domenica 21 agosto 2011

l’Unità 21.8.11
I costi del liberismo
La crisi è figlia di precise scelte politiche
di Francesco Cundari

Quello che i cittadini italiani si apprestano a pagare, non diversamente dai contribuenti americani e di gran parte d’Europa, si potrebbe dire, è il costo della politica. Il costo di una politica ben precisa, però. Una politica che per anni ha favorito il gigantesco arricchimento di pochi e il drammatico impoverimento di molti, anche se l’effetto doping dell’indebitamento, in molti paesi, ha nascosto questo rovescio della medaglia per lungo tempo, fino all’esplodere della crisi finanziaria mondiale. A quattro anni dal crollo dei subprime e a tre anni dal fallimento di Lehman Brothers, il dibattito politico italiano e internazionale non potrebbe essere più istruttivo. La crisi presenta il conto agli Stati, che si sono indebitati proprio per salvare quella finanza che doveva fare da sé, autoregolarsi e risolvere autonomamente tutti i problemi del mondo. E a Washington lo scontro tra destra e sinistra è tra chi vuole tagliare lo stato sociale, a cominciare dalla moderatissima riforma sanitaria di Obama, e chi vuole togliere i benefici fiscali ai più ricchi. Esattamente come in Italia. Un quadro che dimostra la falsità di due affermazioni a lungo circolate in questi anni: che i mercati sarebbero capaci di autoregolarsi e che non esisterebbe più alcuna differenza significativa tradestra e sinistra. Non per nulla, a ben vedere, questa seconda affermazione è una diretta conseguenza della prima: se i mercati possono regolarsi da soli, scompare necessariamente ogni differenza tra destra e sinistra, per la semplice ragione che scompare la politica, che è innanzi tutto confronto tra i rappresentanti di diversi interessi tutti ugualmente legittimi, s’intende per la distribuzione delle risorse.
Ora però si tratta innanzi tutto di distribuire i sacrifici, purtroppo. Non per niente, dagli stessi ambienti da cui fino a ieri proveniva l’elogio dei mercati e della finanza che è all’origine della crisi, viene ora una violenta campagna di delegittimazione della politica, che si accompagna alla ripetizione delle stesse formule e delle stesse ricette che ci hanno portati fin qui.
Dinanzi ai rischi cui l’Italia è esposta, naturalmente, occorre senso di responsabilità. Proprio per questo, però, l’appello alla responsabilità non può andare in una sola direzione. Anche tralasciando come il termine è stato squalificato dalla maggioranza, verrebbe da dire che occorre fare un uso responsabile pure degli appelli alla responsabilità. Non è possibile invocare uno sforzo unitario delle forze sociali mentre si cerca di divederle, chiamare l’opposizione a farsi carico dell’interesse nazionale mentre si cura soltanto il proprio interesse di parte (a tenersi larghi). E non è possibile nemmeno chiedere sacrifici straordinari a lavoratori e pensionati allo scopo di lasciare tutto com’è.
Quello che il mondo si appresta a pagare è il costo del liberismo, che in Italia si è accompagnato a una particolare forma di conflittualità politica, tanto esasperata nella forma quanto vaga nei contenuti, che ha favorito naturalmente tutte le reazioni antipolitiche e antistatuali, dal leghismo al liberismo. Lo stesso Silvio Berlusconi si è presentato come il campione dell’antipolitica, l’imprenditore che alla politica era solo «prestato». In fondo, come scrive Michele Prospero, la sua intera parabola rappresenta la forma più estrema di privatizzazione del politico.
In Italia, purtroppo, paghiamo il conto anche di tutto questo. L’uomo solo al comando, che con la sua sola persona doveva surrogare gli odiosi partiti e gli inutili riti parlamentari, lascia un Paese allo sbando, lanciato contro un muro. L’idea che si possa risolvere il problema procedendo nella stessa direzione, e magari con una bella accelerata, non pare delle più brillanti.

l’Unità 21.8.11
L’illusione finanziaria che ha nascosto le diseguaglianze
Negli ultimi 30 anni l’impoverimento del ceto medio e l’allargarsi della forbice sociale sono stati coperti dal ricorso all’indebitamento Con la grande crisi si è rotto l’incantesimo, ed è arrivato il conto
di Ronny Mazzocchi

La crisi economico-finanziaria, iniziata nell’agosto 2007 negli Stati Uniti e dilagata velocemente in crisi sistemica e planetaria, rappresenta non soltanto l’ultimo tassello di una serie di difficoltà che il sistema economico globale ha dovuto affrontare nell’ultimo trentennio, ma anche la fine di quella strana forma di liberismo post-nazionale che si è fatto largo a partire dalla fine degli accordi di Bretton Woods. Potremmo definirlo il paradigma del liberismo antipolitico, in cui si assume il silenzio del Principe sui fatti economici e il bellum omnium contra omnes come stato di natura, contrapposto a quella inces-
sante costruzione politica della stabilità che, a livello nazionale e internazionale, ha caratterizzato tutti i movimenti progressisti del Novecento.
Il paradigma del liberismo antipolitico al contrario di quello della stabilità è indifferente alla distribuzione del reddito, alla distinzione tra redditi da lavoro e rendite finanziarie, è imperniato su marketing e consumo, misura l’efficienza economica non sul prodotto ma sul valore, considera più conveniente il debito rispetto al capitale ed è refrattario alle interferenze nazionali verso la supposta autoregolamentazione “tecnica” dei mercati.
Il paradigma antipolitico ha avuto pienamente corso solo in quelle che potremmo chiamare le periferie del mondo, prive di autonomia decisionale e bisognose di sostegno esterno perché indebitate, povere di tecnologia, inefficienti e politicamente marginali. Nei nuovi centri dell’economia multipolare (a partire dai cosiddetti BRIC: Brasile, Russia, India e Cina) così come nei tradizionali paesi guida (Stati Uniti, Germania e Giappone), lo sviluppo ha continuato invece a strutturarsi su economie miste e non si è mai rinunciato a esercitare la sovranità su moneta, banche e politica industriale, seppure attraverso altri canali. Basti pensare all’influenza che, anche nelle ultime settimane, hanno esercitato i governi di alcuni grandi paesi sulla Bce per le vicende che riguardano il nostro paese, sebbene l’istituto di emissione venisse considerato l’emblema dell’indipendenza dal potere politico.
Mantenere la sovranità economica e non essere soggetti alla regolazione altrui è stato, ed è ancora, la linea di discrimine tra dirigenti e diretti nella divisione internazionale del lavoro e della ricchezza. Da questo confine, spesso sottaciuto, sono originati i tanti arbitri commessi, nel bene e nel male, attraverso il controllo del Fondo monetario internazionale, ma anche il protagonismo debordante delle banche d’affari, con cui abbiamo ormai imparato a familiarizzare. Di qui anche i tanti equivoci che hanno caratterizzato la vicenda italiana a partire dalla fine degli anni Ottanta, quando complici il mutamento del quadro internazionale e l’ondata di antipolitica siamo scivolati gradualmente dalla parte sbagliata della linea di demarcazione.
Col tempo il paradigma dell’antipolitica ha finito però per travolgere tutti. La finanza, da molti posta sul banco degli imputati come causa della crisi economica globale in cui siamo piombati ormai da quasi quattro anni, in realtà è stata solo uno strumento utile a rendere sostenibili i crescenti squilibri di produzione, di reddito e di consumo che si materializzavano nell’economia reale. Paradossalmente sono stati proprio i mercati finanziari, allentando i vincoli di liquidità, a permettere di coprire tali squilibri per un lungo lasso di tempo, grazie alla moltiplicazione degli strumenti di diversificazione e di trasformazione del rischio anche su scala geografica. L’accumulazione degli squilibri economici è stato un processo lento e complesso, che si è esplicato sia nell’emergere dei cosiddetti global imbalances, favoriti da una globalizzazione selvaggia e non governata, sia in un pronunciato peggioramento nella distribuzione del reddito all’interno dei singoli paesi.
Per quanto riguarda gli squilibri globali, se da un lato il progressivo ingresso sulla scena economica mondiale di nuovi attori può avere avuto indubbi vantaggi per la specializzazione produttiva e la conseguente maggiore disponibilità di beni di consumo a basso costo, dall’altro ha generato una condizione esplosiva che né le forze spontanee del mercato né le strategie politico-economiche sono state in grado di risolvere in maniera non traumatica.
Fra gli squilibri reali che hanno reso particolarmente fragili i sistemi economici merita una menzione particolare – non foss’altro perché continua a essere sistematicamente ignorata – la distribuzione del reddito. Il mercato globale, il progresso tecnico e l’outsourcing hanno redistribuito il reddito a favore dei profitti e, più in generale, dei redditi da capitale. Già a partire dagli anni Ottanta, la gran parte dei paesi industrializzati ha cominciato a mostrare una caduta della quota dei salari sul reddito nazionale e, all’interno di questa, un progressivo aumento della diseguaglianza fra redditi bassi ed elevati. Tutto questo è stato sicuramente favorito sia dalla retorica antistatalista sia dal crescente indebolimento dei corpi intermedi e degli organismi rappresentativi, come partiti e sindacati, facilitando così la riduzione delle conquiste sociali, delle prestazioni di welfare e della stabilità del posto di lavoro. Ma a giocare un ruolo centrale è stata la difficoltà, da parte della classe media, a percepire il proprio crescente impoverimento. Nonostante la redistribuzione verso l’alto dei redditi e della ricchezza, infatti, la quota dei consumi privati sul Pil ha mostrato un costante aumento in quasi tutti i paesi avanzati, con incrementi spettacolari come quello verificatosi negli Stati Uniti.
Tutto ciò è stato possibile grazie a un massiccio ricorso all’indebitamento, favorito sia dal cosiddetto “effetto ricchezza” sui valori mobiliari e immobiliari sia dall’emergere di nuovi strumenti di debito a costi decrescenti. Il progressivo diffondersi delle carte di credito e la facile concessione di mutui ipotecari a debitori incapaci di ripagare la somma presa a prestito sulla base del flusso di reddito (ma accordati sulla presunzione che la garanzia derivasse dalla rivalutazione del bene acquistato a debito) costituiscono l’aspetto emblematico di questo fenomeno. La crisi ha svelato il trucco e milioni di persone si sono scoperte improvvisamente più povere e precarie.
Alla fine dell’illusione liberista si aggiungono un presente e un futuro ancora più incerti. Le enormi perdite accumulate dalle società finanziarie sono state poste a carico dei governi nazionali, con un conseguente aumento generalizzato dei debiti pubblici. Le pressioni dei mercati – spesso manovrati dalle stesse banche salvate con i fondi pubblici – stanno spingendo un po’ ovunque verso una ulteriore riduzione dei diritti e delle retribuzioni, come dimostra anche la dura manovra imposta all’Italia dal governo Berlusconi. Per uscire dalla crisi è quindi necessario cambiare strada. Bisogna ribaltare il paradigma che ha dominato questi ultimi trent’anni, restituendo alla politica il primato nel definire sentieri di sviluppo e distribuzione della ricchezza e al mercato il suo ruolo di strumento per raggiungere questi obiettivi. Una necessità che per l’Italia è ancora più sentita, non solo per la difficile situazione economico-sociale contingente, ma anche per riportarsi dal lato giusto di quella linea di demarcazione che separa dirigenti e diretti, e tornare a giocare un ruolo da protagonista nell’economia globale.

l’Unità 21.8.11
Roghi notturni Colpiti soprattutto i quartieri borghesi e i mezzi di lusso
Cdu e liberali puntano alla rimonta e attaccano sulla sicurezza il sindaco Spd
Berlino, decine di auto bruciate arroventano la sfida elettorale
Decine di auto bruciate a Berlino, la polizia sospetta l’estrema sinistra. In vista delle elezioni cittadine Cdu e liberali attaccano il sindaco Spd sulla sicurezza. E qualcuno ricorda che i terroristi della Raf cominciarono così
di Gherardo Ugolini

Berlino come Londra? Sono ormai cinque notti consecutive che la capitale tedesca vive un’insolita guerriglia urbana. Una guerriglia fatta soprattutto di auto bruciate: i teppisti colpiscono di preferenza veicoli di lusso, Porsche, Mercedes, Bmw, ma talora anche semplici Opel o Skoda, per poi dileguarsi nel nulla. Agiscono nei quartieri più borghesi della città, come quello di Charlottenburg; ma all’occorrenza si spostano anche verso la periferia orientale. Il bilancio ammonta a oltre settanta vetture incendiate, ed è per pura fortuna se ancora non ci sono state vittime. La polizia ha intensificato i controlli, ma senza trovare il bandolo della matassa di questo inaspettato vandalismo che forse potrebbe trarre spinta dal desiderio di emulare le rivolte devastatrici di Londra e delle altre città del Regno Unito. Soprattutto non si capisce se si tratti di delinquenza comune o di violenza con moventi politici. L’ipotesi più accreditata è che si tratti di frange dell’estrema sinistra, gruppi di autonomi e black bloc, convinti che bruciare auto simbolo del capitalismo sia un buon modo per protestare contro i «ricchi» e contro il sistema. Non a caso i terroristi della Rote Armee Fraktion negli anni Settanta iniziarono la loro attività con incendi dolosi, prima di passare ad attentati e omicidi.
Mentre le forze dell’ordine incrementano l’uso di elicotteri con visori notturni e promettono un compenso di 5mila euro per chi sappia fornire indicazioni utili ad arrestare i colpevoli, il tema delle auto bruciate infiamma la campagna elettorale berlinese. Sì, perché a Berlino si vota il18 settembre per il rinnovo del governo locale. Finora i sondaggi pronosticano un largo successo dell’Spd e del borgomastro uscente Klaus Wowereit, che da dieci anni governa la città-stato con una maggioranza formata da socialdemocratici e Linke. Ma Cdu e Fdp sono pronti a dare battaglia per riconquistare il potere in una città che li vede confinati all’opposizione da diverse legislature. E gli incendi dolosi delle auto potrebbero essere l’arma per risalire la china e compiere l’agognata rimonta.
«Le auto in fiamme a Berlino sono il risultato di una politica sbagliata che è durata troppo a lungo», ha tuonato per primo Joachim Herrmann, ministro degli Interni della Baviera in un’intervista alla Bild in cui accusa Wowereit di «tolleranza eccessiva e sbagliata nei confronti delle violenze dell’estrema sinistra». Sulla stessa linea Hermann Grö the,segretario generale della Cdu, secondo il quale «per Wowereit il tema della sicurezza non ha evidentemente nessun valore» e denuncia i tagli alle risorse destinate alle forze dell’ordine. Dal canto loro i liberali hanno inondato la città con grandi cartelloni in cui si vedono sullo sfondo fiamme e carcasse d’auto e si legge lo slogan: «Prima le auto e poi...?».
A questo punto è chiaro che Wowereit si giocherà la riconferma sul tema della sicurezza. Per ora il borgomastro si è limitato a denunciare come «inaccettabili e ingiustificabili» gli atti di violenza. Un valido supporto gli è stato offerto da Renate Künast, candidata dei Verdi, rivale dunque di Wowereit, ma anche sua probabile partner se si arriverà, come pare verosimile, ad una maggioranza rosso-verde. La battagliera Renate ha respinto come «strumentalizzazioni demagogiche» tutte le accuse rivolte al governo uscente.

Repubblica 21.8.11
I segreti di Leary il guru psichedelico che sconvolse il mondo
Leary in The Sky with Diamonds
Lettere, incontri, esperimenti, viaggi mentali, rivoluzione e pacifismo Ecco l´archivio del guru psichedelico
di Angelo Aquaro


Sono 335 scatoloni. È l´archivio del professore di Harvard che diventò il profeta psichedelico, influenzò la Beat Generation e fu definito da Nixon "l´essere vivente più pericoloso d´America". La Biblioteca di New York lo ha acquistato. Lo abbiamo consultato

NEW YORK. La richiesta è su carta intestata, Harvard University, Department of Social Relation, Centro per gli studi sulla personalità. La data è il 6 dicembre 1960, destinataria Olympia Press, Paris, France: «Carissimi, vogliate gentilmente inviarmi una copia di Pasto nudo di William Burroughs. Mi occorre per le ricerche che sto facendo sulle droghe e il loro effetto sulla creatività. Sto provvedendo personalmente ad accordarmi con le autorità doganali americane perché possa essere ammesso negli States». Firmato: «Timothy Leary». Chiudete gli occhi. E poi riapriteli. Anzi: «Turn on, tune in, drop out», cioè accendetevi, sintonizzatevi e lasciatevi andare, secondo lo slogan più famoso degli anni Sessanta che quel professore matto, il profeta dell´Lsd, coniò dopo un pranzo con Marshall McLuhan, l´inventore del Villaggio Globale.
E provate allora a lasciarvi andare davvero nel tempo scorrendo le dieci righe che hanno sconvolto il mondo - e adesso riposano nelle 335 scatole dell´archivio più psichedelico della storia. Lettere, foto, cartoline, filmati e oggetti ricordo, perfino vestiti. La straordinaria testimonianza di un sogno che sembra un incubo: o viceversa. La New York Public Library ha acquistato tutto questo ben dell´uomo: poco meno di un milione di dollari. William Stingone, il curatore dei manoscritti della biblioteca, spiega al New York Times che qui spera di trovare, finalmente, «la verità al di là del mito». Ma guardate questa: è una delle tantissime foto che la Library ha messo a disposizione di Repubblica. Ci sono Paul Bowles, quello de Il tè nel deserto, e lo stesso Burroughs, naturalmente tutto di nero vestito perfino lì, sul tetto di quella casa sotto il sole di Tangeri, 1961. E guardate ancora quest´altra: c´è Allen Ginsberg, il poeta da Urlo, Peggy Hitchcock, l´ereditiera che metterà a disposizione dei professori pazzi la sua casa di Millbrook, nei boschi di New York, e poi ancora Lawrence Ferlinghetti, il libraio dei Beat, e sempre lui, Leary, 1963. E come fai a non rincorrere il mito?
In fondo è nato tutto dalle dieci righe di quella lettera. Nel dicembre del 1960, a Parigi, gli impiegati della piccola casa editrice specializzata in operette erotiche, che due anni prima ha conosciuto improvvisa fama dando alle stampe un romanzo chiamato Lolita, non possono neppure a immaginare le conseguenze di quella curiosa livrasion à l´étranger che s´apprestano a fare. Sfogliando quel Burroughs tutto droga e sesso, il romanzo che nei suoi States, dove è stato appena eletto un certo John Kennedy, è ancora proibito, il professor Leary, chiamato in cattedra nella più antica e prestigiosa università d´America «per le sue interessanti idee», si convince che la strada che sta seguendo è giusta. Nell´estate di quello stesso anno, durante una gita in Messico, ha provato per la prima volta i funghi sacri, cioè allucinogeni, e ha deciso di studiare gli effetti sul comportamento umano della psilocibina, la sostanza costitutiva che la Sandoz, il colosso della farmaceutica, ha prodotto in laboratorio.
Pescando un´altra carta da questo archivio delle meraviglie: «La prima volta che presi la psilocibina - 10 pillole - ero davanti al caminetto di Cambridge», scrive proprio Allen Ginsberg in uno di quei report che il professore chiede alle sue illustrissime cavie. L´esperimento è così devastante che in questo documento rimasto nascosto per mezzo secolo il poeta confessa di trovarsi «nudo e in preda alla nausea». Comincia ad avere paura. «Ma in quel momento il professor Leary entrò nella mia stanza, mi guardò negli occhi e mi disse: sei un grande». Per gli esperimenti dell´Harvard Psilocybin Project sfilano all´università Aldous Huxley, lo scrittore visionario de Il mondo nuovo che allora insegna anche al Mit, Arthur Koestler, lo scrittore che in Buio a mezzanotte denunciò lo stalinismo, oltre naturalmente a tutta la compagnia dei Beat: da Ginsberg a Jack Kerouac, da Peter Orlovsky a Neal Cassady. E quando, finalmente, arriva anche il suo eroe più grande, Burroughs, il professor Leary è già oltre: in tutti i sensi.
Accade giusto cinquant´anni fa, settembre 1961. Un medico, Michael Hollingshead, arriva da New York per incontrare il professore sui divani dell´elitario Harvard Faculty Club: porta con sé un piccolo vasetto in cui, mischiato in una pasta di zucchero, ha portato un grammo di una nuova sostanza prodotta dalla solita Sandoz, e che si chiama Lsd. Da allora davvero nulla sarà più come prima. Il professore ha cominciato a sperimentare con gli allucinogeni per liberare la psicologia dalla gabbia del comportamentismo che sembra disegnato su misura per il perbenismo americano: solo il comportamento esplicito è scientificamente osservabile, ogni introspezione è interpretazione personale e, quindi, non oggettiva. Ma negli anni Cinquanta gli Stati Uniti sono già un´immensa farmacia: c´è una pillola per ogni tipo di malattia, insegnano il mercato e la pubblicità. E il ricorso ai farmaci, che in inglese si chiamano drugs, perché non può funzionare per i disturbi dell´anima?
Com´è finita lo raccontano le immagini di questo archivio. Lo scienziato che a cinquant´anni sarà costretto a fuggire in Afghanistan sorride dalla foto che lo ritrae ancora con la divisa da cadetto di West Point, da dove era stato cacciato per insubordinazione. Lo psicologo che propose di liberare i carcerati imbottendoli di Lsd scrive giochi di parole sul retro delle cartoline. E poi schizza, tutto fiero e tutto in maiuscolo: «James Joyce sarebbe orgoglioso di me!». L´uomo che Richard Nixon definì «l´essere vivente più pericoloso d´America» lancia su carta legale proclami in rima baciata che non avrebbero fatto paura a nessuno: «Cominciò tutto a primavera / John e Yoko a Montreal / Una settimana a letto per la pace / mandando in onda una frase sola: la guerra deve finire!».
Ci si avventura tra le sue carte come in un trip attraverso questo cinquantennio che sembra lungo intere ere geologiche. E ideologiche. Il professore che a trent´anni vestiva in cravatta e tra i suoi amici aveva Cary Grant, vero fan degli allucinogeni, a settanta veste quasi solo in jeans, e quando muore l´elegia funebre gli sarà letta da un´altra diva di Hollywood, Wynona Ryder: sua nipote. L´uomo che verrà cacciato da Harvard, che finirà in galera e fuggirà con l´aiuto delle Pantere nere, il 17 luglio 1961 ha tra le mani una lettera firmata da Bill Wilson, il fondatore degli Alcolisti anonimi che gli chiede di poter utilizzare «la sua» Lsd per combattere la bottiglia.
Ci vorranno almeno due anni prima che le carte possano essere mostrate al pubblico. Perché nelle lettere dell´inesauribile archivio la storia di questo mistero del Novecento - tragicamente segnata, all´inizio e alla fine, dal suicidio della prima moglie e, quarant´anni dopo, della figlia - si comprime davvero come in un acido. C´è un manifesto per un meeting in una discoteca tedesca, Normal, con due tizi che posano come i Kraftwerk: è il 1982 e quei due tipi sono Leary e G. Gordon Liddy, l´ex capo dell´Fbi che l´aveva spedito in galera e poi finito in galera lui stesso per il Watergate. Insieme, ora girano il mondo in tour, come due stanchi Buffalo Bill: non è uno spettacolo? E che cosa sarebbe successo se nella corsa a governatore della California, 1970, il professore fosse riuscito a insidiare un ambiziosissimo ex attore, Ronald Reagan? «Questa», appunta Leary, «è la canzone che Lennon mi ha regalato per la campagna elettorale...». No, la storia non si fa con i se: ma di Lsd qui si è strafatta davvero.

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