L’ultimo mattone del Novecento
50 anni fa, nell’agosto 1961, si costruiva la barriera che avrebbe rappresentato un’epoca, fino all’89. Con il crollo delle quotazioni a Wall Street sembra ora vacillare anche l’epoca successiva
di Francesco Cundari
Nell’agosto del 1961 si costruiva il Muro di Berlino, simbolo non solo della cupa realtà del socialismo reale e della sua natura oppressiva, ma di un’intera epoca. Un’epoca in cui l’ordine mondiale si fondava sull’equilibrio tra Usa e Urss; il modello sociale, in Europa, su quel compromesso keynesiano che consentiva crescita economica ed espansione del Welfare; la politica, in Italia, su partiti, sindacati e movimenti di massa. Con il crollo del Muro di Berlino, nell’89, comincia un’epoca molto diversa, che oggi sembra scricchiolare anch’essa, insieme col primato di Wall Street.
La fase storica inaugurata dal crollo del Muro di Berlino è stata la fase della globalizzazione, dell’integrazione dei mercati, di uno sviluppo apparentemente inarrestabile trainato dalla finanza.
Dal bipolarismo Usa-Urss siamo passati all’unipolarismo statunitense, prima che l’ascesa delle economie emergenti da un lato e il terrorismo internazionale dall’altro ne incrinassero l’ottimismo.
Il trionfo sul comunismo, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, aveva dato al modello reaganiano il crisma dell’invincibilità, e alle sue ricette, già allora largamente egemoni, l’apparenza della chiave universale capace di risolvere tutti i problemi. Per questo si può forse dire che rispetto alla fase precedente, quella cominciata con il crollo del comunismo non è stata una fase meno ideologica. Con la stessa fede cieca con cui i marxisti sostenevano la tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto, gli intellettuali dei nostri tempi hanno sostenuto la sua inevitabile ascesa, con benefici sicuri per tutti, alla sola condizione di lasciar fare al mercato, e in particolare alla finanza. Dal mito della società senza classi e senza conflitti alla proclamazione della «fine della storia», in fondo, il passo può essere brevissimo. Tanto più che molti dei più accesi sostenitori delle politiche di Reagan prima e di George W. Bush poi, i famosi «neocon», provenivano molto spesso dalle file della sinistra radicale.
La crisi del 2008, in cui siamo ancora immersi, è innanzi tutto la più dolorosa smentita di quest’ultima ideologia, rimasta in campo dopo l’abbattimento del Muro di Berlino. La crisi nasce infatti dalla finanza privata, e se oggi diventa crisi dei debiti pubblici è solo perché gli Stati, invece di ritirarsi e lasciar fare al mercato, sul mercato hanno dovuto tornarci di corsa, per salvare le banche ed evitare «l’apocalisse finanziaria».
Da allora, purtroppo, nemmeno il presidente degli Stati Uniti è riuscito a mettere seriamente un freno al potere della finanza. Il suo tentativo di riforma è sostanzialmente depotenziato. E ora i governi di tutto il mondo, a cominciare da quello di Washington, appena “declassato” da un’agenzia di rating, sono di nuovo nell’angolo. Il futuro è aperto, ma il Muro di Wall Street, nonostante tutto, ha cominciato a vacillare, assieme alle certezze di tanti di noi.
l’Unità 14.8.11
L’89 finì il comunismo non la Storia
Ora finisce il reaganismo
I sovietologi furono criticati per non aver previsto il crollo dell’Urss ma i politologi del dopo-guerra fredda non hanno saputo fare di meglio Con la crisi del liberismo si chiude una fase della globalizzazione
Il Muro di Berlino fu forse il più clamoroso autogol del comunismo sovietico. Eretto nell’agosto 1961 con il plauso di tutti i comunisti europei (compresi quelli italiani), a stabilire un confine materiale e simbolico tra i due blocchi,
divenne rapidamente il luogo topico della guerra fredda e della divisione dell’Europa. Ma il suo simbolismo giocò sempre un ruolo esclusivamente negativo, che non poteva giustificare la funzione pratica di arrestare brutalmente l’emorragia di persone da Est a Ovest. Nell’immediato, il Muro offrì a JFK l’occasione per pronunciare uno dei suoi più famosi discorsi, in difesa delle libertà occidentali. A più lungo termine, fu lì a significare un potere privo di legittimità popolare, incapace di reggersi se non con l’uso della forza, intimamente fragile almeno quanto era repressivo e poliziesco. Il Muro dette un contributo essenziale alla chiarificazione la repulsiva realtà dei regimi comunisti, smentendo con la sua semplice presenza ogni propaganda e ogni residua utopia. Perciò il suo abbattimento nel novembre 1989 si ritorse senza possibilità di appello contro coloro che l’avevano costruito. Il crollo del Muro annunciò la fine della guerra fredda e con essa la fine dei regimi comunisti in Europa, poi anche in Unione Sovietica.
Ha un senso stabilire un nesso tra quella vicenda e l'epoca in cui viviamo? Il crollo del Muro fa parte del nostro tempo o di un tempo ormai lontano? Il nesso è oggi persino più visibile di ieri, a condizione che si consegni definitivamente alla galleria delle amenità politologiche la formula della «fine della storia», espressione di un’euforia ideologica post-guerra fredda che non ha più ragione di essere, se mai l'ha avuta. I sovietologi sono stati, a suo tempo, criticati per non aver capito che i regimi comunisti erano prossimi al collasso. Ma i politologi del dopo guerra fredda non hanno saputo fare molto meglio. C'è da chiedersi perché mai il nostro mondo sarebbe dovuto entrare in un'era di armonia, sotto l’egida di una sola iperpotenza. Ma neppure le visioni conflittualiste incentrate sull'idea dello «scontro di civiltà», subentrate alle visioni ireniche, hanno davvero offerto uno strumento adeguato per comprendere il presente. A partire dalla crisi del 2008 e con una bruciante accelerazione nel corso del 2011, nessuno dei principali scenari del post-guerra fredda conosce verifica. Per trovare una chiave di lettura, occorre probabilmente riempire di significato e dare profondità storica a un termine troppo spesso abusato, quello di globalizzazione.
Il luogo comune vuole che l’89 abbia aperto le porte alla globalizzazione. Invece è accaduto l’esatto contrario. È stata la globalizzazione a fornire una spinta per il collasso del comunismo, scardinando un sistema chiuso incapace di stare al passo con l'economia mondiale e con le rivoluzioni tecnologiche. Ma cosa dobbiamo intendere per globalizzazione? Vista come crescente interdipendenza delle economie, dei mercati e degli stati, essa è un fenomeno storico di lunga durata, che assume la sua forma moderna negli ultimi due secoli e attraversa fasi diverse. Oggi assistiamo probabilmente alla fine della fase iniziata attorno alla metà degli anni Settanta, nel pieno della crisi petrolifera e monetaria, che ha generato la civiltà post-industriale e originato il collasso dell'ordine bipolare. Il reaganismo ne fu l'ideologia egemone, volta a interpretare e sospingere la grande trasformazione in una chiave anti-keynesiana e a rilanciare la superpotenza americana, demolendo il bipolarismo. Un’ideologia straordinariamente efficace perché capace di assecondare forze profonde, ma priva di un’idea alternativa di assetto mondiale. Caduta l’Unione Sovietica, sono stati Clinton e Blair a esprimere il tentativo più compiuto di dare vita a un ordine mondiale liberale e multilaterale, ridefinendo la globalizzazione occidentale in una chiave post-socialdemocratica.
Nell’ultimo decennio quel tentativo si è perso non soltanto per l’impatto dell’attacco terrorista a New York, ma perché la globalizzazione occidentale ha iniziato a perdere slancio e a mutare di segno. L’ascesa della Cina e la crescita economica in Asia e altrove crea nuove interdipendenze ma non costituisce di per sé una forza di integrazione. La «comunità senza nome» che emerge dalla primavera araba affermando nuove libertà smentisce gli stereotipi di un fondamentalismo islamico dilagante ma chiede risposte che la comunità internazionale non appare in grado di fornire. L’occidente non sembra capace di governare neppure se stesso, avvitato in una crisi che presenta il conto degli estremismi neo-liberisti. Oggi non c’è nessun Muro di Berlino prossimo a crollare. Ma un’intera fase della globalizzazione iniziata quarant’anni fa volge al termine. E con essa le politiche, gli assetti, le idee dominanti che l’hanno accompagnata. Il nostro mondo non si è semplificato. Le opportunità e i pericoli della sua complessità si stanno facendo sempre più estremi. L'idea di una governance mondiale non è più una generosa visione del futuro, ma una necessità del presente.
Nessun commento:
Posta un commento