Ecco dove Alemanno scarica i Rom
Viaggio tra i 350 abbandonati in via Salaria Un bimbo muore folgorato a Tor de’ Cenci
di Silvia D’Onghia
Avrebbe compiuto un anno il 31 agosto e invece è l’ennesima vittima dell’indifferenza di una politica che vive di slogan. Ieri pomeriggio ha perso la vita un altro bambino rom, stavolta nel campo nomadi di Tor de’ Cenci, a Roma. Stava giocando con una pallina nel container della nonna, quando la pallina è finita sotto il frigorifero. La manina ha toccato un filo elettrico, probabilmente scoperto, e il piccolo ha chiuso gli occhi. Inutile il trasporto all’ospedale Sant’Eugenio, dove è arrivato già morto. Il campo di Tor de’ Cenci, sulla via Pontina, ospita circa 350 persone ed è in piedi da 20 anni: ciclicamente ne viene proposta la chiusura, ma alla fine rimane sempre lì, con le sue baracche e i suoi roghi quasi quotidiani. Il nuovo vice-sindaco della Capitale, Sveva Belviso, che proviene da quel territorio, ha promesso più volte di trovare una soluzione che invece non è mai arrivata, nonostante le continue petizioni dei cittadini. Ieri ne ha annunciato la chiusura entro l’anno. Alemanno lo avrebbe dovuto sgomberare nell’autunno scorso, ma il suo Piano nomadi va avanti a favore di telecamera.
ANCHE perché, se la soluzione è scaricare le persone nel centro di accoglienza di via Salaria 971, allora son quasi meglio i container. Ci sono stati ieri mattina il responsabile Sicurezza del Pd Roma, Alberto Mancinelli e i consiglieri democratici Paolo Masini e Daniele Ozzimo. E hanno trovato una situazione “vergognosa”. Il centro occupa un’area molto vasta, ma è composto da sette casermoni all’interno dei quali vivono, stipate, 350 persone, 50 a camerata. Tutti insieme, senza distinzione di etnie o di genere. Sono kosovari, bulgari e romeni. A delimitare le “camere da letto”, se mai si possono definire così, ci sono reti metalliche modello cantiere edile. I letti non esistono, solo materassi accatastati a terra. Al posto dei comodini, cassette della frutta rovesciate. “All’interno manca la corrente elettrica – denuncia Mancinelli –, gli unici allacci sono nei corridoi”. Ma questo, forse, è il meno. “Non ci sono pannelli ignifughi, per cui se prende fuoco una coperta si rischia la strage. Un buon 40 per cento del centro è chiuso perché mancano le norme di sicurezza. Non c’è un presidio medico”. I pasti sono assicurati dalla cooperativa “Ristora”, “e sono dignitosi”, ma all’esterno dei capannoni c’è una lunga fila di cucine a gas con tanto di bombole. “Ogni rom costa intorno ai 60 euro al giorno. Non c’è un’auto della municipale o della polizia – prosegue Mancinelli –, la vigilanza è affidata a una cooperativa privata: quattro uomini per tre turni al giorno”. Dal centro i rom possono entrare e uscire liberamente, in qualsiasi orario, nessuno li controlla, ma non possono ricevere le visite dei parenti. “‘Questo è un lager, dateci una mano’, ci hanno sussurrato in molti, prendendoci in disparte. Due uomini ci hanno addirittura chiesto una mano a cercare le loro mogli, che chissà dove sono finite dopo lo sgombero del campo in cui vivevano”, ancora Mancinelli. Il paradosso? Oltre la recinzione del centro c’è un campo abusivo.
MA C’È un altro problema, ben più grave: nel centro vivono 130 minori, la maggior parte dei quali in età da scuola materna o elementare. Peccato che questi bambini rischino di vedersi negato il diritto allo studio. “Una bambina mi ha raccontato, contenta, di essere stata promossa in quinta, in una scuola dall’altra parte della città – spiega Paolo Masini –. Solo che ora che è arrivata in via Salaria non sa se potrà frequentare un altro istituto, e quale. Nessuno ha parlato con i dirigenti scolastici, che stanno formando le classi. Non è stato previsto un pulmino e si ventila addirittura l’ipotesi di mandarli in sole due scuole vicine. Così si verranno a creare delle classi ghetto”. Sempre che i bambini non tornino a mendicare per le strade, anche perchè la giunta Alemanno ha chiuso l’ufficio anti-mendicità voluto da Veltroni: “Ci votarono contro perché era soltanto uno – ricorda Masini –, ora hanno chiuso persino quello”.
Alemanno ha dichiarato di aver fatto eseguire 130 sgomberi di campi abusivi: “Vogliamo sapere quanto sono costati e perché sono stati affidati a ditte esterne e non all’Ama”, conclude Mancinelli.
il Fatto 4.8.11
Puglia
San Raffaele, interrogazione dell’Idv
Puglia
San Raffaele, interrogazione dell’Idv
Al ministro della Salute e al ministro dell’Economia, il deputato dell’Idv, Antonio Palagiano, ha rivolto un’interrogazione parlamentare sul maxi investimento stanziato dal governatore pugliese Nichi Vendola per la realizzazione, a Taranto, dell’ospedale San Raffaele del Sud. “Da un articolo apparso su ‘Il Fatto Quotidiano’, il 2 agosto, si apprende la notizia che il governatore Vendola ha intenzione di investire 200 milioni di euro regionali per la realizzazione del più grande ospedale pubblico del Mediterraneo – premette il deputato Palagiano –. Da quanto si evince, il finanziamento sarà interamente a carico dei cittadini, mentre la gestione resterà privata, nelle mani della Fondazione San Raffaele di Don Verzè”. Il testo dell’interrogazione prosegue riprendendo altre parti dell’articolo di Marco Travaglio. In conclusione il deputato scrive: “È più opportuno un investimento volto a potenziare e innovare i due nosocomi esistenti nel tarantino”. Palagiano ritiene poco efficiente un investimento di soldi pubblici in una struttura che verrà amministrata da Don Verzè. D’accordo anche il collega di partito, Pierfelice Zazzera, che si è sempre occupato dei problemi sanitari pugliesi, con interrogazioni sulle emissioni dell’Ilva. “Si tratta di un’interrogazione sacrosanta. Non si capisce perché Vendola voglia sopprimere due nosocomi già esistenti. Ricordo un’altra contraddizione del governatore: nel 2007, vennero stanziati 250 mila euro per istituire il registro delle malattie tumorali. Ma non fu mai realizzato. Uno sbaglio enorme perché il cancro si affronta soprattutto con la prevenzione, non con costosi istituti privati”. (Rob. Zun.)
l’Unità 4.8.11
Il caso a Treviso Il giudice ha autorizzato una donna, testimone di Geova, a rifiutare le terapie
«Amministratore di sostegno» Il marito incaricato di far rispettare le volontà della moglie
«Il malato terminale può decidere lo stop alle cure»
di Toni Jop
Il caso risale a gennaio e va indirezione contraria rispetto a quanto previsto dalla legge sul fine vita in discussione. Le volontà della donna sono state accettate dal giudice che le ha “blindate” con un decreto.
Pochi ci avevano fatto caso quando, a gennaio, il giudice aveva decretato, in sostanza: la signora ha diritto di rifiutare le cure quando e se i medici riterranno che saran-
no divenute inutili ai fini della sopravvivenza. Ma ora ecco che quell' atto giuridico diventa notizia, fa discutere, esce dai confini regionali mentre sembra in dirittura d'arrivo la legge nazionale che “spezzerà le reni” a quel provvedimento e alla libertà degli individui. Una bolla a tempo che si è gonfiata, cioè, nella imminenza di disposizioni sul “fine vita” dettate dall’oscurantismo di questo governo. Il caso coinvolge una coppia di coniugi, entrambi testimoni di Geova, residenti nel trevigiano. Lei è gravemente malata, la sclerosi non si ferma anche se a tratti sembra dare respiro. Mesi fa era stata ricoverata in condizioni pessime e ai medici aveva detto: «Voglio che mio marito possa negare il consenso alle emotrasfusioni e alle altre terapie volte a protrarre artificiosamente la mia vita laddove i medici ritengano che la mia situazione sanitaria sia senza speranza». Nata a San Polo di Piave quarantotto anni fa, aveva in pratica disposto che il marito diventasse depositario e artefice delle sue disposizioni testamentarie dopo un ventennio trascorso a combattere il male che la affliggeva. In ospedale aveva subito una tracheotomia, indispensabile per alleggerire i problemi respiratori. Stava a letto, in convalescenza, quando aveva chiesto di poter parlare con un giudice civile.
L’INTERVENTO DEL GIUDICE
Così, la dottoressa Clarice Di Tullio le si era seduta accanto e aveva ascoltato: la paziente le aveva proposto di poter nominare suo marito «amministratore di sostegno», figura giuridica non infrequente nelle case di riposo dove sia necessario provvedere ad alcuni atti che l’ospite non è in grado di svolgere. Il giudice le aveva dato ragione incaricando il marito con un decreto che lo autorizza anche a far rispettare le volontà della moglie a proposito del rifiuto delle cure ormai inutili. Particolare interessante: la donna aveva bocciato i medici che le suggerivano l’urgenza di una tracheostomia, ossia la versione permanente della tracheotomia e pare abbia fatto comunque la scelta giusta perché la sua situazione clinica, smentendo le previsioni, è nettamente migliorata consentendole di tornare a casa.
La dottoressa Di Tullio aveva lavorato con grande coscienziosità e aveva tratto le sue conclusioni dopo aver ancorato la sua decisione al codice deontologico dei medici nonché all’orientamento sostenuto a livello europeo sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina. Nessun intervento medico può essere messo in campo se il paziente non è informato e non concede il suo consenso: il principio è semplice, ben piantato nel diritto e anche la Cassazione l’aveva ribadito affermando che non c’è intervento medico legittimo al di fuori di questo “recinto”, altrimenti si sfonda nel campo delle illecite intromissioni nella sfera dell'autonomia di un essere umano e delle sue decisioni fondate sulla sua libera coscienza. La Procura di Treviso aveva dato il suo placet al provvedimento del giudice Di Tullio giudicandolo «motivato, articolato, condivisibile e – ciò che più conta ineccepibile sotto il profilo giuridico». Questa fondatezza riconosce quindi al marito della signora ammalata la facoltà di disporre, nel caso lei dovesse perdere conoscenza, che le cure non le prolunghino inutilmente vita e sofferenze. Soddisfatti i testimoni di Geova: «Questa sentenza ha restituito dignità alla volontà e alle libertà delle persone», hanno scritto. Nel caso in cui dovesse intervenire una legge insensibile a questa cultura, il decreto della giudice perderebbe ogni efficacia e lo Stato italiano la sua umanità.
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