domenica 15 agosto 2010




l’Unità 15.8.10

Colloquio con Nichi Vendola
«Basta politicismi e giochi al massacro»
Il presidente della Regione Puglia: «C’è un clima pazzesco, non solo a destra» «Transizione? Solo per la legge elettorale, non per proseguire la macelleria sociale»
di Concita De Gregorio

Èun lungo monologo, questo di Nichi Vendola. Possiamo parlare, per prima cosa, del clima di veleni del livello dello scontro? avevo chiesto. Non si è interrotto più. Ha detto di Tremonti e di Prodi, di elezioni anticipate e di Cln, di governi tecnici, di istituzioni a rischio e coalizioni possibili, di sinistra soprattutto, citando al principio le parole scritte da Alfredo Reichlin per l’Unità. Di come «liberare il castello dalla presenza di un sovrano ingombrante senza colpi di palazzo o di teatro, misurandosi piuttosto col guasto morale che infetta tutto il regno». Ascoltiamo.
«C’è un clima pazzesco, un’aria irrespirabile. Non pongo la premessa come clausola di stile, ma come problema di cultura politica. Non solo a destra, anche a sinistra quando si manifestano posizioni forse discutibili, magari eccentriche rispetto alla realpolitik si scatena l’intolleranza. Da quando ho posto il tema – ho accettato di assumere su di me la proposta che correva di bocca in bocca, di sguardo in sguardo – parlo della mia candidatura alle primarie, sono stato oggetto di attacchi con risvolti psicanalitici, psichiatrici, sociologici, molti si sono improvvisati miei biografi in un coro tutto sopra le righe, fuori asse. È un problema generale, di tutta la politica, e riguarda il modello di relazioni umane che abbiamo in mente. Discutiamo politicamente delle nostre idee senza dedicare tempo al gioco al massacro, alla brutalizzazione. Capisco che un gruppo di cattolici integralisti faccia tiro a segno nei miei confronti ma capisco meno una parte della sinistra che si comporta così.
Chiedo: chi ha paura del popolo democratico? Il mio invito a non mollare le primarie significa que-
sto: investire sul popolo di centrosinistra del quale i militanti del Pd sono la parte più importante e generosa. Non propongo furbate o giochi d’azzardo. In fondo ogni volta che il ceto politico ha deciso di cedere una quota del proprio potere in favore del processo democratico è stato un fatto straordinario e sorprendente, anche quando l’esito sembrava predefinito. Capisco che ci sia chi preferisce mantenere le rendite di posizione. Due sono le paure che mi pare di scorgere: quella della detronizzazione, e il fatto che la costruzione dei programmi esca così dai circuiti ristretti e diventi collettiva. In parte questo è già accaduto con la Fabbrica del Programma di Romano Prodi.
Il politicismo è asfissiante. Se potessimo invece dare parola ai saperi, ai talenti per far parlare la realtà della vita: che modello di ricostruzione si è applicato all’Aquila dopo il terremoto; che intendiamo fare delle risorse idriche; i processi di desertificazione dei bacini del mediterraneo; mettere a confronto modelli formativi... parlare di tv non solo come lotto politico da occupare ma come veicolo della costruzione delle coscienze e dell’immaginario collettivo.
Vedo invece un balletto di formule ereditate pari pari dalla prima Repubblica. Siamo di fronte ad una crisi mondiale, europea e alla dissoluzione del nostro paese. Abbiamo il dovere di alzare lo sguardo, di fare una discussione non legata al culto della contingenza. Se anche un grande realista come Alfredo Reichlin invita a un nuovo, più alto orizzonte, a una nuova antropologia e ci domanda se interessi ancora la sinistra come nicchia e bottega o se non di debba piuttosto riprendere in mano la missione per il destino di un paese...
E invece qual è la discussione oggi: chi tra i protagonisti della politica sia vecchio e chi nuovo? La domanda è un’altra: come si fa a liberare il castello dalla presenza ingombrante del sovrano senza misurarsi col guasto morale che infetta tutto il regno? E come si chiude il ciclo del berlusconismo: con un colpo di palazzo o di teatro, o piuttosto con un rendiconto, anche aspro, su ciò che è accaduto nella società?
La diatriba su voto subito o governo tecnico, certo. Io non sono in Parlamento, non ho deputati e senatori, faccio un ragionamento politico: se ci fossero le forze e il coraggio per mettere in campo una transizione capace di liberarci di un’ipoteca come la legge elettorale non potrei che brindare e compiacermi del pentimento di chi diceva che il proporzionale è la panacea di tutti i mali. Ma non accetto l’idea di un governo di transizione che prosegua nel solco di chi ha operato la macelleria sociale di Tremonti. Un patto col diavolo? Il problema è intenderci sulla missione. Bisogna anche considerare il livello del danno, per dirla con Josephine Hart: “Ci si vergogna solo la prima volta”. Questo è un regime che non si vergogna più di niente, bisogna opporsi a questa guerra civile a bassa intensità combattuta dentro i palazzi del potere a colpi di dossier, di violenza verbale, di menzogne. È il sintomo di una decadenza gravissima: deposita nel Paese uova di serpente. Dunque, il diavolo. Parliamo dell’ipotesi di una grande aggregazione in funzione antiberlusconiana, dunque anche di un cartello elettorale? È in corso lo squagliamento del centrodestra come lo abbiamo conosciuto. Fini è pure espressione di una destra: democratica, sì, europea. Il Cln mi pare un’elucubrazione estiva. Di fonte allo spettacolo del dissolvimento del fronte avverso cosa fa la sinistra intesa come luogo del nesso lavoro-libertà-conoscenza? Lo chiedo con affetto a Bersani. Abbiamo interesse a mettere in campo, dentro questa sinistra, un’agenda di temi e di processi che lasci da parte i giochi delle belle statuine delle tante sinistre, i riformisti e i radicali, gli antagonisti e i moderati? Un gioco che avvantaggia certo le rendite di posizione ma produce paralisi del sistema: è il male che ha già divorato l’Ulivo, non ripetiamolo. La grande alleanza non deve essere l’Arca di Noè che consenta a ciascuno di salvarsi: non lavoriamo per il ceto politico ma per il Paese. Ho grande affetto per Prodi, temo che in politica non si diano mai secche repliche del passato ma le suggestioni del prodismo, pur con tutti gli errori commessi, ha portato una politica con grandi potenzialità espansive. Se Berlusconi è stato il responsabile della narcotizzazione televisiva, della deresponsabilizzazione di massa il rovesciamento del sistema che ha creato deve partire da un nuovo grande protagonismo democratico. Sono mortalmente stufo delle diatribe simbolico-ideologiche all’interno della sinistra: non hanno più tempo né luogo. Io non mi batto per una sinistra minoritaria, mi batto per vincere. Non bisogna avere paura della nostra gente, allora. È con la nostra gente che vinceremo, insieme a loro e grazie a loro».

l’Unità 15.8.10
Libertà di religione Il presidente si appella alla Costituzione e ai principi dei padri fondatori
L’11 settembre «Questo è un luogo sacro, capisco il dolore ma Al Qaeda non è l’islam»
Sì alla moschea a Ground Zero Obama: «Questa è l’America»
Obama dice sì alla controversa costruzione di una moschea a due passi da Ground zero, in nome della libertà di religione. Il presidente si appella alla Costituzione e ai Padri fondatori. «Questa è l’America».
di Marina Mastroluca

Ci si aspettava un basso profilo, in tempi di popolarità scadente, con le elezioni di mezzo termine ormai in vista e i democratici in affanno. Perché andare a impelagar-
si anche nella questione della «moschea a Ground zero» con tante grane già per le mani? E invece no. Parlando in occasione del tradizionale «Iftar dinner», la cena organizzata dalla Casa Bianca per celebrare l’inizio del Ramadan, Obama è andato dritto al dunque. «Ground Zero è un luogo sacro ha detto -. Ma voglio essere chiaro. Come cittadino e come Presidente credo che i musulmani abbiano lo stesso diritto a professare la loro religione di qualsiasi altra persona in questo Paese. E ciò implica il diritto a costruire un luogo di preghiera, in un terreno di
proprietà privata di Manhattan, nel rispetto delle regole e le leggi locali».
Il presidente legge il primo emendamento della Costituzione americana, per dire che «la libertà di religione è la legge di questa terra». Cita Thomas Jefferson e i Padri fondatori, si richiama alle radici dell’America, lega le sue conclusioni al dna del Paese. Non è questione di tolleranza, né di condiscendenza. In gioco non c’è solo il rispetto per le vittime dell’11 settembre, un evento «profondamente traumatico per tutta l’America» tutta appunto, senza distinzione di fede. In gioco c’è l’essenza stessa degli Stati Uniti. «Questa è l’America e il nostro impegno per la libertà religiosa deve essere incrollabile dice Obama -. È il principio in base al quale i popoli di tutte le fedi sono benvenuti in questo Paese, e non verranno mai trattati in maniera diversa dal loro governo. È essenziale per quello che siamo, la volontà dei Padri Fondatori deve essere rispettata».
Non è un discorso popolare e Obama questo lo sa bene. L’ultimo sondaggio della Cnn disegna una realtà a senso unico: per il 68% degli americani la costruzione di una moschea vicino a Ground zero è un’offesa alle vittime. La destra repubblicana, Sarah Palin in testa, ha annusato l’aria che tira e soffia sul fuoco dell’islamofobia. «Capisco bene le emozioni che questa vicenda provoca», dice Obama. Il presidente a cui troppo spesso si rimprovera una freddezza glaciale non mette da parte i sentimenti. «Il dolore e la sofferenza di coloro che hanno perduto i propri cari e inimmaginabile dice -. Comprendo l’emozione. Ground zero è senza dubbio un’area sacra». Ma legare Al Qaeda all’islam per Obama - lo stesso che parlando al Cairo lo scorso anno auspicava «un nuovo inizio» con i paesi islamici sarebbe un errore. «Al Qaeda non è l’islam, è una volgare distorsione dell’islam. Infatti Al Qaeda ha ucciso più musulmani che persone di qualsiasi altra religione».
UN TEST PER L’AMERICA
Parole che commuovono i promotori del progetto per costruzione della moschea e del centro islamico: islamici di rito sufi la versione più mistica e moderata dell’islam. Prima di imbarcarsi nell’impresa avevano chiesto e ottenuto il sostegno di un gruppo di familiari delle vittime dell’11 settembre, di gruppi ebraici e cristiani. Avevano presentato il progetto alla collettività e sulle prime le sole obiezioni a cui sono andati incontro riguardavano problemi di viabilità e di traffico. «Siamo davvero commossi e grati al presidente per le sue parole», ha detto Sharif el-Gamal. Soddisfatto anche il sindaco di New York, Michael Bloomberg, che aveva già dato la sua benedizione al progetto approvato la settimana scorsa dalla municipalità.
Bloomberg parla della moschea come di «un importante test sulla separazione di stato e chiesa». Parla di un principio. Ma non è quello che gronda dai blog e dai commenti che riempiono i siti. Qui c’è il grande ventre d’America, quello che ancora diffida del nome del suo presidente. Che ci si poteva aspettare da uno che si chiama Hussein?

Repubblica 15.8.10
La banda Picasso

Georges (Braque) e Amedeo (Modigliani), Guillaume (Apollinaire) e Max (Jacob). Infine lui, Picasso. Il più vecchio non aveva trent´anni, il più giovane diciotto Tra atelier e café dividevano soldi, donne, tele e idee. Una storia di amicizie geniali e randagie. Custodita e ora svelata dal nipote del loro mecenate

C´erano Max il bretone e Georges il normanno. Pierre il poeta e Amedeo l´italiano. Juan invece era di Madrid. Allora gli unici parigini veri erano André e Maurice. Poi c´era l´altro spagnolo, Pablo. Inseparabili. La banda dei ragazzi, quelli che per sopravvivere svendevano quadri e strofe. Che quando bevevano troppo si prendevano a pistolettate. Il più vecchio non aveva trent´anni e il più giovane diciotto.
La "Bande à Picasso". Max Jacob, Georges Braque. Pierre Reverdy e Amedeo Modigliani. Guillaume era Apollinaire, poi André Derain. Parigi, a partire dal 1905. Storia di un gruppo di amici e del Bateau-Lavoir, vecchia fabbrica per pianoforti in cima a rue Ravignan, Montmartre, trasformata in atelier d´artisti, straordinaria casa comune che quasi per caso tenne a battesimo il cubismo.
Una storia raccontata da Maurice, che avrebbe voluto dipingere e scrivere versi ma temeva di non essere all´altezza degli altri. Maurice Raynal, quello ricco, che dopo aver dilapidato quasi tutta l´eredità di famiglia, spiantato a sua volta, fu capace di trasformarsi prima in critico d´arte e poi in un mecenate avanguardista, orgoglioso sostenitore di Picasso e di quegli altri "banditi" che non abbandonerà per tutto il resto della vita. Per quasi mezzo secolo ne scrisse su giornali e riviste, pubblicando una trentina di volumi. Cinquant´anni più tardi il nipote, David Raynal, giornalista, ha voluto rendere omaggio al nonno e ad un´epopea raccogliendo in un libro, La bande à Picasso, appunti, lettere e fotografie inedite, vecchi articoli. Dove è possibile leggere una corrispondenza tra Picasso e Raynal, con il primo che scrive: «Mio caro, potete prestarmi cinquecento franchi? Mi fareste un grande piacere. Se volete delle garanzie, sono là: i miei quadri». O un racconto di Raynal, Il pugile e la sua ombra, tratto da un episodio realmente accaduto. Seduti a bere assenzio e parlare di pittura al bar di una «Montmartre quasi campestre», lui con Modigliani, Jacob, Gris e un gigantesco campione mondiale dei pesi massimi, Sam Mac Vea. Un individuo si avvicina e rompe una caraffa d´acqua sulla testa dell´atleta, che mentre l´aggressore fugge lo rimprovera col dito come un bambino: «Non rifarlo mai più!».
Aneddoti di una vita. Maurice che entra nel cubismo «come si entra in una religione», poi assiste alla nascita delle Demoiselles d´Avignon ed è tra i pochi a seguire i lavori di Picasso durante la Grande guerra. Pablo Gargallo che vuole tornare in Spagna ma non ha un centesimo, Picasso prima lo obbliga a comprarsi il biglietto vendendo il quadro che gli aveva regalato e poi lo sorprende alla partenza del treno con un´altra tela delle sue. Raynal che ricorda una cena tra anatre, ragazze, tanto beaujolais e qualche gelosia artistica di troppo. Con i commensali addormentati dall´alcol e Alfred Jarry - scrittore e drammaturgo dell´Ubu Re - che spara due revolverate contro Manolo, scultore iberico. Picasso, Apollinaire, i poeti Maurice Cremnitz e André Salmon si risvegliano, sconvolti. «L´avevo detto che t´avrei ucciso», urla Jarry. A terra c´è un corpo. Ma è Jacob, che ronfa ubriaco. Manolo è scappato, incolume. «Fece in tempo ad esalare contro Jarry l´odio nobile di un classico puro davanti a una manifestazione romantica. "La follia è spesso una scusa per l´idiozia", gli disse sprezzante». Così ricorda il padrone di casa, commentando un´epoca visionaria e irripetibile: «Questa storia, un po´ stupidamente bohémienne, non ha altra giustificazione che la qualità dei protagonisti e la nostra gioventù estrema. Passavamo il tempo a perderlo, e per molti era la cosa migliore. Non c´era nulla da riflettere, non c´era pittura, arte o letteratura. Quella sera a casa mia c´erano soprattutto tre o quattro uomini di genio».
Quasi un libro d´avventura, confessa David Raynal: «Mio nonno è citato in tutte le opere sul cubismo. Però non spiegano se fosse pittore, scultore, scrittore o mercante. Era un critico d´arte, un giornalista, un mecenate, l´amico dei pittori e dei poeti. Suo padre sognava per lui una carriera da notaio, invece all´improvviso è entrato a far parte di un universo in piena effervescenza. Non aveva una particolare attitudine alla pittura. Ma ha capito che poteva comunque dare un contributo decisivo all´arte: gli è stato sufficiente essere un buon amico».

Repubblica 15.8.10
Nella Parigi metafisica con il diavolo in corpo
di Francesco Merlo

Solo negli ultimi anni, con il respiratore accanto al letto, Picasso, che diceva di «portare l´arte sulle spalle», capì che Parigi è bella quando non somiglia a Parigi, ma intuì che purtroppo anche il suo nome sarebbe diventato uno di quei nomi che implacabilmente parigizzano Parigi. Al suo arrivo dalla Spagna nel 1904 invece Parigi era parigizzata dalla bella Otero, amante dello scià di Persia, e da Lina Cavalieri, la petite italienne delle Folies-Bergère che trionfava nel Rigoletto con Enrico Caruso. Mentre dunque la bande à Picasso inventava l´arte moderna a Montmartre, dove non si pagavano tasse e il vino era diuretico (c´est du vin de Montmartre / qui en boit pinte en pisse quarte), sugli Champs-Élysées la ballerina Golne portava al guinzaglio una capra, il barone Henry de Rothschild sfrecciava con una 32 cavalli rosso fuoco, e Liane de Pougy confessava: «Cerco l´amore nel vizio, sono in vendita».
(segue nelle pagine successive)
è vero che Apollinaire scriveva di lui «c´è un neonato che rimetterà in ordine l´universo», ma Picasso non sapeva che, in suo nome, Parigi sarebbe diventata la linea a zig zag del Metro che già allora univa la baracca di legno di Montmartre, distrutta e ricostruita nel 1970 ma dalla quale i pittori di piazza ancora oggi fingono di trarre il "vital nutrimento", a non so quale rarità dimenticata e pur modesta d´aspetto della Gare Montparnasse. La Parigi di Picasso inghiotte place Pigalle e rue De la Boétie, le vie degli atelier disordinati e sporchi, templi eretti alla Creatività: «Si diceva che io mettevo i nasi di traverso ma bisognava pur metterli di traverso per far vedere che erano nasi», rispose all´accusa di stravaganza antigravitazionale (molto divertente l´articolo che gli dedicò Indro Montanelli).
Dall´altra parte ci sono le rues de Chabrol, Laffitte e Vignon che sono le strade dei mercanti, rispettivamente Mourlot, Vollard e Kahnweiller, e poi l´atelier des Grands Augustins dove dipinse Guernica, e ancora, per i soliti viziosi di retorica, c´è Saint-Germain-des-Près con Les Deux Magots del Picasso impegnato e iscritto al Pcf al quale nel 1953 Louis Aragon, disperato per la morte del "piccolo padre" commissionò un ritratto di Stalin che l´incauto eseguì ispirandosi a una foto del 1908 quando il giovanotto georgiano, uscito dal seminario, organizzava rapine e metteva bombe. Apriti cielo! Il ritratto fu «condannato categoricamente» dal partito che invitò quel degenerato a «ispirarsi ai grandi artisti del realismo socialista».
C´è nella linea-Picasso che taglia Parigi il numero 27 di rue de Fleurus dove Gertrude Stein, con il suo leggendario bourbon e la sua superbia intellettuale, aboliva dalla prosa nientemeno che le virgole e il punto interrogativo. E poi la rue Gay Lussac e il 242 di boulevard Raspail. Raccontò la Stein alla fine del 1914: «Non c´è niente sulla terra di più freddo del boulevard Raspail in una sera fredda d´inverno. Noi lo chiamavamo "la ritirata di Mosca". Di colpo un grande cannone attraversò la strada e nessuno di noi aveva mai visto un cannone camuffato. Pablo esclamò d´istinto: siamo noi che lo abbiamo inventato!». È vero che «la testuggine corazzata» dello scrittore H. G. Wells è figlia di Picasso e di Braque con l´aiuto del pennello di Cézanne (la Stein mi perdonerebbe il doppio punto interrogativo?)? E forse c´è Picasso anche nella baionetta-mitragliatore dei robot di Avatar.
Di sicuro la linea-Picasso congiunge e divide mille donne perché come scrisse Napoleone: «Parigi è la città delle donne. Date sei mesi di tempo a una donna a Parigi e scoprirà dov´è il suo impero e quanto le è dovuto». Picasso morì di infarto a novantun anni carico di vedove anche se negava di essere un conquistatore di donne, «semmai un esploratore». E c´erano vedove allegre, feroci o suicide come la dolce Marie Thérèse che aveva fermato per strada di fronte alle Galeries Lafayette: «Sono Picasso. Insieme faremo grandi cose». Lei aveva diciassette anni, lui quarantasei. E si uccise pure l´ultima moglie che aveva impedito a tutti i Picasso illegittimi di partecipare ai funerali del pittore.
Picasso lasciò solo una frase per testamento: «Adesso comincerà il peggio. E sarà molto peggio di quanto voi possiate lontanamente immaginare». Ha scritto il nipote Olivier: «Mio nonno è nato il giorno della sua morte». E infatti i Picasso si contesero innanzitutto il nome che hanno venduto a profumi, gioielli e paccottiglia varia. E la Picasso Administration, sede nella poco picassiana place Vendôme, ogni giorno smaschera impostori e usurpatori di un nome che Picasso riconobbe soltanto a Paulo, il figlio avuto nel 1921. Paulo aveva a sua volta un figlio, Pablito, che veniva preso da crisi di soffocamento quando i genitori ferocemente si disputavano le tele del nonno, si suicidò inghiottendo varechina. Un anno dopo il padre morì di crepacuore. I Picasso illegittimi, intanto, diventavano legittimi per ordine dei giudici in un guazzabuglio di Pabli, Pauli e Pabliti.
Ecco: la Parigi di Picasso è anche spleen e cinismo, è le diable au corps, è Modigliani ubriaco che urla alla luna, la Signora delle camelie, la carne da letto, le donne brutte di Toulouse-Lautrec, è un nome che è nume. E sono infiniti i quadri mentali che i turisti, come fedeli alla Mecca, trovano nella picassità di Picasso, soggetto senza fine di libri e di rivelazioni, metafisica della Parigi di Picasso che è un mazzo di donne di cuori.

Corriere della Sera 15.8.10
La pillola dei cinque giorni dopo. Sì degli Stati Uniti, Italia divisa
Avviata la commercializzazione in 22 Stati europei. «Da noi non è in calendario»
L’azienda che la produce: non è abortiva. Ma è polemica
di Margherita De Bac

Il farmacologo Garattini: «L’agenzia dei farmaci può prendere tempo, ma alla fine dovrà dare l’ok»

Da pagina 1 ROMA — Secondo esame superato per Ella, la pillola dei cinque giorni dopo, contraccettivo d’emergenza da usare dopo un rapporto sessuale a rischio di cui si vorrebbero evitare le conseguenze. Le autorità sanitarie americane hanno dato il via libera alla vendita negli Stati Uniti.

La decisione segue quella dell’agenzia europea e nel frattempo ventidue Stati del vecchio continente (tra cui Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Paesi Scandinavi) hanno avviato la commercializzazione. La Fda americana (Food and Drug Administration) ha previsto, tra l’altro, che Ella possa essere acquistata solo dietro presentazione di ricetta medica. A base di ulipristal acetato, il farmaco nel prevenire una gravidanza è considerato più efficace di levonogestrel, principio attivo di Norlevo (pillola del giorno dopo) che va presa al massimo entro 48-72 ore successive al rapporto. In questo caso invece si può intervenire entro il quinto giorno.

Alberto Aiuto, general manager dell’azienda HRA Pharma Italia — la pillola è infatti prodotta dalla francese HRA Pharma — chiarisce: « Ella inibisce l’ovulazione anche quando il picco ormonale è già presente, dunque quando il processo è molto avanti. La pillola è stata sperimentata per un’azione entro il quinto giorno perché questo è il tempo di sopravvivenza degli spermatozoi». Si tratta di un prodotto destinato a restare oggetto di polemiche. Già contestato negli Stati Uniti con manifestazioni di piazza perché ritenuto abortivo e assimilabile alla Ru486, composto di una sostanza molto simile. Secondo le accuse dei pro life, interferisce con l’impianto dell’ovulo fecondato, intervenendo di fatto come interruttore di una gravidanza. But Wendy Wright, presidente di Concern Women for America, fa notare un dettaglio: «La Fda ha dato l’annuncio alla vigilia di Ferragosto. È stata una decisione politica».

Aiuto però ribatte che nell’ultima scheda tecnica l’Emea (l’autorità che regola i farmaci in Europa) ha escluso che Ella abbia «attività endometriali», riscattandola dal sospetto rilanciato dai cattolici. Il basso dosaggio del principio attivo la lascerebbe inoltre ben lontana dalle conseguenze del mifepristone (Ru486) come avrebbero dimostrato le sperimentazioni su quattromila donne.

HRA Pharma ha presentato la richiesta di vendita in Italia e di definizione del prezzo nell’agosto del 2009. Il Ministro della Salute ha chiesto un parere al Consiglio Superiore di Sanità sulla compatibilità del prodotto con la legge 194 sull’aborto. A tale proposito è stata presentata un’interrogazione parlamentare sottoscritta da rappresentanti di maggioranza e opposizione. Antonio Tomassini, presidente della Commissione Sanità del Senato, è cauto: «È una pillola nota, se ne conoscono i diversi meccanismi tra cui quello abortivo, che è possibile. Lo dico da tecnico, non da politico. Per il momento l’argomento non è nel nostro calendario». Meno dubbioso Silvio Garattini: «L’agenzia del farmaco Aifa potrà prendere tempo ma alla fine dovrà dare l’ok. Anche l’Italia a livello europeo si è espressa per il via libera e di conseguenza non può adesso tornare indietro.