Postmoderni o neorealisti?
L’addio al pensiero debole che divide i filosofi
Ferraris e Vattimo discutono il manifesto del "New Realism" che propone di riportare i fatti concreti al centro della riflessione
di Maurizio Ferraris
Siamo ancora postmoderni o stiamo per diventare "neo realisti", ritornando al pensiero forte? Il dibattito filosofico è aperto. Grazie anche al convegno che si terrà a Bonn il prossimo anno sul "New Realism" a cui parteciperanno, fra gli altri, Umberto Eco e John Searle. Il dialogo con Vattimo (che lanciò in Italia il pensiero debole con un´antologia curata con Pier Aldo Rovatti e uscita nel 1983 dove si guardava al postmoderno come ad una chiave per la democratizzazione della società, diffondendo pluralismo e tolleranza) cerca di affrontare i punti principali della questione.
FERRARIS Gli ultimi anni hanno insegnato, mi pare, una amara verità. E cioè che il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettività, non ha avuto gli esiti di emancipazione che si immaginavano illustri filosofi postmoderni come Richard Rorty o tu stesso. Non è successo, cioè, quello che annunciavi trentacinque anni fa nelle tue bellissime lezioni su Nietzsche e il "divenir favola" del "mondo vero": la liberazione dai vincoli di una realtà troppo monolitica, compatta, perentoria, una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive che sembrava riprodurre, nel mondo sociale, la moltiplicazione e la radicale liberalizzazione (credevamo allora) dei canali televisivi. Il mondo vero certo è diventato una favola, anzi è diventato un reality, ma il risultato è il populismo mediatico, dove (purché se ne abbia il potere) si può pretendere di far credere qualsiasi cosa. Questo, purtroppo, è un fatto, anche se entrambi vorremmo che fosse una interpretazione. O sbaglio?
VATTIMO Che cos´è la "realtà" che smentisce le illusioni post-moderniste? Undici anni fa il mio aureo libretto su La società trasparente ha avuto una seconda edizione con un capitolo aggiuntivo scritto dopola vittoria di Berlusconi alle elezioni. Prendevo già atto della "delusione" di cui tu parli; e riconoscevo che se non si verificava quel venir meno della perentorietà del reale che era promessa dal mondo della comunicazione e dei mass media contro la rigidità della società tradizionale, era per l´appunto a causa di una permanente resistenza della "realtà", però appunto nella forma del dominio di poteri forti � economici, mediatici, ecc. Dunque, tutta la faccenda della "smentita" delle illusioni post-moderniste è solo un affare di potere. La trasformazione post-moderna realisticamente attesa da chi guardava alle nuove possibilità tecniche non è riuscita. Da questo "fatto", pare a me, non devo imparare che il post-modernismo è una balla; ma che siamo in balia di poteri che non vogliono la trasformazione possibile. Come sperare nella trasformazione, però, se i poteri che vi si oppongono sono così forti?
FERRARIS Per come la metti tu il potere, anzi la prepotenza, è la sola cosa reale al mondo, e tutto il resto è illusione. Ti proporrei una visione meno disperata: se il potere è menzogna e sortilegio ("un milione di posti di lavoro", "mai le mani nelle tasche degli italiani" ecc.), il realismo è contropotere: "il milione di posti di lavoro non si è visto", "le mani nelle tasche degli italiani sono state messe eccome". È per questo che, vent´anni fa, quando il postmoderno celebrava i suoi fasti, e il populismo si scaldava i muscoli ai bordi del campo, ho maturato la mia svolta verso il realismo (quello che adesso chiamo "New Realism"), posizione all´epoca totalmente minoritaria. Ti ricorderai che mi hai detto: "Chi te lo fa fare?". Bene, semplicemente la presa d´atto di un fatto vero.
VATTIMO Se si può parlare di un nuovo realismo questo,almeno nella mia esperienza di (pseudo)filosofo e (pseudo)politico, consiste nel prender atto che la cosiddetta verità è un affare di potere. Per questo ho osato dire che chi parla della verità oggettiva è un servo del capitale. Devo sempre domandare "chi lo dice", e non fidarmi della "informazione" sia essa giornalistico-televisiva o anche "clandestina", sia essa "scientifica" (non c´è mai La scienza, ci sono Le scienze, e gli scienziati, che alle volte hanno interessi in gioco). Ma allora, di chi mi fiderò? Per poter vivere decentemente al mondo devo cercare di costruire una rete di "compagni" � sì, lo dico senza pudore � con cui condivido progetti e ideali. Cercandoli dove? Là dove c´è resistenza: i no-Tav, la flottiglia per Gaza, i sindacati anti-Marchionne. So che non è un verosimile programma politico, e nemmeno una posizione filosofica "presentabile" in congressi e convegni. Ma ormai sono "emerito".
FERRARIS Per essere un resistente, sia pure emerito, la tua tesi secondo cui "la verità è una questione di potere", mi sembra una affermazione molto rassegnata: "la ragione del più forte è sempre la migliore". Personalmente sono convinto che proprio la realtà, per esempio il fatto che è vero che il lupo sta a monte e l´agnello sta a valle, dunque non può intorbidargli l´acqua, sia la base per ristabilire la giustizia.
VATTIMO Io direi piuttosto: prendiamo atto del fallimento, pratico, delle speranze post-moderniste. Ma certo non nel senso di tornare "realisti" pensando che la verità accertata (da chi? mai che un realista se lo domandi) ci salverà, dopo la sbornia ideal-ermeneutica-nichilista.
FERRARIS Non si tratta di tornare realisti, ma di diventarlo una buona volta. In Italia il mainstream filosofico è sempre stato idealista, come sai bene. Quanto all´accertamento della verità, oggi c´è un sole leggermente velato dalle nuvole, e questo lo accerto con i miei occhi. È il 15 agosto 2011, e questo me lo dice il calendario del computer. E il 15 agosto del 1977 Herbert Kappler, responsabile della strage delle fosse Ardeatine, è fuggito dal Celio, questo me lo dice Wikipedia. Ora, poniamo che incominciassi a chiedermi "sarà poi vero? chi me lo prova?". Darei avvio a un processo che dalla negazione della fuga arriverebbe alla negazione della strage, e poi di tutto quanto, sino alla Shoah. Milioni di esseri umani uccisi, e io garrulamente a chiedermi "chi lo accerta?".
VATTIMO È ovvio (vero? Bah) che per smentire una bugia devo avere un riferimento altro. Ma tu ti sei mai domandato dove stia questo riferimento? In ciò che "vedi con i tuoi occhi"? Sì, andrà bene per capire se piove; ma per dire in che direzione vogliamo guidare la nostra esistenza individuale o sociale?
FERRARIS Ovviamente no. Ma nemmeno dire che "la cosiddetta verità è un affare di potere" mi dice niente in questa direzione, al massimo mi suggerisce di non aprire più un libro. Ci vuole un doppio movimento. Il primo, appunto, è lo smascheramento, "il re è nudo"; ed è vero che il re è nudo, altrimenti sono parole al vento. Il secondo è l´uscita dell´uomo dall´infanzia, l´emancipazione attraverso la critica e il sapere (caratteristicamente il populismo è a dir poco insofferente nei confronti dell´università).
VATTIMO Chi dice che "c´è" la verità deve sempre indicare una autorità che la sancisce. Non credo che tu ti accontenti ormai del tribunale della Ragione, con cui i potenti di tutti i tempi ci hanno abbindolato. E che talvolta, lo ammetto, è servito anche ai deboli per ribellarsi, solo in attesa, però, di instaurare un nuovo ordine dove la Ragione è ridiventata strumento di oppressione. Insomma, se "c´è" qualcosa come ciò che tu chiami verità è solo o decisione di una auctoritas, o, nei casi migliori, risultato di un negoziato. Io non pretendo di avere la verità vera; so che devo render conto delle mie interpretazioni a coloro che stanno "dalla mia parte" (che non sono un gruppo necessariamente chiuso e fanatico; solo non sono mai il "noi" del fantasma metafisico). Sul piovere o non piovere, e anche sul funzionamento del motore dell´aereo su cui viaggio, posso anche essere d´accordo con Bush; sul verso dove cercare di dirigere le trasformazioni che la post-modernità rende possibili non saremo d´accordo, e nessuna constatazione dei "fatti" ci darà una risposta esauriente.
FERRARIS Se l´ideologia del postmoderno e del populismo è la confusione tra fatti e interpretazioni, non c´è dubbio che nel confronto tra un postmoderno e un populista sarà ben difficile constatare dei fatti. Ma c´è da sperare, molti segni lo lasciano presagire, che questa stagione volga al termine. Anche l´esperienza delle guerre perse, e poi di questa crisi economica, credo che possa costituire una severa lezione. E con quella che affermo apertamente essere una interpretazione, mi auguro che l´umanità abbia sempre meno bisogno di sottomettersi alle "autorità", appunto perché è uscita dall´infanzia. Se non è in base a questa speranza, che cosa stiamo a fare qui? Se diciamo che "la cosiddetta verità è un affare di potere" perché abbiamo fatto i filosofi invece che i maghi?
VATTIMO Dici assai poco su dove cavare le norme dell´agire, essendo il modello della verità sempre quello del dato obiettivo. Non hai nessun dubbio su "chi lo dice", sempre l´idea che magicamente i fatti si presentino da sé. La questione della auctoritas che sancisce la veritas dovresti prenderla più sul serio; forse io ho torto a parlare di compagni, ma tu credi davvero di parlare from nowhere?
Chip come neuroni il cervello elettronico copia quello umanoUn circuito che imita le funzioni del sistema nervoso È il progetto SyNapse, appena presentato da Ibm
di Alessandra Longo
I nuovi prototipi sono fatti di nodi che elaborano informazioni come fossero neuroni digitali collegati a memorie integrate
I futuri sistemi cognitivi rivoluzioneranno la scienza grazie a una capacità di calcolo e memoria sovrumane
È il primo passo concreto verso un futuro in cui i computer ragioneranno come il cervello umano, grazie a reti neurali di sinapsi, che apprenderanno dall´esperienza e dall´ambiente. La promessa è risolvere problemi trovando un ordine, adesso invisibile, nella complessità del reale. È il risultato del progetto SyNapse, della storica azienda informatica Ibm, con la collaborazione di quattro università americane e finanziato dallo stesso governo americano. Che ha appena presentato i primi due prototipi di chip che funzionano come un cervello. Imitano infatti il sistema nervoso: sono fatti di nodi che elaborano le informazioni, alla stregua di neuroni digitali, collegati a memorie integrate che simulano le sinapsi.
È una grossa differenza rispetto al modo con cui funzionano ora i computer, i quali elaborano le informazioni in modo meccanico e sequenziale. Un bit dopo l´altro, in base a un programma predefinito. È un limite strutturale e storico dell´informatica: risale agli anni �40, quando sono state poste le basi dei primi computer. Il chip neurale va oltre perché è in grado di elaborare le informazioni in parallelo e di adattarsi all´ambiente, un po´ come fa il cervello di uomini e animali. L´apprendimento equivale in fondo a creare e rafforzare collegamenti sinaptici tra le cellule del cervello (i neuroni). SyNapse simula questo meccanismo: i chip neurali sono fatti in modo da prestare maggiore o minore attenzione a certi segnali di input, in base alla loro importanza, che cambia in misura di nuovi eventi ed esperienze.
È questa in fondo la filosofia del "computing cognitivo", una branca dell´informatica, che ora con SyNapse fa un grosso passo avanti; ma la strada per il debutto sul mercato è ancora lunga. Se i nuovi prototipi sono i primi mattoni, a mancare è tutto il resto dell´edificio, per creare il computer del futuro: serviranno ancora anni. Ma adesso c´è ottimismo. Tanto che l´agenzia governativa Darpa, soddisfatta dei risultati, ha annunciato che finanzierà SyNapse con altri 21 milioni di dollari, per un totale finora di 41 milioni. Il progetto va avanti e si prevede che il prodotto finale sarà grande quanto una scatola di scarpe, consumerà mille watt e avrà dieci milioni di "neuroni".
La posta in gioco è del resto molto importante. Per ora i prototipi riescono al massimo a gestire una partita di ping pong, ma i futuri computer cognitivi possono rivoluzionare la scienza, essendo in grado di analizzare la realtà con un´intelligenza (quasi) umana. Unita a una capacità di calcolo e di memoria ovviamente sovraumane. Non sostituiranno i computer tradizionali, probabilmente, ma vi si affiancheranno. Per esempio potrebbero trovare una legge che spieghi e preveda certi fenomeni atmosferici. O economici: le prossime crisi forse non ci coglieranno così alla sprovvista.
Un´altra promessa è che i computer cognitivi ci aiuteranno finalmente a capire alcuni meccanismi dello stesso cervello umano, ancora imperscrutabili. Malattie psichiche e psichiatriche potrebbero trovare una spiegazione e forse una cura. C´è lo studio e il trattamento dell´autismo infantile, del resto, tra gli scopi di uno dei principali progetti italiani di computing cognitivo: iCub, un robot umanoide realizzato dall´Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. Grazie agli algoritmi del proprio software, si adatta all´ambiente circostante, imparando nuove funzioni.
Ma il sospetto è che un sistema veloce come un computer e intelligente come un uomo potrà anche entrare in armi per guerre future. Nessuna sorpresa. Dopo tutto, il Darpa è l´agenzia di ricerca scientifica della Difesa americana.
Repubblica 19.8.11
La polveriare del Sinai
Dopo la "Primavera araba" la penisola a ridosso del confine con l´Egitto sembra una terra di fantasmi
di Bernardo Valli
Fondamentalisti e milizie di Al Qaeda così il Sinai è diventato una polveriera
Tremila ribelli dall´Afghanistan e dal Pakistan si sarebbero infiltrati nella zona
Le vampate di terrore gettano discredito sulla svolta democratica del Cairo
Tanti elementi inducono a credere che l´attentato avvenuto ieri in Israele sia da collegare agli avvenimenti in corso in Egitto, dove la "Primavera araba" appare agitata e confusa.
Questo non significa che i rivoluzionari del Cairo siano da ritenere i diretti responsabili del più micidiale attentato da più di due anni, nello Stato ebraico. Non è quel che penso. Né sospetto. Ma la situazione che si è creata in Egitto potrebbe averlo favorito. Gli avversari della "Primavera araba" potrebbero essere proprio i promotori, e comunque sono loro che ne possono trarre profitto. Le vampate di terrore gettano il discredito sulla difficile, tormentata, svolta democratica, e ridanno fiato agli islamisti radicali, colti di sorpresa dall´insurrezione libertaria di piazza. L´accusa implicita, proveniente da schieramenti opposti, Israele compreso, è che l´Egitto non più guidato dalla mano ferma di un raìs, sia pure corrotto, non sia in grado di fermare l´islam radicale, e il terrorismo che ne deriva. I rapporti tra Il Cairo e Gerusalemme ne possono soffrire e la situazione mediorientale rischia di arroventarsi.
Oltre che il più micidiale, l´attentato è stato anche il più articolato, il più manovrato da tempo, perché condotto come un´azione di guerra. Bisogna tenerne conto. Dietro c´è un cervello "militare". Si è svolto, stando alle prime ricostruzioni, in tre tempi e in quattro luoghi diversi. Il primo attacco è avvenuto in un´area scarsamente abitata, a ridosso del confine con l´Egitto, nel deserto del Sinai, quando un imprecisato numero di uomini armati ha aperto il fuoco su un autobus israeliano. Poco dopo gli aggressori hanno sparato un missile anti-carro contro una automobile privata. Poi sono state fatte esplodere bombe sulla strada dove si trovavano dei soldati, in prossimità dell´autobus assaltato, e forse sul punto di dare manforte. Il primo bilancio, quattordici morti, sette per parte, e una quarantina di feriti tra gli israeliani, è quello di una battaglia. Una battaglia che si è svolta al confine tra Israele e l´Egitto, una zona di importanza strategica, nei paraggi della stazione balneare di Eilat, sul Mar Rosso. E´ gente di mestiere quella che ha agito. Gaza è li, a due passi, e subito gli occhi dei generali israeliani si sono rivolti a quella disgraziata, indomabile e inaffidabile Striscia di terra. Che ha finito col pagare, poiché la risposta israeliana si è abbattuta subito là, facendo un´altra manciata di morti.
Vista la situazione nella Penisola del Sinai ci si aspettava da tempo qualcosa di grave. I segni premonitori non erano mancati. Affaccendate nei problemi di politica interna, le autorità militari del Cairo hanno allentato negli ultimi mesi il controllo sulla penisola del Sinai. Restituito all´Egitto in seguito agli accordi di Camp David (1979), dopo la lunga occupazione israeliana, cominciata con la guerra dei Sei Giorni (1967), quell´ampio deserto è diventato se non proprio un´area di nessuno, dove tutti possono scorrazzare, perlomeno una zona confinante non più tanto sicura per Israele. Di recente è stato attaccato un posto di polizia nella città egiziana di Al Arish. E gli autori sono stati descritti come seguaci dell´ideologia di Al Qaeda, se non addirittura affiliati a quell´organizzazione terroristica, dopo la morte di Bin Laden guidata da un egiziano, il dottor Ayman al Zawahiri, già promotore di attentati in patria, prima di raggiungere Ben Laden in Afghanistan. Sono stati inoltre ripetutamente sabotate le pipelines che riforniscono di gas le industrie israeliane.
L´accordo di Camp David limita il numero di soldati egiziani nel Sinai. La Penisola è divisa in zone, e su quella indicata con la lettera C, più vicina a Israele, se ne possono dispiegare meno che nelle altre. Ma il governo di Gerusalemme ha assecondato la richiesta del Cairo di aumentare la presenza militare di mille uomini, anche per consentire operazioni tese a ristabilire la sicurezza in tutto il deserto limitrofo allo Stato ebraico. Voci allarmanti circolavano da tempo, e, pubblicate dai quotidiani cairoti, non sono mai state smentite. Gruppi consistenti di fondamentalisti, almeno tremila guerriglieri provenienti dall´Afghanistan e dal Pakistan, si sarebbero infiltrati nel Sinai. Vera o falsa la notizia ha assecondato la psicosi provocata da chi è convinto, e vuol convincere, che l´Egitto d´oggi non sia più in grado di arginare l´ondata del fondamentalismo islamico, e il derivante terrorismo.
Un Egitto democratico sarebbe troppo incerto, caotico, per svolgere il ruolo di gendarme. Se si enumerano le forze politiche interessate a farlo credere si devono citare gli Stati sovrani, monarchie o repubbliche dispotiche, che temono il contagio della "Primavera araba"; e i partiti, le confraternite, le istituzioni destinate a vedere ridimensionato il loro potere con l´avvento di una democrazia. Gli stessi militari del Cairo, costretti a processare il loro capo, Hosni Mubarak, e a preparare libere elezioni, non sono al di sopra di ogni sospetto. Ravvivare il conflitto israelo-palestinese, o arabo-israeliano, è la strada più ovvia. Ed anche la più irresponsabile.
Il ministro della difesa Ehud Barak non ha avuto dubbi. Non li ama. Le informazioni in suo possesso gli hanno dato la certezza che i terroristi provenissero da Gaza. E ha subito promosso la rappresaglia. Il leader di Hamas, Salah El Bardawil, ha però negato che gli attaccanti appartenessero al suo partito o arrivassero dal territorio di Gaza. E anche il governatore egiziano del Sinai, Khaled Fuad, ha smentito con toni decisi che gli uomini armati siano sbucati dalle zone affidate al suo controllo. Il Sinai è dunque popolato di fantasmi. E il colpevole è l´Egitto avviato verso la democrazia e dunque incapace di mantenere l´ordine.
Repubblica 19.8.11
Il laicismo impossibile di un Paese allo sfascio
Dalla gioia dei fedeli alla crisi sempre più neraMadrid è una città irriconoscibile per noi che ci viviamo. Tra chi esulta e chi è infastidito dal caos
di Antonio Muñoz Molina
Nel torrido della calamità finanziaria e della crisi politica, lo spettacolo della visita del Papa a Madrid completa l´impressione di una realtà pubblica inverosimile, come se la Spagna sprofondasse sempre più nelle allucinazioni, invece di risvegliarsi. Madrid è una città irriconoscibile per noi che ci viviamo, inondata da moltitudini di giovani pellegrini che sembrano escursionisti felici, preda di un assurdo entusiasmo, con canti e balli in mezzo alle strade, con le loro camicette e i loro zaini, con le loro bandiere nazionali come se fossero tifosi di calcio, con i loro cappellini di paglia.
I giornali di destra da settimane dedicano pagine su pagine alla visita del Papa, e i loro commentatori sembra facciano a gara a chi dà prova della più salda fede vaticana, dell´ostilità più aspra verso chi non condivide l´entusiasmo per l´evento. Questa mattina, nell´ora in cui la comitiva papale viaggiava verso il centro di Madrid, nel cielo si udivano i motori degli elicotteri. Nell´aeroporto, le autorità civili di uno Stato nominalmente aconfessionale facevano la coda per dare il benvenuto al capo visibile della Chiesa cattolica. Il re, la regina, il capo del governo, la presidente della regione madrilena, il sindaco di Madrid, il dirigente del Partito popolare che presumibilmente vincerà le prossime elezioni, il presidente del Congresso, tutti, uno dopo l´altro, rendono omaggio al Pontefice, mentre per le strade la polizia vigila perché non si ripetano incidenti come quelli di ieri notte, quando pellegrini cattolici e manifestanti anti-Papa sono venuti alle mani alla Puerta del Sol. E intanto sui giornali, nelle poche pagine non dedicate alla visita papale, si pubblicano notizie su un altro dei protagonisti dell´estate, un toro chiamato Ratón che si è trasformato nella stella delle feste di paese. Le feste sono pagate dai Comuni, nonostante il tracollo dell´industria edilizia li abbia lasciati in un dissesto economico tale che non stanno più fornendo alcuni dei servizi sociali di loro spettanza. I ragazzi che corrono davanti ai tori di solito lo fanno in uno stato di alterazione etilica. La celebrità del toro Ratón si deve anche al fatto di aver incornato a morte, in diverse cittadine, tre corridori. Il risultato è che altre cittadine vogliono avere il toro Ratón nelle loro feste e che i Comuni sborsano più denaro per averlo.
Una parte del disastro economico della Spagna è stato lo sperpero di denaro pubblico per lussi insensati, ma in questa estate di foschi presagi il fastoso allestimento della visita papale e le passioni di provincia per il toro Ratón sembrano indicare che non abbiamo molte speranze. È proprio di un Paese civile che le istituzioni pubbliche organizzino feste taurine? È giusto che un Paese che la Costituzione proclama aconfessionale sia messo sottosopra in questo modo per la visita di un capo religioso? La destra spagnola ripete ostinatamente che questi anni di governo socialista sono stati anni di aperta ostilità alla Chiesa, ma è un dato di fatto che in Spagna le scuole cattoliche sono finanziate al cento per cento con denaro pubblico, che i rappresentanti della cittadinanza prendono parte regolarmente alle cerimonie religiose cattoliche e che perfino i ministri, quando giurano al momento di entrare in carica, lo fanno davanti a un crocifisso. Mentre la sinistra alimentava i suoi sogni e si sforzava di identificare la destra di oggi con quella dei tempi della guerra civile, questa destra politica stava cambiando il suo modello, passando dall´imitazione dei cristiano-sociali tedeschi all´identificazione con i Repubblicani americani nelle loro versioni più estreme, un miscuglio di integralismo religioso e ultraliberismo economico.
Tanto che molte persone progressiste in Spagna hanno la malinconica sensazione che, nonostante il presente e l´avvenire ci pongano di fronte a difficoltà del tutto nuove, noi restiamo intrappolati negli stessi dibattiti di un secolo fa: il dibattito della razionalità illuminata, che guarda con sgomento a eventi tribali come la celebrità del toro Ratón, e il dibattito del laicismo, che sembra più lontano che mai dal trovare soluzione quando tutta la capitale del Paese viene paralizzata per l´arrivo del Papa.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 19.8.11
I giovani e la razionalità del sacro
di Joaquìn Navarro.Vals
Si fa un gran parlare dei giovani. È, in fondo, la forma retorica più antica e consolidata che si conosca. Tanto è vero che si sprecano sempre affermazioni solenni e proverbiali quando non si comprende nulla o quasi di un certo fenomeno. Ben più complesso diviene, invece, il discorso non appena si vuole parlare realmente con cognizione di causa delle nuove generazioni, in un contesto, come quello attuale, nel quale non sembra sia più possibile restare nei limiti di una sola cultura o di una specifica civiltà determinata.
Alcuni eventi sono una buona occasione per farlo. Il più espressivo del protagonismo peculiare dei ragazzi è certamente la Giornata Mondiale della Gioventù che si sta svolgendo in questi giorni a Madrid alla presenza di Benedetto XVI. Ho avuto modo di sperimentare personalmente di cosa si tratti in tutte le occasioni in cui ho accompagnato Giovanni Paolo II dai primi energici appuntamenti fino agli ultimi più faticosi. E poi anche a Benedetto XVI in Germania nel 2005. È stupefacente che dopo 28 anni non solo non è finita la spinta partecipativa, ma il coinvolgimento sembra perfino aumentato. Quest´anno, il profilo essenziale dei partecipanti si esprime così: età media intorno ai 22 anni, il 48 per cento studia � di cui il 58 per cento in un´istituzione universitaria � , il 40 per cento lavora, il 6 per cento è disoccupato; uno su dieci è già sposato; il 55 per cento vive in casa coi genitori. Provengono da 187 Paesi diversi. La cifra totale dei partecipanti supererà il milione di persone.
Il dato è fin troppo chiaro per essere commentato. È un campione rappresentativo, vasto ed eterogeneo di persone normali.
D´altronde, anche in altre occasioni diverse vediamo i giovani raccogliersi insieme per qualche scopo, senza particolari segni distintivi. È il caso, ad esempio, delle proteste inglesi che hanno messo a ferro e fuoco la città di Londra o della Primavera araba nel Magreb. Giovani, sempre giovani, differenti gli uni dagli altri, che agiscono in modo peculiare e per motivi comuni imparagonabili. Ma sempre e solo giovani, senza specifiche qualità.
Ecco così che, leggendo ogni volta le statistiche, si rimane insoddisfatti, sprovvisti di una spiegazione valida sulle ragioni per cui non un bambino o un adulto, ma un ragazzo non più adolescente decida di dedicare alcuni giorni della propria vita a stare con altri coetanei che non conosce, in una città che non gli è familiare, a vivere un evento di natura religiosa.
Il citato paragone può, in questo senso, aiutare a capire. I movimenti di ribellione britannica, sono espressione di un moral collapse come ha detto in modo sintetico il premier inglese David Cameron. Una paradossale assenza di finalità e di principi che si traduce in un nichilismo sconfinato. Distruggere, lo si capisce bene, è la quintessenza di una rabbia che trova soddisfazione unicamente nella violenza urbana e nel saccheggiare negozi. In quel caso siamo, evidentemente, agli antipodi di Madrid, davanti ad un malessere generazionale che pone interrogativi duri e chiare responsabilità; direi soprattutto a noi adulti.
Ma anche le rivolte politiche in Africa sono animate da una simile spinta generazionale, questa volta evidentemente positiva. Anche lì sono i giovani a farla da protagonista, non volendo più accettare e tollerare di vivere al di sotto di loro stessi, delle proprie capacità, possibilità, libertà. È lampante che rispetto al primo caso non è il nichilismo a spingere all´azione, ma una giusta volontà di cambiamento, un anelito civile a riempire il vuoto sociale in cui si è costretti a vivere.
Paragonate a queste agitazioni di massa, quanto spinge giovani di tutto il mondo a stare alcuni giorni con il Papa è il desiderio di fare un´esperienza opposta e decisiva rispetto ad ogni altra. Anche se, a ben vedere, vi è una medesima opzione motivazionale forte, alternativa al restarsene a casa o al mare. Mi ricordo che proprio in occasione della giornata dei giovani a Roma nel Giubileo del 2000 Indro Montanelli scrisse che una spiegazione, in casi del genere, non la dà né la sociologia, né la demografia: bisognerebbe entrare nell´ambito della religione. O esiste un fatto che chiamiamo sacro, oppure, in questi casi, non si motiva né si capisce niente di niente.
Logicamente, resta particolarmente importante chiarire cosa s´intenda qui con fatto religioso. Perché alcuni dei ragazzi che partecipano alla Giornata non sono credenti; allo stesso modo che non tutti coloro che rompono le vetrine sono criminali o tutti coloro che gridano libertà sono democratici.
Mi ricordo di aver indagato in passato sulle ragioni di simile affluenza e di aver trovato delle risposte insolite ma coincidenti tra i ragazzi stessi che partecipavano. Alcuni mi rispondevano che nessuno, in società, a scuola o in famiglia, era in grado di dire qualcosa di simile a quello che stavano ascoltando. Alcuni confessavano il dubbio se sarebbero stati in grado di vivere sempre al livello etico che il Papa chiedeva loro, anche se si sentivano per questo, ancora di più, chiamati ad esserci. Tutti, con disarmante semplicità affermavano: «Ma lui � il Papa � ha ragione». Cioè, dice il vero.
Comprendere giornate intense di preghiera e ascolto, non prive di sacrifici per i partecipanti, significa andare al cuore dell´esperienza religiosa. Richiede di superare in modo drastico quel relativismo imperante che spinge a fare solo ciò che le proprie pulsioni � anche la noia � impongono. Davanti a sé e accanto a sé c´è una ragione che è vera, una spiegazione umana che garantisce di trovare la propria identità, oltre il proprio nulla e oltre i miraggi del convenzionalismo insipido con che spesso si presenta la politica.
D´altronde, tale spinta forte a afferrare con il pensiero, il cuore e la volontà il senso della vita, è l´essenza della sana ribellione che si chiama "vita interiore". L´alternativa, non a caso, è il fondamentalismo irrazionale e il relativismo cinico, ma mai, in nessun modo, l´esperienza spirituale. Perciò, in definitiva, ad attirare tanti giovani a radunarsi è unicamente la razionalità del sacro, un desiderio di ascoltare la verità e di far parlare la coscienza, che solo può soddisfare le fresche aspirazioni di un giovane ad oltrepassare i circoscritti confini determinati dello spazio e del tempo. E quelli ancora più determinati della banalità.
Corriere della Sera 19.8.11
Democrito, un mondo di atomi
di Armando Torno
Della vita di Democrito, il filosofo greco vissuto tra il 460 e il 360 a.C., sappiamo poco. Pare che morisse proprio intorno ai cent'anni, che sia divenuto cieco per il troppo studio, che fosse un sapiente senza rivali. Platone non lo sopportava e mai lo citò nelle sue opere, anche se nel Timeo dimostra di conoscerne le idee. Di lui, oltre a un giudizio ingeneroso di Dante a causa delle sue teorie atomistiche («Democrito, che 'l mondo a caso pone», Inferno, IV, 136), restano numerosi frammenti e testimonianze. Ora Guglielmo Ruiu, con testo greco a fronte e commento dettagliatissimo, ripropone le Massime (La vita felice, pp. 280, 14), la celebre collezione di sentenze morali oggi concordemente attribuite a questo filosofo; e le ha ordinate con una nuova numerazione rispetto alla classica raccolta dei testi presocratici, il Diels-Kranz. Nell'introduzione Ruiu offre anche lo status quaestionis sull'autenticità. Comunque sono sempre attuali: «Il mondo è una scena, la vita un passaggio: tu vieni, vedi, te ne vai».
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