lunedì 23 agosto 2010
Repubblica 23.8.10
Con quale Dio parla Obama
di Vittorio Zucconi
La Repubblica fu fondata da un gruppo di fieri e convinti massoni
Insieme alla moglie e alle figlie il primo cittadino evita le funzioni domenicali
Su consiglio di Rove, Bush jr. cercava il voto dei cristiani fondamentalisti
La religiosità di Barack Obama è stata finora usata contro di lui: troppo tiepida, dicono i repubblicani. E il 19 per cento degli americani sospetta che sia musulmano. Così adesso il suo staff corre ai ripari, cercando di presentare l´immagine di un uomo più devoto
WASHINGTON. La voce professionale della centralinista della Casa Bianca scosse il reverendo Joel Hunter dalle devote meditazioni nella sua chiesa in Florida con la richiesta imperiosa di restare in linea e l´annuncio raggelante che il presidente degli Stati Uniti lo stava cercando dall´alto dei cieli, dai 15 mila metri di quota dove incrocia l´Air Force One, ben al di sopra del traffico commerciale.
Barack Hussein Obama aveva urgente bisogno di parlare con un pastore d´anime, con un uomo di Dio. «Hi, salve, Joel – risuonò la voce baritonale e pastosamente inconfondibile del capo della nazione – oggi è il giorno del mio compleanno, il 4 agosto, e sono qui da solo come un cane, un po´ depresso senza la moglie che è in vacanza e le figlie al campeggio estivo. Avrei voglia di pregare sull´anno passato, sui miei errori, su quello che ci attende in autunno, le dispiace?».
Al reverendo Hunter, suo vecchio amico, cappellano di fatto del Partito democratico i cui congressi ha benedetto, non poteva dispiacere. Con automatica premura, si lanciò immediatamente nel Padre nostro.
La voce professionale della centralinista della Casa Bianca scosse il reverendo Joel Hunter dalle devote meditazioni nella sua chiesa in Florida con la richiesta imperiosa di restare in linea e l´annuncio raggelante che il presidente degli Stati Uniti lo stava cercando dall´alto dei cieli, dai 15 mila metri di quota dove incrocia l´Air Force One, ben al di sopra del traffico commerciale.
Barack Hussein Obama aveva urgente bisogno di parlare con un pastore d´anime, con un uomo di Dio. «Hi, salve, Joel - risuonò la voce baritonale e pastosamente inconfondibile del capo della nazione - oggi è il giorno del mio compleanno, il 4 agosto, e sono qui da solo come un cane, un po´ depresso senza la moglie che è in vacanza e le figlie al campeggio estivo. Avrei voglia di pregare sull´anno passato, sui miei errori, su quello che ci attende in autunno, le dispiace?».
Al reverendo Hunter, suo vecchio amico, cappellano di fatto del Partito democratico i cui congressi ha benedetto, non poteva dispiacere. Con automatica premura, si lanciò immediatamente nel Padre nostro. Di questo piccolo episodio probabilmente autentico, almeno come autentici sono gli episodi che dagli uffici stampa dei governi sgocciolano sui giornali, non avremmo mai saputo niente se questa estate di tormenti politici, lapidazioni economiche e spinosi sondaggi che vedono crescere il numero di americani fuori di testa che sospettano Barack Hussein di essere musulmano (19 per cento, un po´ più di quelli persuasi che Elvis sia ancora vivo) non avesse prodotto quel miracolo che la politica americana sforna a intervalli regolari, e sempre quando le vele dei suoi leader si sgonfiano o sbattono contro tempeste brutali: il ritorno di Dio alla Casa Bianca.
La telefonata-confessione di Obama dalla solitudine del mastodonte alato al pastore protestante preferito (e poi anche ad altri due, tanto per stare nel sicuro) non ha raggiunto la deliziosa ipocrisia dei pastori protestanti, sacerdoti cattolici, rabbini, imam, spiritualisti New Age convocati a plotoni dal contrito, perché scoperto, Bill Clinton sul luogo dei suoi peccati carnali per penitenza dopo il piacere nello Studio ovale. Ma la riscoperta di Dio compiuta da Obama è un indice di difficoltà politiche più eloquente e sicuro di cento editoriali e di ogni listino di Borsa.
Il Dio della Casa Bianca è ormai da quasi due secoli e mezzo un ospite insieme permanente e precario, è un fantasma nel guardaroba che gli inqulini evocano o rinchiudono secondo convizioni personali che tendono a coincidere con le loro fortune politiche o ad alimentarle. Dalla fondazione della Repubblica, affidata a un gruppo di fieri e convinti massoni che alludevano a divinità ben lontane dalle visioni dei papi di Roma, degli arcivescovi di Canterbury o dei riformati luterani, Dio, per ora soltanto nell´edizione rigorosamente dopo Cristo, non è mai del tutto mancato nei governi di una nazione che si proclama la più cristiana del mondo (Stato del Vaticano escluso per dimensioni). Ma se per un Lincoln, che impose la scritta «In God we trust», in Dio confidiamo, sulle monetine da un centesimo, per un Kennedy che da bravo cattolico credeva profondamente nei preti preferibilmente porporati, per un Bush (quello giovane) ribattezzato e rinato nell´acqua del Giordano dopo troppe immersioni nel Bourbon, per un Carter insegnante di dottrina, il dono della fede sembrava sincero, la conversione di Barack Obama lascia qualche retrogusto di scetticismo.
Non si tratta naturalmente di dare credenza alla false biografie popolarissime nelle discariche indifferenziate di Internet, dove il suo essere un musulmano nero, soprattutto nero, è un dogma per i fanatici. Falsa e definitivamente screditata è anche la sua frequentazione di madrasse gestite dai fanatici islamisti wahabiti a Giakarta, dove visse bambino con la madre risposata con un indonesiano, una panzana ripetuta come prova della sua infamia, nonostante le incavolatissime smentite del preside della sua scuola elementare pubblica ripetute a chiunque lo abbia intervistato, per dire che nel suo istituto si fa storia di tutte le religioni, Islam incluso, ma nessun indottrinamento. E persino il padre, che lo scaricò infante a due anni per tornarsene in Kenya, risulta essere stato un musulmano per nascita, come indica quel nome di mezzo Hussein, ma morto ateo, come la mamma, che detestava tutte le religioni organizzate e, scrisse Obama stesso, «i panni e gli orpelli dietro i quali i preti nascondono il proprio potere e la propria ipocrisia».
La confessione protestante alla quale Obama, divenuto adulto, aderì è la Chiesa Unitaria di Cristo, la United Church of Christ, conosciuta per la moderazione e la ecumenicità del proprio milione di fedeli americani, più attenta all´apostolato sociale che al misticismo. Il suo avvicinamento ai ben più focosi templi battisti, divenuto inevitabile quando cominciò a fare servizio sociale nella Chicago nera, fu dettato dalla semplice realtà delle chiese come centro di aggregazione e di influenza nella comunità di colore. Un avvicinamento che gli procurò soltanto guai, con la amicizia per un revedendo afroamericano, Jeremiah Wright, esagitato predicatore e militante della "negritudine" rancorosa. Ma quando vinse e stravinse le elezioni del 2008, traslocando nella Casa del potere bianco, gli Obama, padre, madre e figlie, scelsero di evitare le funzioni domenicali, con la scusa di non voler stravolgere le vita dei fedeli con l´invadenza dell´apparato di sicurezza. Le ragazzine, Sasha e Malia, sono state iscritte in un liceo nominalmente quacchero, ma più noto per l´eccellenza accademica e per la forte rappresentativa femminile di soccer, di calcio, e di lacrosse che per l´apostolato.
Nonostante le proclamazioni di «grande nazione cristiana», ripetute con enfasi angosciata e un po´ truculenta soprattutto dopo il trauma del 9/11, questo garbato distacco fra il capo dello Stato e la religione organizzata è sempre stato più la norma che l´eccezione. Senza arrivare all´estremo di Theodore Roosevelt, che avrebbe voluto togliere dalle monete anche quel riferimento a Dio che considerava un doppo sacrilegio, per Dio associato ai quattrini e per la zecca associata a Dio, la fede cristiana dei presidenti nel XX secolo è sempre apparsa più un tributo al perbenismo da vestitino della domenica e alla generica moralità mosaica che un afflato irresistibile dell´anima.
Roosevelt, il cugino di Ted, aveva troppi problemi di mobilità da paralisi infantile, polio, alle gambe, per amare inginocchiatoi e riti. Eisenhower, cresciuto come testimone di Geova dalla madre, si rifugiò maturando nel piu mite ed elitario grembo dei presbiteriani. Per quasi due decenni, dal 1960 al 1976, il rapporto fra un presidente e Dio fu definito dal grande discorso di John Kennedy all´Università Rice di Houston, quando mise fine ai sospetti che lui, cattolico, avrebbe obbedito più alla curia romana che alla Costituzione, ricordando che la religione va «chiusa tra parentesi quadre» ed esclusa nel giudicare un candidato. Dovette irrompere Nixon, quacchero di formazione ma grandissimo devoto del potere e della politica, per riportare il penitenziere nazionale bigotto, Jimmy Carter, a ostentare la propria vocazione come riscatto nazionale dopo il torvo e scandaloso Dick. Carter, catechista di bambini nella natia Georgia, diacono e sacrestano, pagò questo accanito misticismo quando ammise non soltanto di avere libidinosamente sfogliato Playboy, ma di avere avuto un pericoloso incontro con un coniglio mannaro gigantesco negli acquitrini della Georgia. Un´apparizione che rischiò di screditare secoli di mistiche visioni e di messaggeri celesti, mai fino ad allora incarnati in roditori ciclopici.
Il furbissimo Reagan, che nella poco virtuosa Hollywood aveva appreso l´arte di recitare, faceva grande e retorico uso di citazioni bibliche - come l´America «luminosa città sulla collina» pescata direttamente dal discorso di Gesù sul «sale e la luce» nel Vangelo secondo Matteo - e arruolava volentieri Dio nelle orazioni funebri: «Gli astronauti del Challenger hanno oggi toccato il volto di Dio», morendo inceneriti. Ma soltanto nell´estrema vecchiezza annebbiata dall´Alzheimer lo si vide al braccio della fedele Nancy nelle chiese di Bel Air, sopra Hollywood.
Si dovette arrivare a Bush il Giovane per ascoltare un presidente dire, nel discorso più alto dell´anno, quello sullo stato dell´Unione, che lui seguiva le disposizioni di Dio andando a bombardare l´Iraq e che Gesù era il «mio filosofo preferito», un´investitura culturale importante, ma probabilmente un po´ riduttiva per il Creatore del cielo e della Terra. Ma Bush doveva radunare attorno a sé le armate angeliche dell´elettorato cristiano fondamentalista, come gli aveva consigliato il cinico e scarsamente pio Karl Rove, un elettorato che esige quel tributo ai valori conclamati e alla giaculatorie rassicuranti che Obama, neppure telefonando a migliaia di predicatori e uomini di Chiesa, potrà mai garantire. Dice, e fa dire, le orazioni della sera alle figlie. Ci fa sapere che prega sovente, nei momenti privatissimi, magari accendendosi una di quelle sigarette dalle quali non riesce del tutto a svezzarsi. E quando la dispensa del favore pubblico si svuota scatta, come nelle nostre nonne che cinicamente ricordavano di «pregare Gesù quando non ce n´è più», il bisogno di aprire il guardaroba. E invitare ad uscirne quel Dio paziente che aspetta la chiamata dei superbi che credevano di poter fare a meno del Suo aiutino.
Repubblica 23.8.10
Il verbo dell’autocrate
di Adriano Prosperi
«No a formalismi costituzionali, decide il popolo». Questo il verbo dell´autocrate populista, sordo a ogni richiamo alla correttezza delle forme. Nella cronaca avvelenata di questo agosto, sullo sfondo dello sfaldamento del conglomerato del "popolo della libertà", si punta a un regolamento di conti elettorale in barba alle emergenze economiche e sociali che il prossimo autunno fa ragionevolmente temere.
Su questa strada si presenta l´ostacolo costituito dal necessario passaggio formale della verifica che il presidente della Repubblica è tenuto a fare sull´esistenza o meno di una maggioranza politica in questo Parlamento. Dunque la frase di Berlusconi è in primo luogo una risposta ai richiami giunti in questi giorni proprio dal presidente della Repubblica: richiami fermi e quanto mai opportuni, se si pensa che perfino il ministro guardasigilli si è permesso di ritagliare a suo comodo il dettato dell´articolo primo della Costituzione là dove si fissa con esattezza il punto di contatto e di concordia tra forma e sostanza: «L´Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Sostanza è la sovranità del popolo: forme sono quelle previste dalla Costituzione per guidare entro limiti determinati il percorso attraverso il quale la sostanza della sovranità deve diventare il volto istituzionale e politico del Paese.
Tutt´e due, sostanza e forma, sono necessarie. Senza la sostanza del popolo sovrano la forma politica di un paese diventa una vuota maschera; senza il rispetto di adeguate forme costituzionali quella sovranità è una forza incontrollata e distruttiva, aperta agli esiti più disastrosi. Basta risalire alla storia della nascita delle moderne democrazie per scoprire che l´accordo preliminare sulle forme costituzionali è stato il passaggio necessario per dare vita alla sostanza della volontà popolare. Quelle regole, una volta fissate, devono essere sacre per tutti, in modo speciale per chi assume un potere di governo che gli viene delegato dal popolo attraverso il passaggio formale del giuramento di osservare la Costituzione. Giuramento che tutti i membri del governo attuale hanno fatto. Che poi abbiano finto di dimenticarlo quel giuramento e non perdano occasione per gareggiare nel dileggiare la Carta costituzionale è una delle cose che fa tristezza e vergogna a chi guarda a questo spettacolo indecente.
Ci chiediamo quanto dovremo aspettare per avere un governo fatto di persone capaci di sentirsi legati a qualcosa di superiore rispetto alla impellente necessità di togliere il premier dai suoi guai giudiziari. Perché questo avvenga proprio in Italia e per opera di un governo che ha promesso di "fare" e poi ha disfatto, e per la guida di un imprenditore che si dichiara estraneo alla politica, è un problema che richiederebbe attenzione. È un fatto che l´Italia ha da questo punto di vista una cattiva fama che dura da tempo. Il celebre storico e politico francese François Guizot scriveva nell´800 che in Italia, «gli uomini d´affari, i padroni della società non hanno mai tenuto quasi nessun conto delle idee generali; non hanno quasi mai provato desiderio di regolare, secondo certi principi, i fatti posti sotto la loro giurisdizione».
È una regola confermata dall´attuale governo, sempre più un governo degli affari privati di Berlusconi. E in fondo il disordine nato nella compagine governativa non è che la riprova che lo sprezzo delle forme produce il disordine avvilente di quella Prova d´orchestra di Federico Fellini: un´orchestra governativa che oggi produce solo rumore.
Repubblica 23.8.10
Alleanza Costituzionale, la sinistra frena il Pd
Giordano a Franceschini: non si sfugge alle primarie. Cacciari: un´ammucchiata
di Annalisa Cuzzocrea
L´Udc: dibattito prematuro. Il veltroniano Verini: sì al patto ma solo nell´emergenza
I vendoliani: organizziamo subito le consultazioni sul candidato premier
ROMA - L´Alleanza Costituzionale lanciata da Dario Franceschini non convince tutti coloro che dovrebbero farne parte. Non convince l´Udc, che parla di proposta prematura. Non convince Massimo Cacciari: secondo l´ex sindaco Pd di Venezia si tratterebbe di un´«ammucchiata improbabile». E non convince soprattutto i vendoliani di Sinistra Ecologia e Libertà, che più che soffermarsi sulla proposta di Franceschini - un´alleanza in difesa della Costituzione da contrapporre al centrodestra in caso di elezioni anticipate - si soffermano su un altro passaggio dell´intervista. Il capogruppo Pd alla Camera aveva parlato della necessità di scegliere subito un candidato premier, senza passare per le primarie, nel caso la crisi si avvitasse e portasse a rapide elezioni. «Dalle primarie non si sfugge - gli risponde Franco Giordano, certo pensando alla candidatura del leader di Sel Nichi Vendola - senza un coinvolgimento democratico del popolo si rischiano nuove delusioni e nuove fratture». «Piuttosto - rilancia Giordano - parliamo di come organizzarle subito, le primarie, nel caso si andasse a un voto anticipato». Più aperta - forse perché non in corsa per la poltrona di candidato premier - l´altra parte di quella sinistra «fuori dal Parlamento» evocata da Franceschini. Cesare Salvi dice: «Finalmente la piattaforma giusta: la costruzione di un´Alleanza Costituzionale che unisca tutte le forze di opposizione, dentro e fuori il Parlamento». «Queste forze - secondo il portavoce della Federazione della Sinistra - rappresentano la maggioranza degli italiani e, se unite, possono vincere le elezioni». Poi Salvi si offre di partecipare alla campagna d´autunno del Pd: «A quella mobilitazione - dice - dovrebbero partecipare tutte le forze chiamate a far parte dell´alleanza. La Federazione della Sinistra è pronta a fare la sua parte perché il Paese abbia di fronte un´alternativa seria e credibile all´asse Berlusconi-Bossi». Non fa mancare il suo appoggio alla proposta di Franceschini il capo della segreteria del Pd Filippo Penati: «Bisogna tenere insieme i problemi della crisi economica e sociale del Paese con quelli di un presidio per una migliore democrazia», dice. Poi - riecheggiando le parole di Pierluigi Bersani - spiega: «Il nostro impegno è di accorciare le distanze tra tutte le forze che si oppongono a questo stato di cose. In questo modo speriamo si riesca a costruire un progetto che trovi il più largo consenso tra le forze politiche di opposizione, e soprattutto nel Paese». Sembra l´abbandono della vocazione maggioritaria del Pd così come l´aveva pensata Walter Veltroni, questa necessità di allearsi «con chi ci sta» per costruire un´alternativa. Ma il deputato veltroniano Walter Verini non la pensa così: «Mi pare che Franceschini dica una cosa sensata - spiega - nel malaugurato caso in cui la situazione precipitasse, e non si potesse fare un governo di transizione che cambi la legge elettorale, è naturale che dovremmo chiamare a difendere la Costituzione tutti quelli che ci stanno». «Ma - avverte Verini - si tratterebbe di una misura d´emergenza, poi bisognerebbe riscrivere le regole e pensare a innovare. Il Pd non è nato per andare al governo, il Pd è nato per cambiare l´Italia». In tutto questo l´Udc invita alla calma, a non affrettare i passi: «Siamo ancora nella fase del dibattito parlamentare sui cinque punti del programma - dice il presidente dei senatori centristi Giampiero D´Alia - quando ci sarà la prova di fiducia si verificherà se c´è ancora una maggioranza in Parlamento».
l’Unità 23.8.10
5 risposte da Fausto Bertinotti
Lo Statuto ha 40 anni ma si è rovesciata l‘ispirazione della sua logica. E’ il figlio di una stagione di lotta che dalla fine degli anni ’60 voleva prendere il testimone della Costituzione Repubblicana per portarlo avanti e trasformare l’Italia in un Paese che avesse come centro motore i diritti.
2. Stagione infranta
Quella era la stagione della riforma, quella di oggi è la stagione della controriforma: ha vinto il logoramento della democrazia.
3. Terrorismo
Il movimento operaio è stato protagonista della lotta contro queste forme di violenza. Oggi mi pare si tenti di prosciugarne la forza. È scomparsa anche la stagione della lotta per i diritti e per l’eguaglianza sociale.
4 . Federalismo
Qualunque ipotesi di riforma istituzionale, sia la federalista sia delle forme di governo, risulta condizionata negativamente da una democrazia oligarchica che ha rovesciato e preso il posto di quella democrazia fatta dalla società civile, dai movimenti.
5. Nostalgie
Non ho alcuna nostalgia del lavoro parlamentare che ho svolto alla Camera dei Deputati nel precedente Governo, l’unico rammarico è che i lavoratori, sempre di più, stanno perdendo il potere, il potere delle loro faticose conquiste.
l’Unità 23.8.10
In Italia almeno mille minori vittime di tratta o sfruttati
di Felice Diotallevi
Save The Children L’allarme della Onlus nel rapporto annuale sulle nuove forme di schiavitù
Fenomeno allarmante che in Italia fra il 2001 e il 2008 ha riguardato più di 50mila persone
Presentato il rapporto annuale “Nuove schiavitù” a cura della Onlus Save The Children. La tratta e lo sfruttamento fanno nel mondo 2,7 milioni di vittime e generano un volume d’affari di oltre 32 miliardi di euro.
Cinquantamila almeno. È una cifra impressionante quella fornita dal ministero delle Pari Opportunità e citata nell’annuale rapporto di “Save The Children” sui numeri della tratta e dello sfruttamento in Italia. Secondo i dati del documento “Nuove schiavitù”, infatti, sarebbero almeno 50mila le vittime che in Italia hanno ricevuto protezione, assistenza ed almeno un primo aiuto fra il 2000 e il 2008. Di queste un migliaio almeno erano minori, a testimonianza del fatto che anche l’Italia è interessata da un problema che nel mondo riguarda 2,7 milioni di persone (l’80 sono donne e bambine) e che con i suoi 32 miliardi di euro di indotto genera un volume d’affari ricchissimo per le organizzazioni criminali.
Nel nostro paese le vittime di tratta e sfruttamento provengono per lo più da Nigeria, Romania, Moldavia, Albania, Ucraina e il fenomeno di contrasto delle forze dell’ordine ha portato alla denuncia di più di 5 mila persone, nei confronti delle quali sono scattate le accusa di riduzione o mantenimento in schiavitù e tratta di persone. Secondo il rapporto della Onlus, al momento, sono 4.466 i minori stranieri non accompagnati presenti in Italia, di questi 2.500 sono quelli seguiti dalla stessa “Save the children” tra il 2009 e il 2010. Afgani, egiziani bengalesi e romeni le nazionalità più rilevanti. Gli arrivi dall’estero delle vittime avvengono con l’aereo, il che comporta un debito più elevato da ripagare agli aguzzini, mentre su strada si continuano a intercettare le ragazze giunte in Italia via mare, per lo più in Sicilia, e poi spostatesi sull’intero territorio nazionale, ad esempio a Torino, Milano, Napoli o sulla costa adriatica. Un gran numero di queste è rappresentato dalle giovani romene, o comunque provenienti dell'Est Europa. E romeni sono anche buona parte dei minori coinvolti in attività illegali, ma tanti sono anche i bambini o adolescenti di origine nord-africana, alcuni con non più di 14 anni. Reclutati nei paesi di origine o in Italia, vengono costretti a compiere furti e scippi. Nel nord Italia, ad esempio, si sta radicando il fenomeno dello sfruttamento di minori senegalesi nello spaccio di stupefacenti. Fra i minori a rischio “Save the Children” segnala quelli bengalesi che, ospitati da connazionali, pagano fino a 250 euro al mese per un posto letto. Molti di loro, poi, ripagano l’ospitalità lavorando come venditori ambulanti di collanine, giocattoli, ombrelli, per conto di chi ha in affitto la casa. Per i minori afghani che fanno un lunghissimo e pericoloso viaggio per arrivare in Italia, il nostro paese è più di transito verso il Nord Europa che di destinazione: si stima che per arrivare illegalmente in Norvegia dall’Italia il costo sia di 2.500 euro. Per procurarsi i soldi necessari i minori afgani di solito si affidano ai genitori o a parenti che pagano i trafficanti con il sistema della hawala (il trasferimento del denaro avviene al di fuori del sistema bancario, sulla base di una rete di dealer e sulla fiducia).
Corriere della Sera 23.8.10
La commedia del Pd diviso fra Cota e Togliatti
Dagli anniversari all’attualità, un partito in cerca d’identità
di Paolo Franchi
Da pagina 1 Giulio Tremonti, Roberto Calderoli e Roberto Maroni hanno preso la palla al balzo per annunciare, per protesta, anche il loro forfait. Ma, quel che è peggio, la decisione crea trambusto anche nel Pd. Sergio Chiamparino l’ha contestata duramente, sostenendo che getta un’ombra sulla credibilità del partito specie in caso di elezioni, e provocando le ire di Nicola Zingaretti che lo ha accusato di subalternità alla destra. Piero Fassino ha criticato aspramente il gran rifiuto dei tre ministri, sì, ma prima ancora la scelta di non convocare il governatore, augurandosi che si riesca a correggerla in fretta e ricordando che della legittimità dell’elezione di Cota si devono occupare il Tar e il Consiglio di Stato, non gli organizzatori di una festa di partito per tradizione e per vocazione apertissima al confronto.
«Il Migliore» A lato, «I funerali di Togliatti» di Renato Guttuso (1972). Sotto, il leader del Pci (1893-1964)
Una polemica oziosa, come la maggior parte delle polemiche che ci affliggono? Sicuramente sì. Proprio per questo, però, si fatica a capire perché il Pd, anche a prendere per buona la versione lasciata trapelare, abbia provveduto con tanta solerzia a scatenarsela addosso. È vero che spira forte il vento delle elezioni anticipate. Ma, se c’è da confrontarsi, anche aspramente, sullo spirito (una volta si sarebbe detto: sulla linea) con cui affrontarle, forse sarebbe il caso di trovare occasioni e sedi più propizie.
E Palmiro Togliatti, che c’entra? C’entra, c’entra. Perché il 21 agosto ricorreva il cinquantaseiesimo anniversario dalla morte. E il Pd ha provveduto, seppure in sordina, a celebrare la ricorrenza. Suscitando anche in questo caso polemiche a destra, in cui si è distinto in particolare Maurizio Gasparri, ma pure qualche dissenso al proprio interno, come quello manifestato da Arturo Parisi. Una specie di caso Cota della memoria, se possibile ancora più ozioso sotto il profilo politico e intellettuale, che però in qualche modo chiama ancora una volta in causa, seppure in modi a dir poco abborracciati, quella che un po’ pomposamente (e sempre più stancamente) viene definita la questione della «identità» del Pd. Ancora negli a nni Ottanta , quando però non c’era il Pd e nemmeno il Pds o i Ds, ma il partito comunista, l’anniversario della morte a Yalta del Migliore, oltre che di sobrie commemorazioni al Verano con foto notizia sul quotidiano del partito, poteva benissimo essere occasione di confronto e anche di scontro politico: memorabile, all’inizio del decennio, un articolo sull’Unità in cui Giorgio Napolitano trasse occasione dalla ricorrenza per denunciare il pericolo che la politica del partito si stesse riducendo a propaganda.
Certo Togliatti, per quanto severo e anche feroce possa essere il giudizio su di lui, fu un politico di primissima grandezza, non certo un propagandista. Se il grosso del Pci e poi il Pds, a suo tempo, avessero scelto di incamminarsi sulla strada del revisionismo e della socialdemocrazia, di sicuro avrebbero dovuto fare con ben altra passione e con ben altro rigore i conti con la sua eredità. Ma, come è noto, la strada scelta è stata un’altra, quella che ha portato al Pd, un partito, per dirla con Nichi Vendola, che quasi per costituzione non è in grado di proporre una narrazione di sé, dell’Italia e del mondo, e forse non è nemmeno troppo interessato a costruirla. Ammesso e non concesso che il Pd abbia un albero genealogico e un Pantheon di padri nobili non da venerare, si capisce, ma ai quali ispirarsi, si fatica a capire non solo se Togliatti vi troneggi, ma, più in generale, chi altri (De Gasperi? Moro? Nenni? La Malfa? Fanfani? Berlinguer?) abbia titoli e meriti per farne parte: probabilmente, tutti e nessuno. La questione sarebbe seria, molto più seria delle polemicuzze sulla quantità di postcomunismo che circola nel poco sangue del Pd, suscitate da un anniversario e da una commemorazione frettolosa. Però, ne siamo certi, Cota, alla festa, Togliatti lo avrebbe invitato, e con tutti gli onori. Quanto meno per non privarsi della soddisfazione di vedere a casa sua, di fronte alla sua gente, il Cota medesimo, e più ancora Tremonti, Calderoli e Maroni cortesemente costretti a dare delucidazioni sulla crisi del loro governo e della loro maggioranza.
Corriere della Sera 23.8.10
L’ultimo requiem di Mozart e il segreto dei 400 fiorini
I discepoli completarono l’opera commissionata da un conte
di Edoardo Segantini
Da pagina 1 « Il caso del Requiem è uno dei segreti meglio custoditi di Mozart: la maggior parte del pubblico ama quella musica ma non sa che lui ne compose soltanto una parte». A Trivigliano, un paesino del Lazio a 800 metri di quota, lo storico Piero Melograni sta lavorando con l’amico giornalista e scrittore Pino Pelloni al suo racconto del Novecento, una biografia del «secolo lungo» vista attraverso i ricordi personali ma soprattutto attraverso i personaggi incontrati nella sua vita di intellettuale e, più brevemente, di politico. Melograni adora svelare i segreti, tanto che uno dei suoi libri più belli si intitola proprio «Le bugie della storia». Ma adora anche la musica. E non a caso ha scritto una biografia avvincente, dedicata proprio a Mozart, che ha fatto discutere. Sì, perché quello del Requiem K626 è veramente il mistero di un capolavoro incompiuto. Che nel corso del tempo ha diviso gli storici e i musicologi, ma ha anche alimentato congetture e acceso passioni. Ecco la vicenda. Nel luglio del 1791, all’età di 35 anni, Wolfgang Amadeus riceve da un intermediario non ben identificato l’incarico di scrivere una messa da requiem. Inizia a comporre, ma può continuare solo mesi più tardi, dopo aver completato «La clemenza di Tito» e «Il flauto magico» a cui già sta lavorando. Quando, intorno alla metà di settembre, torna a Vienna da Praga, però, la sua salute peggiora. Resta impresso nel ricordo il modo in cui il regista Milos Forman e l’attore protagonista Tom Hulce portano sullo schermo, nel magnifico film «Amadeus» del 1985, la creatività febbrile di quei giorni, nella caotica e gelida casa viennese. Mozart porta a termine infatti altre composizioni, ma quando infine potrebbe dedicarsi interamente al Requiem la malattia si aggrava. Inchiodato al letto a partire dal 20 novembre, continua a lavorare con le sue ultime energie. Ancora nel pomeriggio del 4 dicembre, rivede con alcuni cantanti suoi amici le parti già compiute del Requiem. La notte seguente muore e la sua messa rimane un frammento. E un mistero. In due secoli, questi pochi dati certi hanno dato luogo a cupe interpretazioni romantiche, in parte riprese dal cinema: lo spettrale messaggero mascherato (un invidioso Salieri, interpretato da uno strepitoso Murray Abraham), l’ipotesi dell’avvelenamento, la fatale sovrapposizione temporale tra il Requiem e la morte del giovane genio. «In realtà — dice Piero Melograni — l’intermediario era quasi certamente Johann Puchberg, commerciante e abituale creditore del maestro, che gli commissionò il Requiem su incarico del conte Franz Xaver Walsegg-Stuppach. La somma pattuita, 400 fiorini, era molto alta, quasi pari a quella ricevuta per "Le nozze di Figaro". Mozart sapeva che il committente avrebbe spacciato per propria la composizione, in una sorta di estremo omaggio alla moglie appena scomparsa, ma non poté rifiutarsi perché debitore verso Puchberg di una somma notevolmente più alta». «Il conte — scrive Volker Scherliess, critico della Hochschule für Musik di Lubecca — trascriveva di suo pugno le partiture che si era procurato di nascosto e per la loro esecuzione faceva ricopiare dal suo manoscritto le singole parti. Si racconta che gli esecutori avessero poi il compito di indovinare il compositore; anche se erano naturalmente a conoscenza dei retroscena, per senso di cortesia essi indicavano il conte come l’autore delle musiche, e il conte allora sorrideva compiaciuto». Volendo farla figurare come opera di un musicista dilettante, dice Melograni, il Requiem doveva essere credibile: Mozart perciò era indotto a frenarsi, a eliminare le soluzioni più geniali e quindi a lavorare con disagio. Di certo, nel corso della sua vita intera, non si era mai trovato in un pasticcio del genere. Il 5 dicembre, quando morì, lasciò l’opera incompiuta. Chi la completò? L’unica parte del Requiem che Mozart scrisse per intero — sostiene Melograni, d’accordo con Bernhard Paumgartner, lo studioso, compositore e concertista che per quarant’anni ha diretto il Mozarteum di Salisburgo — è l’Introitus Requiem Aeternam. Cioè cinque minuti dei cinquanta che dura il Requiem. E, solo in parte, il «Kirie» e il «Lacrimosa». Tutto il resto fu scritto o completato da altri, probabilmente sulla base di appunti e annotazioni lasciati dallo stesso autore. «Coloro che in fasi successive e con capacità diverse completarono l’opera — precisa Melograni — furono alcuni suoi allievi e assistenti come Franz Xaver Süssmayr, Franz Jacob Freystadtler e Joseph Eybler, radunati dalla moglie di Mozart, Constanze, che evidentemente temeva di dover restituire la somma già intascata se avesse consegnato un’opera incompiuta. Insomma, Constanze e i discepoli di Mozart finirono per confezionare un prodotto sostanzialmente falso. Ma era appunto questo, in qualche modo, lo scopo della commissione voluta dal conte Walsegg». La speranza di Süssmayr era di aver compiuto almeno un lavoro tale «che gli intenditori potessero scorgervi qua e là alcune tracce degli indimenticabili insegnamenti del maestro». E in effetti, malgrado le grossolanità e le banalità (ovviamente relative) che gli esperti hanno ravvisato nell’opera, quasi una «fusion» si potrebbe definirla con il linguaggio attuale, il Requiem contiene comunque, seppur diluito nell’acqua dei discepoli, un tasso di genio del maestro abbastanza forte da emozionare ancora a distanza di due secoli. Ed è questo, alla fine, il vero mistero della composizione: la musica stessa. «Da una parte — scrive ancora Scherliess — c’è una formidabile sintesi di antiche tradizioni di musica sacra, ad esempio nell’impiego della fuga e del canone. Dall’altra, elementi tipici dell’opera lirica sono intensificati in modo straordinario e indimenticabile, ad esempio in certi fraseggi d’ascendenza napoletana nel "Lacrimosa"». Ma a questi momenti — che rielaborano la musica del passato — il giovane e malato Mozart, ormai a pochi passi dalla fine, aggiunge accenti di profonda, inconfondibile e moderna intimità. Un’onda che ancora ci travolge, con intatta potenza.