sabato 7 agosto 2010
l’Unità 7.8.10
Tagli all’editoria, Bonaiuti: la «cassa» ce l’ha Tremonti
Dopo due anni inermi, Paolo Bonaiuti ha incontrato le associazioni dell’editoria. La Federazione della Stampa lancia un sos: «Urgono la riforma del sistema e certezze sui fondi pubblici. A rischio tante testate.
di Natalia Lombardo
Il settore dell’editoria è in «emergenza drammatica», avverte il segretario della Federazione della Stampa, Franco Siddi: «L’editoria e il lavoro giornalistico sono rami vitali per il sistema culturale, economico e produttivo del Paese che non possono essere lasciati deperire», quindi urgono sia la riforma promessa da anni che immediate certezze per la sopravvivenza.
Al contrario regna una grande incertezza, emersa nell’incontro di ieri a Palazzo Chigi del sottosegretario Paolo Bonaiuti con le associazioni di categoria: dalla Fnsi (Siddi e il presidente Roberto Natale) al presidente gli editori Fieg, Carlo Malinconico, dai sindacati Cgil, Cisl e Uil a quelli dei giornalai e dei distributori, le cooperative di Mediacoop e altri.
TREMONTI NON CEDE
Ma al di là dell’impegno mostrato da Bonaiuti, pur apprezzato da tutti, lui stesso ha fatto capire che le chiavi della cassaforte sono in mano al ministro Tremonti, non intenzionato ad aprirla. Nonostante il voto delle Camere, non è stato ripristinato il diritto soggettivo delle testate ai contributi; mai rientrati i fondi per le emittenti locali e i giornali all’estero, né le agevolazioni postali. Fnsi e Fieg chiedono un’accelerazione, oggi faranno una «iniziativa congiunta».
Per due anni Bonaiuti ha promesso invano di riunire gli «Stati generali» dell’editoria; rimasto senza decreto attuativo il voto unanime del Parlamento sul regolamento che dovrebbe stabilire criteri certi, ed evitare che ad usufruire dei fondi pubblici siano testate fantasma. Matteo Orfini, responsabile Informazione del Pd, chiede un impegno serio al governo: «Che il 5 agosto l'ineffabile Bonaiuti si sia ricordato di avere la delega all'editoria è positivo» ma finora non si è visto alcun atto concreto e «in questo anno alcune testate hanno chiuso, giornalisti sono stati licenziati, a causa di un sottosegretario addormentato e di un ministro del Tesoro che, con tagli lineari, sta favorendo le testate dei furbi che lucrano risorse pubbliche e sta mettendo in ginocchio quelle vere». L’appuntamento di Bonaiuti però è al 15 settembre.
Il fondo per l’editoria potrebbe essere falciato del 50 per cento, ridotto per il 2011 a 75 milioni di euro complessivi; nella manovra appena approvata non è stato stanziato un euro, né ripristinati i 30 milioni per le agevolazioni postali, sollecitate con urgenza dalla Fieg: il decreto sareb-
be fermo per un contrasto tra il ministero dello Sviluppo e la presidenza del Consiglio (sempre Berlusconi). Minacciate nella sopravvivenza le tante testate che godono del sostegno al pluralismo delle voci (esiste anche negli altri paesi): i quotidiani di idee, di partito o di cooperative, come l’Unità, il manifesto, Liberazione, l’Avvenire, il Secolo, La Padania e altri. Senza la certezza di ottenere il fondo per il 2011 gi sportelli delle banche sono sbarrati. Ai giornali di sinistra sotto minaccia ora si aggiunge il Secolo d’Italia, considerato dal Pdl l’house organ finiano. Per i giornali «amici» il premier potrebbe sempre garantire fiumi di pubblicità. Bonaiuti nello scampolo pre-vacanziero ha cominciato una «ricognizione» insieme al Capo Dipartimento editoria Elisa Grande. Ha chiesto «suggerimenti» per i criteri sui quali erogare i contributi e la Fnsi li ha indicati: il numero di giornalisti occupati regolarmente: le copie vendute e diffuse sul territorio, e non la tiratura gonfiata ad hoc; che i «giornali di idee» inseriti nell’elenco abbiano un minimo garantito, con un aumento a scalare. Nella bozza di regolamento sembrerebbero confermati per le testate di opinione e partito un massimo di 2 milioni di euro a impresa, più 0,09 euro per ogni copia distribuita, fino a un massimo di 50 milioni di copie l’anno. Per le cooperative e gli enti morali, dovrebbe essere un massimo di 1 milione e 290 mila euro l’anno come quota fissa, più due quote a scalare.
Repubblica 7.8.10
L’orecchino di Nichi Vendola
di Giovanni Valentini
Nella moderna società della comunicazione, in cui generalmente conta più apparire che essere, spesso i gesti, i simboli, i distintivi riescono a trasmettere un contenuto o un messaggio in modo più immediato ed efficace di un discorso o di un ragionamento. Tanto più nella comunicazione politica, drogata dai codici del linguaggio televisivo, dove l´immagine tende a prevalere sulla sostanza. Ma, per la verità, non sempre è un male o un disvalore.
È il caso dell´orecchino esibito da Nichi Vendola, il "rosso", presidente della Regione Puglia, già in corsa per le primarie del partito democratico con il proposito annunciato di candidarsi alla presidenza del Consiglio alle prossime elezioni politiche. E a quanto pare, con il favore dei primi pronostici che gli attribuiscono un leggero vantaggio su Pierluigi Bersani, segretario in carica del Pd.
L´orecchino di Vendola è un segno distintivo, un simbolo alternativo. A parte l´omosessualità dichiarata, il governatore pugliese incarna la massima discontinuità che si può riscontrare oggi nello schieramento di centrosinistra: proviene dalla matrice ideologica comunista, è un cattolico praticante e per di più è appunto un leader politico meridionale con un impegno fortemente caratterizzato in senso meridionalista. Una specie di anticristo, insomma, apparentemente sfavorito in particolare presso l´elettorato settentrionale.
Che cosa c´entra dunque l´orecchino con la sua aspirazione a guidare il governo nazionale? Quale valore può avere un simbolo del genere rispetto a una tale carica istituzionale, agli occhi di un´eventuale maggioranza di centrosinistra e ancor più di un´eventuale opposizione di centrodestra? Non c´è il rischio che venga strumentalizzato dai suoi rivali e denigratori? E infine, esistono nel mondo occidentale altri premier, più o meno progressisti, che sfoggiano un monile del genere?
Pur riconoscendo a Vendola «intelligenza, sensibilità, cultura, maturità, umana simpatia, esperienza», doti a cui si potrebbero aggiungere un´autentica passione civile e una straordinaria capacità oratoria, lo scrittore Giampaolo Rugarli ha osservato recentemente sulla Gazzetta del Mezzogiorno, quotidiano di Bari: «Se rinunciasse all´orecchino, sarebbe perfetto: un grande leader non ha bisogno di ciondoli, brilocchi e pendagli». A 52 anni, con una carriera parlamentare alla spalle e due mandati da governatore, quell´orecchino non aggiunge più nulla all´icona mediatica di "Nichi, il rosso". Né, a questo punto, può togliere niente alla sua figura carismatica, ove mai decidesse di smetterlo.
C´è da pensare, anzi, che oggi un gesto simile gioverebbe alla sua immagine e alla sua credibilità di aspirante premier, sottraendo un argomento o un pretesto polemico ai suoi avversari interni ed esterni. Se l´orecchino era la metafora di una originaria "diversità", adesso la scelta di abbandonarlo potrebbe contribuire a trasmettere una nuova "narrazione" - per usare un termine molto frequente nella trascinante retorica di Vendola - del suo personaggio pubblico. Per così dire, più "governativo" e meno alternativo; più affidabile e meno "rivoluzionario".
Prima ancora di diventare un ornamento della femminilità, del resto, l´orecchino d´oro era usato dai pirati come moneta di riserva in caso di estrema necessità, per comprare la sopravvivenza o la libertà. Al giorno d´oggi, rischia di ridursi all´ostentazione simbolica di un atteggiamento sessuale che viene legittimamente rivendicato proprio in ragione dell´ambito più intimo e personale. Oppure, diventa banalmente un reperto da eccentrici o una civetteria.
Certo: c´è innanzitutto una questione di cultura politica, di idee, di programmi da definire. Ma ormai Nichi Vendola non ha più bisogno di apparire "diverso"; di ostentare il fatto di essere un ex comunista, cattolico e gay. Eppure, alle prossime elezioni, quell´orecchino può valere - per lui e per tutto il centrosinistra - molti voti in più o in meno.
Repubblica 7.8.10
Primarie, Vendola sfida D´Alema "Porterò io il vento di sinistra"
Bindi: per battere Berlusconi alleanza anche con Fini
ROMA - Massimo D´Alema che non crede a Nichi Vendola leader del centrosinistra quasi quasi fa un favore al governatore della Puglia: «Sono contento che D´Alema abbia già fatto una dichiarazione di voto - afferma Vendola - vuol dire che si voterà per le primarie». Il centrosinistra è in movimento e si interroga tra l´ipotesi di un governo di transizione (proposto dai big del Pd, da D´Alema a Bersani, da Letta a Fioroni alla Bindi) con il necessario appoggio del cosiddetto Terzo Polo, e le elezioni anticipate. Scenario al quale si prepara Vendola: «Ci vorrebbe un governo capace di fare due cose - spiega - riforma elettorale e conflitto d´interessi. Ma dov´è una maggioranza disponibile a mutare la legge elettorale? È meglio andare ad elezioni anticipate perché altrimenti non esistono le condizioni per un governo provvisorio». E poi, rivolto a Bersani, chiede: «Tra le cose da mettere in campo c´è o no la sinistra? La sinistra è un bene di questo paese, è una prospettiva di salvezza per l´Italia?».
Nell´area a sinistra del Pd, i Verdi propongono «un´alleanza che faccia fronte a un´emergenza democratica». Rosy Bindi sarebbe disposta ad un´alleanza anche con Fini «se si andasse al voto». Sulle primarie, invece, interviene Filippo Penati, capo della segreteria di Bersani: «Se ci saranno tutte le candidature che arrivano sono buone». Un´apertura a Vendola ma anche a Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, che ha dichiarato la sua intenzione di essere della partita. Penati, però, avverte che «Bersani è stato eletto con una grande mobilitazione popolare meno di un anno fa. E a me non piacciono gli infanticidi». Mentre il deputato Pd Francesco Boccia segnala il rischio "Grande fratello" «con auto-candidature quotidiane alle primarie».
(m.fv.)
Corriere della Sera 7.8.10
L' intervista «In tre anni abbiamo avuto tre elezioni, tre leader e tre sconfitte»
«Al Pd serve un nuovo Lingotto Dialogo con terzo polo e Vendola»
di Monica Guerzoni
2007 L' anno del Lingotto Walter Veltroni si candida alla guida del Pd **** Chi è Gli studi e la politica Sergio Chiamparino, 61 anni, laurea in Scienze politiche all' Università di Torino dove ha svolto l' attività di ricercatore fino al 1975, anno in cui sceglie la politica e diventa capogruppo del Pci al Comune di Moncalieri La carriera Dall' 86 all' 88 è consulente economico della delegazione del Pci al Parlamento europeo. Segretario della Cgil dall' 89 al ' 91, nel ' 96 è deputato per il Pds. Dal 2001 è sindaco di Torino e attualmente è anche presidente nazionale dell' Anci e coordinatore dei Sindaci delle città metropolitane
Chiamparino: Tremonti premier? Non demonizzo alcuna soluzione Non vorrei dire che Veltroni è il padre nobile del Pd perché non ha l' età, ma ha dato contributi che ho condiviso Bersani? Sarebbe ingeneroso scaricare le responsabilità sull' ultimo segretario. Certo che dopo il momento d' oro della convention di Torino è stato un calando
ROMA - Sindaco Sergio Chiamparino, la sua discesa in campo è stata stoppata dai bersaniani. Il Pd la teme? «Non so se mi temono, non voglio fare processi alle intenzioni. Posso solo dire che io non mi muovo con una concezione solipsistica della politica». Però sfida Bersani. O sceglierà ancora una volta l' Aventino, come le ha rimproverato Filippo Penati? «No, se si creano condizioni di competizione virtuosa non mi tiro indietro anche per l' esperienza che ho fatto, avendo governato un pezzo piccolo ma non irrilevante del Paese. E, credo, con dei risultati visibili. Penso a una selezione per definire una nuova leadership con un confronto programmatico, ma per ora non si è aperto nessun concorso e dunque la mia non è una discesa in campo». E se le primarie non ci saranno? «Non vedo come si possa immaginare di tenere insieme una coalizione vasta senza confronto sulla leadership. Tanto che Bersani ha dichiarato, anche se in modo indiretto, che le primarie si faranno». Invocare il congresso a meno di un anno dall' elezione di Bersani non è certificare il suo fallimento? «Ho pronunciato la parola congresso e l' ho subito ritirata, perché è tabù. Ma sono convinto che ci voglia un' iniziativa dove tornare a giocare da protagonisti, già da settembre. Non vogliamo fare il congresso? Troviamo un luogo dove dire con chiarezza le quattro o cinque priorità su cui sfidiamo il governo. Se serve, metto a disposizione qualcosa a Torino». Non penserà mica al Lingotto, da cui partì Veltroni? «Ci vuole una cosa così. Un nuovo Lingotto. Altrimenti non ci resta che scegliere a quale albero impiccarci. Il problema del Pd non è la leadership e lo dimostra il fatto che in tre anni abbiamo avuto tre elezioni, tre leader e tre sconfitte. Dico il Lingotto perché allora avevamo una consistenza onorevole ed è stato il momento in cui si avvertiva, più forte, l' eco del tentativo di tirare su la schiena». Con Bersani non l' avverte? «Sarebbe ingeneroso scaricare le responsabilità sull' ultimo segretario. Certo è che il Lingotto è stato un momento d' oro, l' unico in cui abbiamo parlato al partito e al Paese contemporaneamente, dopodiché è stato un calando. L' ho scritto nel mio libro che uscirà a settembre che c' è sempre un doppio partito nel Pd, il Lingotto costruiva e altri picconavano. E alla fine il morto ha afferrato il vivo». Rosy Bindi è pronta ad allearsi con Fini pur di battere Berlusconi. «Non correrei dietro a tatticismi, alchimie astratte o logiche pensate solo in funzione anti-Berlusconi. Vedere un' alleanza organica con l' area di Fini mi riesce complicato. Il gioco di dire con chi ti allei è indice di subalternità, sono gli altri che devono decidere se allearsi con noi. Il Pd deve essere il punto di riferimento per il terzo polo, che per ora non mi sembra molto coeso, come per l' area a cui Vendola, intelligentemente, sta cercando di dare una rappresentanza». Con Vendola siete avversari o alleati? Si è persino parlato di un ticket con il governatore. «Sta facendo un lavoro utile e intelligente per ridare rappresentanza a un mondo che non l' ha più. Con l' area di Vendola dobbiamo interloquire per fare un' alleanza che metta insieme, attorno al nostro Lingotto, una parte della sinistra e una parte del centro. Vendola è uno di quei casi in cui un confronto leale, serio e competitivo aiuta tutti e due, e magari aiuta un terzo e un quarto». D' Alema ha detto che non lo voterebbe, Vendola. «Mi sembra difficile sfuggire a una competizione costruttiva, sennò si ricade nella logica dei veti. Ma per uscire dall' angolo bisogna prima passare ai temi». Come immagina il Lingotto di Chiamparino? «Faccio tre esempi. La riforma fiscale in parallelo all' attuazione del federalismo, per rimettere in moto lo sviluppo. La sfida di Marchionne sul sistema industriale e la riforma dello Stato, con la legge elettorale». E Veltroni? Nel Pd si scrutano le mosse dell' ex segretario. «Non vorrei dire che è il padre nobile, perché non ha l' età, ma fin qui ha dato il suo contributo con interventi che, in sostanza, ho condiviso. Il problema principale però non è interrogarsi su cosa Veltroni o D' Alema stiano architettando, è formulare le priorità su cui sfidare il governo. E se è in grado di rispondere, potremo dire anche dei sì». Voterebbe Tremonti premier? «Io non demonizzo nessuna soluzione, ma non metterei il carro davanti ai buoi. Ed escludo comitati di salvezza nazionale». E Casini? «È una delle varianti». Di Pietro aspetta che il Pd vada a cercarlo... «Il Pd deve essere la lepre e non il cacciatore che la insegue».
il Fatto 7.8.10
Primarie, corro anch’io no tu no
Bersani, Vendola, Bonino e Chiamparino. Già si sgomita
di Paola Zanca
Viene il dubbio che decidere se fare le primarie o nosia così complicato per un semplice fatto di scaramanzia: portano male. Ieri, il vicepresidente del Pd Ivan Scalfarotto, sul suo blog ricordava i nomi dei candidati al primo esperimento di scelta del candidato del centrosinistra, le primarie dell’Unione nel 2005: assieme a lui avevano accettato la sfida Romano Prodi, Fausto Bertinotti, Antonio Di Pietro, Clemente Mastella, Alfonso Pecoraro Scanio e Simona Panzino. Basta poco, riflette Scalfarotto, per “verificare che a fare politica siamo rimasti veramente in pochi”. Nel Lazio, rimasto senza segretario regionale, piuttosto che fare le primarie, preferiscono commissariare il partito. E che di mezzo ci siano scenari nefasti, lo dice anche una parola usata ieri dal capo della segreteria di Bersani, Filippo Penati: “Infanticidio”.
QUALE? Quello che si commetterebbe facendo fuori il segretario Pd solo dieci mesi dopo la sua elezione. “Bersani è stato eletto con una grande mobilitazione popolare il 25 ottobre 2009 – ricorda Penati – Il 25 ot-
tobre 2010 farà un anno. A me non piacciono gli infanticidi”. Le primarie, va detto, sono previste dallo Statuto Pd, al comma 2 dell'articolo 1. Diventano “di coalizione” se gli altri partiti accettano di partecipare. Per questo nel Pd i punti interrogativi si sprecano: perché se l’alleato principale sarà Casini, l’Udc, il Terzo polo di primarie è meglio non parlare. Se invece il Pd guarderà a Sinistra Ecologia e Libertà e all’Idv, le primarie sono (quasi) bell’e pronte. Di Pietro le chiama “premature” e si domanda “primarie di che cosa e di quale coalizione?”. Nichi Vendola, invece, la sua candidatura l’ha lanciata da settimane. E non è stata accolta esattamente con affetto. Lui, però, guarda il bicchiere mezzo pieno. Ieri Massimo D’Alema ha detto che il presidente della Regione Puglia “non è l’uomo giusto”, che “non è il valido leader per mobilitare una coalizione di centrosinistra”. D’altronde, già nella corsa per la guida della Regione, nel marzo scorso, aveva corazzato il partito a favore di Francesco Boccia, nella speranza di far convergere su di lui i voti dell’Udc. Allora la linea anti Vendola fallì clamorosamente. Ma D’Alema ancora oggi non ha cambiato idea: “Io non lo voterei”. E Nichi è “contento”: se ha fatto “una dichiarazione di voto”, vuol dire che le primarie si faranno. Se i fatti gli daranno ragione, ha già uno sfidante pronto: è Sergio Chiamparino, attuale sindaco di Torino, in scadenza di mandato. “Se serve non mi tiro indietro”, ha fatto sapere. Anche qui, non è partita nessuna ola. “Si mette sempre il carro avanti ai buoi”, è la reazione di Pier Luigi Bersani alla nuova discesa in campo. Lui è convinto che “adesso dobbiamo occuparci di altro”, e poi, è ovvio, lo infastidisce questo atteggiamento che non tiene conto che un candidato naturale c’è, e sarebbe lui. La presidente del partito Rosy Bindi ieri lo ha ricordato: “Se il Pd non facesse le primarie ha un solo candidato, Bersani”. Già, se non le facesse.
VICEVERSA , pronta ai blocchi di partenza anche la radicale Emma Bonino. In un’intervista al Manifesto ha detto: “Le primarie non le decido io, ma se qualcuno le apre, non ci possono essere preclusioni”. Nemmeno a lei, le esperienze con il Pd finora hanno portato bene: la sua sfida a Renata Polverini per il governo del Lazio fu vissuta con enormi mal di pancia. C’era l’eredità del caso Marrazzo, c’era una campagna elettorale partita in ritardo, ma se perse, non fu un caso. Gli outsider, il Pd non l’hanno mai fatto impazzire. “Io sono stupefatto da questo centrosinistra che non si accorge di avere un popolo che prova a spingere in avanti processi di cambiamento. Il centrosinistra, lo dico facendone parte, a volte appare come un’adunata di anime morte”. Parola di Vendola, candidato alle primarie. Evidentemente, per nulla superstizioso.
il Riformista 7.8.10
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