sabato 27 agosto 2011

l’Unità 27.8.11
Otto deputati Pd firmano contro lo sciopero Cgil

Il leader: il partito ci sarà
Otto deputati quarantenni del Pd firmano un documento con cui chiedono alla Cgil di rinviare lo sciopero generale. Bersani insi ste sull’«autonomia» delle forze sociali. Fassina definisce l’inizia tiva un «grave errore politico».
di S.C.

«Invitiamo il segretario Susanna Ca musso e la Cgil ad un’ulteriore rifles sione sull’opportunità di proclamare uno sciopero generale per il 6 settem bre, proprio mentre si svolge il dibat tito parlamentare sulla manovra, ciò al fine di scongiurare il rischio che la mobilitazione finisca per venire stru mentalizzata, soprattutto da chi vuo le dividere il sindacato, cancellare l’intesa unitaria del 28 giugno ed iso lare la Cgil, perdendo così di vista il merito dei problemi». A firmare il do cumento con cui si chiede al sindaca to di Corso Italia di rivedere la deci sione presa sono otto deputati qua rantenni del Pd appartenenti a un po’ tutte le anime del partito: dal tori nese sì-Tav Stefano Esposito al teso riere dei Democratici Antonio Misia ni, dal lettiano Francesco Boccia al mariniano (nel senso di Ignazio) San dro Gozi, dalla piacentina Paola De Micheli al barese Dario Ginefra, dall’ex operaio Thyssen Antonio Boc cuzzi al responsabile Sicurezza del Pd Emanuele Fiano. Scrivono che lo sciopero generale è «uno strumento importante» ma che deve essere adoperato nel modo e momento giusto e per questo, pur rispettando l’«au tonomia» del sindacato, dicono che sarebbe meglio rinviare l’inizia tiva di lotta: «Potrebbe rappresenta re lo strumento finale della batta glia contro la manovra se rinviato alla fine della discussione parla mentare e se posto in essere dopo aver espletato un tentativo, certa mente difficile ma necessario, di re cupero di un percorso unitario con le altre organizzazioni sindacali».
Bersani, che già avrebbe fatto a meno della discussione tra quanti chiedono al Pd di aderire allo scio pero (Idv e sinistra radicale, men tre tra i Democratici c’è chi come i senatori Vita e Nerozzi aderisce a titolo personale e chiede «più corag gio») e quanti chiedono di «oppor si» (Fioroni), evita di commentare pubblicamente l’iniziativa. Ma a quelli con cui ha commentato la vi cenda ha espresso questa semplice considerazione: delle due l’una, o si riconosce l’autonomia del sinda cato o gli si chiede di rivedere le de cisioni assunte. Il Pd comunque, ha assicurato Bersani, il 6 come a tutte le altre mobilitazioni contrarie alla manovra, ci sarà. Dice il responsabi le economico del Pd Stefano Fassi na: «Il documento è un grave erro re politico, innanzitutto sul piano del metodo. Un partito non dice a un sindacato, quale che sia, ciò che deve fare. Se condivide gli obiettivi partecipa alla mobilitazione, altri menti no. L’autonomia funziona co sì».

Corriere della Sera  27.8.11
Abbattere statue: i vandali delle Rivoluzioni
Dai furori giacobini al bronzo del Duce: le capriole della Storia
di Luciano Canfora

I Romani furono grandi tagliatori di teste, ma di teste vere, non di marmo o di bronzo. Certo, ogni tanto si sfogavano anche su quelle. Ma il fatto più delicato è che quelle vere, come notò una volta Mao Zedong, non ricrescono, mentre quelle finte si possono, all'occorrenza, rimettere a posto o sostituire.
Quando Ottaviano (futuro Augusto), Antonio e Lepido, autonominatisi «triumviri per rimettere a posto lo Stato» lanciarono le proscrizioni per liquidare i loro nemici politici (43 a.C.) l'ordine agli sgherri che catturavano i proscritti era di tagliar loro la testa e di portarla ai triumviri come prova sicura dell'effettiva eliminazione degli avversari. Nell'occasione uno dei decapitati fu Cicerone. L'eliminazione o decapitazione delle statue esige un lavoro molto sistematico, perciò rimasero in piedi statue e busti anche di imperatori «maledetti» come Tiberio, il cui cadavere, appena pronto, fu trascinato con gli uncini fino al Tevere e scaraventato nel fiume, ma di cui tuttora abbiamo qualche bel busto.
La mania di distruggere statue e decapitarle si è sviluppata con le rivoluzioni moderne. È noto ad esempio che i depositi del Louvre sono strapieni di statue a pezzi o decapitate e di teste marmoree staccate dal tronco per effetto di quel fenomeno che gli storici della Rivoluzione francese e prima di loro già l'abate Grégoire, membro della Convenzione nazionale, hanno chiamato «vandalismo rivoluzionario». Principali vittime furono allora statue di re e di santi, di cui la Francia effettivamente abbondava. I lettori del Manzoni certo ricordano quel finale del capitolo XII dei Promessi Sposi dove Manzoni ironizza sulle traversie di una statua di Filippo II, opera di Andrea Biffi, che si trovava nella «nicchia dei dottori» in piazza dei Mercanti. Lì campeggiava il viso «serio, burbero, accipigliato» del sovrano spagnolo «che anche dal marmo imponeva un non so che di rispetto». Ma nel luglio del 1797, nella Milano giacobina, a quella statua «le fu levata la testa, le fu levato di mano lo scettro e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto». Così — seguita Manzoni — «stette forse un paio d'anni; ma una mattina certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù e le fecero cento angherie» e alla fine, ridottala a un «torso informe», la trascinarono per le strade «e la ruzzolarono non so dove».
Leonardo Sciascia ha osservato giustamente che, nel descrivere queste angherie, Manzoni era ancora sotto l'effetto del massacro del ministro Prina, trucidato a Milano, al momento appunto della cacciata dei Francesi.
Togliere la testa alle statue è forse un gesto liberatorio ancorché alquanto irrazionale. La pagina manzoniana è istruttiva perché aiuta a comprendere che una testa (marmorea) tagliata oggi, può (metaforicamente) rinascere domani.
Tutti hanno in mente la foto cento volte ripubblicata del testone bronzeo di Mussolini sbriciolato tra due presse, per iniziativa di popolo, nell'euforia del dopo 25 luglio 1943. Esplosione di una repressa rabbia popolare: per lo meno di una parte non piccola, allora, del popolo esasperato dalla guerra non voluta e imposta dall'appena congedato dittatore. Naturalmente le immagini ducesche incastonate in bassorilievi rimasero, e tuttora rimangono in certe strutture, per esempio dei palazzi dell'Eur che avrebbero dovuto essere teatro della glorificazione del «Ventennale». Poiché la storia è sempre più complicata di quanto possa apparire dal destino delle statue, non è superfluo ricordare che, allora, a sparare sulle manifestazioni di piazza inneggianti alla caduta del dittatore furono truppe agli ordini di coloro che quel dittatore avevano congedato, come avvenne ad esempio nell'eccidio di Bari del 28 luglio del '43.
Svolte contraddittorie di questo genere si sono verificate anche in occasioni successive. Meno presente alla memoria è la scena della demolizione della grande statua di Felix Dzerdzinski, fondatore della Ceka, antenata del Kgb, dopo che Eltsin prese il potere a Mosca nel dicembre 1991. Ma, in quell'euforia effimera, nessuno poteva prevedere che di lì a pochi anni Eltsin avrebbe fatto prendere a cannonate il Parlamento (gesto lievemente antidemocratico) e che, anni dopo, un militare formatosi nel Kgb sarebbe diventato il presidente della Russia, finalmente liberata dai «tiranni»...
Un'altra immagine molte volte vista è quella della colossale statua di Stalin abbattuta a Budapest nel corso della rivoluzione dell'ottobre 1956. Scena cui fa da contrappunto la statua di Stalin che giganteggia tuttora nella sua terra natale non lungi dalla sua casa-museo. E si ha un bel dire che Alessandro Magno fu sì un grande conquistatore ma almeno altrettanto grande come criminale (i congiurati della cosiddetta «congiura dei paggi» lo appresero sulla propria carne). Questo non impedisce all'odierna Macedonia, ridivenuta nazione indipendente dopo il caotico «riassetto» balcanico di questi anni, di onorarlo con una delle più alte statue equestri del mondo, commissionata a ditte italiane.
Hobbes diceva che il tiranno non esiste: è il sovrano nella definizione dei suoi nemici. Dell'alterna fortuna dei cosiddetti «tiranni» è emblema il caso del Bonaparte, del quale Manzoni diede un perplesso e rispettoso giudizio storico mentre i poco credibili «liberatori» inneggiavano, non proprio in buona fede, alla scomparsa (forse per veleno inglese) del «tiranno».

Corriere della Sera 27.8.11
Uno studio su quell’immagine istintiva, o allucinatoria, che precede l’ispirazione di scultori, pittiori, poeti e musicisti
Nella mente di ogni artista in principio c’è il «fasma»
di Gillo Dorfles
qui, segnalazione di Marcella Matrone

Corriere della Sera 27.8.11
La meglio gioventù era donna
Deaglio: il mio omaggio alla parte femminile del Sessantotto
di Ranieri Polese
qui

La Stampa 27.8.11
Così Thelma e Louise cambiarono le donne
Compie vent’anni il film cult di Ridley Scott con Geena Davis e Susan Sarandon in fuga on the road
di Roselina Salemi

Il debutto di Brad Pitt «Avevamo difficoltà a trovare il volto giusto per l’autostoppista dice Callie Khouri, che per la sceneggiatura vinse l’Oscar -. Un giorno Ridley Scott mi disse: “Hai visto il ragazzo che abbiamo selezionato?”. Quando comparve Brad Pitt, pensai che era carino e sarebbe andato abbastanza bene. In quella parte è stato un grande»

«Senti Louise, non torniamo indietro».
«Che vuoi dire Thelma?».
«Non fermiamoci». «Che vuoi dire Thelma, non capisco?».
«Coraggio... (indicando il Gran Canyon)». «Sei sicura?». «Sì». Vent’anni fa Thelma e Louise, dopo aver attraversato mezza America a bordo di una vecchia Ford Thunderbird, aver ucciso un uomo, rapinato un supermercato, fatto saltare un camion, chiuso un poliziotto nel bagagliaio, preferiscono morire pur di non farsi arrestare da Harvey Keitel. Sulla macchina lanciata a gran velocità verso il canyon dove scorre il Colorado, si guardano negli occhi, e tenendosi per mano, si lanciano nel vuoto. Quella scena, che non manca mai di far piangere, è l’epilogo di una gita, la trasgressione di due amiche in fuga dall’Arkansas: Louise (Susan Sarandon) cameriera in un fast food, e Thelma (Geena Davis) casalinga, quasi schiava del marito Darryl.
Il dibattito è stato, ai tempi, piuttosto accesso. Film femminista oppure no, visto il finale? Nel ‘91 c’erano già working girl e donne liberate. Erica Jong aveva scritto Paura di volare nel 1973, Cindy Lauper aveva cantato il diritto delle ragazze a divertirsi nel 1984. Perché allora un road movie rifiutato da Meryl Streep e Goldie Hawn è entrato in maniera così prepotente nell’immaginario collettivo? Ci sono citazioni ovunque, dai Simpson al video Telephone , con Lady GaGa e Beyoncè, ci sono parodie e canzoni, come Thelma & Louise di Giorgia. E sui giornali americani, ogni volta che una donna spara, ferisce, o pianta un tacco in testa a uno stupratore citano il film.
«Io me lo ricordo ancora - dice Lea Melandri, femminista storica, infaticabile (il suo ultimo libro, pubblicato con Bollati Boringhieri è: Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà ) -: ha dato voce al sogno di libertà delle donne, alla possibilità di correre nel mondo essendo semplicemente se stesse. Il viaggio è la vita, è la sfida, e più del volo finale, mi è rimasta negli occhi l’immagine di Thelma e Louise che cantano, con i finestrini abbassati, quel loro momento di perfetta felicità. Mi è rimasto un esempio di amicizia e di solidarietà femminile, contro il modello della rivalità. E un promemoria: se la libertà non l’hai conquistata, alla fine della strada c’è anche la fine del sogno». Curiosa coincidenza, il ‘91, oltre a essere l’anno di Thelma e Louise è l’anno di Naomi Wolf, che pubblica con enorme successo Il mito della bellezza , un saggio sulla nuova prigione delle donne, salvo poi invitarle, in Fire with fire (Fuoco contro fuoco) a «riappropriarsi del loro sex appeal». Esattamente quello che hanno fatto le eroine di Sex and The City che decidono senza troppi problemi di lasciare e prendere gli uomini, di giocare, di annoiarsi (ma è più facile a Manhattan).
Nel ‘96 arrivano i Monologhi della vagina di Eve Ensler («L’emancipazione delle donne è profondamente connessa alla loro sessualità: io sono ossessionata dall’idea di donne violate e stuprate»), e poi arriva il diritto che Thelma e Louise hanno esercitato in anticipo, con una certa esagerazione: rispondere alla violenza con la violenza. Combattere gli uomini che odiano le donne. L’icona delle ragazze toste adesso è Lisbeth Salander, consacrata dalla trilogia di Millennium : non è bella, e ha una storia tremenda alle spalle, ma è speciale, fragile eppure invincibile. «Io avrei potuto essere Thelma o Louise - confessa Lorella Zanardo, autrice dell’ormai famoso documentario sul corpo delle donne -. Le ho sentite sempre molto affini, e sono convinta, nonostante mi piacciano gli uomini, che una comunicazione così profonda sia soltanto al femminile. E’ questo che mi ha lasciato il film. Ma Lisbeth, con la sua rabbia, potrebbe essere figlia di Thelma e Louise. Potrebbero esserlo le ragazze incazzate che vedo, ascolto, e rispetto, piene di risentimento, a ragione, nei confronti di un mondo maschile che fa blocco, le esclude, le riduce a oggetti. Si incontreranno a Torino il 28-29-30 ottobre, cliccate su http://feministblogcamp.noblogs. org: il loghino che hanno disegnato piacerebbe a Lisbeth. Ma chissà se loro sono d’accordo...». Hanno una grossa responsabilità, le figlie (vere e immaginarie) di Thelma e Louise. Ma una cosa è sicura: non hanno nessuna intenzione di buttarsi giù. In tutti in sensi.
«Se la libertà non l’hai conquistata, alla fine della strada c’è la fine del sogno»

La Stampa TuttoLibri 27.8.11
Bauman
“Se non ti vendi la tua vita è miserabile”
di Andrea Malaguti

Nel piccolo giardino della sua casa di Leeds, una villetta a tre piani dipinta di bianco non troppo lontana dall’Università, il professor Zygmunt Bauman, filosofo e sociologo della società liquida, cammina fumando la pipa in mezzo alle piante che crescono selvaggiamente. «Solo questa quercia è arrivata prima di me. Ha 200 anni. Il resto l’abbiamo piantato io e mia moglie. Mi manca molto Janina, 63 anni di vita comune hanno dato senso a quello che sono». Un vestito scuro, il girocollo grigio, il viso scavato incorniciato dai capelli bianchi, gli occhi inquieti che la luce faticosa di questa mattina di agosto inglese rende ancora più profondi e mobili. E’ un uomo lungo, con mani sottili e pensieri rapidi. E’ invecchiato dolcemente, gestendo i suoi dolori. «Lascio che le piante si muovano come credono. Il mio giardiniere è Darwin. L’evoluzione è inarrestabile». Lui si occupa dell’evoluzione dell’uomo. Di come si organizza. Dalle rivoluzioni con la lancia a quelle con il computer. E’ stato un lungo viaggio.
Professore, ci sarebbe stata la primavera araba senza Facebook?
«No, ma mi pare che questa domanda ne pretenda un’altra».
Quale?
«Che ne è dell’estate araba? Qualcuno ne sa qualcosa?».
No, ma che cosa significa?
«Significa che ciò che si può fare attraverso i social network è spettacolare, impressionante, ma “so what?” Che cosa succede poi? Egiziani e tunisini hanno forse idea del loro futuro?».
Internet innesca meccanismi fuori controllo?
«Internet innesca meccanismi. Ma qual è la connessione tra quello che è successo e la forma che avranno i regimi di questi Paesi? Sospetto che sia parecchio debole. La rete lavora molto sugli effetti in termini brevi, ma in nessun modo sulla possibilità di costruire una nuova società in termini reali».
Ormai ci sono due mondi, uno «on line» e uno «off line».
«Esatto. Ma qualunque cosa tu faccia off line ha delle conseguenze, mentre le rivoluzioni via Internet hanno un inizio rapido e una fine altrettanto rapida».
Perché in Siria non ha funzionato?
«Perché la vita vera si muove in modo diverso. E per arrivare da qualche parte ha bisogno della politica. Ha bisogno di un progetto. La politica è decisiva. Ma la globalizzazione l’ha tagliata fuori. E’ urgente riconsegnarle un ruolo centrale».
Anders Breivik, il macellaio di Oslo e Utoya aveva anticipato il suo piano delirante su Internet. Perché nessuno l’ha fermato?
«Perché nessuno si è accorto di lui. Internet è solo uno strumento, non è né buono né cattivo. Come un rasoio. Lo puoi usare per tagliarti la barba, ma anche per tagliare le gole. Come ha osservato Josh Rose, dell’agenzia pubblicitaria Deutsche LA, Internet non sottrae la nostra umanità, la rispecchia».
Come ci cambia la rete?
«Ci mette in contatto più velocemente, ma ci rende più deboli. C’è un’espressione inglese che trovo molto efficace: nessun pranzo è gratis. Guadagni qualcosa, perdi qualcosa».
Che differenza c’è tra rete e comunità reale?
«La prima è il luogo della libertà. La seconda della sicurezza. Sulla comunità si può contare come su un vero amico. E’ più affidabile. Ma anche più vincolante. Ti controlla. La rete è libera, ma serve soprattutto per i momenti di svago. E per uscire dalle relazioni in fondo basta spingere il tasto delete. Però mi pare che siamo tutti d’accordo sul fatto che tra abbracciare qualcuno e “pokarlo” ci sia differenza».
In rete però si possono trovare anche 300 amici al giorno.
«Decisamente molti di più di quelli che io ho avuto nei miei 86 anni di vita. Robin Dunbar, che insegna antropologia evoluzionistica a Oxford, dice che la nostra mente non è predisposta per avere più di 150 rapporti significativi».
Come è cambiata la definizione di rapporto «significativo»?
«Secondo lo psichiatra e psicanalista Serge Tisseron i rapporti significativi sono passati dall’”intimità” a quella che lui chiama “estimità”. Volendo fissare un punto si può pensare a metà degli Anni Ottanta, quando a un talk show francese tale Vivianne dichiarò di non avere mai avuto un orgasmo perché suo marito era affetto da eiaculazione precoce. Non si trattava solo di rendere pubblici atti privati. Ma anche di farlo in un’arena aperta».
Su Internet puoi dire le stesse cose celando la tua identità.
«E’ vero. C’è una grande sensazione di impunità. Sono sicuro che ci sono migliaia di messaggi crudeli come quelli di Breivik in rete. Intervenire è impossibile, non possiamo leggere tutto. Ma se sei timido e cerchi una ragazza la rete è un dono di Dio».
Qual è il segreto di Zuckerberg?
«Immagino che molti dei suoi utenti non riuscissero a sfuggire alla propria solitudine. In più dovevano sentirsi penosamente trascurati. Zuckerberg li ha liberati».
Perché abbiamo bisogno di un confessionale virtuale?
«Siamo fatti così, ci serve la società per essere felici. Vogliamo essere individui speciali, diversi, con sogni unici. Ma quando abbiamo lavorato così duramente per creare la nostra identità dobbiamo andare in piazza e vederla confermata».
Mancanza di autostima?
«Natura. L’identità è un segreto e una contraddizione in termini. L’arena pubblica è l’equivalente dell’Agorà. Solo che adesso è popolata dal racconto di problemi privati. Il talk show è la piazza. E il nostro modello non sono i politici, ma le celebrità. E chi sono le celebrità? Persone conosciute per essere molto conosciute. Su Facebook c’è una rubrica specifica. Si chiama: “I like it”. Sono gli altri che esprimono il loro apprezzamento per quello che facciamo. E il numero delle persone che ci visitano definiscono il nostro successo. E’ la società dei consumi. Se non ti vendi sei destinato a una vita miserabile».

La Stampa TuttoLibri 27.8.11
Nella società “liquida” si vive di capricci
di Lelio De Michelis

Bauman. Tornano, aggiornati, i due celebri saggi del sociologo sulle crisi del «capitalismo parassitario» e sulla «Modernità»

È uno dei sociologi oggi più famosi. È celebre per alcune sue definizioni sulla condizione umana di questi ultimi decenni, prima fra tutte quella di «modernità liquida» - per questi nostri tempi in cui tutto è (purtroppo? per fortuna?) appunto liquido, mobile, sempre più veloce e immateriale, ma anche incerto, insicuro, precario. Il prossimo 2 settembre sarà al Festival della Mente di Sarzana per parlare di comunità, rete e social network.
Bene ha fatto allora Laterza a ripubblicare due suoi libri. Appunto Modernità liquida , libro del 2000. E il più recente (2009) Capitalismo parassitario (uscirà a giorni), ancora attualissimo visto che la crisi esplosa nel 2008 non si è ancora risolta, né i politici - se continuano a seguire le ricette neoliberiste che questa crisi hanno prodotto - potranno risolvere. Parassitario perché guidato da una finanza anch’essa liquida, compagna di un capitalismo che «offre il meglio di sé non nel risolvere i problemi, ma nel crearli», per effetto di quella «mentalità del cacciatore» (metafora di Bauman) ormai egemone, praticata da chi si preoccupa solo di cacciare e che, quando le «prede» (uomini e risorse) sono finite - perché ha distrutto ogni cosa si sposta verso altri terreni di caccia, e così all’infinito.
Un libro piccolo ma essenziale per capire perché questa crisi e perché continuiamo a credere in un sistema appunto parassitario (il capitalismo in sé), rinunciando a cercare alternative. Una crisi nata dalla moltiplicazione deliberata del debito, perché questo il capitalismo ci chiedeva e ci insegnava e questo volevano le banche per accrescere i loro profitti. Trasformando «un’enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una razza di debitori, con l’ulteriore indebitamento come unico realistico strumento di salvezza dai debiti già contratti». Il debito è come una droga, scrive Bauman che «dà dipendenza forse più di qualsiasi altra droga». Spacciata in questo caso dalle banche, con la complicità dello Stato.
Capitalismo parassitario, dunque. E Modernità liquida , che Laterza ripubblica con una nuova Prefazione dello stesso Bauman. Società «liquida» dei consumatori (che dopo avere soddisfatto i bisogni vive oggi di capricci e voglie di consumo), che ha preso il posto della vecchia società «solida» dei produttori (la fabbrica fordista, il «matrimonio di interesse» tra capitale e lavoro, le classi sociali).
Una società liquida in cui le «reti» si sono sostituite alle «strutture» di un tempo, dove l’idea di approfondire e definire è stata sostituita da «una serie di connessioni e disconnessioni senza fine». Dove il «matrimonio» tra capitale e lavoro si è trasformato nel «disimpegno» del capitale dal lavoro, producendo il «lavoro-campeggio» della flessibilità e della precarietà. Liquidità dove i «cittadini» si sono corrotti in «clienti». Dove la durata è stata rimpiazzata dall’istantaneità. Una società dove anche l’amore deve essere liquido, mentre la solidità «è vista come una minaccia». Dove domina il consumismo anche della conoscenza. Dove soprattutto, davanti alle difficoltà della vita non si deve contare sull’aiuto degli altri o dello Stato ma ci viene insegnato a cercare «soluzioni private a problemi sociali», ad essere imprenditori di noi stessi e quindi egoisti (questo mentre in rete, aggiungiamo, dovremmo invece «condividere» ogni cosa).
Si induce quindi una continua re-invenzione di se stessi e delle identità, in nome di una libertà illusoria che fa crescere un nuovo conformismo, magari nelle «comunitàgruccia», temporanee aggregazioni «attorno a un puntello su cui molti individui solitari appendono le loro solitarie paure individuali». Rendendo sempre più difficile essere cittadini non solo «de jure» ma soprattutto «de facto», ovvero di poter diventare «padroni del proprio destino e compiere le scelte realmente desiderate».
Tornare alla «solidità» di un tempo? No, però il capitalismo leggero e liquido di oggi (altra famosa metafora di Bauman) è come un aereo dove i passeggeri (noi) scoprono con terrore che la cabina di pilotaggio è vuota, che il pilota automatico (il capitalismo? la rete?) non dà alcuna informazione su dove si stia andando.
Il problema, in verità, non è il «pilota automatico»; siamo noi che abbiamo lasciato che lui prendesse il controllo dell’aereo.
Bauman interviene a Sarzana il 2 settembre (ore 21,15) «Sul concetto di comunità e rete sui social network e Facebook»
I cittadini si sono «corrotti» in clienti E per le questioni sociali si suggeriscono «soluzioni private» La finanza odierna «offre il meglio di sé non nel risolvere i problemi ma nel crearli»

La Stampa TuttoLibri 27.8.11
Irigaray, l’inconscio illuminato dal maestro yoga
di Alessandra Iadicicco

Il primo incontro fu tutt'altro che incoraggiante. Quando trent'anni fa la filosofa e psicologa parigina Luce Irigaray incontrò per la prima volta François Lorin, rinomato insegnante di yoga, non ne ebbe - o non gli diede - segnali di una possibile intesa. «Tutto può diventare cosciente», stava spiegando lo yogin ai suoi allievi concludendo la lezione. «Niente» ribatté lei tranchant quando poi, avvicinatosi con gentilezza, il maestro le chiese che cosa si aspettasse da lui. «Sono una psicanalista. Non credo che tutto possa diventare cosciente», fu la sua secca puntualizzazione da manuale. Da allora, in tre decenni di pratica della disciplina orientale, quella paladina dell'inconscio e della scienza occidentale dell'anima ha rivisto i suoi dogmi e ammorbidito la rigidezza delle sue convinzioni.
La prima a «sciogliersi» fu la sua schiena, affidata agli esercizi necessari a guarire i postumi di un incidente d'auto. Poi, via via, tutte le divisioni, schematizzazioni, contrapposizioni che caratterizzano l'atteggiamento tradizionalmente europeo rispetto all'attività della mente, alla funzione del corpo, alla relazione tra i due sessi, alla percezione di se stessi…
L'obiettivo perseguito attraverso tale lunga educazione fisica, ma costantemente accompagnata da una grande consapevolezza intellettuale era e resta per la pensatrice francese quello di «una nuova cultura dell'energia». È intesa l'energia vitale, che nel caso dell'animale uomo non scorre naturalmente, non si ricarica e consuma spontaneamente sotto forma di istinti, pulsioni e passioni. Ma, costantemente sorvegliata com'è, coltivata attraverso le generazioni, soggetta alle regole (spesso non-dette) della «cultura», rischia di essere soffocata da troppe griglie convenzionali. Per liberarla - avverte Irigaray sulla scorta di rivelazioni attinte con l'esperienza - basta un gesto semplicissimo. È il primo che compie un neonato per emanciparsi, con un grido di dolore e qualche lacrima, dalla mamma appena viene alla luce: il respiro. Imparare a respirare (ciò che, cantanti lirici e nuotatori a parte, in Occidente si dà per scontato) è la prima mossa per alimentare pensiero, potenza spirituale e sentimento della vita. Avvalersi del proprio patrimonio energetico, della propria vitalità - che è sempre sessuata, per questa teorica delle differenze - è poi il principio primo di una relazione proficua (se non geneticamente feconda) con l'altro. Sviluppare il sentimento dell'attenzione è infine l'antidoto più efficace contro ogni forma di egoismo ed egocentrismo: due ostacoli insuperabili sul cammino della conoscenza e della convivenza.
I motivi che Irigaray mette a fuoco in questo saggio dai chiari propositi pedagogici hanno tutti una forte coloritura etica ed esistenziale. A preservare l'autrice dal rischio di scivolare nel new age è l'approccio squisitamente epistemiologico al confronto tra Oriente e Occidente. Lavorando «al di là» delle due culture contrapposte a beneficio della sua «nuova» cultura dell'energia, la filosofa attinge alla ricchezza dell' una per compensare i limiti dell' altra. Il silenzio, il vuoto e l'ascolto orientali leniscono gli effetti di rumore, fretta, logorrea occidentali. D'altra parte la parola, la ratio, le finezze teoretiche e linguistiche del pensiero d'Occidente impediscono che la pratica assidua dello yoga si riduca a un mero apprendistato tecnico e ginnico.
Luce Irigaray parla il 4 settembre (ore 19) su «Salvare l’energia umana. il respiro: fonte di una condivisione universale»

La Stampa TuttoLibri 27.8.11
Reportage sentimentali
La poesia del freddo seduce Onfray al Polo Nord
di Carlo Grande

Iceberg azzurri, mineralità austere e sovrane, anime erranti di inuit travestite da foche e orsi bianchi: il Grande Nord di Michel Onfray è un Polo «paterno», è l’ultimo viaggio affrontato con il padre proprio là, nella terra di Baffin, oltre il Circolo polare artico, dove l’uomo aveva confessato al figlio ancora bambino che avrebbe voluto recarsi, qualora un mago avesse consentito un viaggio lontano da Chambois, paese della Normandia nel quale era nato e dal quale non si era mai mosso.
Il carnet di viaggio del filosofoscrittore ( Estetica del Polo Nord ) che trent’anni dopo ha accompagnato il padre ormai ottantenne fra gli Inuit, conduce a silenzi, magie e venti gelidi - «scultori di lacrime agli angoli degli occhi» – tra le mille declinazioni del freddo. Il Nord è una sorta di Paradiso che da secoli respinge e attrae i civilizzati, dagli echi dell’Agricola e del Germania di Tacito agli avventurieri di Jack London: il ghiaccio insegna a guardare, il silenzio ad ascoltare.
Ma quella del talentuoso affabulatore Onfray è anche testimonianza di dedizione filiale, e riflessione sul genocidio di popoli e culture operato della globalizzazione: molti degli Inuit, come i nativi d’America, appaiono slombati, schiantati dal cosiddetto «progresso». Tra loro – racconta Onfray trionfano ozio e alcolismo.
Così, alla voce del padre che si mescola allo sciabordio dell’acqua, al ricordo dei suoi scarni silenzi, si sovrappone spesso una nota amara, nella quale il Nord diventa una sorta di Eden corrotto, attraverso il quale non fuggirebbe più nessuno, nemmeno un Frankenstein qualunque.
Michel Onfray ESTETICA DEL POLO NORD Ponte alle Grazie, pp. 154, 14

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