venerdì 6 agosto 2010
Repubblica 5.8.10
Dissidenti
Il pensiero differente che porta all’epurazione
di Francesco Merlo
Secondo una certa concezione, non solo ogni critica è vista come parte di un complotto, ma persino l´ironia è giudicata un tradimento
Contro il reprobo si esercitano i vigliacchi, sempre impuniti all´ombra del capo, che tentano di ridicolizzarlo e gli danno del "pazzo"
«Se militi in un partito e accetti le iniquità del capo ne diventi complice, ma se le rifiuti e le denunci ne diventi il boia». Gianfranco Fini conosce bene "il paradosso del dissidente". Detestava già Berlusconi ma si sentiva legato a lui da un comune destino: misurarsi con il centrosinistra e batterlo insieme. E si abbracciavano sullo stesso palco e cantavano lo stesso inno perché Fini, praticando il dissenso ma non il dissidio, voleva il rispetto che si deve alla minoranza. Una cosa è infatti dissentire – "non sentire" allo stesso modo – e un´altra è dissidére, cioè "sedersi a parte", cambiare sedia, separarsi.
Ma Berlusconi non la pensa così: la critica è un complotto e persino l´ironia è infedeltà. Al punto che la ministra Carfagna, amica di Bocchino ma non schierata con Fini, è sospettata di alto tradimento (esiste il basso tradimento?) da quando, in un´intervista a Daria Bignardi, ha detto: «Se Berlusconi fosse stato mio padre non gli avrei permesso di tingersi i capelli» (tu quoque, Mara mia). Insomma non solo il dissenziente è dissidente, ma anche chi non compiace il giovanilismo senile del capo, chi pecca di disamore e disincanto, come nella religione, nelle società criminali, nei partiti comunisti e fascisti.
E infatti la Chiesa bolla i dissidenti come eretici e, se solo potesse, li brucerebbe ancora. La mafia li condanna all´annientamento fisico ma, prima ancora, aggredisce e calunnia figli e mogli, proprio come i giornali di Berlusconi fanno con Fini, con Menia, con Granata, anche se l´onore della dissidenza non rende onesti né impuniti, così come nell´Urss c´erano molti valorosi dissidenti che restavano pessimi scrittori.
Tutti seguono l´insegnamento dei grandi maestri della diffamazione, Stalin e Beria, che cominciavano la tortura dei dissidenti chiudendo le loro donne in celle quadrate: «Uscirai di qui quando troverai il quinto angolo». Più contorta e a suo modo tollerante fu la repressione dei fascisti verso i camerati bricconi – da Berto Ricci a Italo Balbo, dal giovane Montanelli a Grandi – che avevano preso in prestito la camicia nera dagli anarchici ma non diventarono mai dei veri oppositori: non dissidenti ma frondisti, "pierini" di regime, un po´ come oggi gli amici del Foglio.
Solo i liberali e i democratici proteggono i dissidenti, vuoi per amore vuoi per forza: «Quelli che la pensano come noi sono quelli che non la pensano come noi» scriveva Sciascia evocando Voltaire. Mentre Lyndon Johnson, più sboccato, faceva della tolleranza liberale una sapienza di governo: «Meglio averli dentro la tenda che pisciano fuori, piuttosto di averli fuori che pisciano dentro». Borges arrivava alla dissidenza da se stesso: «Mi sono iscritto al partito conservatore. Ma una volta affiliato al conservatorismo, il trionfo radicale mi ha fatto piacere».
Certo, può far sorridere che la bandiera della dissidenza sia passata dalle mani di Lutero a quelle di Bocchino o che dall´impegno della prosa a parentesi di Solgenitsyn si sia arrivati alle rime del dissidente di Furci Siculo: «Non è un voto con l´intruglio / questo è il voto per Briguglio». È la Storia che si fa commedia. E basti pensare che mai nessuno aveva fatto battute grevi sul nome "Bocchino". Il primo è stato Berlusconi seguito dai suoi bravi, con tutto l´armamentario arcaico della vecchia destra da casino, perché sul dissidente si esercitano i vigliacchi, impuniti all´ombra del capo che nel dissidente intravede la propria fine e dunque lo ridicolizza se non può dargli del matto, come facevano appunto i Maestri sovietici. Ma da quanti dissidenti e pazzi è fatto il progresso?
È noto che Einstein, quando morì, aveva sul comodino un libro (Mondi in collisione) di Immanuil Velikovskij, medico russo di origine ebraica, contro il quale la comunità scientifica aveva organizzato quella crociata che lo bollò per sempre come "pazzo". Ebbene Einstein sapeva che questi "matti" sono i marines della scienza, i dissidenti della politica, e solo il loro coraggio apre le porte del futuro. E infatti, venti anni dopo, quando alcune delle sue teorie si dimostrarono fondate, Velikovskij fu accolto trionfalmente ad Harvard. Pazzo e dissidente sono sinonimi? Scriveva Bernard Shaw: «I saggi adeguano se stessi al mondo, i pazzi persistono nel tentativo di adeguare il mondo a se stessi, e quel che ne consegue è che il progresso è in mano ai pazzi».
Sempre nel dissidente si annida il futuro. Marx disside da Hegel, Cristo dagli ebrei, Sacharov da Breznev. Pintor portò via dal Pci che lo espelleva la fiammella della sinistra illuminista e Montanelli, costretto a lasciare il Corriere, portò con sé lo scrigno dei valori di destra. Allo stesso modo Fini e i suoi ribelli portano con sé le classiche definizioni della destra: toga, cattedra e caserma. La toga dell´eroe Borsellino contro l´eroe Mangano, la cattedra di Gentile contro la Gelmini, la caserma dei carabinieri contro le ronde. Ma portano soprattutto via l´idea dell´Italia nazione minacciata dall´eversione di Bossi. Fini disside dalla secessione in atto: la cittadinanza contro l´etnia, la modernità dell´Italia plurale contro il medioevo padano, la solidarietà contro l´egoismo. Dunque, ancora una volta, nei dissidenti c´è molta più storia di quanta ce ne sia nel regime che li espelle. Nella dissidenza c´è l´eresia, ma il dissidente custodisce il marchio originario: quella destra che Berlusconi, come l´apprendista stregone, pensava di comprarsi e di domare e che invece, dissentendo e rinascendo, finalmente lo arresterà (nel senso di fermarlo).
Repubblica 5.8.10
Quei ribelli dell’Urss
di Andrea Grazioli
Un movimento sostenuto da qualche migliaio di militanti e sostenitori fu represso dal Kgb con deportazioni e imprigionamenti, ma anche con colloqui preventivi fatti di minacce, pressioni, ricatti e intimidazioni
I casi di Solgenitsyn, Sacharov e Grossman
I dissidenti sono diversi dagli oppositori, e l´Urss ha conosciuto sia i primi che i secondi. Fino alla seconda guerra mondiale la maggioranza della popolazione fu ostile a un regime che ebbe i suoi dissidenti nelle opposizioni comuniste. Proprio l´antica vicinanza al sistema permise allora ai Souvarine, Ciliga, Rizzi, Serge di penetrarne la natura, creando molte delle categorie poi usate per analizzarlo. Col Grande Terrore, tuttavia, Stalin eliminò sia gli oppositori che i dissidenti più attivi: tra i più di 700.000 fucilati del 1937-38 vi era per esempio la quasi totalità dei religiosi, dei socialisti rivoluzionari, e degli ex-oppositori del partito.
La situazione cambiò con la guerra, che consegnò al regime nuovi nemici, per esempio tra i popoli deportati nel 1943-44, ma gli conquistò anche un vasto sostegno tra la popolazione, specie ma non solo russa. È nell´amara delusione di alcuni di questi nuovi "cittadini", che si sentivano parte del "popolo sovietico", nonché in quella di alcuni dei dirigenti più vicini al despota, che vanno cercate le radici della nuova dissidenza. "Dissidente" divenne Berija, e dissidente fu a suo modo Chrušciov: solo così, come maturazione anche morale, si capisce il suo grido contro Stalin al XX congresso, e la sua successiva evoluzione, testimoniata dalle memorie e dalle scelte della sua famiglia, emigrata negli Stati Uniti. Certo, Chrušciov fu anche un uomo contraddittorio, che perseguitò e imprigionò, ma l´odio nutrito per lui dagli alti dirigenti sovietici ancora negli anni Ottanta non era quindi privo di fondamenta.
La scoperta delle ingiustizie, coperte dalla retorica, nonché quella dei crimini passati, coperti dalla menzogna, sono alla base della dissidenza vera e propria, quella dei Sacharov, dei Grossman e dei tanti che trovarono la forza di testimoniare contro un sistema in cui avevano creduto e che aveva garantito loro prestigio e privilegi. Tra di loro Solgenitsyn è un caso a parte: "dissidente" perché ex militante comunista, egli fu però presto oppositore, e tale rimase quando, dopo il lager, fu ammesso in un´elite (Una Giornata di Ivan Denisovic arrivò a un passo dal premio Lenin) i cui principi denunciò con atti di grandissima dignità, come la lettera del 1967 all´Unione degli scrittori.
Grossman e Sacharov sono casi ancor più esemplari. Già premio Stalin, il primo fece poi in Vita e destino la più profonda e vera analisi della guerra, e morì credendo il suo capolavoro distrutto dalla polizia politica. Sacharov, già creatore della bomba a idrogeno sovietica, si dissociò da un regime di cui analizzò vizi e corruzione, ed è forse l´esempio più alto di cosa possa essere un dissidente in quanto testimone di verità, giustizia e decenza umana.
Questa dissidenza, qualche migliaio di militanti con qualche decina di migliaia di sostenitori alla fine degli anni Sessanta, fu repressa da Andropov, il capo del Kgb, con imprigionamenti, deportazioni e una profilaktika, fatta di colloqui preventivi minacciosi e ricattatori, di cui si riparla oggi in Russia. Sia pure a prezzo della "stagnazione" della vita morale e intellettuale del paese, egli risolse in effetti il problema. Ma basta leggere i discorsi di Gorbaciov per capire quante delle idee della dissidenza sconfitta fossero penetrate nell´élite sovietica, dove trovavano alimento anche nella sorda opposizione al brežnevismo dei quadri che non avevano rinnegato, sia pure in pectore, il disgelo.
Repubblica 5.8.10
Da Vittorini al “Manifesto”
Come il Pci trattava gli intellettuali critici
di Nello Ajello
L´atteggiamento poteva essere modulato: l´autore di "Conversazione in Sicilia" veniva irriso mentre i meno illustri Cucchi e Magnani si vedevano affibbiare dall´Unità l´epiteto di "pidocchi"
«Che fai, mi cacci?». È la domanda che i dissidenti usano rivolgere a chi vuol punirli per indisciplina. Spesso la risposta è: «Certo che ti caccio». Per approdare a questo finale occorre che ci siano, all´interno del partito, un despota onnipotente e un ribelle temerario.
Dall´immediato dopoguerra fin quasi al 1991, anno della dissoluzione del Pci, il dissenso punito dall´alto ha rappresentato una costante o almeno un rischio. Il "centralismo democratico" rendeva obbligatoria l´ortodossia. In questo quadro, qualche variante pragmatica adottata da Togliatti mostrava solo la preoccupazione del suo partito di accreditarsi in un paese, come già allora si diceva, "pluralista". Era tuttavia una cautela a termine. Se ne ebbe la prova quando apparve necessario costringere Elio Vittorini ad uscire dal partito e a chiudere il periodico Il Politecnico, non abbastanza allineato. Sto parlando, per ora, d´un caso di repressione non particolarmente rude. Di fatto, lo scrittore non viene espulso dal partito, e Togliatti dichiarerà più tardi di non aver mai saputo bene se e quando vi si sia iscritto. L´operazione è venata d´ironia. «Vittorini se n´è ghiuto e soli ci ha lasciato», così Togliatti titola un articolo su Rinascita attribuendo allo scrittore il pensiero, o la speranza, che il suo addio al Pci ne comprometta le fortune.
Il trattamento relativamente mite riservato allo "spostato politico" Elio Vittorini – così lo vide Massimo Caprara, segretario di Togliatti – era condizionato dalla convinzione che egli godesse di una certa «solidarietà tra i quadri intellettuali delle ultime leve». E infatti pochi mesi prima, nello stesso 1951, altri ribelli meno illustri, Aldo Cucchi e Valdo Magnani, si erano guadagnati da parte dell´Unità, all´atto dell´espulsione, l´epiteto di "pidocchi", a completamento di attributi quasi altrettanto duri come "rinnegato" – d´uso corrente per Ignazio Silone – o "disertore", rivolto a Eugenio Reale, ambedue espulsi in anni diversi. Severe definizioni si videro infliggere anche i dissidenti Marco Cesarini Sforza e Fabrizio Onofri: di quest´ultimo, Togliatti si disse certo (era il ´56) che avesse "la polenta" nella testa.
Quasi da Corte d´Assise fu il processo intentato dal Pci nel 1958 alla rivista Città aperta, diretta da Tommaso Chiaretti, considerata «una tribuna di costante polemica e agitazione contro il partito», soprattutto per aver deplorato l´esecuzione capitale inferta all´ex premier ungherese Imre Nagy, uno dei capi dell´insurrezione del ‘56: il direttore Tommaso Chiaretti venne "radiato". Si rispolverò per Antonio Giolitti l´antica accusa di "revisionismo", quando che egli pubblicò, all´indomani del congresso del 1958, un saggio dal titolo Riforme e rivoluzione. Togliatti giudicò quello scritto infarcito di "banalità socialdemocratiche", Longo vi colse una sequela di "vaniloqui". Quanto a Italo Calvino, il suo addio al Pci fu registrato con accenti beffardi.
Con il passare dei decenni, che il Pci fosse segnato da divisioni interne appariva comunque scontato. Tanto più inspiegabile risultò la requisitoria inflitta agli eretici del Manifesto, la quale si concluse, nel 1969, con la radiazione di Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Aldo Natoli. Di lì a poco, misure equivalenti vennero adottati per Lucio Magri, Massimo Caprara, Luciana Castellina, Valentino Parlato.
«Si è posto fuori dal partito» ecco l´addebito più consueto che veniva formulata in simili evenienze. L´abbiamo sentito ripetere, questo rimprovero, nella contesa che s´è aperta di recente nel centro-destra. A volte, nella storia, spuntano curiosi fenomeni di emulazione.
Repubblica 6.8.10
Dove falliscono la destra e la sinistra
di Massimo L. Salvadori
Non vi è capo di partito che non gridi al fallimento degli avversari. Lo fa il leader maximo, per il quale tutti, con l´eccezione di lui medesimo e Bossi, sono cospiratori e nani politici. Lo fa Bersani, che ormai, forte della scissione tra Fini e Berlusconi, dice che questo esecutivo non va da nessuna parte e invoca un governo di transizione. Lo fa Di Pietro, per il quale il governo è un covo di banditi politici e non solo politici. Lo fa Casini, che, assumendo le vesti del serio statista che sa guardare ai superiori interessi del Paese, lancia la proposta – diceva or è poco – di un esecutivo di concentrazione di tutte le forze «responsabili» inteso ad aprire la stagione delle grandi riforme e auspicabilmente presieduto nientemeno che da Berlusconi (il quale, sia lecito osservare, dovrebbe così ammettere lo scacco di tutta la sua strategia). Lo fa Vendola, che indica in quello di Berlusconi e Tremonti il governo degli «schiavisti» della globalizzazione economica.
Per completare il quadro occorre aggiungere che all´interno tanto delle forze di governo quanto di quelle di opposizione ci si rivolgono le più aspre reciproche accuse. Nello schieramento al potere Berlusconi e Bossi sono ai ferri che più corti non potrebbero essere con Fini e i suoi, entrati in mare aperto. In quello opposto il muscoloso Di Pietro e Vendola (che pure non si amano) accusano all´unisono il Pd di non avere la spina dorsale necessaria per condurre un´opposizione degna di questo nome. Bersani si difende da entrambi, ma non riesce a rivitalizzare il paese antiberlusconiano dietro all´élite dirigente del Pd. Per quest´ultimo era già un grattacapo il rapporto con Di Pietro; e ora si presenta quello, ancora più ostico, costituito dalla «sfida» lanciata da Vendola, che, in attesa delle elezioni quando sarà il tempo, intende «sparigliare le carte» nel centrosinistra e mira a guidare lui stesso la futura competizione elettorale con il centrodestra.
Tutto ciò in un quadro in cui non si sa dove il governo possa andare a parare e quali possano essere le conseguenze della rottura del Pdl, ma che mostra palesemente lo scacco delle strategie che erano maturate nei principali partiti degli opposti schieramenti. Il disegno di un bipolarismo stabile e strutturato, su cui avevano puntato sia Berlusconi sia Veltroni, convinti di poter attivare una dialettica sostanzialmente bipartitica e assicurare una solida unità ai due maggiori soggetti in competizione, è andato incontro ad un clamoroso insuccesso. Il bipartitismo non ha preso corpo, i due poli – tra i quali si frappone un centro composito ma carico di grandi ambizioni – sono entrati in uno stato che ne prepara l´archiviazione. Un polo ha il suo sempre più grave tormento in Fini, l´altro le sue spine in Di Pietro e Vendola. Non è ancora dato di capire a quali conseguenze le loro linee possano propriamente portare; ma un dato è certo, e cioè che nei due schieramenti si sono aperte vere contestazioni nei confronti delle rispettive leadership.
Si ragiona circa la tenuta del presente governo e dei possibili scenari di un dopo-Berlusconi; diverse le ipotesi, per ora nessuna che si presenti in termini di concretezza. Ma il ragionamento si dovrebbe farlo alla luce di un fatto che appare a mano a mano più evidente, e cioè che ci troviamo di fronte ad una nuova crisi di carattere organico dell´intero sistema dei partiti, poiché l´obiettivo di assicurare finalmente al Paese la stabilità politica e istituzionale si è rivelato una illusione. Ogni sintomo induce a concludere che sia in corso non già una «crisi di aggiustamento», ma un´ennesima crisi di sistema: non ancora precipitata, ma in attesa di precipitare. Ci sono i segni più eloquenti: i leader dei maggiori partiti assai indeboliti, uno scontro perpetuo di persone e di linee politiche, un Parlamento in cui la maggioranza numerica su questioni cruciali non si fida più politicamente di se stessa, il ritorno in grande stile della «questione morale» che accresce il già pesante discredito di gran parte della classe politica colpendo duramente specie il governo e i suoi clienti, l´esistenza di un fronte delle opposizioni che si sente rafforzato nella negazione al governo Berlusconi-Bossi, ma naviga a vista circa il da farsi in positivo.
Le crisi dei sistemi partitici costituiscono il naturale terreno per l´irrompere sulla scena di nuovi leader, di nuovi messaggi e promesse. Da una parte si sente fare il nome di Tremonti, dall´altra si candida Vendola. Venendo in particolare a quest´ultimo, vorrei fare due osservazioni. La prima è che il consenso che pare egli vada in maniera crescente raccogliendo è un sintomo inequivocabile del forte affanno in cui versa il Pd, di cui esso dovrebbe seriamente preoccuparsi non dando credito a chi ritiene di liquidare Vendola come un «poeta».
La seconda è che Vendola dal canto suo dovrebbe pensare bene allo scopo che intende proporsi. Credo di non sbagliare nel dire che, mentre ha serie chances, di fronte allo sgretolamento in atto di un bipolarismo malato, di riuscire a riorganizzare nel nostro Paese una sinistra che esiste, non ha una soddisfacente rappresentanza e può pesare in un centrosinistra che si prepari al confronto elettorale, d´altra parte, seppure fosse in grado di sparigliare le carte nel Pd, egli non ne ha di guidare uno schieramento vincente. Troppe le opposizioni, troppe le difficoltà nel puntare ad un consenso popolare diretto che scavalchi quanti decisi – a partire dai politici entro il centrosinistra – a sbarrargli la strada e nel conquistare la componente necessaria degli elettori moderati. Faccia bene i calcoli. Poiché l´esito potrebbe essere un conflitto intestino che condurrebbe ancora una volta il centrosinistra alla sconfitta.
Ma ora hanno preso in ogni caso a soffiare forti venti, che non si sa che cosa possano o non possano spazzare via. Tutto si muove, ma nulla pare chiaro e quindi occorre aspettare per capire in quali direzione le varie forze politiche in acuta fibrillazione possano andare e che cosa esse preparino al paese che si interroga.
Repubblica 6.8.10
Un libro rivela l´importanza dei luoghi culturali nell´elaborazione della Carta
I costituenti “ombra” nell’Italia del ’46
Tutti conoscono bene i nomi dei "padri" ma la partecipazione a quell´opera fu molto vasta e coinvolse larga parte della società civile
di Marco Filoni
Mai come negli ultimi anni la Costituzione è stata così presente nel dibattito pubblico. E con essa le sue origini. Capita non di rado di ascoltare richiami profetici sulle intenzioni dei padri costituenti, sulle loro reali volontà e prerogative. Così come sentiamo propositi riformatori non sempre ortodossi e in linea con la cultura giuridica e civile di allora. Eppure tanto più sentiamo parlare di Costituente, quanto più l´immagine che ne abbiamo risulta sfocata.
Certo, tutti conosciamo alcune delle grandi figure che diedero vita a quell´esperienza: Calamandrei, La Pira, De Gasperi, Nenni, Togliatti, solo per citarne alcuni. Eppure è lecito domandarsi se la stagione costituente è da limitarsi a questi personaggi, carichi di valori positivi per la nostra storia repubblicana, oppure se vi sono aspetti rimasti in ombra. In questo senso c´è chi sa cogliere il kairos, il momento opportuno, offrendo al dibattito alcuni tasselli inediti di quella cultura della Costituzione di cui, oggi come non mai, sentiamo il bisogno. Nasce così la ricerca, promossa dalla Fondazione Adriano Olivetti, Costituenti ombra (che ora è diventata un libro che ha come sottotitolo Altri luoghi e altre figure della cultura politica italiana (1943-48), a cura di Andrea Buratti e Marco Fioravanti, Carocci) tanto ambiziosa nelle intenzioni quanto felice nei risultati.
Una quarantina di studiosi, tutti giovani ricercatori, hanno colmato una lacuna non trascurabile: pensare l´esperienza costituente secondo la prospettiva inedita dei minoritari. La nostra storiografia ha infatti privilegiato un approccio che identificava la ricostruzione di quell´episodio con le vicende interne all´Assemblea e con l´iniziativa dei grandi partiti di massa. Eppure questo indirizzo ha marginalizzato il ruolo dell´opinione pubblica, delle iniziative culturali e della società civile che influirono non poco nell´edificazione delle istituzioni repubblicane. Ecco allora i "costituenti ombra": personaggi, giornali, città, editori, forze locali e poteri privati, università e riviste. I luoghi e le figure che animarono la vita culturale italiana negli anni in cui la Costituente è stata pensata e istituita. E che con essa si confrontarono. Non è un caso che a offrirci quest´analisi siano studiosi giovani: ciò ha permesso una lettura disinteressata, libera da banali revisionismi e polemiche stantie che hanno irrigidito il confronto storico e politico degli ultimi decenni. Al contrario qui c´è uno sguardo assolutamente "fresco", senza alcuna premessa ideologica, perciò capace di ricostruire le pieghe di una storia non sempre pacificata. Ma chi sono questi costituenti ombra? Isole, trincee, luoghi di confine e di confino che hanno ospitato personaggi capaci di dar vita ad audaci iniziative costituzionali: Silvio Trentin, Emilio Lussu, Riccardo Bauer, Ursula Hirschmann, Carlo Levi e Adriano Olivetti. Ma anche luoghi di cultura come i giornali, la Normale di Pisa, la casa editrice Einaudi di Torino, o le riviste Il Ponte, Lo Stato Moderno e Il Politecnico. Così come gli "altri poteri", ovvero quei soggetti indirettamente rappresentati nel dibattito assembleare: gli Alleati, l´industria e i vari liberismi nascenti, le Magistrature e le Forze Armate, sino agli epurati ex fascisti che si stavano riorganizzando. Infine i "costituenti contro", coloro che pur presenti nell´Assemblea espressero dubbi sulla Costituzione repubblicana: Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando, propensi a un ritorno allo Statuto; il movimento dell´"Uomo qualunque" di Giannini; i monarchici e gli indipendentisti siciliani. Insomma, tutte figure minoritarie, in ogni caso alternative alle culture dominanti e di riferimento dei partiti di massa che, in quel periodo, esercitavano l´influenza maggiore.
In queste pagine c´è tutta la narrazione di una storia laterale nascosta, fatta di uomini e di donne, di idee e di passioni, rimasta sino a oggi in ombra, appunto. Ma che ha implicazioni non scontate: proprio perché sconfitte, assenti o marginalizzate rispetto alla stesura della Costituzione, le più lungimiranti di queste narrazioni possono rappresentare percorsi possibili di nuove e diverse interpretazioni della nostra Carta costituzionale. Affinché si possa affrontare la diffusa esigenza di rinnovamento della Costituzione, argomento di molto vano chiacchiericcio, è necessario ritrovare le radici comuni dell´identità repubblicana. Solo così ci accorgeremmo, come dimostrano queste pagine, che vi era una produzione sociale intorno alla Costituzione, una società civile che partecipava alla vita del paese e al suo futuro.
l’Unità 5.8.10
«Si chiude un ciclo. Questa crisi è merito anche del Pd»
Il presidente dell’Emilia Romagna: «Sì al governo di transizione, ma non può guidarlo Tremonti Va riconsegnato agli elettori il potere di scelta»
di Pietro Spataro
Si chiude un ciclo politico...». Vasco Errani non ha dubbi che il voto alla Camera segni un passaggio di fase. Però è preoccupato perché il paese non sopporterebbe una lunga condizione di debolezza politica. Quindi: sì al governo di transizione. Con Tremonti premier? «Il governo di transizione non si fa con chi ci ha portato fin qui».
Errani, la maggioranza non c'è più. Governo al capolinea? Questa è una crisi vera che chiude un ciclo politico, non è solo crisi di governo. Il problema principale quindi è costruire un'uscita che eviti trascinamenti senza fine con il rischio di una crisi istituzionale grave. Bisogna lavorare affinché la crisi arrivi a conclusione e si apra una fase di transizione per poi costruire l’alternativa.
Alfano alla Camera ha detto che la P3 è un'invenzione dei pm e della sinistra... Credo invece sia un dato oggettivo: la questione morale c'è. Sottovalutarlo è un gravissimo errore.
Un governo in panne, un Paese che subisce una crisi economica pesante. Non è rischioso? Certo, siamo difronte a una destra che non ha un progetto per il Paese. Governano, o meglio non governano, giorno per giorno e fanno pagare un prezzo salato ai più deboli. Sulle questioni fondamentali, dalla politica industriale all'innovazione al tema della conoscenza, la destra non ha idee. Per questo dico che si chiude un ciclo politico. E per questo insisto nel dire che serve una svolta vera, altrimenti faremo pericolosi passi indietro.
Come se ne esce? Elezioni o governo di transizione? Andare alle urne con questa legge elettorale sarebbe un colpo alla qualità della democrazia. Però voglio che sia chiaro un punto: qui non stiamo discutendo di larghe intese ma di ridefinire il campo del confronto politico. E' necessario cambiare la legge elettorale e rilanciare l'economia. Poi si va al voto riconsegnando agli elettori il potere di scelta. Solo così possiamo ridare valore alle istituzioni, a cominciare dal Parlamento che è stato svuotato.
Quale legge elettorale? Nel Pd le posizioni sono diverse...
Guardi, penso che una nuova legge debba garantire due condizioni. La prima: dare al cittadino la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. La seconda: dare la possibilità di scegliere il governo evitando però di appiattirsi su un bipartitismo che non funzionerebbe. Quali siano i modelli per garantire queste due condizioni è tema aperto al confronto. L'importante è garantirle.
Si può fare un governo di transizione con Tremonti premier? Come ha detto Bersani il governo di transizione non si fa con chi ci ha portato fin qui...
E poi Tremonti è il ministro della manovra lacrime e sangue... Certo. Una manovra, lo ripeto, iniqua che peserà sui più deboli e che taglia i servizi ai cittadini e alle imprese. Da qui alla legge finanziaria si deve fare di tutto per spostare il peso su chi ha di più.
Ma ce li vede i berlusconiani che sacrificano il loro capo per un governo di transizione? Nonostante tutto credo che il Paese abbia bisogno di questo passaggio. Il Pd deve impegnarsi e verificare se esistono le condizioni che in politica, non dimentichiamolo, non sono mai oggettive. Un partito c'è per agire, per aprire spazi nuovi e non per prendere atto della realtà del momento.
E gli elettori capirebbero? Non c'è il rischio che passi l'idea di un nuovo inciucio? Ma no, perché non stiamo affatto parlando di inciuci. Noi dobbiamo dire chiaramente al Paese che abbiamo bisogno di un governo che guidi questa fase e che abbia un segno tecnico. Il fine è andare al voto per scegliersi un governo efficace. Secondo lei il rapporto tra Fini, Casini e Rutelli non rischia ci creare problemi anche al Pd?
Vedo che circolano certe letture. Ma dobbiamo essere chiari e prendere atto di due dati. Il primo è che il progetto della destra è fallito e Fini e i suoi se ne sono andati e cercano altre vie. Vedremo che evoluzione avranno. Il secondo è che questa crisi è anche il frutto dell'iniziativa del Pd. Mica hanno fatto tutto da soli. Si dice: dialogo con Bossi. E' possibile dialogare con chi vuole un federalismo dei più forti?
Penso che la Lega abbia davanti a sé problemi corposi. Deve decidere se si accontenta di restare in una dimensione propagandistica del federalismo oppure se vuole misurarsi su un progetto vero. Se sceglie questa seconda strada deve prendere atto che il federalismo serve per rilanciare l'unità del Paese e non per difendere grandi e piccoli egoismi. Non può continuare a vivere la contraddizione di sostenere una manovra centralista e contro i territori. E certo non risolverà questa contraddizione facendo decreti che rinviano a ulteriori provvedimenti come dimostrano il decreto sul federalismo demaniale e quello approvato ieri sui Comuni. E’ arrivato il momento della verità anche per la Lega. Ed è lì che potrebbe andare in crisi l’asse con il Pdl. Chiamparino ha detto che il Pd non è pronto né per il voto né per il governo tecnico. Troppo ingeneroso? Sì, credo sia un giudizio ingeneroso. Il Pd, nei territori e sulla crisi economica, può rilanciare la sua identità. Deve rappresentare le persone: il lavoro, la scuola, i saperi. Nell’iniziativa politica si misura la sua capacità di avere un ruolo nazionale.
Però Chiamparino parla di congresso a ottobre... Non possiamo sempre ricominciare daccapo. Non serve un congresso, serve invece radicare il Pd e farlo diventare il rappresentante dei problemi degli italiani. Bisogna che ognuno di noi superi il commento e si misuri con questa sfida.
È ora di andare finalmente oltre l'autoreferenzialità. Se si dovesse votare chi dovrebbe essere il candidato del centrosinistra: Bersani, Chiamparino o Vendola? Ogni cosa a suo tempo. Ora ognuno porti il suo contributo per far sì che si chiuda con il governo Berlusconi. E' assurdo dividersi ora sulla leadership. E poi, non esiste un leader sganciato dalle idee. Noi abbiamo bisogno di riformare non ci basta solo un racconto. Bersani ha tutte le qualità per rappresentare questa prospettiva. Ma appunto, verrà il tempo e tutti potranno dare il proprio contributo e sarà utile. Ma adesso mettiamoci al lavoro affinché si traggano le conseguenze di questa crisi che segna la fine del berlusconismo.
il Fatto 5.8.10
Manifesto, in “trincea” per schivare l’ultima crisi
Cassa integrazione e prepensionamenti: le contromisure del giornale comunista in vista del taglio di fondi pubblici
di Salvatore Cannavò
Al Manifesto non si ricorda un anno in cui non si è dovuta affrontare la crisi del giornale e il problema della sopravvivenza. Il 2010 non fa eccezione. Sul quotidiano “comunista” fondato da Pintor, Parlato e Rossanda, e che oggi è diretto da Norma Rangeri affiancata dal giovane Angelo Mastrandrea, potrebbe abbattersi la mannaia del taglio dei fondi pubblici all'editoria che farebbe mancare 4,4 milioni di euro. La manovra finanziaria appena approvata ha confermato l'eliminazione del cosiddetto diritto soggettivo, cioè la certezza di ricevere quei fondi. Di fronte a questa prospettiva il giornale sta lavorando alle contromisure, sperando intanto di riuscire a ridurre gli effetti della normativa – in base alle diverse interpretazioni i contributi potrebbero ridursi tra il 20 e il 50% e poi ricorrendo allo stato di crisi con la Cassa integrazione a rotazione e il prepensionamento di 12 lavoratori.
UN ALLEGGERIMENTO dei costi al quale la redazione affiancherà da settembre una politica editoriale fatta di “speciali”, di rilancio degli abbonamenti fino al progetto – in fase di studio di una Fondazione Il Manifesto da affiancare al giornale con il compito di reperire risorse. «Diciamo che possiamo morire di asfissia ma i problemi sono superabili e lo spirito con cui facciamo il giornale è molto positivo», ci dice il vice-direttore Angelo Mastrandrea. Che non ha reticenze a giustificare il contributo pubblico: «Io credo che in un paese in cui non esiste il pluralismo informativo e la pubblicità è appannaggio di un duopolio il sostegno pubblico a un'informazione indipendente e di tendenza sia più che giusto». Posizione condivisa anche da uno dei membri del Cdr, il responsabile della pagina culturale Benedetto Vecchi, tra coloro che non hanno votato la nuova direzione (eletta con il 62% dei voti di tutta la redazione, compresi i poligrafici) e che però considera il suo impegno nel Comitato di redazione come utile «alla governance complessiva del giornale»: «L'informazione è un bene comune e quindi è del tutto normale che preveda un intervento pubblico». Resta la flessione delle vendite. Dalle circa 24-25 mila copie del 2009 (comprensive di 6000 abbonamenti) quest'anno si è giunti a 22 mila. «I lettori ci comprano meno giorni a settimana, e scontiamo una difficoltà generale della sinistra», dice Mastrandrea. Secondo Vecchi «la contrazione di copie fa parte di una tendenza generale a cui fanno eccezione in pochi, come Il Fatto». Vecchi in realtà pensa che il giornale non abbia risolto del tutto la discontinuità con il suo percorso storico e sia ancora legato a vecchi schemi politici e informativi mentre il vice-direttore Mastrandrea punta molto sul rinnovamento generazionale promosso dalla nuova direzione – i capiservizio, i capiredattori sono tutti più o meno giovani – e scommette sulla «confusione» della fase politica: «Viviamo una fase di transizione e in queste situazioni il Manifesto può dare il meglio di sé». Da qui, la scelta di appoggiare con decisione il movimento per l'acqua, ma anche la battaglia della Fiom oppure la candidatura di Vendola.
SE SUL GOVERNATORE pugliese non emergono forti discussioni interne l'ultimo dibattito in redazione si è incentrato sul rapporto con il “popolo viola” e con i suoi riferimenti politici e culturali. Sul Manifesto si trovano spesso i commenti di Luigi De Magistris ma è ancora recente la polemica innescata dal libro di Alessandro Dal Lago contro Roberto Saviano, libro edito dalla Manifestolibri diretta da Marco Bascetta ma sconfessato da Norma Rangeri. La stessa Rangeri, del resto, è stata definita molto vicina al progetto informativo di Michele Santoro mentre Vecchi, che con Bascetta ha una forte sintonia politica, considera Santoro solo «un compagno di strada della battaglia per la libertà di informazione, ma lui fa un lavoro e noi un altro». Sembra escluso, quindi, almeno per ora, che Santoro possa essere uno degli attori dell'ultima iniziativa che il Manifesto ha in mente: la Fondazione. Un organismo che abbia il compito di raccogliere fondi – e quindi di tamponare l'eventuale perdita di finanziamenti pubblici – aperta in primo luogo ai lettori con i quali si stanno creando i “circoli del Manifesto” ma anche all'associazionismo nonché a sindacati come la Fiom o al sindacalismo di base. Un modo creativo e innovativo di chiamare a raccolta la “comunità del manifesto” che in fondo è stata la garanzia di sopravvivenza di questo giornale anomalo.
il Riformista 5.8.10
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