giovedì 11 agosto 2011

l’Unità 11.8.11
Le ronde Giovani asiatici investiti mentre difendevano le loro case e attività commerciali 
Tre morti a Birmingham
Ancora una notte tesa, di pioggia, nelle città interessate dai «riots», da Londra a Liverpool alla Scozia. A Birmingham, dove tre negozianti di origini asiatiche sono stati uccisi da un’auto, timori di scontri razziali.
di Daniele Guido Gessa

Regno Unito in fiamme, ma la società civile reagisce. Dalle pulizie collettive a Londra – migliaia di persone munite di scopa e paletta stanno ripulendo le strade – alle petizioni su Internet: l’ultima ha il titolo «Togliamo i benefit ai rivoltosi» e ha già raggiunto, in un giorno, poco meno di centomila firme, soglia per la presentazione alla House of Commons. Ma la società britannica reagisce anche come può, spesso spinta dalla rabbia. Forte a Birmingham la tensione fra gli asiatici, che hanno visto la morte – ormai quasi certa per omicidio – di tre giovani commercianti che difendevano le loro attività, travolti da un’auto in corsa nel quartiere di Winson Green. I leader della comunità chiedono a tutti di mantenere la calma, nelle Chiese si prega per questo, il timore è che la morte dei tre uomini possa ridare ossigeno alle tensioni razziali che covano sotto la cenere.
IL PIENO RISPETTO
Con il rischio che Haroon Jahan, 21 anni, Shazad Ali, 30, e Abdul Musavir, 31, possano diventare nuovi martiri sull’altare dell’agognato pieno rispetto in un Paese che dagli anni Cinquanta, quando arrivarono i primi afro-caraibici, cerca in ogni modo di imboccare la strada della vera integrazione. Intanto sono iniziati i primi processi per direttissima. La polizia sta monitorando i social network per cercare di rintracciare i tanti «incappucciati» fotografati o ripresi dalle telecamere. Giornali come il Daily Mail pubblicano ogni giorno nuove immagini, chiedendo ai lettori di aiutare le forze dell’ordine a identificare i ragazzi dei riots. Una specie di caccia al ladro di gente che è stata immortalata mentre rubava, spaccava vetrine, rapinava semplici passanti, incendiava shop e macchine. E feriva centinaia di poliziotti, che ora – lo ha imposto il ministro degli Interni Theresa May – dovranno pure rinunciare alle ferie e ai riposi.
Come pedine su una scacchiera, gli uomini delle forze dell’ordine vengono spostati da una parte all’altra del Paese. Persino dalla Scozia, che per una volta ha abbandonato il suo desiderio di secessionismo, nel nome della sicurezza del Regno. Ma polemiche sono nate perché Manchester – dove gli scontri hanno portato a quasi 200 arresti – sarebbe rimasta sguarnita per aiutare la capitale. Tutta la Gran Bretagna, infatti, ormai è colpita a macchia di leopardo dai riots. Persino nella tranquillissima Oxford dove il rischio più grave è sempre stato solo quello delle notti brave degli studenti sono stati incendiati cassonetti e spaccate vetrine di negozi. Del resto, il disagio per la disoccupazione, per gli aiuti sociali sempre più deboli e per un’istruzione mancata – il tutto unito alla criminalità bella e buona, gratuita e confusionaria che, come al solito, si accoda – non sono una caratteristica della sola Londra.
Eppure, ieri, il Labour ha smorzato un po’ i toni. Se Ken Livingstone, famoso ex sindaco di Londra, si era lanciato contro i tagli alla spesa pubblica da parte del governo Cameron, il leader del partito, Ed Miliband, ha cercato di essere rassicurante: ha fatto un giro per Manchester, seguito da tantissimi privati cittadini, ha parlato con i negozianti e con i poliziotti, visitando anche quartieri poveri. «Ora dobbiamo guardare al perché di quello che è successo e al perché la gente faccia certe cose. Io credo
che tutto sia dovuto a un complesso di cause», ha detto Miliband. Il suo rivale, il primo ministro David Cameron, di mattina, aveva invece richiamato alla fermezza. Ringraziando i 16mila poliziotti impiegati la sera prima, dicendo che «non consentiremo una cultura della paura nelle nostre strade», e, soprattutto, autorizzando l’uso dei cannoni ad acqua da parte della Metropolitan Police. Polizia che, questa l’accusa su diversi forum su Internet, avrebbe lasciato allo sbando un quartiere «bene» come Ealing, a Ovest della capitale, dove un uomo è stato gravemente ferito mentre tentava di difendersi dai saccheggiatori e ora lotta fra la vita e la morte. Cinque giorni, cinque morti. I tre sfortunati di Birmingham, un 26enne morto a Croydon, a Sud di Londra, ma soprattutto quel Mark Duggan ucciso dalla polizia una settimana fa, e dal quale sono partite le rivolte a Tottenham di parenti e amici che chiedevano giustizia. Si spera ora che la conta finisca. Ma in molti temono che, purtroppo, non sarà così. 

l’Unità 11.8.11
Ribelli e «sciacalli» Chi sono, che vogliono i ragazzi della rivolta che incendia la Gran Bretagna 
Generazione senza speranze. Intervista a un “incappucciato”
«La nostra violenza viene dalla rabbia di sentirci esclusi»
di Claudia Stamerra

Non è stato altro che il momento in cui è uscita fuori la rabbia». È il giorno dopo la notte calda di Londra, il ragazzo che parla è alto e ha circa vent’anni, è vestito con un paio di jeans e una maglietta marrone, non vuole dire come si chiama. Ha il passaporto britannico ma la sua famiglia viene dai Caraibi, come tante altre che oggi vivono e lavorano nella metropoli e che si sono trasferite qui decenni fa, provenienti da quelle che un tempo erano le colonie. Vive in un quartiere a sud, uno dei tanti vicino a Clapham Junction, una delle zone dove sono scoppiati i disordini dei nuovi riots, ragazzi che hanno preso di mira interi edifici e svaligiato negozi. Parla ad alta voce quasi gridando, poco lontano ci sono cordoni di poliziotti. Dall ́altra parte della strada si affaccia un palazzo marrone ridotto ad uno scheletro, ormai si vedono solo i buchi di quelle che fino a qualche giorno prima fa erano state le finestre dell ́edificio.
«Io dico solo che ad un certo punto arriva il momento in cui uno vede l ́occasione giusta per far uscire fuori la rabbia, e non ci si può fare niente anche se c’è la polizia. E allora succedono cose come quelle che sono accadute qui in questi giorni. Le conseguenze sono quelle che vedi anche adesso». Da dove arriva la rabbia di cui parli? «Inutile fare finta che tutto vada bene. Quando gli immigrati di origine africana o caraibica si trasferirono qui in passato e volevano mandare i loro figli a scuola, si sentirono rispondere “ehi man, non c ́è posto”. Insomma, nessuno si fece in quattro anche se i bambini avevano bisogno di asili e scuole elementari. Loro non se le potevano permettere le scuole private inglesi, era impossibile». Intendi dire che già allora era difficile entrare veramente nella società? «Intendo dire che c’erano dei confini e che non si potevano oltrepassare. Almeno non li poteva oltrepassare uno qualunque che veniva da un altro mondo. Intendo dire che ci sono dei confini e che non si possono oltrepassare».
Ti senti discriminato?
«Io sono black e questo si vede. Ma se uno viene da un certo quartiere e non ha i soldi e non conosce la gente giusta, questo sistema di istruzione non ti aiuta, anzi ti respinge. È pieno in giro di ragazzi della mia età e anche molto più giovani che vivono qui vicino e che sono stati diseducati. Io mi sono interessato al problema degli immigrati, per esempio di quelli caraibici. È la mia gente. Beh, a nessuno è mai importanto molto della loro istruzione o di quella dei loro figli».
Che cosa intendi in particolare?
«Frequentare una buona scuola costa troppo in Inghilterra, pochi se lo possono permettere. Io ho studiato in una scuola professionale che funzionava con i soldi dello Stato e non ho pagato niente, ma senza i fondi del comune non avrei nessuna istruzione. Se persone abbandonate a se stesse e senza nessuna prospettiva poi un giorno danno sfogo a rabbia e frustrazione in un Paese che non riesce a provvedere in nessun modo a loro... capisci cosa intendo? Tanto sanno che in ogni caso trovare lavoro è difficile, se non hai studiato nelle scuole giuste é impossibile». Pensi che i rioters siano solo dei ladruncoli oppure che ci sia qualche problema più profondo alla base di questa violenza?
«Io penso che prima di tutto bisogna guardare il posto dove uno è cresciuto, l ́ambiente che ha frequentato, perché è quello al quale uno poi appartiene tutta la vita. Io sto parlando di palazzi dove è normale che ogni tanto si spari e dove girano molti coltelli, lavorano in pochi. Anche se poi finisce che ti prendono perché ci sono le Cctv, le telecamere a circuito chiuso. Quindi nessuno ci fa più caso, dopo un po’ diventa normale. Poi essere poveri in mezzo ai ricchi ti fa sentire ancora peggio, ti senti nessuno». Lavori?
«Non ancora, ho appena finito la scuola professionale e sto cercando lavoro, ma non so se lo troverò. C ́è la crisi qui, è sempre piú difficile». Intorno si forma un piccolo gruppo di giovani curiosi, nasce un dibattito sui riots. Poco dopo arriva un agente della Met e scioglie la riunione. Gli animi si stavano scaldando. 

l’Unità 11.8.11
Il terzo scimpanzè
Ascesa e caduta dell’homo sapiens
Un problema, mille dilemmi L’uomo rischia di perdere il genere per ritrovarsi in compagnia dei gorilla...
Dubbi accademici La riscrittura tassonomica non è stata accettata dalla comunità scientifica
di Pietro Greco

Aiuto, l’uomo potrebbe perdere il genere (chiamato Homo) cui ritiene, unica specie sopravvissuta, di appartenere. Per ritrovarsi, specie tra le specie, in un nuovo gruppo tassonomico, chiamato sempre Homo, ma molto più affollato, cui appartengono, oltre agli Homo sapiens (noi), anche i Pan troglodytes (gli scimpanzé comuni), i Pan paniscus (gli scimpanzé bonobo) e probabilmente anche i Gorilla gorilla (la traduzione è inutile). A questo grande genere sarebbero appartenuti in passato anche le australopitecine, ovvero le specie ormai estinte di ominini da cui saremmo discesi noi sapiens.
La proposta di riscrivere la tassonomia per scrivere meglio la storia dell’uomo negli ultimi 10 milioni di anni è alquanto vecchia. È stata proposta da Morris Goodman nel 2003 in un articolo pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Science (PNAS) nel 2003, non per creare confusione, ma al contrario per rappresentare la semplicità di un percorso evolutivo.
Sebbene, come vedremo, possa contare su autorevoli supporter, non è stata ancora definitivamente accettata dalla comunità scientifica. Ma negli ultimissimi anni è stata corroborata da numerose scoperte, sia fossili sia genetiche.
Prendiamo, a esempio, lo studio realizzato da Tim White e dal suo gruppo di lavoro sullo scheletro di Ardi, una ragazza vissuta in Etiopia 4,4 milioni di anni fa: 1,2 milioni di anni prima di un’altra australopitecina celeberrima, Lucy. La giovane Ardi aveva un cervello di 300 cm3, come quello di uno scimpanzé. Era, però, un “bipede facoltativo”: quando voleva camminava su due piedi, più o meno come noi sapiens. Ardi appartiene alla specie Ardipithecus Ramidus, ma assicurano Tim White e il gruppo che l’ha studiata per 17 anni, non è una specie intermedia tra gli scimpanzé e l’uomo. Ha, infatti, non solo tratti comuni all’uno e all’altro, ma anche tratti diversi. I medesimi ricevuti direttamente in eredità dai progenitori comuni dei Pan e degli Homo, l’ultimo dei quali è vissuto circa 7 milioni di anni fa. Cosa c’entra tutto questo con la questione di genere? Beh, che sarebbe impossibile a un osservatore esterno e neutrale riconoscere un gruppo spiccatamente diverso tra i cinque rappresentati dal progenitore comune, dagli scimpanzé comuni, dai bonobo, dalle australopitecine e dai noi sapiens. E che sarebbe più logico considerarli membri di un unico gruppo – di un unico genere, appunto – articolato in diverse specie, alcune delle quali estinte e di cui tre sono sopravvissute.
Una rappresentazione a sua volta resa più forte dall’analisi comparata del genoma (quello degli scimpanzé è stato completamente sequenziato nel 2005): il Dna dei sapiens è uguale per il 98,77% a quello degli scimpanzé. Un valore che non è poi così lontano dall’omologia tra il Dna degli scimpanzé comuni e degli scimpanzé bonobo, uguale per il 99,3%.
L’evoluzione “lunga” della nostra specie e l’idea del “genere esteso” è ben ricostruito in un libro Uomini dai sei milioni di anni, pubblicato qualche tempo fa con l’editore Carocci dall’antropologo Gianfranco Biondi e dalla biologa molecolare (ma sarebbe meglio dire, antropologa molecolare) Olga Rickards. I due autori hanno ricostruito “l’incontro” della scienza con i primati. In termini di studio dell’anatomia e della morfologia è iniziato nel XVII secolo, quando il medico olandese Nicolaas Tulp (1593-1674), famoso per essere stato sindaco di Amsterdam e, soprattutto, per essere stato ritratto da Rembrandt nella sua celebre Lezione di anatomia del dottor Tulp, insieme al collega Jakob De Bondt (1592-1631) hanno descritto in maniera relativamente approfondita la morfologia e l’anatomia delle grandi scimmie antropomorfe, registrando le analogie con quelle umane.
Un’opera che oggi possiamo considerare molto più rigorosa, tuttavia, viene pubblicata nel 1699 da Edward Tyson
(1650-1708). Il medico inglese nota come uno scimpanzé condivide con l’uomo 48 caratteri anatomici, mentre ne condivide solo 34 con quello delle scimmie. E ne conclude, che lo scimpanzé, deve essere una forma intermedia tra l’uomo e le scimmie. Non faremo la storia dell’anatomia comparata delle grandi antropomorfe. Diciamo solo che il padre della moderna tassonomia, lo svedese Carlo Linneo (1707-1778), notò e annotò la inquietante somiglianza anatomica. Ed evitò di classificare nel medesimo genere gli scimpanzé e gli uomini solo perché «sarei stato messo al bando da tutti gli ecclesiastici».
La somiglianza con le grandi antropomorfe ha continuato a disturbare gli ecclesiastici di tutt’Europa per molto tempo. Tant’è che il vescovo Samuel Wilberforce reagì alla difesa dell’Origine delle specie, l’opera in cui Charles Darwin getta le fondamenta della moderna teoria dell’evoluzione biologica, da parte di Thomas Huxley in un pubblica conferenza il 30 giugno 1860 a Oxford chiedendogli, irridente: «Mi dica, mr. Huxley, è per parte di nonno materno o di nonno paterno che discendete da una scimmia?». Non fu meno velenosa la risposta di Thomas Huxley, non a caso definito il “mastino di Darwin”: «Se mi si chiede se preferirei avere una miserabile scimmia come nonno, oppure un uomo altamente dotato dalla natura, che possiede molte facoltà e grande influenza, e che tuttavia utilizza queste facoltà e questa influenza al solo scopo di introdurre il ridicolo in una grave discussione scientifica, non esito ad affermare la mia preferenza per la scimmia».Oggi noi sappiamo che la famiglia delle grandi scimmie antropomorfe (gli esperti la chiamano famiglia delle Hominidae) si sono evolute circa 18 milioni di anni fa e che risale a 13 milioni di anni fa l’ultimo progenitore comune tra le sottofamiglie delle Homininae (che comprende gorilla, scimpanzé e uomini) e quella delle Pongine, cui appartengono gli Orangutan. Ora secondo la tassonomia accettata la tribù degli Hominini si sarebbe separata, circa6o7milionidiannifa,induerami:il genere Homo e il genere Pan. Al genere Homo apparteniamo noi, della specie sapiens, ma anche tutte le specie che hanno preceduto e/o accompagnato la nostra, a partire da Homo ergaster, Homo erectus e via numerando tutti i rami di un cespuglio straordinariamente ricco. In realtà le affinità morfologiche e anatomiche portarono già nel 1991 il biologo Jared Diamond, che in tempi recenti ha scritto best sellers – come Collasso. Come le società scelgono di morire o di vivere (2005) o come Armi, acciaio e malattie (2002) – che gli hanno valso il premio Pulitzer, a pubblicare un libro, Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo sapiens, in cui sostiene l’assoluta incongruenza di dividere la tribù degli Hominini in due generi diversi, Homo e Pan. Da un punto di vista tassonomico questa differenza non regge: è del tutto artificiosa e persino arbitraria. È più corretto, sostiene il biologo, considerare un unico genere, il genere Homo oggi popolato dai sapiens e dalle due specie di Pan, gli scimpanzé comuni, da ribattezzare Homo troglodytes e gli scimpanzé bonobo, da ribattezzare Homo paniscus.
La discussione diventa accesa. E si arricchisce, anche di studi genetici. Tanto che dieci anni dopo, nel 2001, Elizabeth Watson propone di aggiungere al genere Homo anche i gorilla, perché ancora una volta le differenze anatomiche e genetiche non sarebbero tali da giustificare la presenza di due generi diversi: quello degli Homo e quello dei Gorilla. Alcuni propongono, addirittura, di evitare ambiguità e fraintendimenti e di chiamare questo nuovo “genere esteso” col nome Pan. In definitiva, quella che propone Morris Goodman nel 2003 è un cambiamento solo parziale. Riunire in unico genere l’unica sopravvissuta di umani e le due specie sopravvissute di scimpanzé. È evidente che se questa proposta venisse definitivamente accettata, scrivono Gianfranco Biondi e Olga Rickards, occorrerebbe rivedere l’intera costruzione tassonomica degli ominini. Diventerebbero membri del genere Homo non solo i sapiens, i Pan troglodytes e i Pan paniscus, ma anche tutte le specie di australopitecine vissute. Forse il vescovo Wilberforce ne sarebbe sconvolto. Ma a noi, che abbiamo una certa simpatia per Huxley, verrebbe restituita la nostra vera storia. E poi finalmente Ardi e Lucy troverebbero la loro giusta collocazione in quell’album di famiglia degli umani, lungo almeno sei milioni di anni.

l’Unità 11.8.11
Anniversario la Linke si spacca: «Opzione ragionevole». «No, fu un errore»
La memoria Ricostruzione parziale bocciata, sì al restauro di quel che resta
Il Muro 50 anni dopo Per un berlinese su tre fu una «scelta giusta»
Il Muro spuntò nella notte tra il 12 e il 13 agosto di 50 anni fa. Ancora oggi un berlinese su tre pensa che fu una scelta giusta. La Linke si divide sul giudizio storico. E un ex sindaco vorrebbe ricostruirne qualche tratto.
di Gherardo Ugolini

A cinquant’anni esatti dalla sua costruzione e oltre venti dopo la caduta il Muro di Berlino continua a dividere i tedeschi, se non più materialmente, di certo per quanto riguarda gli approcci storici e le politiche della memoria. In attesa delle celebrazioni ufficiali, che si svolgeranno il 13 agosto con la partecipazione della cancelliera Merkel e del presidente della Repubblica Wulff, sulla stampa tedesca imperversano i sondaggi. Secondo un’inchiesta demoscopica dell’istituto Forsa, un berlinese su tre (il 35%) è ancora convinto che dividere la città sia stata una «scelta giusta», e il 10% degli intervistati giudica la costruzione del Muro «necessaria e giustificata per fermare l’emigrazione della forza lavoro dalla Ddr e stabilizzare la situazione politica». La stragrande maggioranza degli abitanti della capitale, il 62%, è invece dell’idea che il Muro, eretto nella notte tra il 12 e il 13 agosto del 1961, sia stata un’opzione «assolutamente sbagliata». La percentuale di chi non giustifica affatto quella scelta scende al 41% se si considera esclusivamente chi vive e ha vissuto nell’ex Berlino est, anche prima della costruzione del Muro.
ATTRAZIONE TURISTICA
Quanto alle forze politiche fa discutere la proposta di Eberhard Diepgen, ex borgomastro di Berlino ed esponente di spicco della Cdu, il quale ha lanciato l’idea di ricostruire nel centro della capitale tedesca parti del Muro in una forma il più possibile identica all’originale. Non si tratta della boutade di un nostalgico, ma di un progetto per coltivare la memoria di quella tragedia rendendo «concreta e visibile la barbarie del Muro», di cui oggi rimangono soltanto pochissimi tratti. «I musei e i memoriali non bastano a far capire cos’era veramente il Muro e come la nostra città ha vissuto quei lunghi anni» ha spiegato Diepgen. Ma la risposta delle forze politiche è stata piuttosto fredda. A parte i problemi concreti di viabilità che la ricostruzione di segmenti del Muro in centro città porrebbe, non sono molti i berlinesi disposti a rivedere edificato lo spettro che ha pesantemente condizionato la loro vita per decenni. Più facile la via del restauro: in vista del cinquantenario è stato avviato un programma di lavori che interessano la parte di Muro della Bernauer Strasse e altri tratti sparsi nel quartiere di Mitte. La spesa prevista ammonta a 270mila euro, una somma cospicua, ma ben investita, tenendo anche conto che i resti del Muro costituiscono una delle maggiori attrattive per i turisti che visitano Berlino.
Ma è soprattutto all’interno delle Linke, la forza politica che affonda parte delle sue radici nell’ex partito comunista della Ddr, che il cinquantenario del Muro ha scatenato un’aspra polemica. Un gruppo di esponenti del partito ha sottoscritto un documento in cui si dice tra l’altro che la costruzione del Muro fu «un’opzione ragionevole», nonché «una conseguenza necessaria della crisi economica e politica che racchiudeva in sé il pericolo di un conflitto militare». In pratica una formulazione riveduta e aggiornata della tesi vetero-comunista secondo cui il Muro di Berlino andava giustificato come “necessità storica”. E Arnold Schnoenenburg, uno degli autori del documento, ha aggiunto che «senza il Muro non sarebbe stato possibile rafforzare il socialismo in modo efficace». Contro tale posizione “nostalgica” è insorto Steffen Bockhahn, presidente della Linke nel Land Meclemburgo-Pomerania Anteriore, regione in cui si vota il prossimo 4 settembre per il rinnovo del parlamento locale. «Il sistema della Ddr si è rivelato un vicolo cieco» ha replicato Bockhahn e il Muro è stato «un mezzo del tutto inadeguato per fermare l’esodo di cittadini dalla Ddr». Ed anche la presidente nazionale della Linke, Gesine Lötzsch si è sentita in dovere di precisare la linea ufficiale del partito riassunta nella frase: «Chi si batte per il socialismo deve esprimersi contro tutti i muri». La sensazione è che la polemica tra “nostalgici” e “riformisti” riveli un nervo scoperto della sinistra radicale tedesca, con anche l’aggravante di aver offerto a certi esponenti dell’attuale maggioranza di governo il pretesto per ribadire la totale inaffidabilità della Linke. Qualcuno, come il segretario generale della Csu Alexander Dobrindt è arrivato al punto di chiedere la messa fuori legge della formazione politica di Lafontaine.

Repubblica 11.8.11Felpa, sciarpa e BlackBerry le baby gang degli incappucciati che sfidano Scotland Yard
La chat dei cellulari per organizzare i saccheggi
di Rosalba Castelletti


LONDRA - Una felpa con cappuccio la loro armatura e un Blackberry in tasca la loro arma. Con la prima si nascondono alle telecamere a circuito chiuso puntate sui negozi che depredano perché non vengano identificati, con l´altro si danno appuntamento a ore precise e in luoghi predeterminati per avere la garanzia che, ovunque colpiranno, avranno almeno la forza che danno i numeri. Ma basta sbirciare sotto i loro passamontagna improvvisati perché l´identikit dei giovani che da sabato hanno messo a ferro e fuoco l´Inghilterra si faccia più confuso. Si scorgono volti di neri, bianchi, asiatici. Bambini neppure undicenni o giovani trentenni. Uomini, ma anche moltissime donne, rossetto scarlatto e gambe strette in una minigonna.
Poveri? Alla Corte di Highbury dove, martedì notte, sono giunti i primi "incappucciati", in attesa di giudizio accanto allo studente quattordicenne modello, «tutti Ottimo in pagella», tra i disoccupati e i perditempo, sedevano anche un designer e un rivenditore di automobili. Rivoltosi? «Macché!», ti senti replicare per le strade. «Sono solo in cerca di un diversivo. Rubano per divertimento». Certo, e qualcuno alla fine lo ammette, quando svagarsi diventa fracassare una vetrina, allora forse un malessere c´è. Quando non puoi permetterti di pagare le sempre più esose tasse universitarie e non hai alcuna prospettiva di trovare un lavoro o comprarti una casa, quando in famiglia anche il rituale della cena tutti insieme diventa una rarità, allora quella felpa col cappuccio alla Rocky Balboa non è più solo un mezzo di difesa, ma anche un´uniforme per rifugiarsi nell´invisibilità e sfuggire al vuoto del presente e all´assenza di futuro. La fedeltà alla gang rimpiazza la fedeltà alla famiglia e i messaggi istantanei del BlackBerry diventano un codice. E non si scende per strada solo per rabbia contro le angherie della polizia o per l´ingiustizia sociale, ma anche per noia e disincanto.
Brian Kelly, padre irlandese, punta l´indice contro le famiglie. «Le ha viste le immagini della tv? Ha visto quanti bambini? Io mi chiedo: ma dov´erano i loro genitori? Io non lascerei mai i miei figli uscire di notte, né tantomeno loro si sognerebbero di prendere a calci la vetrina di un negozio d´elettronica». Kelly è arrivato a Londra quando aveva 18 anni. Oggi fa il tassista. Anch´io ero disoccupato a quell´età, ma ho provato a fare di tutto, dallo spazzino al cameriere, prima di ottenere la licenza. Ai miei tempi c´era senso del dovere. Le dirò di più. C´era rispetto per l´autorità, che fosse l´insegnante, il genitore o un poliziotto. Oggi è sparito tutto. Ma non è colpa dei tagli. È colpa dell´assenza dei valori».

Repubblica 11.8.11Il sociologo Anthony Giddens, inventore della Terza Via: "Giovanissimi con una sola cosa in comune, nulla da perdere"
"È la rivolta dei telefonini l´unico totem è il consumismo"
di Enrico Franceschini


Tottenham, il quartiere dov´è cominciata la violenza, è un´isola di degrado con un´alta disoccupazione
La tecnologia ha moltiplicato la diffusione della protesta ma anche il virus dei vandalismi
È una esplosione di rabbia simile a quella di Parigi, ma qui mancano identità etnica e ideologia

Londra - «La rivolta dei telefonini». Così la battezza Anthony Giddens, il sociologo inglese inventore della Terza Via, la strada riformista che a fine anni ‘90 portò al potere la sinistra in Gran Bretagna e in tutta Europa. «I telefoni cellulari sono l´arma e talvolta anche l´obiettivo dei giovani incapucciati scesi nelle strade di Londra», dice Giddens a Repubblica, paragonando il fenomeno a «quanto è avvenuto con Facebook e Twitter nelle ribellioni democratiche in Medio Oriente». Sebbene nel caso della capitale britannica sembra trattarsi di una protesta «priva di ideologia, il cui unico scopo è fare shopping».
Professor Giddens, come giudica i disordini di questi giorni?
«Èuna rivolta urbana senza precedenti, per certi versi ricorda l´esplosione di rabbia nelle periferie di Parigi qualche anno or sono, ma qui manca una precisa identità etnica e un´ideologia riconoscibile. Premetto che i protagonisti di proteste e saccheggi non hanno ancora parlato in modo chiaro, ci vorrà tempo per digerire questi fatti e trarne una conclusione. Ma già possiamo dire che contengono qualcosa di ordinario e straordinario, di tradizionale e postmoderno».
In che senso?
«L´ordinario e il tradizionale è il panorama sullo sfondo: crisi economica, tagli alla spesa pubblica, incertezza sul futuro. Questi sono stati anche in passato gli ingredienti di esplosioni di rabbia urbana, nel Regno Unito e altrove. Prendiamo Tottenham, il quartiere dove è cominciata la violenza e dove io stesso sono cresciuto: è un´isola di povertà e degrado, con alto livello di disoccupazione. Non c´è da meravigliarsi che basti una scintilla per scatenare un incendio».
Lo straordinario e il postmoderno invece in cosa consistono?
«Nella rapidità con cui la protesta si è diffusa, nel contagio del virus di saccheggi e disordini, per cominciare. E a favorire il contagio sono le nuove tecnologie di comunicazione: i telefonini. Il mezzo con cui i giovani incappucciati comunicano, con cui si passano parola e si danno appuntamento nei luoghi scelti per provocare il caos. Un mezzo che evoca immediatamente un paragone con quanto accaduto in Tunisia, Egitto e altre piazze arabe con la protesta democratica dei mesi scorsi, diffusa tramite Facebook e Twitter, cioè attraverso canali che sfuggono a censura, polizia, potere».
Ma il premier Cameron, nel caso della rivolta di Londra, parla di "criminalità comune", da stroncare severamente: nulla a che vedere con il tam-tam democratico del mondo arabo.
«È vero che sono azioni criminali e che vanno fermate. Ma quando migliaia di giovani in tutte le maggiori città del paese saccheggiano e incendiano è sbagliato definirli soltanto un movimento criminale. È un movimento senza ideologia apparente, questo sì. E senza un´identità etnica uniforme. Ma è un movimento di giovani, anzi giovanissimi che hanno molte cose in comune: nulla da perdere, nessuna speranza nel domani, un senso di totale emarginazione".
Perché saccheggiano?
"Perché il loro unico totem è il consumismo. I loro padri o nonni potevano protestare per un´ideale, loro protestano per andare a fare shopping. E cosa rubano? Telefonini. Televisori al plasma. Capi d´abbigliamento alla moda. A una società che eleva il denaro a dio, che premia i banchieri con bonus di milioni a dispetto dei danni che hanno arrecato all´economia, loro rispondono dicendo: e noi facciamo shopping, ci prendiamo, senza pagare ovviamente, quello che ci piace e ci serve».
Il consumismo, la recessione, i banchieri rapaci, sono fenomeni presenti in tutto l´Occidente. Perché la rivolta è scoppiata proprio in Inghilterra?
«Qualcuno pensa che sia perché qui c´è un gap ricchi-poveri più elevato e più evidente che altrove. Ma potrebbe non esserci una vera ragione. Il punto, secondo me, non è tanto "dove" è scoppiata la rivolta, ma "se" verrà imitata in altri paesi. Ed è certamente possibile, se non probabile, che analoghe esplosioni di rabbia giovanile si ripetano anche in altre parti d´Europa o in America».
Come dovrebbe rispondere il governo?
«A me pare ancora buono lo slogan di Tony Blair: duri con il crimine e duri con le cause del crimine. Ma è più facile a dirsi che a farsi, specie in tempi in cui i governi non hanno soldi da spendere».

Repubblica 11.8.11Una overdose di farmaci, 60 milioni, viene ogni giorno consumata dagli italiani. Una ricerca rivela: sono spesso inutili, si può guarire senza
Se il corpo si cura da solo
di Elena Dusi


Niente antibiotici per il raffreddore, né pillole per il colesterolo Stop agli esami invasivi e ai trattamenti che danneggiano la salute invece di migliorarla Spesso l´organismo ha i rimedi dentro di sé. I ricercatori americani stilano l´elenco di test e farmaci da evitare in nome del principio "meno è meglio"
Ci sono infezioni che nella maggior parte dei casi guariscono anche senza medicine
L´ansia del paziente e il timore di cause giudiziarie dei dottori responsabili delle ricette facili

"Medicus curat, natura sanat" si diceva un tempo. Oggi che i due piatti della bilancia hanno perso il loro equilibrio, la natura si ritrova soffocata da 60milioni di farmaci ingurgitati in un giorno e 700 milioni di ricette mediche firmate in un anno in Italia.
Troppo, secondo alcuni. «Siamo preoccupati per la qualità della salute e i suoi costi. Ci sono trattamenti molto cari che non migliorano la salute, anzi in alcuni casi la danneggiano. Dobbiamo ricordare che non sempre fare di più vuol dire fare meglio» lamenta la National Physicians Alliance americana. La società che raccoglie i medici non specialisti negli Usa ha appena stilato un elenco delle diagnosi e dei trattamenti da limitare in nome del principio "meno è meglio".
Meno antibiotici per combattere il raffreddore e pillole per abbassare il colesterolo laddove basterebbe cambiare dieta, meno tac, risonanze magnetiche ed esami invasivi per il cuore senza sintomi sono alcuni dei consigli che arrivano dai 250 medici americani delle più varie discipline, interpellati per indicare quali rami sfrondare in un paese malato di troppe cure e preoccupato per il suo portafoglio.
In Italia la percezione dei camici bianchi non è diversa. «L´80% dei mal di schiena acuti si risolverebbero da soli. Basterebbe lasciar lavorare il tempo», secondo Carlo Bertolini, primario di riabilitazione al Gemelli di Roma. «La natura sa curare assai bene, ma ha tempi lunghi. Gli esami andrebbero prescritti solo se il dolore dura per due mesi. Ma a volte un paziente è paziente solo di nome. Alla fisioterapia e all´attesa, unite alla capacità di autoascoltarsi, preferisce la scorciatoia chirurgica».
«Tutto ciò che viene introdotto dall´esterno, non viene prodotto all´interno» ricorda poi Manuel Castello, professore di pediatria alla Sapienza di Roma. «È inutile somministrare ai bambini mix di germi disattivati per potenziare il sistema immunitario ed è controproducente dargli pillole di vitamine, che fanno lavorare fegato e reni per smaltire gli eccessi. Non ha senso fargli prendere antibiotici per raffreddori che sono causati da virus. È dannoso usare steroidi per abbassare la febbre, perché se da un lato si abbassa la temperatura, dall´altro si deprimono le difese immunitarie. E ci sono malattie, come le infezioni da salmonella, che nella maggior parte dei casi guariscono meglio senza antibiotici». Dai bambini agli anziani: «Non capisco - afferma Giorgio Dobrilla, primario emerito di gastroenterologia a Bolzano e docente di metodologia clinica all´ateneo di Parma - come si possano prescrivere dieci pillole, ognuna da prendere a un orario preciso. I farmaci per gli anziani andrebbero ridotti all´essenziale anche per ragioni di semplicità».
Medicine e test non appropriati costano al nostro paese tra i 10 e i 12 miliardi di euro all´anno: circa il 10% della spesa nazionale per la salute. Lo ha calcolato l´Ordine dei medici di Roma e Lazio con un questionario su 2.700 camici bianchi di tutta Italia. «L´85% ha ammesso di fare più del necessario nel timore di essere denunciato» spiega Mario Falconi, presidente dell´Ordine della capitale. «Basta il sospetto remotissimo di una broncopolmonite per spingere un medico a ordinare un antibiotico». Il timore di cause giudiziarie e la pressione dei media - non una reale necessità - sono alla base secondo lo studio del 13% delle ricette uscite dalla penna di un dottore.
Che un´altra medicina sia possibile è convinzione di quei professionisti che di strumenti complessi fanno a meno per necessità. «In Sudafrica per curare un paziente con l´Aids si spendono 150 euro all´anno. In Italia 8mila. Lì otteniamo una diagnosi con una goccia di sangue, un reagente e una tavoletta di plastica. Qui usiamo macchinari enormi» racconta Gianfranco De Maio, responsabile di Medici senza frontiere Italia. «Dai paesi poveri guardiamo anche con una certa ironia a una medicina che si è autocostruita con l´aspirazione di massimizzare i guadagni. Il nostro mestiere è diventato un mercato, con l´idea di semplificare ridotta a un tabù».
Nel mercato di Big Pharma, la gallina dalle uova d´oro è rappresentata dalle pillole per il cuore, che secondo il Rapporto Osmed 2010 sul consumo farmaceutico in Italia "rimangono saldamente al primo posto della spesa " con 5,1 miliardi di euro. Ma prima di prescrivere delle statine per abbassare i lipidi nel sangue, sostiene Cesare Fiorentini, professore all´università di Milano e direttore della cardiologia dell´ospedale Monzino, «bisognerebbe provare a intervenire con la dieta: verdure, fibre e pesce. I farmaci non devono diventare una scusa per mangiare in modo scorretto». Quanto agli esami, Fiorentini distingue: «Ci sono test di cui a volte si abusa, come la Tac delle coronarie. Ma non capisco come l´associazione Usa possa prendersela con i troppi elettrocardiogrammi. È un esame così semplice, rapido e non invasivo. Andrebbe anzi esteso ai neonati per ridurre le morti in culla».
L´esigenza di tornare a Ippocrate e all´osservazione attenta dei pazienti è ancor più sentita da chi ha in mano i cordoni della borsa. «Sono le Regioni a chiederci di controllare l´appropriatezza delle prestazioni», spiega Stefano Liverani, direttore sanitario dell´Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna. Che ricorda il costo spropositato di un farmaco contro l´osteoporosi («diecimila lire all´anno per ciascun abitante d´Italia») che era usato in passato e oggi si è rivelato completamente inutile. Secondo Stefano Boriani poi, che al Rizzoli è direttore della chirurgia vertebrale, a volte l´utilità di un esame è inversamente proporzionale alla sua complessità: «In alcune deformazioni della colonna, la risonanza magnetica non fa vedere nulla, mentre una semplice radiografia mostra le alterazioni del disco».
Ma se il malato si trasforma in un bersaglio per bisturi e pillole, non è solo per la sua ansia di guarire al più presto o per il timore del medico di finire in tribunale. «Il marketing delle case farmaceutiche è pressante», conferma Alessandro Liberati, che insegna epidemiologia all´università di Modena e dirige Centro Cochrane Italia, che si ispira alla medicina basata sull´evidenza. «Perfino l´aggiornamento obbligatorio dei medici è finanziato direttamente o indirettamente dalle case farmaceutiche. Il rischio è di finire con l´imitare gli Stati Uniti, dove per esempio l´80% dei medici di famiglia prescrive antidepressivi».
L´uso delle pillole della felicità è una marea montante che nasce dagli Usa (dove dal 2008 antidepressivi e ansiolitici sono la classe farmaceutica più venduta) ed è in arrivo anche da noi. In Italia i medicinali per il sistema nervoso costano 3,3 miliardi di euro all´anno, sono al terzo posto della classifica della spesa e continuano a scavalcare posizioni. «Gli abusi sono diffusi - secondo Silvio Garattini, direttore dell´istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri. «Si assumono psicofarmaci per dormire meglio, per arrivare tranquilli a un esame e per fronteggiare momenti di tristezza che sono naturali nel corso di una vita e di fronte alle quali si può reagire con le proprie forze. Senza bisogno dell´aiuto di un farmaco».

Repubblica 11.8.11In Italia circa 50 milioni all´anno, ma secondo le stime una su tre è superflua
E anche i medici avvertono "Troppe Tac e radiografie"
di Paola Coppola


Meno lastre facili, più esami mirati: «Non si possono sostituire, tipo check, al lavoro clinico e prima di farli bisogna valutare il rapporto tra rischio e beneficio per il paziente e, se possibile, sostituire i raggi con ecografie e risonanze magnetiche», chiarisce Menchi. L´abuso di esami con i raggi x non risparmia neanche i bambini. Pochi giorni fa è intervenuto anche il ministro della Salute Ferruccio Fazio per invitare i genitori a evitarli quando possibile: «Il rischio cancro a seguito di esposizioni mediche da Tac sta diventando un problema sempre più rilevante e particolarmente critico soprattutto nel caso di indagini diagnostiche in età pediatrica», ha detto.
Oggi il 75 per cento degli esami radiologici o medico nucleari fatti nel mondo avviene nei paesi sviluppati. In Italia se ne stimano complessivamente circa 50 milioni l´anno. «La medicina contemporanea soffre di obesità diagnostica: almeno un esame su tre è inappropriato e non ottimizzato: per un´angioplastica la dose media di radiazioni equivale a 750 raggi x al torace, ma in base al macchinario c´è chi ne riceve solo 300 e chi fino a 3.000», osserva Eugenio Picano, direttore dell´Istituto di fisiologia clinica del Cnr. «Non si tratta di spaventare il paziente: la diagnostica per immagini aiuta a salvare vite umane ma nell´applicarla si devono considerare appropriatezza, consapevolezza del medico e controllo della dose di raggi somministrata». L´abuso di radiazioni espone al rischio di sviluppare un cancro: secondo le stime dall´1 al 3 per cento dei tumori potrebbe essere causato da un´eccessiva esposizione. «Le prescrizioni restano un tema su cui lavorare», precisa Francesco Lucà, segretario del sindacato nazionale area radiologica (Snr). «Davanti a una sospetta calcolosi al fegato si potrebbe fare un´ecografia senza raggi, piuttosto che una Tac. Ma certe volte è proprio il paziente a premere per un esame più complesso».
Uno studio che sarà pubblicato su "Radiologia medica", la rivista della Sirm, condotto all´unità operativa di radiologia dell´istituto Spallanzani da un´équipe guidata da Corrado Bibbolino, dopo aver esaminato 4.018 prescrizioni di risonanze magnetiche, Tac ed ecografie fatte da medici di base e specialisti ha documentato un livello inappropriato di richieste ambulatoriali pari al 44 per cento. Più di 4 su 10 sono risultate inutili o sostituibili.
I medici sono consapevoli della tendenza all´abuso. Tra i progetti per migliorare le prescrizioni e l´entità delle dosi erogate per ogni esame quello che l´Istituto toscano dei tumori di Firenze ha finanziato all´istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa. Dura tre anni e si concentra sulla cardioradiologia, che da sola contribuisce per il 50 per cento alla dose radiologica globale del cittadino medio: si chiama Suit Heart (Stop Useless Imaging Testing in Heart disease) e da mesi è stato introdotto nella Asl di Arezzo. «Puntiamo a contenere l´uso di radiazioni ionizzanti e a incrementare l´uso della risonanza magnetica, che nella nostra struttura nell´ultimo anno è cresciuta del 12 per cento», dice il direttore generale Enrico Desideri. E precisa: «Se un esame è utile per la diagnosi un paziente non si deve porre il problema, negli altri casi è bene sia consapevole del rischio oncogeno». Obiettivo del progetto è ricostruire il "conto corrente radiologico" che una persona accumula nel corso della vita quando si sottopone a una lastra come a una Tac e puntare al consenso informato.

Repubblica 11.8.11Yiulia Tymoshenko, ex premier della Rivoluzione arancione, è tornata ieri in aula dopo l´arresto per abuso e oltraggio E davanti al tribunale, centinaia di supporter hanno gridato il suo nome: "Comunque vada, il processo non finisce qui"
Nel Paese in piazza per la Tigre bionda
di Nicola Lombardozzi



Dalla sua gabbia fa un cenno ai cronisti: "Dite al mondo che cosa succede a Kiev"
Curata ed elegante "Sappiamo quanto ci tenga. Il suo aspetto è parte della nostra forza"

KIEV. Si può fare un´intervista a gesti? Dietro a uno sbarramento di poliziotti in mimetica nera, Yiulia Tymoshenko si sporge dal banco degli imputati. La treccia che l´ha resa celebre è perfetta, tutto il resto un po´ meno. Ha l´aria stanca, l´eroina della dissolta Rivoluzione arancione. Si sbraccia sotto al mantello griffato, mima un messaggio che è una richiesta d´aiuto: «Raccontate questa storia, fate sapere al mondo quello che sta succedendo in Ucraina». Dalle finestre chiuse filtra un coro lontano che le strappa un sorriso: "Yiulia, Yulia". Giù in strada, i ragazzi del partito Batkivscina (Patria) si stanno dando da fare sotto la pioggia fredda e sottile di questo insolito agosto. Saranno un migliaio, dormono in tende bianche che una volta erano servite da gazebo elettorali, raccolgono firme per la scarcerazione della loro leader sotto a un documento che per la prima volta parla di «dittatura al potere», convivono giorno e notte con agenti in assetto di guerra che li circondano minacciosi armati di scudi e manganelli.
Ore 10 del mattino, tribunale distrettuale di via Khresciatik 42, nel cuore della passeggiata di Kiev, tra un negozio d´intimo e una boutique italiana. A cento metri dalla piazza Indipendenza che vide la protesta e la storica svolta dell´inverno del 2004 e dove ora campeggia un timer che segna i 303 giorni, i minuti e i secondi che mancano ai prossimi campionati europei di calcio in Polonia e Ucraina. Yiulia Tymoshenko ha atteso l´inizio dell´udienza per tre ore in una gabbia da imputati di un metro per due. Con quella che i suoi fedelissimi ritengono essere una perfida tattica psicologica, l´hanno prelevata dalla sua cella di Lukianovskij prima delle sette del mattino. E´ la seconda volta da quando è stata clamorosamente arrestata in aula nel pomeriggio di venerdì, ma questa volta Yiulia la Tigre non si è fatta trovare impreparata. «Si è svegliata alle cinque per mettersi in ordine con tutta calma - raccontano, adoranti, le ragazze del suo staff - Sappiamo tutte quanto ci tenga». Perché il momento sarà pure difficile ma il look resta fondamentale. Lunedì, trasportata in tribunale in tutta fretta, appariva sconfitta e umiliata con i capelli tirati indietro e una camicia bianca spiegazzata. «Non accadrà mai più - giura la sua assistente Marina Soroka - Togliere la treccia a Yiulia è come togliere il basco a Che Guevara. Il suo aspetto è parte della nostra forza».
Sembrano sottigliezze ma contano moltissimo in quella che è diventata una guerra di nervi tra l´ex premier e un governo che la detesta personalmente prima che politicamente. Ecco perché Yiulia Tymoshenko ostenta soprattutto contegno e sicurezza. Dopo lo sfogo dei giorni scorsi, le urla di «fascisti e mafiosi», verso i magistrati, simula una serenità innaturale. Perfino in carcere dove divide una cella con una detenuta comune e dove i pasti che le mandano da casa vengono spezzettati ed esaminati dalle guardie. In aula, saluta senza troppe smancerie i due nuovi difensori, associati da poche ore al suo storico avvocato in tante battaglie legali. Si tratta del marito Oleksandr che arriva in abito da sera, portando un mazzo di rose bianche come a una festa di compleanno. E la figlia, Eugenia, 28 anni. Supporto psicologico ma non solo. Eugenia è una giovane legale che gode già di un´ottima fama nei tribunali ucraini. Un solo accenno di irritualità prima che l´udienza cominci. La Tymoshenko si alza in piedi e grida: «Viva l´Ucraina» come faceva al termine di ogni suo intervento da Primo ministro.
Poi si comincia con l´estenuante lettura di verbali. Il tentativo, fallito, della difesa di ricusare la pubblica accusa, il rinvio a giovedì dell´esame dell´ennesima richiesta di scarcerazione immediata.
Fuori l´Ucraina attende, a modo suo. Accanto alla tendopoli dei militanti di Batkivscina, ne sorge un´altra dall´aria più organizzata. Ci sono le bandiere del partito filo russo al governo. Un sistema di amplificazione da struttura militare e tanti striscioni che inneggiano alla «fine della corruzione», all´arresto di «Yiulia Tymoshenko e suoi complici», «Alla fine della politica firmata Vuitton». Anche qui ci sono gli agenti speciali Berkut (i falchi) ma hanno l´aria più rilassata come gli agenti di guardia a una tifoseria notoriamente tranquilla. I sostenitori delle ragioni del governo, non parlano con i giornalisti, non dormono nelle loro tende blu nuove di zecca ma arrivano al mattino come per timbrare un cartellino. Sono tutti ragazzi sui vent´anni. I pro Yiulia sostengono che siano reclutati nelle provincie più povere dell´interno e portati ogni giorno in pullman a fare da claque. Tra i due campi non c´è astio. Solo disistima reciproca. Tra i fan di Yiulia tante donne, molte anziane, che ancora ringraziano per lo storico aumento delle pensioni del governo Tymoshenko. Raccolgono fondi in cambio di poveri gadget di carta e spago con il simbolo del cuore rosso. Fanno la conta con un passaparola che nasce da Internet delle reazioni del mondo all´arresto: il Canada che condanna, la Spagna che ricorda di non dimenticare i diritti elementari della difesa, l´ambasciatore degli Stati Uniti a Kiev che fa richiesta formale di visitare la signora in carcere. «E l´Italia che fa? Stiamo aspettando», dice Aleksandr Turcinov braccio destro politico della Tymoshenko ed ex vice premier.
La delusione più grande ha un nome, Viktor Yushenko, fondatore con Yiulia del movimento arancione, presidente dell´Ucraina per cinque anni, adesso figura sbiadita e defilata. Neanche un intervento, una riga di solidarietà. E´ all´estero. La difesa vuole interrogarlo. Verrà dopo Ferragosto, forse. Ma il clan di Yiulia lo vede come uno che si è arreso, che è passato dall´altra parte.
L´arresto, che ha fatto gridare allo scandalo perfino Vladimir Putin, eterno rivale della Rivoluzione arancione, appare in effetti sempre più difficile da giustificare. La procuratrice Lilija Frolova l´ha ottenuto dopo tre tentativi come una sorte di punizione «per il comportamento sprezzante dell´imputata in aula». Difficile che possa reggere in punta di diritto alle pressioni internazionali. Più complicata da capire è l´accusa. La Tymoshenko deve rispondere di abuso d´ufficio per aver firmato, da premier, un contratto di acquisto di gas dalla Russia a tariffe svantaggiose per Kiev. Un paradosso che sembra studiato a tavolino se si pensa proprio come l´arma del prezzo del gas sia stata utilizzata da Mosca per accrescere la crisi economica ucraina, distruggere l´immagine del governo allora in carica e favorire la vittoria dell´attuale presidente filorusso Yanukovich.
Ma ora la crisi continua, Yanukovich crolla in popolarità, il carisma di Yiulia la Tigre e il suo profilo di amica dell´Occidente, la rendono pericolosa. La piazza urla, la polizia controlla inquieta, gli avvocati di Batkivscina si preparano: «Comunque vada questo processo, non finirà qui».

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