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l’Unità 28.7.11Opposizione e comitati sul piede di guerra per far cancellare l’articolo 4 della Finanziaria
Annullerebbe il risultato di due mesi fa nei quali si espressero 30 milioni di italiani
Referendum, altolà delle opposizioni: scippo inaccettabile
Dopo la campagna lanciata dal nostro giornale sul colpo di mano del governo contro l’esito dei referendum, Pd e Idv annunciano battaglia. «Bene ha fatto l’Unità, si attivino pure gli altri organi di stampa»
di Luciana Cimino
Dopo la campagna lanciata dall’Unità contro il tentativo del governo di aggirare l’esito dei referendum di giugno, oltre alle associazioni e ai comitati promotori, continuano a farsi sentire le opposizioni. Inconcepibile usare la manovra finanziaria come grimaldello per scardinare la volontà popolare, che sulle privatizzazioni dei beni comuni si era già espressa con un risultato incontrovertibile. «Il Pd e tutte le opposizioni chiedano con forza l'abrogazione dell'art. 4 della manovra finanziaria, che di fatto annullerebbe il risultato dei referendum di due mesi fa la volontà di 30 milioni di italiani per i quali i servizi pubblici vanno gestiti come beni comuni» hanno dichiarato ieri Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, rispettivamente capogruppo e mebro della Commissione ambiente del Senato. «In base all'art. 4 osservano i parlamentari verrebbe vietato l'affidamento diretto a società pubbliche di tutti i servizi locali ad eccezione dell'acqua. Questa norma è palesemente incostituzionale e rappresenta in modo evidente uno scippo della volontà referendaria. È più che legittimo riorganizzare i servizi pubblici locali per renderli più efficienti, ma questo obiettivoconcludononon può che partire dalla indicazione dei referendum». Già venerdì era stata altrettanto netta la posizione del presidente Rosy Bindi e di Stella Bianchi (responsabile ambiente dei Democratici) che avevano parlato di «colpo di mano». La Bianchi aveva anche annunciato che la questione era già stata sottoposta al parere della Commissione Affari Costituzionali del Senato. Per Ermete Realacci, responsabile Green Economy del Pd, «gli allarmi che l'art. 4 della manovra possa essere usato come cavallo di Troia per stravolgere il risultato dei referendum vanno presi in seria considerazione. Ed è meritorio che un giornale come l'Unità dedichi pagine e speciali all'argomento. Il Pd vigilerà affinché la volontà popolare non sia disattesa e stravolta». Per l’esponente dei Democratici Raffaella Mariani «l'atteggiamento del governo in riferimento ai servizi pubblici locali mostra arroganza e ignoranza. Bene ha fatto quindi l'Unità a mettere in evidenza in questi giorni il problema e anche altri organi d'informazione dovrebbero evidenziare quanto l'art.4 della manovra, che fa riferimento ai servizi pubblici locali, sia incoerente con la volontà del 96% degli italiani». Anche l’Italia dei Valori, annuncia battaglia. «Il referendum dello scorso mese di giugno è da tutti riconosciuto come il referendum sull'acqua pubblica poiché, al di là del suo aspetto tecnico, così è stato vissuto da tutti gli italiani», afferma il presidente vicario del gruppo Idv della Camera, Antonio Borghesi. E il suo compagno di partito, Leoluca Orlando, non è meno deciso. «Con un colpo di mano il governo sta cercando di cancellare la volontà di 27 milioni di italiani che, con il voto dei referendum, hanno bocciato le politiche di questo esecutivo e detto chiaramente di voler mantenere pubblico un bene comune come l'acqua», dice il portavoce Idv che aggiunge: «Il governo compie l'ennesimo atto di arroganza. Con la manovra prova a prendere in giro gli italiani per l'ennesima volta. Daremo battaglia per bloccare questo scempio». E alle battaglia delle opposizioni si uniscono movimenti e comitati promotori che con la loro intensa attività a giugno avevano garantito il successo dei quesiti e che hanno annunciato di aver scritto una lettera in merito a Napolitano. «Ci rivolgiamo al Presidente della Repubblica scrive il Forum Italiano dei Movimenti per l’acqua affinchè, in aderenza al suo ruolo di garante della Costituzione, non permetta che siano riproposte leggi che violano l'esito dei referendum popolari».
l’Unità 28.7.11
Bersani «Non capisco la discussione nel partito. Ogni sindacato sceglie le forme di lotta che vuole»
Proteste Dalla mobilitazione Cisl e Uil al fermo Cgil: «Noi siamo con chiunque si batta per l’equità»
Sciopero Cgil «Il Pd con chi vuole un’altra manovra»
«Saremo in ogno luogo, sciopero, piazza, assemblea, dove si chieda più equità e crescita in questa manovra», dice Bersani, che difende «l’autonomia» della scelta della Cgil di andare allo sciopero contro il governo
di Simone Collini
Primo: la parola «autonomia» ha un significato ben preciso. Secondo: il Pd sarà ovunque ci sia un'iniziativa in cui si chiede al governo di cambiare profondamente questa manovra «iniqua e che non porta crescita». Pier Luigi Bersani vuole mettere fine al dibattito che si è aperto sullo sciopero generale indetto dalla Cgil per il 6 settembre. «Leggo anche in casa mia di una discussione che non capisco», dice ai giornalisti che lo incontrano al Meeting Cl di Rimini il giorno dopo che un gruppo di deputati quarantenni del Pd (a Misiani, Esposito, Boccia, Boccuzzi e altri si è aggiunto ieri il costituzionalista veltroniano Salvatore Vassallo) ha scritto un documento in cui si chiede a Susanna Camusso «un'ulteriore riflessione» sull'opportunità di organizzare la giornata di lotta non insieme a Cisl e Uil e mentre è in corso il dibattito parlamentare sulla manovra.
Bersani insiste soprattutto sul principio di «autonomia» delle forze sociali: «Tutti protestano per questa manovra, non ho sentito nessuno che sia d'accordo. Poi, c'è chi sceglie lo sciopero, chi le assemblee, chi le raccolte di firme e io dico che ognuno può scegliere in autonomia le forme che vuole».
Ma c'è anche un altro concetto che ribadisce Bersani. Se nel partito c'è chi apertamente chiede di «opporsi» allo sciopero (tra i primi a farlo è stato Beppe Fioroni, che ieri ha ribadito che i Democratici non devono «cavalcare la protesta» ma essere «centro dell'alternativa di governo») il leader del Pd assicura che il suo partito «sarà presente in tutti i luoghi, scioperi, assemblee e quant'altro, saranno organizzati da chi vuole chiedere più equità e crescita nella manovra correggendola» (esponenti del Pd saranno anche al presidio di Cisl e Uil davanti al Senato del 1 ̊ settembre). È il governo infatti per il leader del Pd il responsabile della lacerazione aperta tra le forze sociali che pure, unitariamente, il 28 giugno avevano firmato un accordo che ora con la manovra si vuole cancellare. Per questo Bersani replica al ministro Sacconi, che dopo aver appreso delle esternazioni del leader Pd lo accusa di essere schiacciato sulle posizioni della Cgil, che la realtà è un'altra: «Sono appiattito sulla positiva intesa del 28 giugno, che fu salutata da tutti come l'unica bella notizia dopo mesi e mesi di divisioni e conflitti. Un governo serio dovrebbe custodire e sostenere quell'intesa e non metterla a rischio. E se finalmente il governo e il ministro Sacconi, piuttosto che tenersela nei cassetti, pubblicassero doverosamente la lettera della Bce si vedrebbe bene che quell'intesa vi corrisponde in pieno». E per questo il Pd presenterà un emendamento che chiede lo stralcio dell'articolo 8 della manovra, che ha come conseguenza proprio quella di vanificare quell' accordo e di colpire l'autonomia delle forze sociali.
il Fatto 28.8.11
Enrico Rossi, governatore Toscana (Pd)
“Diciamolo: Penati non ha più niente a che fare con noi”
di Paola Zanca
“Quando ho letto le dichiarazioni di Penati ho avuto una reazione spontanea: non si può di fronte a una modifica dell’accusa da concussione a corruzione cantar vittoria perché in questo modo si evita la galera. Come si fa a dire ‘si sgretola l’impianto, eccetera eccetera... ’ Calma, lo dovrai dimostrare”. Così, Enrico Rossi, governatore della Toscana ha acceso il computer e trasmesso via Facebook all’ex vicepresidente della Regione Lombardia Filippo Penati la sua “pena” e la sua “rabbia”.
Possiamo chiamarli “anticorpi democratici”?
Noi non abbiamo una differenza genetica, siamo uomini come tutti gli altri. Però, c’è un però.
Quale?
Possiamo adottare una serie di comportamenti che segnino la differenza.
Primo.
Qualsiasi amministratore pubblico coinvolto in vicende giudiziarie in attesa della sentenza non si opponga alla ricerca della verità.
Tradotto?
Penati avrebbe fatto meglio a stare zitto. Le sue parole mi sono sembrate quanto meno inopportune.
Secondo.
Dimettersi da qualsiasi incarico pubblico. Non basta prendere le distanze dal Pd, servono anche le dimissioni dal Consiglio regionale: lui è stato eletto nelle liste del Pd, che ha fatto dell’etica la sua ragione di vita.
E se non se ne va?
Se resta a fare il consigliere il partito deve fare in modo che sia chiaro che non ha più niente a che fare con noi.
Finora il partito non lo ha detto.
Serve che il Pd prenda le distanze in maniera molto forte. Le dichiarazioni che ha fatto Bersani mi pare che almeno in parte vadano in questa direzione.
A Rimini Bersani ha anche detto di non avere elementi per dire se al posto di Penati rinuncerebbe alla prescrizione. Lei ne ha?
La galera è una cosa seria, non chiedo a Penati di avvalersi della rinuncia alla prescrizione perché non so cosa farei al posto suo, bisognerebbe trovarcisi. Certo, un politico non è un semplice cittadino e avrebbe il dovere di assumersi delle responsabilità. Potrebbe scattare un meccanismo per cui “tanto più sono onesto, tanto più mi oppongo al fatto di essere arrestato”. Però qui mi fermo, perché è un tema che riguarda la coscienza personale.
Quella del segretario Pd le sembra una risposta imbarazzata? Penati era capo della sua segreteria politica...
Non mi pare che Bersani mostri imbarazzo, e questo mi fa confermare la fiducia in lui, mi fa supporre che non abbia niente a che fare con questa storia. All’epoca scelse Penati perché era un esponente di successo della sinistra al Nord.
Sui guai giudiziari di alcuni esponenti democratici Bersani è arrivato a parlare di “macchina del fango”.
Il problema è essere netti, e prima lo si fa meglio è. La questione morale bisogna che diventi una discriminante per tutti. Se il caso Penati deve essere una cartina di tornasole, però, mi pare che il Pd abbia adottato un comportamento serio, che Bersani non ne esca male.
Felice Casson, ex magistrato e senatore Pd, però dice che quello di Penati non è un caso isolato, che vicende simili si sono svolte anche in altre regioni.
È vero, ma parliamo di casi che non hanno nulla a che vedere con questo: qui la qualità e la quantità delle accuse è pesantissima, si arriva a inciuciare anche nella vita privata, se è vero il decadimento che sembra ci sia. Poi magari si scoprirà che è tutta una montatura, bene, ma io credo nella giustizia, magari ci mette tempo, ma alla fine rende onore. Se sarà tutto falso vorrà dire che ha avuto la pazienza di Giobbe, e io sarò il primo a dire che va riabilitato.
Ma come ha fatto il Pd a non arginare questa deriva?
La continuità tra politica e affari è intollerabile, e si verifica in particolare in quei settori come l’edilizia, l’urbanistica su cui da tempo la sinistra ha rinunciato a proporre una sua politica riformista.
Dice che il malaffare è proliferato anche per la mancanza di idee?
Una volta parlavamo delle ‘mani sulla città’, parlavamo di rendite... Nei Paesi dove le aree edificabili sono acquisite dal demanio e poi riassegnate, per esempio, l’interesse pubblico è più libero. Qui da noi si è teorizzata ‘l’urbanistica contrattata’ che fa proliferare quel tipo di rapporti assai discutibili dal punto di vista etico.
Da dove si ricomincia quindi?
La tenuta morale di una classe dirigente si costruisce in tanti modi. Con la passione ideale, la vigilanza, il controllo democratico, la partecipazione. Ecco io penso che ci vuole un partito strutturato, che selezioni la sua classe dirigente. Un partito dove in sezione sanno chi è Enrico Rossi, dove abita, cosa fa.
Adesso non è così?
Io mi ricordo una bellissima frase di Bersani: “Anche nel Pd bisogna stare con gli occhi aperti”. So anche che il nostro elettorato ci chiede molto di più.
Repubblica 28.8.11 Bersani: "Non riesco ancora a capacitarmi ma prima di tutto va protetto il partito"
Lo sfogo del segretario. E Prodi avverte: l´etica è politica
di Giovanna Casadio
Il leader Pd aveva un rapporto anche personale con l´ex capo della sua segreteria
"La telefonata per Gavio? Se qualcuno accosta il mio nome alla vicenda lo querelo"
«Sì, con Filippo c´era un rapporto personale. Ma questa è una roba inaspettata». Quasi mormora, mordicchiando il sigaro. Un boccone amarissimo la vicenda di Penati, l´ex capo della sua segreteria da cui ieri il segretario, per la prima volta in modo netto, prende le distanze. Una storiaccia che piomba in una Festa nazionale del Pd organizzata in grande stile, nel centro storico di Pesaro tra la Rocca Costanza, i cortili, le antiche porte accanto alle quali ci sono persino quattro panchine «parlanti». Uno si siede, e parte la registrazione, guarda il caso, delle Operette morali di Leopardi.
Bersani arriva a Pesaro a tagliare il nastro della Festa, e di tutto avrebbe pensato di parlare, fino a qualche settimana fa, che dell´espulsione dal partito di Filippo Penati. L´autosospensione non basta. Così ieri di buona mattina il segretario ha chiamato Luigi Berlinguer, il presidente della commissione dei garanti. «Il nostro tribunale interno», la definisce Bersani. Berlinguer ha telefonato a Penati e gli ha detto: «Filippo, ora porti tutte le carte dell´inchiesta alla commissione provinciale e il 5 settembre ti presenti a quella nazionale, a Roma». Mentre cammina tra gli applausi, le strette di mano, lo scricchiolìo di centinaia di scarpe sulla ghiaia della Rocca, il segretario ripete più volte: «E´ un caso doloroso certamente. La commissione di garanzia ha il compito di tutelare il partito. Quello che stiamo facendo convocando i garanti va sotto il titolo: garantire l´onorabilità del partito».
L´onorabilità del partito è del resto la cosa che più gli sta a cuore, sin da quando all´inizio di questa storia aveva immaginato una class action dei militanti democratici se si fosse messa in moto «la macchina del fango» contro il Pd. E va all´attacco quindi sulla sua personale onorabilità, Bersani. Poiché è stato chiamato in causa per una telefonata in cui metteva in contatto Penati e l´imprenditore Gavio. E allora si infuria: «Se qualcuno osa accostare il mio nome a queste vicende per una telefonata di un anno e mezzo prima, che era solo per stabilire un contatto, allora già ho detto che lo querelo».
No, non ha sentito Penati nelle ultime ore. Fa spallucce, Bersani, mordendo il sigaro. Si è consultato con gli altri leader del partito. Prodi consiglia una linea dura, perché «l´etica - ha detto parlando ad alcuni amici della vicenda - non è solo la via per conquistare la vita eterna, il paradiso. E´ uno strumento per vivere bene e in modo giusto su questa terra». Insomma «è politica». E quindi per il Professore «c´è un primato assoluto dell´etica nella prosperità dei Paesi e nelle prospettive e nella vita non solo degli uomini ma anche dei partiti che vogliono rappresentarli».
Bersani non intende entrare nel merito della prescrizione sì o no. Se Penati debba o meno rinunciare alla prescrizione, secondo la legge ex Cirielli, bene è «una decisione che spetta solo a lui, non c´entra con l´inchiesta interna al partito». Lui, Penati, da Milano fa sapere che «è d´accordo con quanto ha detto il segretario, sono pronto a mettermi a disposizione della commissione», andrà con le carte in mano dai garanti provinciali, da quelli romani. Ma aggiunge: «La decisione sulla rinuncia alla prescrizione è prematura, la valuterò con i miei avvocati». Agli amministratori spetta una responsabilità in più, rincara Bersani da Pesaro, durante il dibattito sul suo libro «Per una buona ragione» (Laterza), prima di vedere un pezzo di concerto di De Gregori. Scandisce: «Gli amministratori devono essere più che buoni cittadini».
In mezzo al guado della questione morale il Pd non ci vuole stare. Sono infastiditi i volontari. «Noi ci facciamo un mazzo così e vengono a guardare la nostra pagliuzza, mentre dall´altra parte, quella di Berlusconi, c´è una trave», si sfogano al ristorante Mare. Ecco, la diversità. Non ci vogliono rinunciare i vecchi militanti che ricordano Enrico Berlinguer. Ma la rivendicano pure i nuovi. Marco Marchetti, segretario provinciale del Pd, uno della generazione "TQ", trenta-quarantenni, apre la festa con le parole della canzone di De Gregori "La storia siamo noi": «... e poi ti dicono che tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera, invece noi siamo diversi perché abbiamo passione». De Gregori attacca a cantare puntuale alle 21 in piazza, anche la vecchia canzone sui ladri, la diversità e la partecipazione.
Ci sono i «Gd», i giovani democratici che hanno stampato sulle magliette una frase di Borsellino sulla legalità e l´altra di Guccini contro l´ingiustizia. «A me - chiarisce Betta - non mi piace una politica fatta di personalismi, tangenti e poltrone, noi dobbiamo cambiare la politica». Ammettono i «Gd» che c´è una certa amarezza, anche se «Penati ha lasciato tutti gli incarichi nel Pd, e di questo gli va reso merito», osservano Matteo e Mattia. Lo ha detto anche Bersani. Anche se ora non basta più. Dovrebbe dimettersi anche da consigliere Penati? Il segretario non risponde. L´istruttoria del Pd sull´ex capo della sua segreteria politica comunque durerà poco, non sarà trascinata per le lunghe.
il Fatto 28.8.11
Così la Lega ha legato l’Italia
di Furio Colombo
Il peggio della Lega (leggi “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania”, partito di secessione e di governo del Paese da cui si invoca la secessione) si vede nella caduta.
AVVIENE nell’estate del 2011, parte del rovinoso crollo di Silvio Berlusconi, che ha campato di voti della Lega, ma li ha pagati, a scadenze fisse, carissimi, mantenendo l’alto tenore di vita di un partito quasi inesistente attraverso il governo, il potere e la vita facile dei gerarchi. Ma è anche la caduta interna di un partito privato e carismatico, nel momento in cui l’eccesso di potere e di pretese di altro potere non ha potuto più reggere lo squilibrio fra il disvelamento progressivo di idee ripugnanti, quasi tutte condivise con la peggiore estrema destra razzista d’Europa (dal “respingimento in mare” alla negazione del diritto d’asilo, dall’invenzione del reato di clandestinità alla detenzione arbitraria nei cosiddetti “centri di identificazione” , dalla caccia ai Rom alla tentata segregazione dei bambini nelle scuole) e l’eccesso unilaterale di potere in un governo composto da altre destre, fondate sul danaro, sulla occupazione (con profitto) dello Stato e su un bisogno apparente di “nazione” e “bandiera” continuamente contraddetto e disprezzato dall’interno dello stesso governo.
Ma il punto di squilibrio più grave, deliberatamente tenuto in ombra ma non nascosto, non abbandonato, dai portatori del progetto padano, è la secessione, ideologia e politica praticata e predicata da un partito a cui è stata affidata la gestione della polizia e della politica interna italiana, ma anche della politica estera, attraverso il disegno e il controllo di tutta la politica dell’immigrazione, fino al trattato con la Libia. Certo ne ha segnato i suoi aspetti qualificanti e cruciali, un’Italia crudele, indifferente, cieca. L’Italia ha vissuto dunque la lunga e umiliante condizione di essere governata, in parti vitali e in funzioni essenziali, da un partito anti-italiano, che non si è mai neppure molto preoccupato di nascondersi e camuffarsi. Pensate che, da un lato, il portavoce autorevole della Lega Nord (tre ministri in posti chiave di governo) è un personaggio politico come Borghezio, “d’accordo al 100 per cento con l’assassino norvegese Breivik”. Borghezio è il capo delegazione della Lega Nord al Parlamento europeo. Ha provocato qualche rapido e furtivo dissenso, senza che sia stata chiesta alla Lega alcuna dissociazione formale, o che vi sia stata. E, dall’altro lato, il lato della finzione legale e del parlamentarismo regolare, il deputato Lega Nord Luciano Dussin, scrive il 23 agosto in un editoriale su La Padania: “L’Italia è una famiglia da cui bisogna uscire”. È importante tenere in vista e affiancate queste due facce del partito “Lega Nord per l’indipendenza della Padania” che si chiama così e giura così (ogni ministro giura sulla Padania prima di recarsi al Quirinale a giurare sulla Costituzione Italiana, ogni comizio del ministro italiano Bossi e del ministro italiano Calderoli si concludono con il grido “Padania libera!”) mentre governa la Repubblica Italiana, mentre disprezza il tricolore, mentre rifiuta, in modo formale e senza incontrare obiezioni istituzionali, ogni evento o celebrazione che abbia riferimento con l’Unità d’Italia.
È NECESSARIO infatti respingere il gioco che vuole far apparire il pesante protagonista delle vicende della Lega Borghezio come un personaggio strano e marginale, quando invece quasi ogni immagine lo mostra accanto a Bossi tra i principali attori della politica leghista e degli stravaganti eventi di Pontida, con finti Templari e finti Crociati muniti di elmo e di spadone. È il partito che tende a usare o nascondere la bandiera secessionista a seconda delle dispute politiche interne alla maggioranza, senza mai però dismettere il disprezzo verso l’Italia e i suoi simboli. Il Dussin per bene e il Borghezio nazista ci servono per comporre un’unica immagine che è tetra e pericolosa persino al di là delle intenzioni di molti che partecipano o hanno partecipato alle avventure della Lega, vista spesso e soltanto come partito locale di ricordi e tradizioni, e barriera contro la paura.
ECCO il grande collante, la paura. Consente, a Breivik come al leghista di campagna con la finta barba verde, al templare della domenica e al bevitore di ampolle di acqua del Po, di avere paura del passato (il disprezzo per l’Italia, la sua bandiera, la sua liberazione, il suo inno, troppi volti e nomi ed eventi sconosciuti) e – allo stesso tempo – paura del futuro, a cui, una volta caduti nel pozzo del provincialismo più stretto, locale e claustrofobico, è facile dare un volto: lo straniero. Il fenomeno non è solo italiano. Il New York Times del 25 agosto ha dedicato una pagina ai movimenti europei di destra xenofoba e razzista, dalla Svezia all’Ungheria. Non è un caso che la Lega Nord italiana non ci sia. Il camuffamento tiene grazie a due complicità . Una è quella della grande stampa Italiana. Ecco alcuni titoli di giornali italiani, mentre Bossi spiega che i giornalisti meritano legnate, che Casini è uno stronzo, che il ministro Brunetta è “il nano di Venezia”, che Tre-monti merita una pernacchia e mentre il ministro per la Semplificazione Calderoli precisa: “Questi scribacchini che rompono le palle sono stronzi e comunisti, ma la parola comunisti vuole anche dire stronzi”.
VEDIAMO dunque i titoli, rispettosi e prudenti: “Bossi media con il Premier e attacca Casini” (Il Corriere della Sera, 21 agosto 2011); “Calderoli: capitolo chiuso, la previdenza non si tocca” (La Stampa, 22 agosto 2011); “Il Senatur non cede, Berlusconi trovi un’altra strada” (La Stampa, 21 agosto 2011); “Pernacchia di Bossi alla proposta di Alfano” (La Stampa, 22 agosto 2011); “Lega, secessione tattica per spostare sacrifici al Sud” (Il Corriere della Sera, 24 agosto 2011); “Padania, Berlusconi frena Bossi” (Il Corriere della Sera, 23 agosto 2011). Intanto si schiera Comunione e Liberazione e mette a disposizione del ministro dell’Interno, che ha appena aumentato la detenzione illegale dei migranti da sei mesi a diciotto mesi nei famigerati “centri di identificazione”, veri campi di concentramento per esseri umani colpevoli di essere scampati al mare e alla guerra, i suoi applausi appassionati, scroscianti e, si deve supporre, cristiani e autorizzati dai Vescovi. Applaudono, i bravi ragazzi di Comunione e Liberazione, evidentemente indottrinati a sottostare alla autorità, quando Maroni dice: “Spero che riprenda il Trattato con la Libia. Quando era in vigore aveva ridotto l’immigrazione del 90 per cento”. Applaudono i ragazzi di Rimini, come se non fossero in grado di capire che, per raggiungere la fermata quasi totale di migrazione in un mondo segnato da un immenso spostamento di popoli, occorre, affollare di cadaveri il fondo del mare, come facevano scrupolosamente i libici, con navi e armi e ufficiali italiani. Invano lo hanno testimoniato gli scampati e le Nazioni Unite. I ragazzi hanno applaudito, il ministro dei campi di concentramento italiani e degli abbandoni in mare, ha incassato.
È LA STESSA persona che ha tenuto per tre mesi senza alcuna protezione da freddo, pioggia e vento, senza tende o acqua o cibo, migliaia di nordafricani fuggiti dalla guerra e approdati a Lampedusa tra marzo e maggio del 2011. Poi, in piena guerra e con l’inganno (la promessa era stata di permettere il transito verso altri Paesi europei) quei profughi sono stati rimandati verso i Paesi della fuga, luoghi di probabile pena di morte. Ecco, questa è la Lega, il punto generatore di cattiva politica e di sentimenti spregevoli. Ha occupato col peggio delle sue idee e della sua politica un pauroso vuoto di civiltà nella vita italiana.
La Stampa 28.8.11
Esenzioni fiscali, Cei contro evasori e Radicali
Staderini: inventano un attacco alla Chiesa per tutelare meglio i loro privilegi
di Giacomo Galeazzi
CITTA’ DEL VATICANO. In Cei lo ripetono da giorni: «E’ sbagliato confondere una tassa come l’Ici con l’otto per mille che è un’intesa tra lo Stato e le confessioni religiose». E una cosa è il Vaticano e un’altra le diocesi con le loro spese per culto e carità. Adesso la protesta esce dai Sacri Palazzi e diventa pubblica. Il quotidiano della Conferenza episcopale punta l’indice contro «Radicali, massoni e il potente partito dell’evasione». Nel pieno del dibattito sulla manovra-bis e delle polemiche per le «sacre» esenzioni fiscali, «Avvenire» denuncia una «impressionante campagna politico-mediatica» contro la Chiesa.
Il direttore del giornale dei vescovi, Marco Tarquinio, stigmatizza chi cerca di «far deragliare la richiesta cattolica di un fisco giusto, amico della famiglia e uguale per tutti». Tarquinio considera le richieste di abolizione dei presunti privilegi fiscali della Chiesa come una risposta all’appello anti-evasione fiscale e profamiglia lanciato dal cardinale Angelo Bagnasco. Appello che aveva subito raccolto le «immediate reazioni bipartisan favorevoli» di quanti «lavorano per un’equa correzione della manovra-bis d’agosto». Di fronte a questa proposta, si è assistito alla reazione del «potente partito dell’evasione, quella vera: grossa, grassa e sfottente per i milioni e milioni di dipendenti e anche per tutti quegli autonomi che s’arrabattano e quando evadono, poco o nulla, lo fanno per disperazione». Un partito «potente, secondo analisti e commentatori insigni, e intoccabile perché elettoralmente determinante». Aggiunge in un crescendo di toni il quotidiano Cei: «E’ potente e conta, scopriamo con crescente sorpresa, su alleanze insospettabili, sia nelle redazioni di vasti e radicati gruppi mediatici sia in quelle di giornali corsari». E anche se è difficile vedere coincidere il partitone dell’evasione con il partitino radicale, il direttore di «Avvenire» sottolinea un «retroscena per niente raccontato» che ha segnato la nascita della «contro-campagna mediatica» contro la Chiesa: la reazione simile alle parole di Bagnasco, prima del segretario radicale Mario Staderini, poi di Gustavo Raffi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia. «E’ l’ordine d’attacco - sintetizza Tarquinio - dev’essere detto che la salvezza dell’Italia in crisi sta nel colpire la Chiesa. Un film già visto. Ma vederlo di nuovo in circolazione con pronti e potenti strombazzamenti mediatici, un po’ di impressione la fa lo stesso».
Immediata e ironica la replica di Staderini: «Mi complimento con l’Avvenire per lo scoop di oggi: lo confesso, i mandanti del complotto masso-pluto-radicale contro i privilegi fiscali del Vaticano siamo il sottoscritto, in qualità di piccolo maestro, e il gran maestro della Massoneria». Ma «si sono dimenticati gli altri membri del clan: gatto Silvestro, Gargamella, lupo Ezechiele e la regina di Biancaneve. Bello il retroscena, con il d-day individuato nel 19 agosto. Peccato che tutto sia cominciato il 12 agosto quando su Radio Radicale proponevo a Tremonti il dimezzamento dell’otto per mille e la fine delle esenzioni su Ici e Ires». Dunque, «si inventano un attacco contro la Chiesa per meglio occultare l’assalto al denaro dei contribuenti. E gridano al complotto persino i telespettatori cattolici Aiart a loro volta finanziati con l’8 per mille».
Corriere della Sera 28.8.11
l’Ici no, ma la Chiesa qualcosa deve fare
di Alberto Melloni
Farebbero malissimo i vescovi a sottovalutare la richiesta che arriva da più parti e che riguarda i «sacrifici» che anche la Chiesa dovrebbe fare nell'indomabile montare della crisi.
È ovvio che in molti casi queste istanze nascondono la stessa faciloneria che ha convinto milioni di italiani che il problema dei debiti sovrani dipenda in Italia dai privilegi dei politici che esistono e sono odiosi ma non sono certo il cuore della cosa. E dunque potrebbe essere fortissima la tentazione di respingere al mittente tali istanze con argomenti tecnicamente e giuridicamente solidi.
Sui patroni basterebbe ammiccare ai sindaci e agli uffici scolastici per far sì che il calendario delle lezioni reintroduca dalla finestra festività che così verranno sottratte solo ai ceti operai e impiegatizi che non possono permettersi i ponti. Sulle festività che il concordato blinda ci si potrebbe limitare a richiamare la indisponibilità del tema (è la Repubblica che ha deciso insieme alla Santa Sede di mettere sotto l'ombrello di un trattato internazionale le feste dei dogmi di Pio IX e di Pio XII anziché il triduo pasquale: per cui, se ne ha voglia, porti la politica al Papa una legge con allegato il trattato sul triduo di Hans Urs von Balthasar). Sull'8 per mille, materia decisa dal concordato Casaroli-Craxi, i vescovi potrebbero ricordare agli smemorati radicali che gli accordi di Villa Madama prevedevano un riesame in commissione paritetica (nell'infondato timore che la quota stabilita non colmasse la «congrua») e che non è stato un ukaze Cei a impedirlo. Così pure sulle esenzioni Ici i vescovi potrebbero legittimamente rimandare ad una più attenta lettura all'elenco delle Onlus fra le quali (con esiti insostenibili dal punto di vista costituzionale) si chiede di discriminare quelle che hanno «fini di religione», declinati nella libertà della loro espressione.
Così facendo, però, verrebbero meno a quel dovere evocato dal presidente Napolitano nella sua orazione civica di Rimini, e che è una chiamata in attesa di reclute: porsi cioè al livello delle sfide che il Paese non può non affrontare. E qui i vescovi potrebbero cogliere in istanze vulnerabili o populiste una occasione. Il sistema dell'8 per mille, infatti, era stato inventato da grandi ecclesiastici (Casaroli, Silvestrini, Nicora) per dare alla Chiesa italiana, e non alla Santa Sede, una sua autonomia, specialmente rispetto alla politica: e quel sistema aveva una implicazione di parificazione fra Chiese e religioni che non è stato implementato dallo Stato che ne aveva il dovere. Se il miliardo e passa di entrate non basta a proteggere la Chiesa da una politica delle blandizie la questione, allora, è ancora più grande.
Il denaro dato alla Cei, infatti, è stato speso (quasi sempre) bene: ha rimesso in sesto un patrimonio che il Fondo edifici di culto del ministero degli Interni non poteva mantenere; ha finanziato tanta solidarietà. Non mancano le ombre: ha certo foraggiato sacche di interessi e comprato consensi in vendita, ha dato fiducia a mezze tacche della finanza o della cultura, ha coperto operazioni meschine (d'altronde, come spiegava un grande cardinale italiano, in fatto di denaro «i preti delinquenti si fidano sempre di delinquenti, perché sono anche loro delinquenti; i preti buoni si fidano dei delinquenti perché sono buoni»). Ma non è lo Stato che può dar lezioni di rigore, se non segna un punto e a capo per tutti.
Quel denaro però ha eroso qualcosa di assai più profondo per la Chiesa italiana: e cioè la sua fede nella povertà come via necessaria della Chiesa, secondo il limpido dettato della costituzione conciliare Lumen Gentium 8. Perché — come ha insegnato l'emersione dei crimini di pedofilia — ogni consiglio evangelico può essere vissuto in modo estrinseco o profondo: e come la superficialità esalta le turpitudini, la sincerità anche debole accresce la virtù. Così la scarsa fiducia, per dir così, nella povertà ha sottratto alla Chiesa una credibilità di cui oggi avrebbe bisogno, per essere nella svolta che stiamo vivendo fattore di unità profonda del Paese.
Con quella credibilità potrebbe affrontare tutte le questioni sul tappeto difendendo il diritto delle feste religiose di tutti, cercando un punto di ripartenza del senso civico di tutti, insegnando quel «linguaggio di verità», che il presidente ha evocato sul presente, sui vent'anni ultimi e che forse andrebbe spinto almeno indietro per poter produrre un rinnovamento vero della coscienza civica di tutti.
Qualcosa di limpido e impolitico come un tale atto di fede — con tutte le conseguenze di rigore e di trasparenza che esso comporta — darebbe ai vescovi o comunque accrescerebbe quella autorevolezza di cui hanno bisogno loro, spettatori di rimpianti e di lotte di carriera ecclesiastica spudorate: e di cui ha ancor più bisogno il Paese. Nei giorni più difficili della sua storia post-fascista — l'8 settembre del 1943, il 9 maggio del 1978 — l'Italia ha trovato nella Chiesa un sostegno infungibile e in quei gesti di coraggio la Chiesa ha guadagnato una credibilità capitalizzata per decenni. Nessuno può escludere che giorni, per fortuna diversi nella forma, ma non meno impegnativi nella sostanza, siano oggi innanzi al Paese.
Repubblica 28.8.11
La neo-Costituzione preventiva
di Stefano Rodotà
Immaginate una legge congegnata nel modo seguente: «Abbiamo una Costituzione. Ma vogliamo modificarla».
«E allora mettiamo da parte la Costituzione vigente e applichiamo subito una Costituzione ipotetica, incerta, giuridicamente inesistente, di cui si ignora se, come e quando verrà approvata».
Un colpo di sole, un effetto della calura agostana? No, questa linea compare nel decreto sull´emergenza economica fin dal suo primo articolo: «In anticipazione della riforma volta ad introdurre nella Costituzione la regola del pareggio di bilancio, si applicano le disposizioni di cui al presente titolo». E più avanti, in maniera ancor più sconcertante, si aggiunge: «In attesa della revisione dell´articolo 41 della Costituzione, Comuni, Province, Regioni e Stato, entro un anno adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l´iniziativa e l´attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge».
"In anticipazione", "in attesa"?
Se si rispetta la più elementare grammatica costituzionale, queste sono espressioni insensate, e pericolose. Prima di un cambiamento legislativo, le norme esistenti debbono restare ferme, soprattutto quando si tratta di norme costituzionali - fondamenta del sistema giuridico. Ma quegli articoli del decreto provano il contrario, sono la testimonianza della scomparsa del senso stesso di che cosa sia una Costituzione, manifestano una voglia di liberarsi delle regole costituzionali ignorando la procedura per la loro revisione e imponendo addirittura una radicale e rapidissima (un anno!) riscrittura dell´intero ordine giuridico dell´economia.
La via della "decostituzionalizzazione", già evidente nelle proposte di riforma della giustizia, si fa sempre più scivolosa, può portare ad un vero disordine giuridico. Considerate solo una ipotesi. L´annunciata riforma dell´articolo 41 non viene approvata in Parlamento o è bocciata dal voto dei cittadini, come accadde nel 2006 quando più di sedici milioni di italiani dissero di no alla riforma costituzionale del centrodestra.
A questo punto l´"attesa" sarebbe finita e, mancando il necessario appiglio costituzionale, verrebbe travolta l´intera nuova impalcatura giuridica approvata nel frattempo da Stato e sistema delle autonomie. E, al di là di questa ipotesi estrema, l´arbitrio del legislatore potrebbe già essere censurato dalla Corte costituzionale, alla quale è possibile che si rivolgano enti locali rispettosi della Costituzione vigente. Per evitare disastri del genere, un Parlamento serio dovrebbe cancellare quelle norme.
Il predicato rigore finanziario finisce così con l´essere accompagnato da un irresponsabile lassismo istituzionale, le cui tracce nel decreto sono molte, figlie di improvvisazione e incultura. L´improvvisazione è stata resa clamorosamente evidente dai litigi scoppiati nella maggioranza, e le ipotesi di modifica sono tante che ben possiamo dire che il decreto all´esame del Senato è stato svuotato di ogni senso politico e istituzionale, è ridotto a un canovaccio sul quale nelle prossime settimane si svolgeranno prove di forza tra gruppi in conflitto.
L´incultura traspare in molte norme e nella discussione che le accompagna, dove quasi non v´è traccia di capacità di analizzare i difficili problemi da affrontare. Nel momento stesso in cui i contenuti del decreto venivano annunciati, Tito Boeri, con l´abituale sua nettezza, metteva in evidenza come la riforma dell´articolo 41 fosse un diversivo, perché le difficoltà dell´economia non potevano in alcun modo essergli imputate; e come l´introduzione nella Costituzione della regola del pareggio di bilancio determinasse una rigidità rischiosa, ricordando gli effetti negativi che un vincolo del genere aveva appena prodotto negli Stati Uniti.
Molti hanno ripreso questi rilievi, ai quali tuttavia la discussione politica ha dedicato un´attenzione sommaria e disinformata, visto il modo in cui si è fatto riferimento agli articoli 41 e 81 della Costituzione. Posso sommessamente ricordare che alla genesi di questi due articoli ha dedicato studi penetranti uno studioso attento, Luigi Gianniti, e non sarebbe certo una perdita di tempo se qualche parlamentare desse loro un´occhiata?
Giuste e alte sono state le proteste contro l´iniquità del decreto, che diviene un moltiplicatore di quelle diseguaglianze che stanno distruggendo la coesione sociale, a parole tema di cui tutti si dicono preoccupati. Gli obblighi imposti dalla crisi finanziaria non sono colti come una opportunità per distribuire equamente il peso della manovra, per chiamare all´"adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale" (articolo 2 della Costituzione) i moltissimi che finora ad essi si sono sottratti. Leggendo il decreto, si coglie piuttosto la voglia di usare questa opportunità per una sorta di regolamento finale dei conti soprattutto con i sindacati, con l´odiata Cgil.
Alle letture consolatorie vorrei contrapporre l´impietosa analisi del nostro maggiore studioso di diritto del lavoro, Umberto Romagnoli, che ci ricorda che il lavoro non è una merce e la dignità del lavoratore non è negoziabile. E le infinite smagliature delle parti dedicate alle dismissioni di immobili, alla privatizzazione di servizi e beni pubblici? Si alimentano illusioni facendo balenare l´esistenza di un patrimonio immobiliare la cui vendita colmerebbe ogni voragine dei debiti pubblici. Ma quel patrimonio è al 70% nelle mani di enti locali e i veri esperti stimano che soltanto una quota oscillante tra il 5% e il 10% potrebbe essere proficuamente messa sul mercato. L´urgenza dovrebbe essere sfruttata per accelerare quel lavoro analitico sui beni pubblici invocato da vent´anni e per arrivare finalmente a una classificazione aderente alle loro funzioni (esistono già disegni di legge in materia), non per incentivare privatizzazioni scriteriate (non insegna nulla l´esperienza degli anni Novanta?), per fare cassa sacrificando beni e interessi collettivi.
Vi sono sicuramente beni che possono essere messi sul mercato, ma ancor più importante è stimolare le gestioni virtuose di quelli che possono garantire con continuità risorse al settore pubblico. Proprio in questi giorni si è messo in evidenza come vi siano frequenze digitali che possono assicurare un gettito di tre miliardi. E non dimentichiamo il colpo di mano, per fortuna sventato, con il quale si voleva fare un vero regalo ai gestori degli stabilimenti balneari, portando a 90 anni la durata delle loro concessioni. Traspare dal decreto un´altra voglia di rivincita, contro i 27 milioni di cittadini che, votando sì nei referendum sull´acqua come bene comune, hanno voluto dare una indicazione chiara per una gestione dei beni sottratta alle dissipazioni del pubblico e ai profitti dei privati. Sarebbe grave se il decreto servisse per archiviare uno dei pochi momenti in cui politica e cittadini si sono davvero riconciliati.
Repubblica 28.8.11
La ministra accusata di avere chiuso l´accesso all´insegnamento: "Vuole un paese per vecchi, era meglio Berlinguer"
La Gelmini bocciata da Cl: "Inqualificabile"
di Marco Marozzi
RIMINI - Mariastella Gelmini? No, proprio no. Ridateci quel «vecchio signore comunista di Luigi Berlinguer». Nell´implosione dei rapporti fra Comunione e Liberazione e alcuni esponenti del governo Berlusconi, viene travolta la ministra dell´Istruzione. Fra le decine di migliaia di giovani riuniti a Rimini, fra gli insegnanti ciellini è montata una campagna in pieno stile contro Mariastella Gelmini. Si sono raccolte firme, ci si è preparati alla mobilitazione alla riapertura settembrina. Contro la ministra cattolica che fu portata in trionfo nel 2008 e nel 2009 a Rimini come immagine del nuovo che avanzava. Poi nel 2010 i primi scricchiolii e l´assenza, ripetuta quest´anno.
Gli indignados ultracattolici accusano l´«ex loro» ministra di chiudere le porte delle scuole italiane a tutti quelli che si sono laureati e si laureeranno dopo il 2008. Di aver congelato di fatto i corsi di abilitazione indispensabili per accedere all´insegnamento. «Il suo comportamento è inqualificabile» si arrabbia Francesco Magni, presidente del CLDS, il Coordinamento Liste per il Diritto allo studio, la potente organizzazione universitario ciellina. «Si è genuflessa davanti ai sindacati per fare entrare solo quelli che l´abilitazione l´hanno già ottenuta e ha tagliato fuori tutti gli altri. Altro che nuova scuola. Adesso il tirocinio formativo è una beffa».
Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e fondatore della Compagnia delle Opere, la fortissima, ramificata confindustria ciellina socia d´affari delle coop rosse e dei privati, aggiunge: «È giusto assumere i precari e sbarrare le porte ai giovani? È un intervento statalista, in contraddizione con la natura di un governo che si dice liberale. Su questi temi si dialogava di più con un vecchio signore comunista come Luigi Berlinguer. Ora siamo alla guerra fra generazioni, alla santificazione di un paese solo per vecchi».
Il ministro di fatto ha bloccato i corsi di abilitazione, finché non saranno assorbiti i 230mila precari. «Così si perpetua un sistema che porta in cattedra per via evolutiva, a danno dei giovani» dice Gianni Mereghetti, professore al Liceo Bachelet di Abbiategrasso. «E senza nessuna valutazione del merito» aggiunge Giovanni Cerati, che insegna al liceo Tirinnanzi di Legnano. I ciellini accusano la già idolatrata Gelmini di ridurre le assunzioni a semplici numeri di una graduatoria, andando contro quella libertà di insegnamento e reclutamento predicato da Cl. E dalla stessa ministra. «Non possiamo continuare ad alimentare false speranze nei giovani. – dice la responsabile dell´Istruzione - Lo Stato non può più creare artificialmente posti di lavoro che non esistono, come ha fatto irresponsabilmente per decenni».
Giorgio Vittadini, che insegna statistica all´università Bicocca a Milano, non ci sta. «Dopo aver fatto scappare all´estero chi vuol fare un master e un dottorato, decisivi per la formazione del capitale umano, ora chiudiamo la stessa formazione degli insegnanti».
La Stampa 28.8.11
Dacci oggi il nostro Adorno
Oltre l’utilizzo salottiero c’è spazio per una creativa rivalutazione?
di Gian Enrico Rusconi
Theodor W. Adorno (1903-1969) visto da David Levine [© THE NEW YORK REVIEW OF BOOKS / DISTR. ILPA]
Nella stagione degli epigoni ricompaiono le offerte speciali dei cosiddetti libri-cult. In bella mostra, tra gli altri, ecco La dialettica dell’Illuminismo e i Minima moralia di Theodor W. Adorno. Chi l’avrebbe immaginato (più di) mezzo secolo fa, quando nella provincia italiana c’erano solo quattro gatti affascinati da quel modo di pensare radicale che spiazzava i buoni vecchi professori di filosofia, e irritava i maîtres-à-penser marxisti? Ricordo il sarcastico Lucio Colletti anche se poi, alla fine, avrebbe cambiato idea sul francofortismo.
«Dopo Auschwitz scrivere una poesia è barbarico». «Già il mito è Illuminismo e l’Illuminismo si rovescia in mito». «La maledizione del progresso incessante è l’incessante regressione». «L’industria culturale ha perfidamente realizzato l’uomo come esemplare del genere. Ognuno è soltanto chi può sostituire ogni altro. Fungibile, un esemplare. Lui stesso, come individuo, è l’assolutamente sostituibile, il puro nulla». «Non c’è vita vera nella falsa».
Chi non conosce oggi queste espressioni adorniane - penetranti, perentorie, enigmatiche? Chi resiste alla tentazione di citarle almeno una volta?
In realtà con il passare degli anni l’adornismo e il francofortismo sono stati adattati a un utilizzo salottiero, che li riduce a deposito di citazioni prêt-à-porter . I loro libri, oltre a riempire le buone librerie e le biblioteche, sono diventati pezzi di pregio dell’editoria e dell’industria culturale, ora gestita da chi dice di essersi formato sui testi che la denunciavano. Oggi gli studenti di filosofia portano all’esame con annoiata pazienza la Teoria critica che ha turbato profondamente alcuni della generazione di chi scrive. Ma poi la routinizzazione accademica e la nuova più sofisticata cultura di massa hanno raggiunto e ingoiato «l’uomo dagli occhi tristi che un po’ troppo enfaticamente esibiva la disperazione universale» (come diceva di Adorno maliziosamente Rolf Sternberger, un grande politologo e filosofo politico poco noto in Italia).
Con la loro Dialettica dell’Illuminismo Horkheimer e Adorno intendevano offrire un esempio radicale di autocritica della razionalità occidentale sotto il segno della tensione tra mito e ragione, tra «mito e illuminismo». Un radicalismo che ha insospettito il moderato illuminista Jürgen Habermas, a torto considerato dalla vulgata filosofica corrente l’erede legittimo dei maestri francofortese. Constatava con preoccupazione che il disvelamento della dialettica tra ratio , mito e dominio «portava al suo concetto il processo autodistruttivo dell’Illuminismo». In parole meno criptiche, contribuiva alla virtuale distruzione di «quel contenuto razionale della modernità culturale che è stato custodito negli ideali progressisti, borghesi». Con contraccolpi politici pericolosi, come mostravano i settori estremisti del movimento di protesta giovanile alla fine degli Anni Sessanta che, richiamandosi all’analisi spietata del «sistema capitalistico esistente» fatta dai francofortesi, ne traeva conseguenze eversivo-rivoluzionarie che non piacevano affatto ai maestri.
La prospettiva filosofica ultima adorniana infatti non era la rivoluzione politica. Come si legge nel finale dei Minima moralia : «La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi davanti alla disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce se non quella che emana dalla redenzione del mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica». È una prospettiva da «teologia negativa» laica.
Quanto alla Dialettica dell’Illuminismo , scritta con Max Horkheimer, è una grandiosa meta-narrazione della ragione occidentale in linguaggio filosofico. È una meta-storia da prendere con molta cautela critica proprio per il suo espressionismo mitico-oracolare, anche se è più penetrante di tante posteriori decostruzioni dell’Illuminismo fatte dai post-moderni.
Si è parlato di un «enigma Adorno», ultima icona di ciò che resta della «borghesia colta» tedesca di un tempo, trasmigrata in una insicura intellettualità di sinistra. Mi chiedo se si possa parlare oggi di una creativa rivalutazione del francofortismo e in particolare di Adorno, al di là di una puntuale esegesi accademica. O non ci si debba rassegnare a esserne solo gli epigoni.
Corriere della Sera 28.8.11
Le madri assassine in arrivo a Venezia
di Giuseppina Manin
MILANO — Clara ha annegato il suo bimbo in un laghetto. Eloisa ha soffocato il suo con un sacchetto di plastica. Rina ha spinto la testolina della piccola giù giù nella vasca da bagno. Vincenza ha infilato il suo bebè in lavatrice, e ha premuto l'avvio... Donne che uccidono i figli. Scene di horror familiare, cronache nerissime che affollano i giornali in ogni loro macabro dettaglio. Lasciando insoluta l'unica grande domanda: perché? Eppure le mamme assassine esistono. Squilibrate, stressate, depresse. Malate di «blues», stato d'animo triste e dissonante come la musica omonima. E Maternity Blues s'intitola il film di Fabrizio Cattani tra qualche giorno alla Mostra di Venezia in Controcampo. Protagoniste quattro donne, quattro attrici in gara di bravura, Andrea Osvart, Monica Birladeanu, Chiara Martegiani, Marina Pennafina, rinchiuse in un ospedale psichiatrico giudiziario per lo stesso, terribile, crimine: infanticidio. Tra quelle mura si dipana la condanna più feroce: fare i conti con il senso di colpa, tornare e ritornare su quel gesto fatale. Che ha cancellato una piccola vita e azzerato insieme un'altra, quella della sua carnefice. «Una madre che uccide la propria creatura è psicologicamente e culturalmente inaccettabile. Un grumo di violenza da rimuovere, da confinare nella categoria della pazzia», commenta Cattani. «Ma quel che affiora è solo la punta di un iceberg. Gli infanticidi sono in aumento, pochi gli acclarati, tanti i non registrati come tali. La struttura familiare è cambiata, la donna si ritrova a dover far fronte da sola allo stillicidio dei pianti notturni e delle pappe, succube di un esserino prepotente, usurpatore del suo tempo e del suo spazio». Basta poco per perdere il controllo, avvisa il regista che ha visitato l'ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere, unico in Italia a ospitare quelle donne disgraziate. «Chi arriva lì deve affrontare un percorso psicanalitico e farmacologico. Per una lenta presa di coscienza ma anche per sventare un suicidio sempre in agguato. Perché uccidere un figlio è come uccidere se stesse». Senza mai indulgere in effetti né dare giudizi, il film va a mettere il dito sul tasto più scottante: l'istinto materno. «Non esiste — sostiene Cattani —. Un mito da sfatare. La maternità non è solo “naturale”, bisogna tenere conto delle componenti culturali, psichiche. Di eventuali violenze e traumi subiti». Spesso la madre che uccide nega il crimine. «Si chiama "amnesia dissociativa". Quel che ha fatto è così spaventoso che lei stessa non può accettarlo. Il caso di Annamaria Franzoni è esemplare. I flash back sulla realtà a volte arrivano ma a volte no».
Il Sole 24Ore Domenica 28.8.11
Familismo morale
Grande Autore. Marco Bellocchio, 71 anni, riceverà da Bernado Bertolucci il Leone d’oro alla carriera il 9 settembre alle 17 in Sala Grande
Meritatissimo il Leone d’oro alla carriera che Marco Bellocchio riceverà al Lido
Autore di capolavori come «I pugni in tasca», ha avuto qualche caduta nel sodalizio con Fagioli
di Goffredo Fofi
Potrei dire, come Geppetto a proposito di Pinocchio, di aver «conosciuto un intera famiglia di Bellocchi», e potrebbe dire lo stesso qualsiasi assiduo spettatore dei film di Marco Bellocchio, il regista piacentino che ha spesso messo al cntro del suo cinema la famiglia, e in particolare, in modi a volte mediati e a volte diretti, la propria.
«Famiglie, vi odio» diceva Gide, «famiglie, siete la forza del mondo» continua a dire la Chiesa, ma tra odio e amore sta la parola dipendenza, e sta, almeno in Italia, una struttura sociale e culturale che fino ad oggi ha dimostrato di non saper fare a meno della famiglia. E tuttavia sarebbe riduttivo pensare a Bellocchio, cui il Festival di Venezia attribuirà tra poco un meritatissimo Leone d’oro alla carriera, come interessato solo a questo tema, anche perché lo ha declinato in due modi esemplari: quello della rivolta edipica - per la conquietsa dell’autonomia dell’individuo - e quello della rivolta al potere, alle strutture di una società che esaltando come suo nucleo la famiglia ha impisto su questa base molte altre cose, il perno della proprietà privata, l’esaltazione nazionalista, un’idea di religione, un preciso modello educativo.
Non sempre questo passaggio è stato convincente, e se lo è stato per esempio in Vincere, parlandoci Bellocchio del fascismo e del suo duce sulla storia di una donna che ne fu vittima, non lo è stato completamente in Buongiorno notte, parlandoci del confronto tra le Brigate Rosse e Moro nei termini di un conflitto “di famiglia” e trascurando gli scontri politici che quella vicenda metteva in gioco o mistificava, una scelta non ripetuta nel successivo Vincere. L’ambizione di affrontare così vari e cruciali argomenti è un segno dell’importanza di questo regista, non solo nel quadro del nostro cinema ufficiale, da decenni così asfittico. Dopo la generazione dei grandi - i Rossellini, Fellini, Antonioni, Visconti... - sono stati soltatnto lui e Bertolucci, il piacentino ostinatamente prosastico e “nazionale” e il parmense più internazionale ed elegante, a tenere alta la bandiera di un “cinema d’autore” in un’epoca dove i rari veri autori non sogggetti alle mode han fatto e fanno una gran fatica a mantenersi liberi e attivi. Quel che ha unito il piacentino e il parmense è il rispetto di un’appartenenza, il peso delle radici (il cinema migliore del parmense è quello più “locale” e sono i suoi film considerarti minori a vincere su quelli spettacolari e fastosi). La loro forza e il oro limite: il loro cinema sembra infatti avere dei ocnfini proprio fisici di un ambiente che è il nostro e da cui nasce la nostra antropologia; una storia chiusa entro le mura comunali come accade in tante opere dell’amato, da entrambi, Giuseppe Verdi. L’antico confronto tra I pungni in tasca e Pima della rivoluzione ha ormai un senso solo storico, e anche se continua a essere istruttivo confrontare quelle giovinezze con quelle di altrove e con quelle di oggi, è più utile inistere sul rigore e la fedeltà a se stesso del regista piacentino, la cui biografia è priva di elementi salienti ma è in quelche mdo esemplare, dettata da una coerenza sempre estranea alla mode.
Gli anni Sessanta della prima “mutazione” (in un dialogo intenso, tra gli altri, proprio con Pasolini), la fascinazione della politica presto sostituita - e forse non poteva essere altrimenti - da quella della psicanalisi che gli ha dettato opere a volte dolorose, quelle più autonome, e altre più programmatiche e discusse, quelle nate dalla collaborazione con lo psicanalista Fagioli, la ricorrente tentazione della commistione tra le tematiche psicologiche e quelle politiche, la lodevole e insolita non curanza per la fama e il successo pur nell’orgolgliosa coscienza del prorpio valore, l’estraneità alle congreghe e ai salotti, il crescente ritorno ai luoghi delle origini (alla famiglia), l’alternanza di imprese ambizione e di piccole imprese “famigliari”, la difese di un’indipendenza che è inseieme cultrale e produttiva all’interno di un sistema cinematografico sballato, corporativo e clientelare. Altro si potrebbe e si dovrebbe dire, ma premeva soprattutto indicare in questo breve elogio e tentativo di bilancio il posto di Bellocchio in un cinema dove l’aurea capacità degli Autori classici, che sapevano dire cose profonde entro strutture codificate e banali, è stata sostituita dapprima dalla felice libertà di alcuni grandi dentro un’epoca di massimo cambiamento, e ha poi lasciato gli autori ancora degni di questo nome di fronte alla sempre maggiore difficoltà di essere se stessi e di imporre la propria personalità dentro una logica di super spettacoli drogati di fiction insulse, di autonomie fasulle, che condizionano e mai liberano. E potremmo concludere dicendo che i limiti “municipali” e “ famigliari” di Bellocchio - i cui capolavori sono forse i film che meglio li hanno trascesi, I pugni in tasca, Nel nome del padre (che da settembre torna in sala dstribuito da Cinecittà Luce, in versione rimonantata e tagliata dal regista stesso), Il principe di Homburg, Vincere e Matti da slegare - sono secondari di fronte a tanta persusione e a una così faticata ricerca di libertà e di coerenza, mentre restano da sottolineare (anche per Bertolucci) la chiusura egotistica e un’assenza di ansie, diciamo così e per restare alla provincia, leopardiane. E in qualche modo, la scelta di parlar molto di psiche e niente di anima.
Il maestro in cofanetto
In occasione della consegna del Leone d’oro alla carriera che Marco Bellocchio, dal 31 agosto sarà in vendita un doppio cofanetto DVD di Rai Cinema, distribuito da 01 Distribution, con otto titoli, che rappresentano le tappe fondamentali della carriera del regista piacentino. Oltre ai film e ai contenuti speciali, c’è un’intervista inedita all’autore.
i film contenuti nei due DVD:
I pugni in tasca
Addio del passato
Vacanze in Valtrebbia
Sorelle mai
L’ora di religione
Buongiorno, notte
Il regista di matrimoni
Vincere