Repubblica 20.8.10
E su Facebook Vendola ha più fan del premier
ROMA - Nichi Vendola su Facebook ha più sostenitori di Silvio Berlusconi. Il governatore della Puglia conta 228 mila fan e ha superato il premier, rimasto fermo a quota 227 mila, che da maggio ne ha persi 1700. Il sorpasso è stato comunicato dalle "Fabbriche di Nichi", ma non convince Umberto Bossi. Per il leader leghista «basta dare un´ordine alla sinistra e tutti votano, vanno in quella direzione. Se è così vuol dire che c´è sotto qualcosa; vedremo».
Repubblica 20.8.10
L’anteprima dell´ultimo libro dell’ex presidente della Camera "Chi comanda qui?"
"Hanno ucciso la Costituzione più bella" Bertinotti indaga su chi è il killer
"Sovranità popolare? Balle Siamo alla restaurazione Elettori traditi"
ROMA - Hanno ucciso la Costituzione. E Fausto Bertinotti indaga per scoprire il killer. Chi e perché l´ha fatta fuori, la "signora" della democrazia più bella che ci sia nel mondo occidentale? L´ex presidente della Camera, smessi i panni di leader comunista in servizio permanente effettivo, può dedicarsi all´analisi politica e all´investigazione storica, e dal ciclo di lezioni all´università di Perugia è così nato questo suo nuovo libro. Titolo: Chi comanda qui? (per la Mondadori, da martedì prossimo in libreria), citazione tratta da "Alice nel paese delle Meraviglie", quando Humpty Dumpty all´incredula protagonista rivela il suo dispotico esercizio del potere. Come Berlusconi, allora, l´assassino della Costituzione è proprio il Cavaliere? Troppo facile, come dire il maggiordomo nei gialli.
Silvio naturalmente c´entra, ma è l´ultimo a comparire sulla scena del crimine. E´ un piano che muove da lontano, e non riguarda solo il nostro paese, anche se da noi si avvertono i contraccolpi più forti e pericolosi. Bertinotti indaga sul passaggio che dalle costituzioni democratiche «che erano la promessa di una società più giusta» ci ha portato fino «alle costituzioni materiali che ritraggono una società basata sul mercato». Un gigantesco rivolgimento di sistema che è cominciato a partire dagli anni Ottanta: la globalizzazione. Si afferma il primato dell´economia sulla politica e sulla democrazia, la base dell´unificazione di tutti i mercati. Et voilà, l´articolo uno della Costituzione sparisce sotto i nostri occhi, e via via il resto. «Mi limito a far notare il radicale rovesciamento tra la dichiarazione della "Repubblica fondata sul lavoro" e il modello odierno fondato su bassi salari, flessibilità e la precarizzazione». La costituzione materiale prende il posto di quella formale, determina un nuovo ordine, un nuovo sistema di relazioni fra governati e governanti, tra le diverse classi sociali, tra l´impresa e il lavoro. Un modello a forte «vocazione totalizzante», tendenzialmente «demolitrice della democrazia», e che «non risparmia le istituzioni della democrazia rappresentativa in Italia».
Dove la "scomparsa" della costituzione ha un sovrappiù di patologico. Nel nostro paese una costituzione materiale regressiva «ha incontrato una rivoluzione conservatrice che sembra riannodare i fili scovati nella biografia della nazione, per poi tesserli nella trama leggera di una dittatura mediatica nella quale la politica evapora nella sua spettacolarizzazione». Il mercato risolve a suo favore la contesa storica con la democrazia, così come si era venuta costituendo in Europa dopo la vittoria contro il nazifascismo e attraverso gli sviluppi della lotta di classe e delle politiche del movimento operaio. «E oggi la crisi della democrazia europea, e quella particolarmente acuta della democrazia in Italia, sono sottoposte ad una nuova torsione». Ecco, siamo al cuore delle indagini: la restaurazione trionfa, e incontra in Italia l´uomo che perfettamente la incarna. Ma la sovranità popolare invocata come frutto nuovo di una costituzione di fatto, per giustificare il diktat il governo Berlusconi o le elezioni? Balle. Il killer, ricostruisce Bertinotti, ha ucciso sopratutto quella: è la fine della sovranità popolare e nazionale, inghiottita con la vecchia costituzione.
(u. r.)
Repubblica 20.8.10
Curarsi con l´Lsd, la medicina ci (ri)prova
Farmaci poco efficaci: gli psichiatri ricorrono alla droga della beat generation
di Elena Dusi
ROMA - Dove fallisce il Prozac potrebbe arrivare l´Lsd. Dalla Svizzera - paese dove l´acido lisergico nacque nel 1943 - lo psichiatra Franz Vollenweider propone oggi l´uso di Lsd, chetamine e psilocibina (il principio attivo dei "funghi magici") come antidoti contro depressione, ansia, dipendenze, comportamenti ossessivo-compulsivi, dolore cronico e come cura palliativa per i malati di tumore.
«Le sostanze psichedeliche possono riequilibrare i circuiti del cervello coinvolti nei disturbi dell´umore e ridurre i sintomi di queste gravi malattie» scrive Vollenweider, dell´ospedale psichiatrico di Zurigo, in uno studio denso di dettagli farmacologi su Nature Reviews Neuroscience. «Queste sostanze rafforzano l´autocoscienza, facilitano l´accesso ai ricordi carichi di emotività, aiutano i pazienti a valutare i loro problemi in una prospettiva diversa». Condizioni perché la cura funzioni: dosi molto basse, assunzione limitata a poche settimane e presenza di un medico che dello stato di "libera coscienza" sappia trarre profitto trasformando il trip in terapia.
Vollenweider in realtà non propone nulla di nuovo. L´Lsd e i suoi fratelli furono subito guardati con interesse dalla psichiatria. Nel 1965 esistevano già mille studi scientifici sulla sua efficacia contro ansia e depressione e il farmaco era stato sperimentato su 40mila volontari. La sua capacità di alterare la coscienza rappresentava una miniera per svelare i misteri delle psicosi, schizofrenia in primis. Eppure erano passati solo poco più di vent´anni da quando il chimico svizzero Albert Hofmann sintetizzò l´acido lisergico partendo da alcuni funghi che infestavano la segale e lo testò su se stesso. Quel giorno, in cui per la prima volta "gli parlò", l´Lsd divenne per Hofmann «il mio bambino difficile».
Gli "psichedelici" anni ‘60 e la messa al bando degli allucinogeni segnarono una battuta d´arresto per la ricerca. La curiosità è riaffiorata solo ora, con nuovi strumenti che offrono immagini vivide del cervello sotto l´effetto di allucinogeni e informazioni fresche sulla chimica della mente. Su queste nuove basi, e in un panorama che vede il fallimento di molti farmaci tradizionali contro le malattie psichiatriche, Vollenweider torna alla carica con l´arma antica degli allucinogeni. L´Lsd, scrive, è in grado di agire su neurotrasmettitori come il glutammato e la serotonina: è proprio il loro equilibrio a risultare alterato nei casi di depressione e ansia. «Bastano tre ore per avere un miglioramento dell´umore - scrive lo psichiatra - contro le 2-3 settimane dei farmaci tradizionali». E le cure palliative adottate contro il cancro, dimostra uno studio sul New England Journal of Medicine, oltre a migliorare la qualità della vita ne allungano la durata di circa tre mesi.
La proposta di Vollenweider arriva in un momento in cui la mancanza di nuovi farmaci in psichiatria è molto sentita. "Il cervello di Big Pharma è a corto di idee" titolava Science a fine agosto, in un dossier sul fallimento della ricerca nel campo delle malattie mentali e sulla chiusura di molti laboratori. E sempre Science - non sospetta di combine con la rivale Nature - dà enfasi oggi a una sperimentazione dell´università di Yale, che ha usato chetamine per combattere la depressione.
Repubblica Firenze 20.8.10
Oblate e Nazionale la cultura è differente
di Antonia Ida Fontana
Il sindaco Matteo Renzi, proponendo "un modello fiorentino della fruizione dei beni culturali", cita oltre agli Uffizi anche la Biblioteca Nazionale Centrale. Non può che far piacere l´attenzione manifestata ora dal Sindaco, a fronte del completo disinteresse dimostrato in precedenti occasioni, preoccupa tuttavia l´accostamento alle Oblate, biblioteca efficace ed attraente, ma con funzioni e pubblico completamente diversi. Le campagne per promuovere il piacere di leggere, le attività ludiche, l´animazione per le diverse età sono compiti indispensabili alla crescita culturale e sociale di un Paese, ma nulla hanno a che vedere con le funzioni di una Biblioteca Nazionale. Aderendo alla definizione dell´Unesco, la Bncf raccoglie quanto è edito nel Paese, ne dà notizia attraverso la pubblicazione della Bibliografia Nazionale, conserva il patrimonio antico e moderno, cartaceo e digitale a favore delle generazioni future e fornisce servizi ad un´utenza specialistica. Anche le manifestazioni culturali sono indirizzate a far conoscere il patrimonio o a promuovere studi di approfondimento. Sarebbe auspicabile un´apertura serale, ma non per offrire una cultura "ludiforme", che può trovare spazio in strutture più adeguate, meno costose e meno fragili, bensì per ampliare il servizio allo studio e alla ricerca.
Ben diverso il futuro che si prospetta: benché la Biblioteca, alla quale si accede gratuitamente, riesca, fra progetti europei, sponsorizzazioni, vendita di diritti eccetera, ad incrementare le entrate per circa un quarto del suo budget, tagli antichi e nuovi non consentiranno nel prossimo anno di far fronte alle spese correnti, non sarà possibile ricorrere all´aiuto dei giovani collaboratori che garantiscono una parte importante della distribuzione di libri e periodici, soprattutto giaceranno privi di catalogazione migliaia di volumi.
Infine i due più gravi problemi: la mancanza di spazio e la carenza di personale. Solo la realizzazione di un grande deposito nella ex Caserma Curtatone consentirà di collocare le nuove acquisizioni: ogni anno infatti pervengono circa 70.000 volumi e 350.000 fascicoli di periodici che richiedono per l´immagazzinamento circa due chilometri di scaffali. In pochi anni infine il pensionamento senza turn-over della quasi totalità del personale vanificherà il lavoro di generazioni di bibliotecari e comprometterà la storia e le tradizioni dell´Istituto che rappresenta la memoria e l´identità dell´Italia.
L´autrice è la direttrice della Biblioteca Centrale Nazionale di Firenze
Repubblica Firenze 20.8.10
S. Salvi come Auschwitz: tuteliamo la memoria del dolore
di Pietro Clemente
Le città sono macchine per dimenticare, dimenticare le campagne quando si viene da lì e ci si "affranca", dimenticare la storia quando non serve a fare turismo, le città ricordano con i nomi delle strade di cui nessuno sa nulla e col patrimonio che fa turismo.
Dimenticano più volentieri i traumi delle tecnologie, dislocano e così svuotano, e riempiono con ciò che aiuta a dimenticare: gasometri, manifatture tabacchi, officine Galileo, San Salvi eccetera.
La storia del moderno, che si pretende storia progressiva, è invece storia di contraddizioni e di traumi. Gli ospedali psichiatrici nascono con la nuova scienza medica, nascono come luoghi di salute e di speranza, nascono come città del benessere. Ma diventano, nell´esperienza che li rende visibile allo sguardo nuovo degli anni ´60, dei campi di sterminio, dei campi di concentramento e di segregazione, dove l´umano viene negato, dove i diritti vengono levati, e dei reclusi degli anni ‘60 e ‘70 si potrebbe ben dire con Primo Levi "Se questo è un uomo".
Non serve la memoria per evitare che succeda ancora, serve a capire la complessità, a vedere come funzionano le trasformazioni, come cambiano di segno, cosa ci insegnano. Come possiamo applicare la nostra comprensione al presente, a un disegno di futuro.
C´è un futuro per una connessione tra memorie di San Salvi e vissuti psichiatrici di oggi e di domani? C´è un futuro da insegnare ai giovani su come cambiano le ideologie nel tempo, come nascono trasformazioni dove non le immaginavamo, per guardarci agire senza dissennatezza? C´è uno spazio per connettere quelle vite segregate e poi dischiuse con le vite degli "altri" prodotti dai flussi del mondo mobile e liquido?
L´elogio dell´imprevisto è inscritto nella storia di San Salvi, non i medici "democratici", non i documentaristi della diversità hanno posto al centro la memoria della segregazione psichiatrica nello spazio che ne fu protagonista. Sono stati i Chille. Cosa c´è di più assurdo che un gruppo teatrale di un´altra città, per di più di Napoli, abbia messo in scena la memoria, i fantasmi del passato negato, delle storie insepolte a Firenze? Forse solo il teatro poteva dar vita così forte ai fantasmi che aleggiavano lungo le mura di San Salvi. Trasformare la memoria in teatro con la "passeggiata" in cui la cattiva memoria della città tornava alla luce, in cui il passato era ancora per un attimo dolore, angoscia, senso di colpa, anche della città verso se stessa, è stato un atto di vita del passato formidabile. San Salvi è un luogo di orrore, di dolore, di morte, ma anche di speranza, di sogno, di testimonianza, di lotta, di solidarietà. E´ questa complessità che produce vertigine al moderno.
Per l´orrore che si è consumato, e che sarà gridato finché abbiamo la capacità di ascoltarlo, San Salvi è come Auschwitz, occorre patrimonializzarlo come spazio per ricordare ai giovani, alle scuole, ai liberi testimoni del nostro tempo come nacquero nel nostro mondo insieme i diritti e la loro negazione, come il "nome dell´altro" continui a turbare e richiamare desideri di proscrizione.
Con il dolore e con l´epica della riscossa degli uomini insieme di scienza e di buona volontà San Salvi è diventata uno spazio sacro, e chiama e dà valore alla cultura dell´Occidente, e a chi ama Firenze, città di storia antica e anche moderna.
Quello spazio conserva il sacro conquistato dal dolore e dalla lotta, non è alienabile, è bene comune.
Come ne "Le vie dei canti" e nel dreaming australiano, in quei luoghi si forma la leggenda e il mitico dell´individuo, il valore dell´uomo. Lo spazio di San Salvi reso sacro da ciò che di terribile e fondativo vi è successo non può essere rimosso, anzi è ormai uno spazio di risveglio urbano. Lì si sentono i canti che ci danno il senso del mondo futuro, le passeggiate e i racconti, le tesi di tanti giovani, libri di tanti studiosi appassionati hanno fatto sì che San Salvi sia un luogo esemplare della storia di Firenze, interdisciplinare e interbuona volontà come nell´alluvione, unitario e molteplice. Un luogo dove il "patrimonio immateriale" tutelato dalla convenzione Unesco, è vitale ed ha un´anima unica in Italia.
E´ quindi evidente che qualsiasi progetto per San Salvi deve poter essere costruito intorno a un centro culturale, un asse di storia e di memoria della città, pubblico e ricco di associazioni di volontariato. Intorno a un uso pubblico e solidale della memoria del passato, del presente plurale come idea culturale di una città aperta, San Salvi può anche ritrovare un suo modo di servire la città e di esserne parte più di come oggi non sia.
L´autore è docente di Antropologia culturale all´Università di Firenze
Corriere della Sera 19.8.10
Il delitto del neonato bruciato che tormentava Majorana
La nuova teoria sul fisico scomparso: folle per un caso in famiglia
di Giovanni Caprara
Da pagina 1 Aveva 31 anni, i capelli corvini, gli occhi vivacissimi e tristi. Si imbarcò su una nave a Palermo per raggiungere Napoli è scomparve per sempre. Era la sera del 26 marzo 1938, un sabato. Da allora la storia di Ettore Majorana, il grande scienziato che lavorò con Enrico Fermi nella scuola di fisica di Via Panisperna a Roma, si dissolse in un mistero che il tempo ha reso ancora più impenetrabile. Persino Leonardo Sciascia indagò con il suo libro «La scomparsa di Majorana» nella strana vicenda di un uomo straordinario nella genialità quanto nella debolezza della sua natura. E ricostruendone i passi è attratto dall’ipotesi di un ritiro tra le mura di un convento. C’è, invece, chi ha immaginato una fuga in Argentina oppure un suicidio perfettamente studiato da non lasciare traccia. Questo è un mistero ben noto, scandagliato da libri e film. Ma che cosa ha scatenato in Majorana la decisione di eliminare la sua immagine dalla faccia della Terra? Ecco il mistero nel mistero nel quale si è immerso Joao Magueijo, un fisico portoghese che insegna teoria della relatività all’Imperial College di Londra e che, avendo frequentato per anni il «Centro Ettore Majorana» di Erice, in Sicilia, non ha potuto sottrarsi al fascino di una luce improvvisamente spenta. Esplorando tra documenti e persone ha infine scritto «La particella mancante» (Rizzoli) nelle cui pagine fa emergere soprattutto due eventi, uno umano e l’altro scientifico, forse all’origine della drammatica scelta. Il primo risale al 1924. Ettore ha 18 anni e lo zio Dante, al quale era molto legato, viene accusato di essere il mandante di un terribile omicidio: l’uccisione di un bimbo nella culla alla quale è dato fuoco. Il neonato è figlio dell’industriale Antonio Amato le cui due sorelle hanno sposato Dante e Giuseppe Majorana, illustri avvocati e zii di Ettore. La polizia raccoglie dalla sedicenne bambinaia Carmela, affetta da ritardo mentale, l’ammissione di essere stata lei a incendiare la culla. La vicenda però si complica come ogni storia siciliana che si rispetti. Le due sorelle di Amato erano appena state escluse da un’eredità di cui si appropria interamente Antonio. Dante e Giuseppe, avvocati, portano in tribunale la rivendicazione delle loro mogli e il giudice stabilisce un risarcimento da parte di Antonio. Qualcuno allora fa circolare l’ipotesi che le colpe ammesse dalla bambinaia non fossero credibili e che Dante e Giuseppe andassero indagati. Carmela ritratta la sua prima deposizione e accusa l’ex fidanzato, sua madre e il fratello di essere stati loro a indurla a compiere il folle gesto. E finiscono in carcere. Passano anni, il processo è riaperto e i colpevoli concordano una versione di difesa comune: loro avevano agito su mandato di Dante Majorana il quale viene subito imprigionato assieme alla consorte. Ettore scrive allo zio quasi ogni giorno e poi confida all’amico Gleb Wataghin: «Non mi fido degli avvocati, sono tutti degli idioti. Scriverò io stesso la difesa di mio zio: so che cosa è accaduto». Dopo otto anni la vicenda diventata sui giornali «Il delitto della culla» e il «Misterioso caso Majorana», si chiude con l’assoluzione favorita da una terza versione dei fatti della bambinaia e dalla prova dei testimoni minacciati dalla mafia. «Il caso del bambino bruciato produsse ferite permanenti in Ettore — sostiene Magueijo — la famiglia ristabilì l’onorabilità del proprio nome ma agli occhi di Ettore lo sporcò ancora di più. Ettore perse la fede nella razionalità. Nel 1933 precipitò nella follia, ed è innegabile che l’episodio del bambino arso vivo diede un contributo decisivo al suo crollo». Secondo evento. Nel 1932 Ettore Majorana pubblica una teoria sulla natura e il comportamento di alcune fondamentali particelle nucleari che si contrappone a quella già nota del fisico britannico Paul Dirac. «Rimarrà la sua sinfonia incompiuta», dice Magueijo. I rapporti con il gruppo di fisici di Via Panisperna non sono buoni. Ettore viene battezzato «il grande inquisitore». Nel gennaio 1933 parte per l’Istituto di fisica di Lipsia per lavorare con Wernher Heisenberg già famoso per il «Principio di indeterminazione». Appena arrivato la sua ritrosia e le difficoltà nei rapporti sembrano dissolversi. Manda alla famiglia lettere piene di insolito entusiasmo. Con lo scienziato tedesco, Ettore condivide ricerche importanti sull’interazione forte che tiene insieme i nuclei atomici, ma anche certe inclinazioni filosofiche che arricchiscono i loro incontri. In quei giorni il clima in Germania volge al peggio. Hitler ha appena conquistato il potere e nella notte del 27 febbraio il Reichstag è incendiato. Ettore si trasferisce momentaneamente a Copenaghen all’Istituto di Neils Bohr, uno dei creatori della meccanica quantistica, «il maggior ispiratore della fisica moderna — scriverà in una lettera — ora un po’ invecchiato e sensibilmente rimbambito». Dopo una breve vacanza pasquale romana, Ettore torna a Lipsia e precipita nella depressione. Non frequenta più nessuno, vede male persino Heisenberg. «Forse le radici di ciò che sarebbe successo nel marzo 1938 vanno cercate nel maggio 1933?» si chiede Magueijo. «Un evento si abbattè con forza su di lui. Era infatti a Lipsia quando cominciarono a giungere notizie che la sua critica alla teoria di Dirac, inclusa nel suo capolavoro del 1932, fosse sbagliata. Solo negli anni Sessanta il suo capolavoro sarà riscoperto e riconsiderato». In quei mesi aveva anche interrotto i rapporti con il gruppo di Via Panisperna e quando torna a Roma nell’agosto 1933 si isolerà per cinque anni dal mondo non uscendo quasi mai dalla sua camera senza nemmeno tagliarsi più i capelli. Solo Edoardo Amaldi manterrà un tenue filo di amicizia. Siamo nel 1938 e mentre Enrico Fermi inseguito dalle leggi razziali volava a Stoccolma per il premio Nobel e poi in America, Ettore architettava la scomparsa. «La maledizione del bimbo carbonizzato cambiò per sempre la sua visione del mondo — conclude Joao Magueijo —. E quando l’angoscia si attenuò nei mesi che precedettero la trasferta a Lipsia era probabilmente troppo tardi perché egli potesse trovare sollievo».
Corriere della Sera 19
La tratta dei piccoli schiavi italiani
Saltimbanchi, prostitute, manovali: una pagina nera che arriva al XX secolo
di Gian Antonio Stella
«È cosa da rabbrividire l’udire le sevizie, i maltrattamenti, ai quali il padrone sottopone quei fanciulli, ove ritornino la sera a casa senza portare il guadagno ch’esso sperava, o quella somma che aveva loro imposto il mattino; le percosse, la fame, i tormenti sono il frutto delle loro fatiche». Vincenzo Isacco e Carlo Salvarezza, scrivendo il loro «Commentario della legge di pubblica sicurezza del 20 marzo 1865» non trattenevano rabbia e compassione. Così come vibrava d’indignazione in Parlamento la voce di Teofilo Rossi parlando di quei bimbi «percossi a sangue, torturati con ferocia, di altri morti per mazzate, di altri svenuti per fatica e fatti rinvenire a staffilate per far loro riprendere il lavoro, di altri impazziti di dolore sotto i colpi della cinghia del negriero crudele, di altri morti di stenti e di fame e per calci nell’addome ricevuti dagli operai».
Fu quello il destino di tantissimi bambini italiani. A partire dalla metà dell’Ottocento fin dentro il XX secolo. È una storia terribile. In larga parte rimossa. Per pudore. Per vergogna. Per la scelta indecente di non fare i conti col nostro passato. Nonostante ci avesse già raccontato tutto, ad esempio, Edmondo De Amicis nel «Piccolo Patriotta padovano» di Cuore, scrivendo di un bimbo «di undici anni, mal vestito, solo, che se ne stava sempre in disparte, come un animale selvatico, guardando tutti con l’occhio torvo. E aveva ben ragione di guardare tutti con l’occhio torvo. Due anni prima, suo padre e sua madre, contadini nei dintorni di Padova, l’avevano venduto al capo d’una compagnia di saltimbanchi; il quale, dopo avergli insegnato a fare i giochi a furia di pugni, di calci e di digiuni, se l’era portato a traverso alla Francia e alla Spagna, picchiandolo sempre e non sfamandolo mai».
A quella dolorosa epopea la storica Maria Rosa Protasi ha dedicato un libro denso di numeri, storie, testimonianze. Si intitola I fanciulli nell’emigrazione italiana (Cosmo Iannone Editore, pagine 267, 14) e dovrebbe essere letto nelle scuole. Per capire quanto sia falsa la tesi che «noi eravamo diversi». E rendere giustizia almeno con la memoria a quei nostri bambini che vissero l’inferno.
Erano altri tempi? Vero. Nell’Europa di fine ’800 «l’età minima di ammissione al lavoro di fabbrica era: 10 anni in Spagna e Danimarca; 11 in Inghilterra; 12 in Russia, Austria, Olanda, Portogallo, Svezia, Belgio, Ungheria; 13 in Francia e Germania; 14 in Svizzera e Norvegia» e 9 da noi. La «tratta dei fanciulli», però, era soprattutto italiana. E in certe aree poverissime era una piaga. Come a Bagni di Lucca, «una delle località di reclutamento dei figurinai» dove soltanto fra il 1896 e il 1897 partirono «417 figurinisti, di cui 87 come padroni e 330 fra apprendisti». O a Mezzanego, Appennino ligure, dove secondo il procuratore del Re presso la Corte d’Appello di Genova «tre quarti delle famiglie affitta i propri ragazzi, come suonatori, espositori di bestie etc. Vi sono 17 incettatori di cotesti fanciulli ridotti a merce. Le notizie che di loro giungono al paese sono per lo più desolanti».
Venduti o affittati, i piccoli finivano sui mercati dell’agricoltura francese («A Barcellonette, in alta Provenza, il mercato dei bambini si teneva il 20 aprile e coinvolgeva annualmente dai 300 ai 400 minorenni»), nei cantieri edili svizzeri o tedeschi, nelle miniere, nelle vetrerie francesi... Quale fosse il loro destino ce lo spiega La Basilicata e il Nuovo mondo di Enzo Vinicio Allegro: «Per testimonianza di un medico napoletano, su 100 fanciulli dei due sessi che abbandonano i loro villaggi, 20 soltanto ritornano alle loro case, 30 circa si stabiliscono nelle diverse parti del mondo e 50 soccombono alle malattie, alle privazioni di ogni sorta ed ai cattivi trattamenti!».
Moltissimi, come denunciava il diplomatico Raniero Paulucci de Calboli («già fin dal 1873 il "New York Times", e più tardi, nel 1885, il "Philadelphia Times", calcolavano a 80.000 i fanciulli italiani d’ambo i sessi appartenenti a quella categoria di girovaghi da cui escono i delinquenti e le prostitute») finivano in America. «Nella folla molteplice che empie i transatlantici diretti a Boston c’è sempre una piccola porzione di giovinetti i quali pongono la Società in serio imbarazzo», spiegava nel 1906 un certo padre Roberto Biasotti descrivendo l’attività della società umanitaria San Raffaele. «Lo sfruttamento del minorenne esportato non è una privativa delle vetrerie francesi. Anche in America si pratica su larga scala e con mezzi tali che sfidano la legge perché coperti dal manto della legalità! La legge vieta lo sbarco ai giovani sotto i 17 anni compiti, se non siano accompagnati o diretti dai parenti. Ma qui i parenti si fabbricano con una velocità allarmante...». Era bestiale, il lavoro nelle vetrerie: «Questi ragazzi», spiegò in Parlamento il sottosegretario Scipione Ronchetti, «per nove decimi diventano tubercolotici e quelli che sopravvivono al guardarli fanno fremere d’orrore».
Per non dire delle «fanciulle e giovani donne italiane coinvolte nei circuiti illegali dell’emigrazione a scopo sessuale». Quelle del Nord finivano soprattutto nei bordelli europei, quelle del Sud venivano avviate sui mercati dell’Africa mediterranea: «Le province napoletane, specie quella di Benevento, rifornivano ad esempio l’Egitto, mentre quelle siciliane avevano rapporti privilegiati con la Tunisia». Il deputato toscano Ettore Socci era allarmatissimo: «Il maltrattato fanciullo d’oggi sarà il delinquente o l’anarchico di domani. Se il ragazzo cresciuto nel rigagnolo della strada esposto a tutte le intemperie del cielo e a tutta la brutalità degli uomini; se il piccino che non ha da dormire né da mangiare e in pieno inverno vede passare nella carrozza di una gran signora, un canino ravvolto nelle pellicce ed egli ha freddo, e trema e soffre, concepisce l’odio più feroce verso la società e viene il giorno in cui scaglia una bomba, parliamoci chiaro, siamo noi che gliela abbiamo fatta lanciare».
Il delitto del neonato bruciato che tormentava Majorana
La nuova teoria sul fisico scomparso: folle per un caso in famiglia
di Giovanni Caprara
Da pagina 1 Aveva 31 anni, i capelli corvini, gli occhi vivacissimi e tristi. Si imbarcò su una nave a Palermo per raggiungere Napoli è scomparve per sempre. Era la sera del 26 marzo 1938, un sabato. Da allora la storia di Ettore Majorana, il grande scienziato che lavorò con Enrico Fermi nella scuola di fisica di Via Panisperna a Roma, si dissolse in un mistero che il tempo ha reso ancora più impenetrabile. Persino Leonardo Sciascia indagò con il suo libro «La scomparsa di Majorana» nella strana vicenda di un uomo straordinario nella genialità quanto nella debolezza della sua natura. E ricostruendone i passi è attratto dall’ipotesi di un ritiro tra le mura di un convento. C’è, invece, chi ha immaginato una fuga in Argentina oppure un suicidio perfettamente studiato da non lasciare traccia. Questo è un mistero ben noto, scandagliato da libri e film. Ma che cosa ha scatenato in Majorana la decisione di eliminare la sua immagine dalla faccia della Terra? Ecco il mistero nel mistero nel quale si è immerso Joao Magueijo, un fisico portoghese che insegna teoria della relatività all’Imperial College di Londra e che, avendo frequentato per anni il «Centro Ettore Majorana» di Erice, in Sicilia, non ha potuto sottrarsi al fascino di una luce improvvisamente spenta. Esplorando tra documenti e persone ha infine scritto «La particella mancante» (Rizzoli) nelle cui pagine fa emergere soprattutto due eventi, uno umano e l’altro scientifico, forse all’origine della drammatica scelta. Il primo risale al 1924. Ettore ha 18 anni e lo zio Dante, al quale era molto legato, viene accusato di essere il mandante di un terribile omicidio: l’uccisione di un bimbo nella culla alla quale è dato fuoco. Il neonato è figlio dell’industriale Antonio Amato le cui due sorelle hanno sposato Dante e Giuseppe Majorana, illustri avvocati e zii di Ettore. La polizia raccoglie dalla sedicenne bambinaia Carmela, affetta da ritardo mentale, l’ammissione di essere stata lei a incendiare la culla. La vicenda però si complica come ogni storia siciliana che si rispetti. Le due sorelle di Amato erano appena state escluse da un’eredità di cui si appropria interamente Antonio. Dante e Giuseppe, avvocati, portano in tribunale la rivendicazione delle loro mogli e il giudice stabilisce un risarcimento da parte di Antonio. Qualcuno allora fa circolare l’ipotesi che le colpe ammesse dalla bambinaia non fossero credibili e che Dante e Giuseppe andassero indagati. Carmela ritratta la sua prima deposizione e accusa l’ex fidanzato, sua madre e il fratello di essere stati loro a indurla a compiere il folle gesto. E finiscono in carcere. Passano anni, il processo è riaperto e i colpevoli concordano una versione di difesa comune: loro avevano agito su mandato di Dante Majorana il quale viene subito imprigionato assieme alla consorte. Ettore scrive allo zio quasi ogni giorno e poi confida all’amico Gleb Wataghin: «Non mi fido degli avvocati, sono tutti degli idioti. Scriverò io stesso la difesa di mio zio: so che cosa è accaduto». Dopo otto anni la vicenda diventata sui giornali «Il delitto della culla» e il «Misterioso caso Majorana», si chiude con l’assoluzione favorita da una terza versione dei fatti della bambinaia e dalla prova dei testimoni minacciati dalla mafia. «Il caso del bambino bruciato produsse ferite permanenti in Ettore — sostiene Magueijo — la famiglia ristabilì l’onorabilità del proprio nome ma agli occhi di Ettore lo sporcò ancora di più. Ettore perse la fede nella razionalità. Nel 1933 precipitò nella follia, ed è innegabile che l’episodio del bambino arso vivo diede un contributo decisivo al suo crollo». Secondo evento. Nel 1932 Ettore Majorana pubblica una teoria sulla natura e il comportamento di alcune fondamentali particelle nucleari che si contrappone a quella già nota del fisico britannico Paul Dirac. «Rimarrà la sua sinfonia incompiuta», dice Magueijo. I rapporti con il gruppo di fisici di Via Panisperna non sono buoni. Ettore viene battezzato «il grande inquisitore». Nel gennaio 1933 parte per l’Istituto di fisica di Lipsia per lavorare con Wernher Heisenberg già famoso per il «Principio di indeterminazione». Appena arrivato la sua ritrosia e le difficoltà nei rapporti sembrano dissolversi. Manda alla famiglia lettere piene di insolito entusiasmo. Con lo scienziato tedesco, Ettore condivide ricerche importanti sull’interazione forte che tiene insieme i nuclei atomici, ma anche certe inclinazioni filosofiche che arricchiscono i loro incontri. In quei giorni il clima in Germania volge al peggio. Hitler ha appena conquistato il potere e nella notte del 27 febbraio il Reichstag è incendiato. Ettore si trasferisce momentaneamente a Copenaghen all’Istituto di Neils Bohr, uno dei creatori della meccanica quantistica, «il maggior ispiratore della fisica moderna — scriverà in una lettera — ora un po’ invecchiato e sensibilmente rimbambito». Dopo una breve vacanza pasquale romana, Ettore torna a Lipsia e precipita nella depressione. Non frequenta più nessuno, vede male persino Heisenberg. «Forse le radici di ciò che sarebbe successo nel marzo 1938 vanno cercate nel maggio 1933?» si chiede Magueijo. «Un evento si abbattè con forza su di lui. Era infatti a Lipsia quando cominciarono a giungere notizie che la sua critica alla teoria di Dirac, inclusa nel suo capolavoro del 1932, fosse sbagliata. Solo negli anni Sessanta il suo capolavoro sarà riscoperto e riconsiderato». In quei mesi aveva anche interrotto i rapporti con il gruppo di Via Panisperna e quando torna a Roma nell’agosto 1933 si isolerà per cinque anni dal mondo non uscendo quasi mai dalla sua camera senza nemmeno tagliarsi più i capelli. Solo Edoardo Amaldi manterrà un tenue filo di amicizia. Siamo nel 1938 e mentre Enrico Fermi inseguito dalle leggi razziali volava a Stoccolma per il premio Nobel e poi in America, Ettore architettava la scomparsa. «La maledizione del bimbo carbonizzato cambiò per sempre la sua visione del mondo — conclude Joao Magueijo —. E quando l’angoscia si attenuò nei mesi che precedettero la trasferta a Lipsia era probabilmente troppo tardi perché egli potesse trovare sollievo».
Corriere della Sera 19
La tratta dei piccoli schiavi italiani
Saltimbanchi, prostitute, manovali: una pagina nera che arriva al XX secolo
di Gian Antonio Stella
«È cosa da rabbrividire l’udire le sevizie, i maltrattamenti, ai quali il padrone sottopone quei fanciulli, ove ritornino la sera a casa senza portare il guadagno ch’esso sperava, o quella somma che aveva loro imposto il mattino; le percosse, la fame, i tormenti sono il frutto delle loro fatiche». Vincenzo Isacco e Carlo Salvarezza, scrivendo il loro «Commentario della legge di pubblica sicurezza del 20 marzo 1865» non trattenevano rabbia e compassione. Così come vibrava d’indignazione in Parlamento la voce di Teofilo Rossi parlando di quei bimbi «percossi a sangue, torturati con ferocia, di altri morti per mazzate, di altri svenuti per fatica e fatti rinvenire a staffilate per far loro riprendere il lavoro, di altri impazziti di dolore sotto i colpi della cinghia del negriero crudele, di altri morti di stenti e di fame e per calci nell’addome ricevuti dagli operai».
Fu quello il destino di tantissimi bambini italiani. A partire dalla metà dell’Ottocento fin dentro il XX secolo. È una storia terribile. In larga parte rimossa. Per pudore. Per vergogna. Per la scelta indecente di non fare i conti col nostro passato. Nonostante ci avesse già raccontato tutto, ad esempio, Edmondo De Amicis nel «Piccolo Patriotta padovano» di Cuore, scrivendo di un bimbo «di undici anni, mal vestito, solo, che se ne stava sempre in disparte, come un animale selvatico, guardando tutti con l’occhio torvo. E aveva ben ragione di guardare tutti con l’occhio torvo. Due anni prima, suo padre e sua madre, contadini nei dintorni di Padova, l’avevano venduto al capo d’una compagnia di saltimbanchi; il quale, dopo avergli insegnato a fare i giochi a furia di pugni, di calci e di digiuni, se l’era portato a traverso alla Francia e alla Spagna, picchiandolo sempre e non sfamandolo mai».
A quella dolorosa epopea la storica Maria Rosa Protasi ha dedicato un libro denso di numeri, storie, testimonianze. Si intitola I fanciulli nell’emigrazione italiana (Cosmo Iannone Editore, pagine 267, 14) e dovrebbe essere letto nelle scuole. Per capire quanto sia falsa la tesi che «noi eravamo diversi». E rendere giustizia almeno con la memoria a quei nostri bambini che vissero l’inferno.
Erano altri tempi? Vero. Nell’Europa di fine ’800 «l’età minima di ammissione al lavoro di fabbrica era: 10 anni in Spagna e Danimarca; 11 in Inghilterra; 12 in Russia, Austria, Olanda, Portogallo, Svezia, Belgio, Ungheria; 13 in Francia e Germania; 14 in Svizzera e Norvegia» e 9 da noi. La «tratta dei fanciulli», però, era soprattutto italiana. E in certe aree poverissime era una piaga. Come a Bagni di Lucca, «una delle località di reclutamento dei figurinai» dove soltanto fra il 1896 e il 1897 partirono «417 figurinisti, di cui 87 come padroni e 330 fra apprendisti». O a Mezzanego, Appennino ligure, dove secondo il procuratore del Re presso la Corte d’Appello di Genova «tre quarti delle famiglie affitta i propri ragazzi, come suonatori, espositori di bestie etc. Vi sono 17 incettatori di cotesti fanciulli ridotti a merce. Le notizie che di loro giungono al paese sono per lo più desolanti».
Venduti o affittati, i piccoli finivano sui mercati dell’agricoltura francese («A Barcellonette, in alta Provenza, il mercato dei bambini si teneva il 20 aprile e coinvolgeva annualmente dai 300 ai 400 minorenni»), nei cantieri edili svizzeri o tedeschi, nelle miniere, nelle vetrerie francesi... Quale fosse il loro destino ce lo spiega La Basilicata e il Nuovo mondo di Enzo Vinicio Allegro: «Per testimonianza di un medico napoletano, su 100 fanciulli dei due sessi che abbandonano i loro villaggi, 20 soltanto ritornano alle loro case, 30 circa si stabiliscono nelle diverse parti del mondo e 50 soccombono alle malattie, alle privazioni di ogni sorta ed ai cattivi trattamenti!».
Moltissimi, come denunciava il diplomatico Raniero Paulucci de Calboli («già fin dal 1873 il "New York Times", e più tardi, nel 1885, il "Philadelphia Times", calcolavano a 80.000 i fanciulli italiani d’ambo i sessi appartenenti a quella categoria di girovaghi da cui escono i delinquenti e le prostitute») finivano in America. «Nella folla molteplice che empie i transatlantici diretti a Boston c’è sempre una piccola porzione di giovinetti i quali pongono la Società in serio imbarazzo», spiegava nel 1906 un certo padre Roberto Biasotti descrivendo l’attività della società umanitaria San Raffaele. «Lo sfruttamento del minorenne esportato non è una privativa delle vetrerie francesi. Anche in America si pratica su larga scala e con mezzi tali che sfidano la legge perché coperti dal manto della legalità! La legge vieta lo sbarco ai giovani sotto i 17 anni compiti, se non siano accompagnati o diretti dai parenti. Ma qui i parenti si fabbricano con una velocità allarmante...». Era bestiale, il lavoro nelle vetrerie: «Questi ragazzi», spiegò in Parlamento il sottosegretario Scipione Ronchetti, «per nove decimi diventano tubercolotici e quelli che sopravvivono al guardarli fanno fremere d’orrore».
Per non dire delle «fanciulle e giovani donne italiane coinvolte nei circuiti illegali dell’emigrazione a scopo sessuale». Quelle del Nord finivano soprattutto nei bordelli europei, quelle del Sud venivano avviate sui mercati dell’Africa mediterranea: «Le province napoletane, specie quella di Benevento, rifornivano ad esempio l’Egitto, mentre quelle siciliane avevano rapporti privilegiati con la Tunisia». Il deputato toscano Ettore Socci era allarmatissimo: «Il maltrattato fanciullo d’oggi sarà il delinquente o l’anarchico di domani. Se il ragazzo cresciuto nel rigagnolo della strada esposto a tutte le intemperie del cielo e a tutta la brutalità degli uomini; se il piccino che non ha da dormire né da mangiare e in pieno inverno vede passare nella carrozza di una gran signora, un canino ravvolto nelle pellicce ed egli ha freddo, e trema e soffre, concepisce l’odio più feroce verso la società e viene il giorno in cui scaglia una bomba, parliamoci chiaro, siamo noi che gliela abbiamo fatta lanciare».
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