mercoledì 17 agosto 2011

Repubblica 17.8.11
Viaggio nel cuore nero dell´Ungheria
Bavaglio alla stampa, epurazioni negli uffici statali, leggi anti immigrati. La svolta autoritaria della destra di governo che spaventa l´Europa
di Andrea Tarquini


BUDAPEST. I giornalisti della radio pubblica l´hanno appreso come in un campo di concentramento: improvviso appello del mattino per tutti nel grande cortile della sede centrale, poi l´ordine di dividersi in scaglioni di 50 e presentarsi un gruppo dopo l´altro a commissioni speciali: quelle hanno detto loro chi restava e chi veniva licenziato. Gli epurati, in radio e tv di Stato, sono stati finora 525, molti tra i migliori, fior di giornalisti, premi Pulitzer. Altri 450 licenziamenti arriveranno prima di fine anno: la grande purga eliminerà così mille su tremila persone, un terzo del totale. Una sola newsroom centrale, in mano alle penne della destra, distribuisce notizie ai media pubblici. Nella pubblica amministrazione, è ancora peggio, e il governo ha facile gioco a difendersi: niente statistiche pubbliche sul totale dei posti soppressi e delle persone sostituite. Nei teatri e nelle Università, nella magistratura e alla Corte dei Conti, ai posti di comando sono solo uomini fedeli alla Fidesz del premier Viktor Orban, il partito al potere.  In provincia, si comincia con metodi di segno ancor più chiaro. Come a Gyoengyoespata, governata dai neonazisti di Jobbik: ogni mattino alle sette i disoccupati, tutti Rom, devono presentarsi con una maglietta arancione che ricorda le uniformi dei detenuti di Guantanamo: chilometri a piedi sotto il sole, con zappe, rastrelli e pesanti secchi d´acqua per dissetarsi, e poi ore di duro lavoro manuale.
(il seguito dell’articolo non èdisponibile su Internet)

Repubblica 17.8.11
L´intellettuale ungherese: "Il nostro è un regime bonapartista, un´oligarchia"
L´appello di Agnes Heller "L´Europa deve aiutarci solo così ci salveremo"
di Andrea Tarquini


«L´Europa deve aiutarci ad avere solidi media indipendenti. Solo così salveremo la democrazia». Ecco l´appello di Agnes Heller, la grande intellettuale ungherese.
Signora Heller, quanto è pericolosa la situazione ungherese?
«Ci vuole un volto nuovo, o un nuovo gruppo di leader democratici, che ci salvi. Non aspettiamo Godot, aspettiamo un Lohengrin come ultima speranza. Se non apparirà entro un anno e mezzo sarà la fine».
Perché una simile svolta autoritaria?
«In Ungheria non abbiamo mai avuto veri partiti. Fummo una democrazia solo tra la fine della guerra e il ´49 della svolta staliniana. Gli ultimi vent´anni del comunismo di Kadar furono comunismo senza comunisti, poi venne una democrazia senza democratici, oggi abbiamo un governo di destra senza veri conservatori».
Chi è allora Orban?
«Ha solo alcune somiglianze con Berlusconi. Berlusconi non interferisce come Orban nella vita degli atenei, nei teatri, all´Opera, nei media, ovunque. Fascismo e bolscevismo sono termini abusati, sebbene, ricordiamolo, siano nati entrambi in Europa, non altrove. Il governo Orban non è fascista, è un regime bonapartista: la concentrazione di tutto il potere in mano a loro, senza controlli o checks and balances. Orban crede nell´oligarchia, se ne sente parte, crede in se stesso e di conoscere il Giusto e ciò che è giusto per l´Unghiera. L´état c´est moi, la societé c´est moi. Il sistema fiscale privilegia i super-ricchi. Non abbiamo il capitalismo della libera concorrenza, ma gli oligarchi».
Un addio agli standard democratici europei?
«Sì, ma non serve il fascismo. La Fidesz è bonapartista, non razzista. Non è lo stesso. Ma conta abolire i checks and balances come hanno fatto, decidere da soli, senza alcuna voce in capitolo dell´opposizione e della società civile. Criminalizzano vecchio regime e avversari attuali, vogliono processare l´ex premier socialista Gyurcsany. Introducono leggi retroattive. Tentano di criminalizzare noi filosofi, e tutto ciò che ha a che fare col liberalismo. Liberal significa nemico della nazione magiara, alieno, straniero. La democrazia liberale è distrutta dalla maggioranza democraticamente eletta. C´è odio verso il liberalismo. E la sua identificazione con gli ebrei e l´ebraismo, tipica del passato».
I pericoli riemergono dunque dal passato?
«Sì: ogni totalitarismo ha sempre visto le idee liberal come primo nemico, definendole tra l´altro come cosmopolitismo. La Fidesz mobilita con ideologie. Il nazionalismo. E slogan molto tradizionali: nazione, famiglia, religione. Non è totalitarismo, perché il totalitarismo vieta, loro epurano e marginalizzano. La strategia è comportarsi come se l´opposizione non esistesse. E darle la maschera del nemico della concordia nazionale, criminalizzarla secondo una fortissima ideologia nazionalista e una mitizzazione del lavoro concorde per la nazione unita».
Lei come si sente, dissidente ieri e oggi?
«Critica eterna, e poi quanto dura l´eternità? Al fondo non ho paura. Nella guerra fredda, in Polonia e da noi, c´era ben meno paura che nel resto del blocco. Oggi la paura diffusa segna il quotidiano ungherese. Paura esistenziale per chi teme di perdere il lavoro, prima di tutto. Hanno ragione: se esprimono le loro opinioni possono essere licenziati l´indomani, giovani, padri di famiglia. Ma più hai paura più sei vulnerabile. Bisogna cercare di non avere paura, come noi voci critiche sotto Kàdàr. Ma l´indipendenza della giustizia è in via di liquidazione. Agli occhi del governo sono persona non grata, per l´opinione pubblica sono nei sondaggi che ancora escono una delle 50 donne più influenti d´Ungheria. Mi basta».
Non vi sentite lasciati soli dall´Europa?
«Si sono espressi contro la nuova Costituzione. Orban disse "non ci capiscono". Sanzioni rischiano di far male solo alla gente, non al governo che potrebbe approfittarne dicendo "ecco la cospirazione liberal internazionale contro la nazione ungherese". L´Europa potrebbe aiutare stazioni radio, tv, tutti i media liberal ungheresi. Allora forse arriverà lo sperato Lohengrin, non la catastrofe».
L´Ungheria è eccezione o laboratorio?
«Orban parla di laboratorio, di questo ho paura. La sua politica può diventare attraente per altri paesi. E persino Marine Le Pen è meno a destra di lui. Bonapartismo autoritario, nazismo, fascismo, bolscevismo, sono tutte invenzioni europee, le tendenze autocratiche sono vive. È una bella tentazione governare senza fare i conti con l´opposizione. Weimar, Vichy, Mussolini sono passati ancora presenti nell´anima europea. Anche Hitler fu popolarissimo nella patria di Goethe, Beethoven e Thomas Mann. La democrazia liberale in Europa non ha tradizioni così lunghe, solo postbelliche, ecco il peccato originale. E l´Ungheria non ha tradizioni democratiche, a parte tra il 1948 e il ´49. È difficile fare i conti col passato europeo».
Quanto conta l´antisemitismo?
«In Ungheria l´antisemitismo è molto forte, ed è pubblico. Esprimere opinioni antisemite è legale, anche in Parlamento. In pubblici raduni si è parlato di piani per uccidere l´ex premier socialista Ferenc Gyurcsany in presenza di deputati di Jobbik. Dicono di me "Agnes Heller e la sua banda si considerano membri del Popolo Eletto e per questo attaccano noi ungheresi". Parlano come lo Stuermer, il giornale di Hitler».
(ha collaborato Agi Berta)
(a. t.)

Repubblica 17.8.11
Volete capire la rivolta inglese? Ascoltate l’hip hop
di Andrea Morandi


Dietro i riots che hanno squassato le città inglesi c´è una intera comunità nera di giovani Sono loro che da anni cantano nelle rime delle canzoni il disagio e il duro prezzo da pagare alla crisi

Il codice hip hop nei suoni dei ghetti la rivolta di Londra
Bizzle: "Siamo noi a sapere quando la temperatura nelle città sale non Cameron"
Professor Green: "Questa musica non incita all´odio ma unisce le classi meno abbienti"

«Se vuoi davvero sapere cosa succederà a Londra non devi ascoltare i politici, ma i rapper. Sono loro i veri ministri di questo Paese». Maxwell Ansah è londinese, ha solo ventinove anni, ma fa hip hop da oltre dieci con il nome di Lethal Bizzle. Nel 2006, quando in un´intervista l´allora non ancora Primo Ministro David Cameron aveva accusato il rap di incoraggiare i ragazzi a usare pistole e coltelli, Ansah gli aveva scritto una lettera aperta spiegandogli che invece di voltare le spalle ai ragazzi delle classi sociali più povere, avrebbe dovuto aiutarli, altrimenti sarebbero arrivati grossi problemi. Cinque anni dopo la profezia di Bizzle si è avverata nel peggiore dei modi con i riots londinesi, ma bastava leggere i testi di alcuni dei più influenti artisti hip hop inglesi degli ultimi dieci anni per capire cosa sarebbe successo.
Lo stesso Bizzle, che in uno dei suoi video si fa arrestare dalla polizia, lo aveva cantato in Babylon´s Burning The Ghetto, mentre Nathaniel Thompson in arte Giggs, altro londinese cresciuto per le strade di Peckham, prima di finire in carcere per possesso di armi, due anni fa in Slow Songs aveva raccontato la sua vita tra furti, arresti e sussidi sociali. «Il problema» spiega Bizzle «è che se vedi solo la Londra di Oxford Street non capisci cosa succede a Tottenham, Chapham o in altri quartieri. Nessuno può puntare il dito su quello che è successo se non sa di cosa sta parlando». Rap, hip-hop, ma anche e soprattutto grime, un nuovo stile che unisce elementi di diversi generi: ogni tappeto sonoro va bene agli MC londinesi per sfogare la propria rabbia e raccontare in rima le amarezze di ogni giorno. Come da anni fa Tayo Jarrett in arte Scorcher che agli scontri di Londra è legato da un precedente inquietante: sua nonna era Cynthia Jarrett, la cui morte, causata dalla polizia nel 1985, diede il via alla battaglia di Broadwater Farm. «Ventisei anni fa la polizia ha ucciso mia nonna», ha scritto sul suo account di Twitter «e ora è toccato a Mark Duggan. Ma il metodo è sempre lo stesso».
Dal punto di vista sociologico anche nel caso inglese l´hip hop si è rivelato ancora una volta come l´unico genere musicale capace di agire da cartina tornasole e riflettere i mutamenti della società. E non solo per quanto riguarda la colonna sonora, ma anche l´aspetto (quasi tutti i rioter erano abbigliati da rapper, con felpa e cappuccio a nasconderne l´identità) e il linguaggio: negli sms che si spedivano i rioter comunicavano in codice utilizzando, come fa il rap, termini linguistici presi da vari contesti, da quello scolastico a quello gergale, fino a quello codificato da serie televisive come The Wire o i Soprano. «La verità? Abbiamo più influenza noi sui ragazzi di quanto non abbiano politici e scuola» continua Bizzle «noi sappiamo quando sta salendo la temperatura, non Cameron che ci ha messo tre giorni a tornare a Londra dalle vacanze in Toscana».
Nessuno all´interno della vasta (e frammentata) comunità rap giustifica i saccheggi e le violenze, ma tutti sanno che la situazione, tra disoccupazione e crisi, è più articolata di come la si dipinge. Come cantano artisti come Master Shortie, Skepta o 2K Olderz che nella sua They Will Not Control US, scritta subito dopo gli eventi di Londra, dice: «Distruggiamo quello che, giorno dopo giorno, ci sta distruggendo». E così lo scontro, finito sulle strade, è destinato a farsi feroce tramite Facebook, Twitter e YouTube: qualche giorno fa un giornalista del Daily Mirror, Paul Routledge, ha attaccato frontalmente la cultura dell´odio del rap chiedendo che la musica hip-hop sia ufficialmente bandita dalle radio, ricevendo la replica immediata di un altro artista di Hackney, Professor Green, via Twitter: «Qui non si tratta di scaricare la colpa su qualcuno, ma di accettare le proprie responsabilità. Il rap non incita all´odio, ma unisce le classi meno abbienti. I problemi reali iniziano quando le persone non si sentono più parte di una comunità».
Un confronto generazionale e culturale che però non è nuovo, anzi, ha radici molto lontane: quando nel 1958 i Teddy Boys misero a ferro e fuoco Londra fu il neonato rock a salire sul banco degli imputati come capro espiatorio, mentre nel 1976 con il Carnevale di Notting Hill finito in rissa e cento poliziotti feriti negli scontri, il primo movimento a essere incolpato fu il punk. Cambia la musica, ma il sistema rimane sempre lo stesso.

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