giovedì 25 agosto 2011

l’Unità lettere 25.8.11
E l’invasione di Praga?
di Carlo Patrignani

Con stupore registro che i media italiani sarà per la crisi del capitalismo finanziario che è diventato costosissimo ed insopportabile: i soldi hanno ormai più diritti non solo delle merci ma anche delle persone di poter circolare indisturbate, sarà per l'imminente fine del regime di Gheddafi che rafforza la primavera araba hanno dimenticato l'invasione di Praga dell'agosto 1968 da parte delle armate sovietiche. Forse non valeva la pena attardarsi su quell'intervento politico e militare che soppresse l'anelito di libertà del popolo cecoslovacco? Penso invece che ne valesse la pena, perchè avrebbe imposto ed impone perciòdi fare i conti con un passato che, seppur morto e sepolto, rischia di riproporsi sotto altre vesti, quelle dell'attuale dominio di un feroce capitalismo finanziario che non vuole regole e regolamentazioni. Mi limito solo a ricordare che quell'intervento politico e militare fu duramente condannato pur con molti mal di pancia dal Pci di Luigi Longo: «I confini del socialismo non coincidono coni confini degli stati socialisti, così come i confini del socialismo sono più larghi dei confini del partito».
E più ancora mi piace ricordare quello che accadde prima che il comunicato ufficiale di condanna del Pci fosse diffuso da Giorgio Napolitano, «La mattina del 21 agosto (...) cercai Riccardo Lombardi che si trovava a Roma e gliene volli portare di persona una copia. Credo che intese perfettamente la portata di quella risoluzione e che apprezza il significato di quel mio gesto. (...) Si apriva una fase nuova nella vita del Pci, una possibilità nuova di avvicinamento tra comunisti e socialisti nella lotta per la democrazia e il socialismo, per l'indipendenza dei popoli e per la pace (...) Quelle possibilità Lombardi le ha coltivate, non le hai negate (...) Mi riferisco sono parole di Napolitano al programma comune agitato a lungo e con grande convinzione; una proposta che aveva come sbocco naturale un'ipotesi di alternativa di governo di alternativa di sinistra e comunque di schieramento unitario della sinistra». E Lombardi apprezza la posizione del Pci tanto da evidenziare nel suo intervento (il 30 agosto) alla Camera dei Deputati «il rapporto di Longo al Cc del suo Partito», e criticare l'allora vice-presidente del Consiglio, Pietro Nenni per aver oscurato letteralmente l'intervento degli Usa in Vietnam.

l’Unità 25.8.11
Chiedere giustizia sociale è una lezione di civiltà
In Israele Fino a qualche settimana fa  «comunità» era per la mia generazione qualcosa che trovavi solo in Internet
I giovani manifestano, è un successo: risvegliano valori ebraici come la compassione e la solidarietà
di Etgar Keret

Nove giorni fa nel bel mezzo di via Ibn Gevirol, all’incrocio con Shaul Hamelech, ho visto D. Eravamo separati da orde di gente che camminava per la strada in direzione della dimostrazione di Tel Aviv e, pur essendo abbastanza vicino da poterlo riconoscere, c’era troppo rumore per poter sentire esattamente cosa stava urlando. A giudicare dal labiale, mi è parso dicesse: «La gente chiede giustizia sociale».
Pochi giorni prima quando Margol, la notissima cantante di origine araba e giudice nel programma A Star is Born, equivalente dell’americano American Idol, ha preso posizione contro la rivoluzione sociale e i suoi «falsi» attivisti, probabilmente pensava a lui. D. ha la pelle chiara, i capelli rossi e un paio di occhiali rotondi. Possiede due appartamenti in una tranquilla strada di tel Aviv ereditati dalla sua famiglia benestante. Si è laureato con 110 e lode all’università di tel Aviv e ha un lavoro da favola in una delle più importanti aziende high-tech israeliane, il tipo di azienda di cui potere vedere la pubblicità nelle pagine fimnanziarie. Insomma, è un uomo di successo. E questo tizio di successo invece di starsene a casa a vedere la finale di A Star is Born, camminava e sudava in una calda sera di sabato in via Ibn Gevirol gridando con voce rauca insieme ad altre migliaia di persone che volevano la giustizia sociale. Quando Margol, che è nata in un quartiere povero, guarda D. che manifesta in piazza vede cinismo e menzogne; quando lo guardo io vedo qualcosa di completamente diverso. Perché il nostro D. non è un ingenuo; come noi tutti, gli basta leggere l’elenco delle richieste dei manifestanti per sapere che, se venissero accolte, non potrebbe più affittare i suoi due appartamenti al miglior offerente sul «libero mercato», un concetto di cui si è innamorato il suo attuale primo ministro. Sa anche che aumenterebbero le tasse del suo sostanzioso stipendio e dimagrirebbe la sua busta paga. Eppure è in piazza con un cartello in mano. Perché D., da bravo uomo d’affari, sa anche che in cambio del denaro che perderebbe avrebbe un Paese più giusto ed egualitario per sé e per i suoi figli. E gli sembra un buon affare.
Quarant’anni fa quando le Pantere Nereisraeliane,unmovimentoperi diritti civili di ebrei di origine araba che si ispirava alle Pantere Nere americane, chiese la giustizia sociale, le differenze socioeconomiche erano assai meno drammatiche di oggi. Il ceto medio, prevalentemente Ashkenazi (ebrei di origine europea), guardava le Pantere Nere con paura e sospetto perché era chiaro che il denaro necessario per il recupero dei quartieri poveri sarebbe venuto dalle sue tasche. Oggi la situazione è completamente diversa e gli studenti di Tel Aviv manifestano non solo per ragioni personali, ma anche per un miglior sistema scolastico nelle zone più disagiate e per l’aumento del minimo salariale. C’è chi la chiama «menzogna»; io la chiamo «solidarietà sociale».
Se fossi al posto di Mangol, nulla mi renderebbe più felice di vedere 300mila persone, molte delle quali possiedono poco o nulla, lottare non solo per se stesse, ma anche per quelli che hanno ancora meno. Ma apparentemente nell’odierno Israele privatizzato, scegliere di lottare per i diritti degli altri è considerato disonesto o semplicemente folle.
Fino a qualche settimana fa la parola «comunità» era per la mia generazione qualcosa che trovavi solo in Internet, nei quartieri ultraortodossi o tra i gruppi omosessuali e «responsabilità sociale» significava guardare la tv e inviare un sms per non far eliminare il tuo concorrente preferito. Ma tutto questo è cambiato. E sotto questo profilo questo movimento di lotta, che mi auguro ottenga molto di più, è già stato un successo. Il movimento ha infranto la gabbia alienante e individualistica del capitalismo radicale nel quale siamo cresciuti. La passività e l’istinto del branco sono stati temporaneamente accantonati.
A quanti non sono ancora scesi in piazza consiglio di partecipare alle prossime manifestazioni di protesta, non fosse altro per vedere che ogni dimostrante ha il suo cartello personalizzato, creato da lui e non dalle aziende che sponsorizzano i programmi tv. E portate i bambini con voi. Gridare insieme a loro «la gente vuole giustizia sociale» in una manifestazione non violenta è la migliore lezione civica che possono avere. Non si tratta solo di educazione civica, ma anche della possibilità di risvegliare in loro alcuni antichi, dormienti valori ebraici, quali la compassione e la solidarietà, valori che non vengono stimolati da questo governo.
E quanto alle affermazioni di Margol secondo cui dietro al movimento di protesta si nasconderebbe il desiderio politico di cacciare il primo ministro Bibi Netanyahu, posso dire solo una cosa del tutto personale: il nostro primo ministro democraticamente eletto non è nato e cresciuto in una baracca di lamiera. Da suo padre ha imparato ad ammirare un’economia privatizzata e individualistica che riduce al lumicino e svuota di significato lo Stato sociale. Per questo non mi meraviglia vedere che le folle che scendono in piazza vorrebbero un primo ministro con una diversa concezione del mondo. Le posizioni di quanti vogliono cacciare Netanyahu sono diverse, ma è assolutamente chiaro che questa ondata di proteste non sarebbe mai iniziata se la persona che governa il Paese fosse di una destra diversa, più sensibile ai problemi sociali. Un leader del genere si sarebbe impegnato molto di più per nascondere il fatto che le enormi sovvenzioni pubbliche a favore degli insediamenti e lo spropositato bilancio della difesa sono tra le ragioni per cui gli ultimi governi israeliani hanno trascurato i problemi dei poveri e del ceto medio. Ma Netanyahu ha trasformato questo problema nascosto in una ideologia da cavalcare apertamente.
(traduzione di Carlo Biscotto)

Repubblica 25.8.11
Feste laiche
Dal 25 aprile al 2 giugno quando le date sono dei simboli
di Guido Crainz

Rappresentano la pienezza della democrazia e il suo essere una conquista continua
Sono giornate fondamentali anche per il significato che hanno assunto nelle diverse fasi della vita italiana
Spostare le ricorrenze civili non può essere una misura anti-crisi: nelle emergenze è necessario celebrare (e non sminuire) un pilastro dell´identità collettiva

Lascia senza parole una discussione sui "tagli sostenibili" che infila fra la (mancata) riduzione degli sprechi della politica e le (mancate) misure contro gli evasori anche lo spostamento - e quindi l´appannamento, la perdita di rilievo - di festività che fondano la nostra identità collettiva: il 25 aprile, il I° maggio, il 2 giugno. Dovrebbe essere esattamente il contrario. È proprio la drammatica emergenza che viviamo, è proprio l´infuriare di venti che possono essere devastanti a imporre il mantenimento, e semmai il rafforzamento, di riferimenti solidi, di bussole decisive. Per averne conferma non occorre spinger lo sguardo molto all´indietro, sino al I° maggio celebrato clandestinamente da piccolissimi gruppi di lavoratori anche durante il fascismo. Qualcuno li considerò con sufficienza degli irrimediabili nostalgici, non era così. Si lasci anche da parte quello straordinario passato, si rifletta però su quello che le tre date, nel loro stretto rapporto, hanno rappresentato nella storia della Repubblica: in primo luogo la pienezza della democrazia e il suo essere una conquista continua.
Si pensi alle celebrazioni del 25 aprile. Negli anni della "guerra fredda" furono in parte oscurate o ridotte a riti ufficiali senz´anima dai governi "centristi", restando segno distintivo della sola sinistra (con le conseguenze negative che questo ebbe). Si affermarono poi con forza - sia pur con qualche retorica - grazie al superamento di quel clima, dopo le grandi mobilitazioni antifasciste del luglio ‘60 e nel vivo di un "miracolo" che non fu solo economico ma anche civile. E si spogliarono anche della retorica fra la fine degli anni sessanta e l´inizio degli anni settanta, quando il riemergere di stragi e trame neofasciste sembrò evocare fantasmi lontani. Negli anni ottanta il rilievo pubblico del 25 aprile scemò di nuovo, anche per l´agire di potenti spinte alla cancellazione della memoria, alla "riappacificazione morbida" con il passato (e sin con il passato fascista), ma il suo valore non scomparve. Lo si vide il 25 aprile del 1994, quando una folla immensa accorse a Milano anche per indignazione e sdegno, all´indomani della vittoria elettorale di una coalizione che comprendeva anche gli epigoni - allora non pentiti - del neofascismo. A ben vedere, inoltre, dietro una ricorrente avversione al 25 aprile non vi è solo la "politica": quella data è lì a ricordare che ci fu un´Italia che seppe scegliere. Che seppe pagare di persona per le proprie idee e per il bene comune anche quando tutto sembrava perduto.
Allo stesso modo il 2 giugno ci ricorda che l´Italia lacerata e piagata del dopoguerra seppe trovare la forza morale e politica per risollevarsi. Per ricostruire non solo case e cose ma anche l´anima, la ragion d´essere della nazione. "Era un giorno bellissimo… Quando i sentimenti neri mi opprimono penso a quel giorno e spero" scriveva Anna Banti, evocando anche la conquista del voto alle donne. Così nacque la Repubblica: "senza eroici furori, senza deliri di grandezza", per dirla con Corrado Alvaro, ma capace di costruire il futuro. Fu "un miracolo della ragione", come scrisse Piero Calamandrei, che trovò continuazione e conferma nella Costituzione: quella Costituzione che periodicamente torna ad essere il bersaglio polemico di poco affidabili innovatori. "Congelata", negli anni della "guerra fredda", perché apriva troppo apertamente la via ad una piena democratizzazione: "rischia di diventare una trappola", disse un ministro ultraconservatore come Scelba. E "una trappola", un ostacolo da rimuovere appare oggi al populismo antidemocratico di Berlusconi.
Anche in questo caso non vi è solo il valore storico di una data, vi è il significato simbolico che essa ha assunto nelle diverse fasi della nostra storia. È diventata un essenziale baluardo di difesa, ad esempio, quando i venti della frantumazione hanno iniziato a spirare fra le macerie del Palazzo e fra le lacerazioni di un Paese che stava smarrendo la fiducia in se stesso. Ed è iniziato da essa lo straordinario impegno del presidente Ciampi volto a ridare valore alla nazione. Volto a far riscoprire a tutti, anche ai più riottosi, quale straordinaria risorsa essa possa essere. È lo stesso impegno del presidente Napolitano, che ha anche ricordato con insistenza e forza a un´Italia troppo spesso immemore il valore del lavoro e la sua talora drammatica realtà. Ha ricordato che lavoro e diritti sono architravi della democrazia: e questo è appunto il significato del I° maggio. Anche gli appannamenti di quella data rimandano da noi agli anni più bui della "guerra fredda", con le profondissime divisioni sindacali e le migliaia di lavoratori licenziati solo perché iscritti alla Cgil o a un partito di sinistra. Con un clima di arbitrio padronale cui posero fine la ripresa dell´iniziativa sindacale, la difficile - e incompiuta - costruzione di unità, la conquista dello Statuto dei lavoratori (una vera pietra miliare). Anche di questo si iniziò a perder consapevolezza negli anni ottanta, e oggi l´irrilevanza dei diritti è diventata pane quotidiano di un centrodestra (e talora di un sindacalismo subalterno) che non ha neppure le giustificazioni ideologiche della "guerra fredda".
No, non è passatismo esigere che il valore di quelle date sia oggi esaltato e non umiliato. Non è volger lo sguardo al passato: è, come sempre, sperare nel futuro.

Repubblica 25.8.11
Il Primo maggio e le battaglie per i diritti
Quella storia in una piazza
di Miriam Mafai

Anche durante i vent´anni del fascismo quando erano ormai fuori legge le organizzazioni operaie e contadine, perfino allora c´era qualcuno che festeggiava per conto suo con la famiglia

"E, su tutto, lo sventolio/ l´umile, pigro sventolio/ delle bandiere rosse. Dio!, belle bandiere/degli Anni Quaranta!/ A sventolare una sull´altra, in una folla di tela/ povera, rosseggiante, di un rosso vero/ che traspariva con la fulgida miseria/delle coperte di seta, dei bucati delle famiglie operaie…"
Così Pier Paolo Pasolini ricordava un suo Primo Maggio con quello sventolio, quel primo orgoglioso sventolio delle bandiere rosse, fino allora sconosciute ai più giovani, tenute nascoste da vecchi militanti socialisti, in qualche soffitta o in qualche cantina (spesso assieme ad una vecchia immagine di Matteotti). Anche allora, tuttavia, anche durante i venti anni del fascismo, quando la festa del Primo Maggio era stata cancellata d´autorità dal calendario, anche quando erano ormai fuori legge le organizzazioni operaie e contadine con le loro sedi, i loro giornali, le loro bandiere, anche allora c´era qualcuno che festeggiava per conto suo con la famiglia e qualche amico quella data, e persino qualcuno che riusciva a far sventolare, su una isolata ciminiera, una isolata bandiera rossa.
Poi, tutto cambiò. Come Pasolini, anch´io ricordo «l´umile, pigro sventolio/ delle bandiere rosse…» che salutò il comizio del Primo Maggio del 1945, a Roma. Piazza del Popolo si era andata gonfiando lentamente dei cortei disordinati, impolverati, felici che arrivavano, cantando, dalle a noi sconosciute borgate ai limiti della città, dalle più lontane e miserabili periferie, sventolando una selva disordinata e un po´ stracciona di bandiere rosse. L´unico mezzo di trasporto allora regolarmente in funzione in città erano le camionette. E anche quelle arrivavano in piazza a fatica scaricando famiglie intere, ma soprattutto ragazze e giovani in festa, incuriositi, che volevano, per la prima volta nella loro vita, sentire e vedere un comizio. E il comizio ci fu. (Parlarono, se non ricordo male, Giuseppe Di Vittorio, Oreste Lizzadri e Achille Grandi, i tre segretari dell´allora unita CGIL).
Solo pochi giorni prima, il 25 Aprile, c´era stata, al Nord l´insurrezione. La guerra era finita. E in quel Primo Maggio su tutte le piazze d´Italia venne celebrata la Festa del Lavoro, che un disegno di legge firmato da Mussolini nel 1923 aveva abolito.
Singolare storia quella delle grandi feste operaie. Il 1 Maggio, festa dei lavoratori, come l´8 Marzo, festa delle donne, non ricordano infatti una vittoria ma una strage dalla quale si intende ripartire per portare avanti una giusta battaglia. Così l´8 Marzo, che ancora si celebra, ricorda le operaie di una fabbrica tessile di New York morte in quel giorno del 1908, nel tentativo disperato di uscire dalla fabbrica in cui avevano dichiarato lo sciopero, ma nella quale le porte erano state bloccate. Così la data del 1 maggio, scelta nel 1889 dal Congresso della Seconda Internazionale come giornata di lotta per chiedere la riduzione della giornata lavorativa ad otto ore venne scelta in ricordo del massacro di tre anni prima, quando a Chicago la polizia aveva sparato su una pacifica manifestazione operaia facendo un numero imprecisato di vittime.
Ognuno di noi ricorda e celebra, in famiglia, alcune date che gli sono care, confermando così una identità che si tramanda per generazioni. Lo stesso deve accadere a livello collettivo. Cancellare dal nostro calendario la festività del Primo Maggio, come si minaccia, comporterebbe una mutilazione della nostra storia e identità collettiva.

Repubblica 25.8.11
Ricordare la prima volta ha un ruolo essenziale nell´immaginario sociale ma la ritualità non significa solo una mera ripetizione è la conferma della fedeltà a un valore
Il calendario della comunità
La nascita della Repubblica come mito fondativo
di Marc Augé

Pochi oserebbero modificare il calendario delle tradizionali feste religiose, mentre per le feste civili gli spostamenti sono tutto sommato semplici, accettati, anche se non privi di rischi. Questo si spiega in parte con la difficoltà di costruire una sacralità laica di fronte a una sacralità trascendente, un problema già evocato da Emile Durkeim all´inizio del secolo. Sappiamo per certo che ogni presa di potere si caratterizza, dal punto di vista simbolico, con il tentativo di dominare lo spazio e il tempo, laddove l´elezione di luoghi emblematici è certamente più agevole di quella che vuole consolidare date comuni e condivise da tutti. Ne ha ampiamente scritto Jacques Le Goff citando l´esempio dei campanili. Per la Chiesa il controllo del tempo non avviene solo attraverso il calendario, ma anche con la cadenza delle singole ore.
La componente temporale soggiace a ogni rito e mito. Dalla rivoluzione francese in poi ci sono stati diversi esperimenti di calendari laici, talvolta sovrapposti a quelli già esistenti delle stagioni. Già allora i rivoluzionari si sono scontrati con il limite del mimetismo nei nomi e nelle ricorrenze istituite. Soltanto i russi sono riusciti con qualche successo a calendarizzare la loro presa di potere, creando numerose feste civili massicciamente partecipate e seguite. Eppure neanche questo tentativo è sopravvissuto nel tempo, abbiamo visto che è scomparso con la fine dei regimi. La sacralità laica è spesso fragile. Senza riferimenti religiosi, il sacro può trovare fondamento solo nella storia e nella coscienza comunitaria.
Di questo tentativo di secolarizzazione della misura del tempo, rimangono per lo più le feste nazionali, come elemento sociale originario. La celebrazione della prima volta assume un ruolo essenziale nell´immaginario di una comunità. La festa civile è appunto legata a un evento storico preciso, alla temporalità, a differenza di una festa religiosa o alla ricorrenza di un santo, che si legano al concetto dell´eternità. Questa ritualità laica non significa solo una mera ripetizione in date prefissate. In ogni festa nazionale è implicitamente racchiuso, un messaggio di ripartenza per l´intera collettività. Per l´Italia è il passaggio alla Repubblica il 2 giugno, dopo la seconda guerra mondiale, in un periodo di entusiasmo popolare. Per i francesi è il 14 luglio, con il ricordo della rivoluzione e le importanti riforme seguite, anche se alcune poi smentite o in parte cancellate nei periodi successivi. Se queste date non esprimono sempre un percorso lineare, è importante scorgere la doppia dimensione delle ricorrenze: la conferma di una fedeltà a un valore e della sua forza fondativa.
Parlo volutamente di atto fondatore perché una festa nazionale è definita come tale soltanto se è condivisa dalla maggioranza di una comunità. Non tutti gli eventi storici possono infatti trasformarsi in una festa civile. Se non c´è questa base, la ricorrenza perde lentamente significato fino a scomparire. Ogni festa deve superare la contraddizione tra identità individuale e collettiva. Non a caso, la festa nazionale è, a seconda dei paesi, un esperimento non sempre riuscito, talvolta ignorato o frainteso. Ma la decisione italiana di spostare la data di una o più feste civili rischia di colpire profondamente la simbologia di una nazione e dovrebbe perciò essere respinta. Così come nessuno accetterebbe di avere il suo compleanno spostato di qualche giorno.
(testo raccolto da Anais Ginori)

Repubblica 25.8.11
Poeta e drammaturgo, fondò un quotidiano che poi venne chiuso
Il foglio di Kleist giornale sovversivo

C´erano articoli di cronaca, delitti e follie, ma anche grandi reportage

BERLINO. “Bambino uccide per gioco un altro bambino" era il titolo di una notizia comparsa sull´Abendblaetter di Berlino che nella sua crudezza fece scalpore: "Nel borgo di Franecker alcuni bambini tra i cinque e i sei anni giocavano insieme a fare da mangiare. Uno doveva fare il macellaio, un´altra era la cuoca, un terzo il maiale; la quarta, aiutante cuoca, doveva mettere il sangue del maiale in un recipiente per farne salsicce".
Era la prima volta che i berlinesi leggevano notizie di questo genere sul giornale. A Berlino nel 1810 uscivano - tre volte alla settimana - due giornali che però non si erano mai occupati di cronaca. Heinrich von Kleist - direttore dell´Abendblaetter ma oggi celebrato come grande classico del teatro tedesco - era invece affascinato da quelli che nel giornalismo moderno si sarebbero poi chiamati faits divers: la cronaca minuta, bianca e nera. Morti ammazzati per errore, pazzi violenti in preda a follia omicida, regioni messe a ferro e fuoco per vendicarsi di una prepotenza che riguardava due cavalli: tutte le facce della cattiveria e dell´idiozia umana che ritroviamo nei suoi racconti, alcuni dei quali furono pubblicati a puntate sull´Abendblaetter.
Nell´ottobre del 1810 Kleist, genio inquieto e sempre tentato da nuove avventure si era infatti inventato questo Foglio della Sera che dirigeva e scriveva quasi tutto da solo. Fu l´ultima sua avventura. Poco tempo dopo che il giornale fu chiuso dalle autorità perché giudicato sovversivo, il 21 novembre del 1811 Kleist si uccideva, insieme all´amica Henriette Vogel sulle rive del Wannsee; e siccome il loro non era un legame benedetto dal matrimonio immediatamente e silenziosamente furono seppelliti sulle rive del lago, dove ancora oggi si può visitare la loro tomba.
Il giornale ebbe un successo straordinario. Usciva alle cinque di sera e chi voleva leggerlo senza aspettare di riceverlo per posta poteva andare direttamente a comprarlo, per nove pfennig, in redazione: "dietro la chiesa cattolica". Di gente ne arrivava tanta che si dovette trovare un altro luogo per la vendita. I berlinesi volevano sapere quello che accadeva in città, nel proprio quartiere, per esempio chi erano i piromani che incendiavano le case. Berlino era allora una città di 150.000 abitanti, con più di duecento strade e viuzze, 34 ponti e 29 chiese (protestanti).
Il segreto di Kleist era l´amicizia personale con il capo della polizia berlinese, Gruner, che gli passava le notizie. Ma quando il giornale cominciò ad apparire sovversivo agli occhi delle autorità prussiane, Gruner fu promosso ad un altro incarico e quella fonte preziosa dell´Abendblaetter venne disseccata. Le vendite calarono a picco e l´editore si ritirò. Kleist non abbandonò però l´impresa e ne trovò un altro. Ora puntava a battere la concorrenza sulla velocità. A volte prendeva notizie da giornali viennesi o francesi mettendo una data anticipata rispetto a quella che compariva su quegli stessi giornali. Ma in un´epoca in cui non solo non esisteva Internet ma nemmeno il telegrafo, ai lettori non faceva troppa differenza leggere una notizia con sei invece che sette giorni di ritardo.
Kleist non precorse il giornalismo moderno solo per la cronaca. Sull´Abendblaetter si trovano i primi reportages -famoso è quello sul volo a bordo di una mongolfiera di un fabbricante di tela cerata. Fino a quel momento si volava sui palloni ma non si sapeva dirigerli. Poichè l´articolo sarebbe uscito allo stesso momento della conclusione del volo, Kleist scrive in modo volutamente vago così che se il volo fosse riuscito il lettore avrebbe apprezzato la capacità di previsione del giornale; nel caso invece fosse fallito non mancavano nell´articolo dubbi e interrogativi.
Vi si trovano poi - per lo più a puntate, il giornale aveva quattro pagine e usciva ogni giorno meno la domenica - articoli scientifici, critiche d´arte e recensioni di teatro. I più kleistiani sono gli articoli intensamente filosofici su argomenti come la vita, la morte la fortuna e le emozioni - vere e proprie operette morali. Kleist poteva contare su collaboratori di prim´ordine come il poeta Clemens von Brentano. Ma li trattava da par suo. A Brentano che aveva scritto una magnifica critica di un quadro di Caspar David Friedrich, preso da entusiasmo per il quadro riscrisse interamente il pezzo, usando solo qua e là le frasi dell´autore che gli erano piaciute e firmando il tutto con la sua sigla: hvk. Brentano se ne lamentò e lui pubblicò il giorno dopo una rettifica: "l´articolo, si scusò, era stato tagliato per ragioni di spazio". Come i critici teatrali di tutti i tempi aveva nei teatri amici e nemici e lo faceva vedere. Il nemico più detestato era il famoso attore e direttore del principale teatro di Berlino, Iffland, che dopo essersi rifiutato di mettere in scena la sua Caterina di Heilbronn, non era più sfuggito agli attacchi feroci di Kleist.

Repubblica 25.8.11
Martha Argerich
“La musica oggi chiede immagini io e il pianoforte siamo anacronistici"
di Federico Capitoni

Incontro con la più grande pianista vivente, che a Bolzano presiede la giuria del 58° Premio Busoni. A settant´anni la musicista argentina ragiona attorno al suo mestiere: "Mi chiedo che futuro abbia"
La solitudine del pianista è terribile; si sta così tanto tempo a studiare da soli che non posso più sopportarlo
C´è qualcosa di sano nella gavetta. Non mi piace chi ha subito la major alle spalle

BOLZANO. È incredibile, e piacevolmente spiazzante, come Martha Argherich riesca con estrema naturalezza e gentilezza a dissolvere in una sigaretta il mito dell´artista capricciosa e inafferrabile. Lì, seduti sulle scale del cortile del Conservatorio Monteverdi di Bolzano, la più grande pianista vivente ti dice: «Non trovi?», «Tu che ne pensi?», «Parliamone», trasformando un´intervista in una conversazione tra amici. Lei è una di quelle donne a cui fa onore non nascondere l´età. Ha compiuto settanta anni lo scorso giugno la pianista argentina e può dichiararlo a gran voce. Di anni ne aveva sedici quando vinse il Premio Busoni e adesso, che il premio è alla 58esima edizione, vi torna, ma stavolta come presidente di giuria: «È una strana sensazione, sono commossa – dice -. Mi sembra di essere in un film di Woody Allen in cui il protagonista viene trasportato improvvisamente indietro nel tempo». Da sola non sa stare Marta Argerich e si circonda sempre di persone. Anche in concerto. Ormai si esibisce soltanto in compagnia (l´ultimo disco è un triplo Cd di incisioni dal vivo intitolato appunto Martha Argerich and Friends), e ha dato il via alla nuova edizione del Concorso Busoni (che terminerà il 2 settembre) con un concerto per due pianoforti assieme a un´altra ex vincitrice, Lilya Zilberstein: «Lei è una pianista completa, naturalissima, grandissima. Per fortuna non era concorrente quando ho partecipato al concorso, sarebbe stato un osso troppo duro», dice aggiustandosi i capelli, che non taglia e non tinge.
Da un po´ di tempo non dà un concerto senza che qualcuno sia sul palco con lei, perché?
«Non so come spiegare; penso sempre di ritornare a suonare da sola ma non lo faccio mai. La solitudine del pianista è terribile; si sta così tanto tempo a studiare da soli che esserlo anche in concerto non posso più sopportarlo. Io sono sempre in giro, suono più ora che quando ero giovane, per questo ho bisogno di compagnia. Devo cambiare modo di vita ma non so come. Il problema è che non so dove vivere. Ho intenzione di organizzare una sorta di "musical club", come quello in cui ho vissuto a Londra quando avevo 25 anni. Vorrei organizzarlo per i vecchi musicisti; è più triste la solitudine per i vecchi».
Ma non c´è il rischio che sembri un ospizio?
«È quello che voglio evitare. Non voglio che nessuno finisca come Weissenberg, che è in una casa per anziani, lo trovo triste, ci vuole una casa di riposo per musicisti. Mi piace molto vivere in comunità. Ci sono molti musicisti soli. La mia idea non sarebbe un ghetto, una chiusura, ma un modo di fare comunità: questo è il mio progetto futuro».
Lei non ha nessun rapporto con la composizione…
«Non sono mai riuscita a comporre, non so perché. Non ci ho proprio mai pensato. Mi piacerebbe invece improvvisare. Bisogna avere certe conoscenze di base, potrei imparare dagli amici. Ora l´improvvisazione si fa anche nei conservatori, quando studiavo io era riservata agli organisti. Mi piacciono molto il jazz, il flamenco. Da diversi anni suono il tango, ma non so se sono brava, sto imparando».
Lei ha vinto una serie di premi importantissimi: il Premio Ginevra, il Premio Chopin e appunto il Busoni. Quanto contano nella carriera di un pianista le partecipazioni ai concorsi?
«Sono ancora molto importanti, soprattutto quando non si hanno altre possibilità per iniziare una carriera. C´è qualcosa di sano: la competizione, la gavetta. Non mi piace ciò che avviene con i musicist che emergono ultimamente, hanno da subito la major discografica dietro che li spinge pubblicizzandoli».
Oggi, se tira le somme della sua vita, cosa si ritrova?
«Sono sempre stata curiosa del presente e non vedo una grande differenza oggi nella mia attitudine alla vita. Non ho molti rimorsi. Piuttosto mi chiedo se non sia io fuori tempo. Suonare il pianoforte oggi mi sembra anacronistico. Di questi tempi abbiamo molto bisogno del visuale, anche a me interessa: guardo YouTube, amo il cinema e mi chiedo che futuro abbia la musica».
Cosa fa dunque, quando non suona?
«Faccio le valige (ride). Sono spesso in viaggio. Ma cerco sempre di vedere gli amici, le mie figlie, di andare al cinema e se non posso guardo qualche Dvd. Leggo, ascolto anche la radio, non molto i dischi: non mi interessa tanto sapere cosa sto ascoltando, mi piacciono le sorprese, mi sintonizzo e ascolto. Ma mai in viaggio».
Le sue tre figlie, avute tutte da musicisti, sono interessate alla musica?
«Tutte amano la musica, ma solo la più grande, avuta da Robert Chen, è musicista; suona la viola. La seconda – la figlia di Charles Dutoit - invece è una letterata, La più piccola fa la regista e attualmente sta lavorando con il padre, Stephen Kovacevich».

Corriere della Sera 25.8.11
Perché ci aspettiamo amore e felicità
di Armando Torno

R itorna un libro prezioso di Ginevra Bompiani, L'attesa (et al./Edizioni, pp. 102, 12). Uscì nel 1988 da Feltrinelli ma non ha perso nulla della sua freschezza, anzi. Nacque in più occasioni — il primo capitolo da un convegno sul surrealismo, il secondo fu chiesto dalla Nouvelle Revue de Psychanalyse, il terzo coincise con la morte di Italo Calvino eccetera — anche se l'idea prese corpo dopo che l'autrice fu sorpresa da una frase di Wittgenstein: aspettiamo l'atteso ed è l'ospite che arriva. O meglio, riproponendo ancora i termini che il pensatore ha affidato alle Ricerche filosofiche: noi aspettiamo questo e siamo sorpresi da quello. Insomma, un saggio sull'impossibilità di compiere l'attesa nelle forme che essa assume nel desiderio (o nella paura?).
Il libro, oltre i percorsi che nascono da Wittgenstein, offre rimandi che rispondono continuamente all'osservazione di partenza. Per esempio, se si cerca la nuova faccia che l'attesa ha indossato nel racconto di Henry James La belva nella giungla, si dovrà riprendere Aristotele per focalizzare qualcosa che appare subito destinato a non essere soddisfatto o compiuto, ma sorpreso e annientato. È, per intenderci, un richiamo alla dynamis passiva, la potenza di subire l'evento, che il filosofo greco ha trattato nella Metafisica. James trasformava questa incompiutezza nel destino più atroce, giacché attesa e compimento continuavano disgiunti la loro odissea. Come dire: attesa che disdice ogni compimento, sorpresa che distrugge ogni attesa.
Di più: già nelle pagine iniziali Ginevra Bompiani parla dell'aureo romanzo di Novalis Enrico di Ofterdingen, che entra nel libro con una citazione di Walter Benjamin. È uno dei punti di partenza della riflessione, giacché l'opera fu divisa in due parti, l'attesa e il compimento, ma la seconda è rimasta incompiuta per sempre. Novalis era troppo sensibile per chiudere quel progetto. Tra l'altro, egli ebbe timore della parola, della lingua che deve dire. Intorno al 1789-1790, sottolineava: «Nessuno sa che la peculiarità del linguaggio è proprio quella di preoccuparsi solo di se stesso. Per tal motivo è mistero così portentoso e fecondo: se infatti si parla solo per parlare, allora si pronunciano verità meravigliose e originali. Se invece si vuol parlare di qualcosa di determinato, allora il linguaggio, questo spiritoso, ci fa dire le cose più ridicole e insensate». Come si fa a scrivere il compimento dell'attesa?
Il libro di Ginevra Bompiani si può utilizzare anche come manuale per orientarsi tra le attese che cadenzano la nostra vita, siano esse la morte, la felicità o l'amore. Della prima, che è l'unica certa, c'è ben poco da dire; la seconda è forse soltanto una parola e la terza — ah, la terza! — conviene non cercarla nel compimento. Infatti resta solo e sempre attesa.

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