante a rendere sempre più acuta l´attenzione verso l´eccesso di benefici di cui godevano i politici. Vorrei ricordare in tema delle tante variazioni del malcostume del ceto politico quelle condotte da Report, la coraggiosa trasmissione televisiva guidata da Milena Gabanelli.
Chi voleva sapere, ormai era in grado di sapere. Ma contrariamente alla celebre sentenza secondo cui «sapere è potere», in materia dei privilegi dei suoi rappresentanti il popolo detto sovrano poteva ben poco fino a che non scoppiasse un incendio sotto le loro stesse poltrone. L´incendio è arrivato e i privilegiati, che hanno il rilevante attributo di essere pompieri di se stessi, investiti dall´indignazione si sono finalmente posti il problema e hanno dato inizio a opere di spegnimento che si vedrà quanto energiche e risolutive, a iniziare dal proposito di procedere alla riduzione delle proprie retribuzioni e del proprio numero. Certo, e del tutto a ragione, Salvi e Villone avevano difeso il fatto che la democrazia ha un costo che non si può ignorare ed evitare, una componente del quale sono le retribuzioni dei parlamentari. I Parlamenti dei notabili, nella prima stagione del liberalismo quando il suffragio era riservato ai ceti alti e medi, costavano ovviamente assai meno dei Parlamenti fondati sui partiti di massa nell´era della democrazia. Quei notabili erano proprietari terrieri, finanzieri, industriali, grandi intellettuali e agiati professionisti, che non avevano bisogno dello stipendio parlamentare e addirittura lo reputavano disdicevole in quanto tale da minacciare la loro autonomia personale. Non a caso furono i deputati poveri che rappresentavano gli strati popolari a chiedere e ottenere infine di essere retribuiti per poter svolgere il loro ruolo.
Un´origine quanto mai nobile avevano poi avuto dal canto loro le immunità parlamentari, sorte per porre i rappresentanti del popolo al riparo dalle possibili persecuzioni legate all´esercizio delle loro funzioni. Sennonché, come noto, il nostro Parlamento ha finito per diventare un rifugio di inquisiti che resistono non già a persecuzioni politiche ma ad accuse di corruzioni e abusi vari di potere.
Dai sani e giusti principi è seguita insomma in Italia, con una rapida accelerazione negli ultimi decenni, la degenerazione. Si è giunti ad una situazione per cui i politici italiani nelle istituzioni rappresentative nazionali ed europee (ma anche regionali, come mostra il caso scandaloso della Sicilia) si sono assegnati livelli retributivi tali da collocarli ai vertici nel continente, proprio mentre le finanze pubbliche andavano insesorabilmente peggiorando. Quanto poi al fronte giudiziario, la strenua difesa dei privilegi dei parlamentari ha dato corso agli spettacoli più indecorosi, seppure qualche breccia sia stata aperta nella fortezza. Bene, è giunto il tempo di tirare le somme. Il costo economico della democrazia non deve essere un costo che la screditi, così come la tutela delle immunità parlamentari non deve diventare la via all´impunità.

Repubblica 18.8.11 
Nell´Atene del quinto secolo Pericle introdusse la retribuzione delle cariche pubbliche. Ma d´altra parte stabilì che durassero un solo anno e non fossero rinnovabili, proprio perché conosceva gli uomini
Il rapporto di altre culture con i vantaggi esclusivi
Antropologia del benefit
di Marino Niola


I Francesi sono divisi tra il desiderio di privilegi e il gusto dell´uguaglianza. A dirlo era il generale de Gaulle che, da nazionalista inossidabile, attribuiva in esclusiva ai cugini d´Oltralpe una tendenza che in realtà appartiene a tutti gli uomini. Perché l´antropologia del privilegio attraversa tempi e paesi. Al punto da sconfinare nell´etologia. L´uomo, infatti, non è il solo animale a cercare di approfittare delle occasioni favorevoli per ricavarne un vantaggio esclusivo. La differenza è negli strumenti. C´è chi usa la forza, chi la bellezza, chi la seduzione, cioè quelli che Platone definiva privilegi di natura. E c´è chi usa le leggi come armi improprie. Esattamente questo è il senso originario del termine privilegium. Una norma fatta apposta per un privus, cioè un singolo. Una legge ad personam. O al massimo per pochi.
Il fatto che la tendenza sia pressoché universale non è però una giustificazione. Altrettanto universale è, infatti, il tentativo di frenare la corsa al privilegio. Non c´è cultura che non cerchi di bilanciare benefit individuali e legame collettivo. Perché laddove l´equilibrio si sbilancia troppo da una parte o dall´altra, l´intera comunità entra in sofferenza. Lo sapevano bene i fondatori delle prime democrazie. Una società sana ha bisogno di motivare i singoli con la promessa della ricchezza, del successo. Ma al tempo stesso deve mettere dei paletti istituzionali alle loro ambizioni. Per questo nell´Atene del quinto secolo Pericle introdusse la retribuzione delle cariche pubbliche, perché fossero accessibili a tutti e non solo ai ricchi. Ma d´altra parte stabilì che durassero un solo anno e non fossero rinnovabili. Per evitare che si cronicizzassero in privilegi. E che il ceto politico diventasse una casta.
All´opposto i capi indiani del Nord Ovest americano traducevano la loro aristocratica differenza di sangue in un numero spropositato di nomi e di privilegi. Un po´ come i Grandi di Spagna dell´età barocca. E quelli che non avevano prole, per mettere al sicuro patrimoni e rendite dalla legge tribale che in mancanza di eredi ne imponeva la redistribuzione sociale, arrivavano a far sposare a dei prestanome il loro piede sinistro, come se fosse un figlio. Un sotterfugio pedestre. Un tengo famiglia per evitare il prelievo di solidarietà.
Altrettanto spregiudicati erano i leader dei Mari del Sud, i Big Man melanesiani e polinesiani, che costruivano la loro carriera millantando relazioni sociali, economiche e diplomatiche inesistenti. O sovrastimate. Spazzatura politica e vendite allo scoperto, insomma. Finché il costo dei loro privilegi – donne, ricchezza, lusso, fama – non diventava insopportabile per la collettività. E il furbetto pagava tutto con gli interessi. Messo alla gogna, esiliato. E qualche volta giustiziato.
In fondo la voglia di privilegio è un basic instinct della vita in comune. Ma se è chiaro perché tanti individui perseguano il loro particulare, rimane più oscuro perché altri siano disposti ad assecondarli. E questo non vale solo per i politici. O per divi, vip e altri beati dell´Olimpo contemporaneo, colmati di bonus a scatola chiusa. I privilegi sono pubblici e privati, familiari, di genere, razziali, culturali, generazionali. Spesso resistenti a secoli di anticorpi egalitari e di antidoti democratici. Sarà che niente ha successo come il successo, sarà che il privilegio resta per molti l´unità di misura della riuscita personale. Ma è come se gli uomini pur nascendo uguali facessero fatica a restarlo.

Repubblica 18.8.11
Amazon edizioni
La sfida del colosso americano "Adesso pubblichiamo libri"


Il gigante di Seattle ha messo sotto contratto alcuni tra gli editor più importanti
Molti negozi, Barnes & Noble in testa, hanno già annunciato il boicottaggio
Il gruppo di Jeff Bezos ha scelto di produrre volumi di carta lanciando un primo titolo
Una decisione che cambierà le regole del mercato e preoccupa già i marchi storici

NEW YORK. Quando riscriveranno la storia dei libri, e gli dovranno trovare un posto trai papiri egiziani e Giovanni Gutenberg, Jeff Bezos da Albuquerque, New Mexico, dovrà pure spiegare com´è che s´è presentato con quel titolo non proprio da grandi occasioni: Cuoco in quattro ore. Eppure proprio così, The 4 Hour Chef, si chiama il libro che rivoluzionerà il mercato editoriale. E con cui Bezos, il patron di Amazon, l´uomo che ha inventato Kindle, il lettore elettronico che ha lanciato il fenomeno ebook, trasformerà adesso la libreria più grande del mondo - la sua - in vero e proprio editore di libri: anche di carta.
Il Cuoco apparirà solo nella primavera dell´anno prossimo. Ma già fa mettere le mani nei capelli a Victoria Barnsley, l´amministratrice delegata di Harper Collins, il colosso dell´editoria, che alla Bbc confessa che la discesa in campo «è ovviamente un motivo di preoccupazione». Perché, come insegnava Marshall McLuhan, è sempre il mezzo che fa il messaggio. E il messaggio chiaro e forte è che tra autore e lettore non c´è più bisogno dell´intermediazione secolare di quel terzo incomodo chiamato editore. Passeremo direttamente dal manoscritto - si fa per dire: ormai anche gli eremiti scrivono al computer o sull´iPad - al libro - o meglio, anche qui, all´ebook. Capite perché la Victoria trema per la sconfitta?
L´arrivo di Amazon Publishing era temuto da tempo. E il colosso di Seattle aveva annunciato la mossa nel maggio scorso. Reclutando a capo di un pugno di intraprendenti e tecnologissimi editor quel Laurence Kirshbaum che s´è fatto invece un fior di nome lavorando per quarant´anni tra libri ancora polverosi - ma autori sempre un passo avanti. Bestseller come David Baldacci, Nicholas Sparks, Scott Turow. E outsider del pensiero come Malcom Gladwell: il reporter-filosofo del New Yorker che ha coniato il concetto di "Punto critico".
«I grandi effetti dei piccoli cambiamenti» è il sottotitolo del libro più famoso di Gladwell (Mondadori). E il piccolo Cuoco che l´editor Kirshbaum ha scelto per lanciare le edizioni Amazon è già pronto a fare il gran botto del cambiamento. Il libro è il terzo nella serie delle "quattro ore" che hanno trasformato in idolo il suo autore: Timothy Ferriss. Un vero e proprio big di quella categoria che negli Usa è catalogata come "self help". Il suo più grande successo è stato tradotto anche in Italia (Cairo): 4 ore alla settimana: ricchi e felici lavorando dieci volte meno. Che dire? Ferriss sa benissimo di non essere Dostoevskij ma non si sente certo né umiliato né offeso per essere stato scelto per il lancio di Amazon. Al New York Times ha confessato di «non sentire nessun tipo di perdita, tantomeno finanziaria» nell´aver abbandonato l´editore tradizionale, Crown, una divisione del gigante Random House. Anzi. «Non è solo questione di scegliere con chi editore stare» spiega questo 34enne campione anche delle nuove tecnologie, con 270mila seguiti su Twitter e più di 100mila su Facebook. «La questione è: verso che tipo di editoria mi voglio orientare? I mie lettori stanno migrando irresistibilmente verso il digitale. E per me è perfettamente logico lavorare con Amazon per cercare di ridefinire il campo».
Proprio questa è la scommessa: ma c´è da giurare che stavolta, per ridefinirlo, non basteranno le fatidiche "quattro ore" dei suoi manuali di successo. Sono anni che Amazon studia il mestiere di editore. E gli esperti sono divisi sul significato che la sua svolta potrà dare. L´agente Richard Curtis rigetta le paure: «Non sono così convinto che sia la fine del mondo» dice ancora al New York Times. «Editori convenzionali continuano a fare affari in maniera convenzionale. Ecco perché prevedo per un lungo periodo un mix tra i due approcci: digitale e tradizionale». Già: ma dopo?
Amazon editore vuole dire che Jeff Bezos pubblicherà i suoi libri anche su carta. Ma c´è di più. «Trasformandosi in editore, Amazon si trasforma da venditore e distributore di contenuti in produttore» ci spiega Ken Auletta, l´autore di Effetto Google. «In fondo è proprio quello che ora Google ha fatto acquistando Motorola: così come il gigante di Mountain View entrerà in competizione con i produttori di telefonini che utilizzano il suo software, così Amazon entrerà ora in competizione con gli editori di cui vende i libri». Non è un caso che i vecchi librai, in testa Barnes & Noble, la più grande catena americana che con il lettore Nook ha lanciato la sfida a Kindle, abbiano già annunciato il boicottaggio di Amazon editore. Ma ovviamente del Cuoco usciranno anche la versione ebook e audiobook. E potrà rinunciare a venderlo la libreria virtuale di Nook? Potrà rinunciare a vederlo l´iBook store in cui Apple vende i libri per i suoi iPad?
Bezos, che lanciò Amazon nel ‘94 come una grande libreria web, vendendo online i libri di carta, giura che è solo questione di tempo: il libro fisico scomparirà. «Se fosse vivo oggi» ha detto «anche Gutenberg riconoscerebbe che ha fatto il suo tempo: e ci lavorerebbe su». Sarà. Ma tutta la strategia di Amazon è un castello di carte e tecnologia, vecchio e nuovo. E gli ebook saranno anche il futuro: ma per adesso siamo a meno di un quarto del mercato globale. Insomma c´è ancora tempo, e spazio, per fare soldi su soldi su soldi vendendo e spedendo in tutto il mondo i vecchi libri di carta: tanto più se fatti in casa. E quando saranno tutti virtuali, chi si ricorderà più che una volta c´erano gli editori?

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