giovedì 19 agosto 2010





Unità 19.8 pp24-25

l’Unità 19.8.10

Ritratti di guerra. È una prassi tra i militari lo scatto in posa con il «trofeo umano» palestinese
Haaretz: una vicenda non meno grave di quella degli americani nel carcere di Abu Ghraib
Israele, bufera per le foto della vergogna su Facebook
Le foto della vergogna. Quelle che mostrano soldati israeliani in posa con palestinesi arrestati, umiliati e mostrati come trofei. La denuncia di una ong israeliana. Circolano su Facebook e sono anche fonte di commercio
di Umberto De Giovannangeli

Esibizione e commercio. C’è chi paga un prezzo per i video L’ultradestra approva
Le soldatesse. Costrette a mostrarsi più dure dei maschi nell’umiliare il nemico
La denuncia. È la logica perversa frutto dell’occupazione dei Territori

I video della vergogna. Le foto che umiliano il «nemico» ma che finiscono per umiliare gli autori. Lo scandalo corre su Facebook. Si propaga nei circuiti mediatici dell’ultradestra. Diviene anche commercio. Uno sporco commercio. Tutto, meno che un caso isolato. Il postare su Facebook foto di militari israeliani accanto a prigionieri palestinesi ammanettati e bendati rappresenta «la norma e non l'eccezione» per le forze armate dello Stato ebraico: a denunciarlo è l’organizzazione umanitaria israeliana Breaking the Silence (Rompiamo il silenzio) , smentendo quanto sostenuto in un comunicato dall’Idf (le Forze armate israeliane).
VERGOGNA IN RETE
L’ong che raccoglie le testimonianze dei militari in merito agli abusi commessi nei Territori sottolinea come quanto fatto dalla ex soldatessa Eden Abargil non rappresenta «il comportamento crudele di una sola persona», come sostengono invece
le Forze armate. «È diventata la norma per i soldati assumere questo tipo di stereotipo, che estrapola situazioni vissute nel quotidiano da loro e dai palestinesi», rileva Yehouda Shauel, rappresentante dell'ong , che ha messo in circolazione queste nuove immagini. Su queste nuove fotografie pubblicate su Facebook, si possono vedere militari che circondano una prigioniera in ginocchio o anche un soldato sdraiato accanto a un prigioniero seduto con le mani dietro la schiena o ancora un soldato in posa accanto a un palestinese ferito trasportato in ambulanza. Le fotografie mostrano generalmente i detenuti in situazioni umilianti, senza peraltro dimostrare sevizie. «La cosa più sorprendente è che anche in Israele queste fotografie hanno colpito l'opinione pubblica, mentre ci sono cose ben peggiori che passano» in occasione degli arresti e degli interrogatori, sottolinea ancora Shauel. L'ex soldatessa Abargil ha spiegato da parte sua di non comprendere l'emozione suscitata da queste immagini, ritenendo di non aver «danneggiato nessuno». Ha rivelato di aver subito una valanga di lettere minatorie e di insulti, ma anche di apprezzamenti dopo la pubblicazione su Facebook.
CULTURA DEL DISPREZZO
Durissima è la riflessione che Haaretz, il giornale progressista israeliano, affida a un editoriale: «Tutto questo traduce uno stato d'animo che prende le sue radici in anni di un’occupazione e che arriva a considerare i detenuti palestinesi come sub-umani».. «Quelle foto aggiunge Haaretz riflettono una “subcultura” che percepisce i prigionieri palestinesi come oggetti di divertimento e di abusi... È una “subcultura” che dà luogo a com-
La foto della soldatessa che per prima ha scatenato le polemiche.
Su Facebook nuove foto che dimostrano un fenomeno diffuso nell’esercito portamenti terribili come costringere con la forza e le minacce i detenuti a ballare, o cantare canzoni patriottiche israeliane e militari, o mettersi in posa come il cacciatore che ha catturato la sua bestia...». La conclusione è durissima: «Queste “esibizioni” filmate o fotografate non sono diverse, meno gravi, da quelle dei soldati americani che abusavano dei prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib. Quelle immagini, svelate nel 2004, sconvolsero il mondo....».
TESTIMONIANZE SHOCK
L’ong israeliana ha raccolto nel tempo le testimonianze di soldatesse sconvolte da ciò a cui avevano assistito, e che alcune avevano anche filmato con il cellulare: si parla di atti di umiliazione o di pestaggi inflitti ai palestinesi compiuti solo per mostrarsi “più dure” dei commilitoni maschi, del brivido provato da qualcuna nel poter schiaffeggiare impunemente un ragazzo arabo, ma anche di una mano rotta a un ragazzino fermo a un posto di blocco. Nel report dell’associazione sono circa 50 le donne soldato ad aver preso parola: tutte raccontano di come la violenza sia molto più brutale rispetto a quella dei loro colleghi. Si prendono i prigionieri e li si sbatte al muro, li si umilia facendoli cantare canzoncine, facendoli saltare al ritmo desiderato, deridendoli e schiaffeggiandoli anche per 6-8 ore di fila, senza alcuna ragione. Una soldatessa impiegata nell’unità di polizia militare Sachlav racconta di un bambino palestinese che ripetutamente avrebbe provocato i soldati e lanciato anche alcune pietre. Lo stesso bambino sembrerebbe aver causato la frattura di una gamba ad un soldato, perché spaventatosi dal lancio di una pietra, sarebbe caduto rompendosi l’arto. L’immediata ritorsione viene raccontata così: il bimbo viene preso da due soldati e caricato su una jeep per esser portato al check point, da dove esce con una mano rotta, rotta sulla sedia su cui era stato fatto sedere. Alcune di queste «imprese» sono state immortalate con foto e filmati. Una vergogna in rete.

il Fatto 19.8.10
La leggenda del picconatore
di Massimo Fini

Se attaccò mai qualcosa fra il 1990 e il 1992, quando era Capo dello Stato, fu proprio quello che allora veniva chiamato “il nuovo che avanza”: la Lega, la Rete, Leoluca Orlando, Mani Pulite

Che Francesco Cossiga sia stato “il picconatore” della Prima Repubblica, come han titolato ieri tutti i giornali, di destra e di sinistra, è una leggenda metropolitana che non si capisce come si sia potuta creare. Se “picconò” mai qualcosa fra il 1990 e il 1992, quando era Capo dello Stato, fu proprio quello che allora veniva chiamato “il nuovo che avanza”: la Lega, la Rete, Leoluca Orlando, Mani Pulite.
La telefonata a Miglio
PRIMA delle elezioni del 1990, violando ogni regola di imparzialità imposta dalla sua carica, attaccò pesantemente la Lega allora agli albori e qualche mese dopo definì i leghisti “criminali”. Inaudita è la telefonata intimidatoria che fece a Gianfranco Miglio, il principale consigliere di Bossi, come qualcuno ricorderà, il 26 maggio 1990, pochi giorni dopo le elezioni, e che lo stesso Miglio ha raccontato in un libro: “Rovinerò Bossi facendogli trovare la sua automobile imbottita di droga; lo incastrerò. E quanto ai cittadini che votano per la Lega li farò pentire: nelle località che più simpatizzano per il vostro movimento aumenteremo gli agenti della Guardia di Finanza e della Polizia, anzi li aumenteremo in proporzione al voto registrato. I negozianti e i piccoli e grossi imprenditori che vi aiutano verranno passati al setaccio: manderemo a controllare i loro registri fiscali e le loro partite Iva; non li lasceremo in pace un momento. Tutta questa pagliacciata della Lega deve finire” (Io, Bossi e la Lega, Mondadori, 1994, p. 28). E Miglio così proseguiva: “Confesso che la sorpresa provocatami in questa sfuriata mi lasciò senza parola. Cossiga era per me un amico ma era anche il Presidente della Repubblica! Mi avevano detto che piccoli operatori economici in odore di leghismo, avevano ricevuto insistenti ispezioni della Finanza; ma se addirittura il custode della Costituzione era pronto ad avallare atti illeciti a danno di cittadini colpevoli soltanto di avere un’opinione politica diversa da quella dominante,dove andavano a finirele garanzie dello Stato di diritto?”.
Cossiga non ha mai querelato Miglio per queste affermazioni gravissime che denunciavano atti (la telefonata intimidatoria con i suoi corollari) che andavano ben oltre la violazione clamorosa del galateo istituzionale ma che non possono essere definiti altrimenti che criminali e che non hanno precedenti, nella pur nebulosa storia dell’Italia repubblicana e che in qualsiasi altro Paese avrebbero provocato l’avvio immediato di un procedimento di impeachment. Ma gli scricchiolanti partiti della Prima Repubblica, che stavano per essere abbattuti dai colpi di maglio della Lega e di Mani Pulite, si guardarono bene dal muovere orecchia, plaudirono anzi alle iniziative antileghiste e anti-magistratura così come oggi altri partiti, diversi nei nomi ma non nella sostanza, e le più alte cariche dello Stato lo beatificano come “Padre della Patria” e definiscono “insigne costituzionalista” un uomo che ha sistematicamente violato, e nei modi più gravi, la Costituzione (sia detto di passata: docente di Diritto Costituzionale Francesco Cossiga non ha mai scritto un rigo in materia se non, nel 1950, una nota sulla Rassegna di diritto pubblico che conteneva un clamoroso errore sulle attribuzioni dei Pubblici ministeri e nel 1969, fatto credo unico, il Consiglio di Facoltà dell’Università di Sassari, su richiesta degli studenti, gli revocò la cattedra dopo che il futuro “Presidente emerito” era stato bocciato due volte agli esami per diventare ordinario, per salvarlo gli inventarono una cattedra di “Diritto costituzionale regionale”).
Il grande difensore
IN COMPENSO , se picconava “il nuovo che avanza”, Cossiga difese fino all’ultimo isocialisti che dell’ancien régime e delle sue sozzure, delle sue tangenti, delle sue prevaricazioni erano considerati l’emblema. “Perché li difende?” gli chiesi una volta che mi aveva invitato al Quirinale dolendosi per alcune critiche che gli avevo mosso. “Oh bella – rispose – perché i socialisti difendono me”. Che non mi sembra un bel modo di ragionare per un Presidente della Repubblica. Del resto nella Prima Repubblica, e proprio nel suo centro, la Democrazia Cristiana, aveva fatto tutto il suo “cursus honorum”. Lui stesso ammise, in un momento di rara lucidità, di essere “un puro prodotto dell’oligarchia”. Forse l’averlo confuso con un “picconatore” deriva dal fatto che negli ultimi due anni del suo settennato si mise a insultare, nel modo più gratuito e sguaiato, uomini politici e non, con cui aveva vecchie e nuove ruggini personali: “piccolo uomo e traditore” (il dc Onorato), “cappone” (il dc Galloni), “zombie con i baffi” (il pds Occhetto), “poveretto” (il dc Flamigni), “analfabeta di ritorno” (il dc Zolla), “mascalzone, piccolo e scemo” (il dc Cabras), “cialtrone e gran figlio di puttana”(Wallis,caporedattore della Reuter) e, infine, un onnicomprensivo “accozzaglia di zombie e di superzombie” appioppato all'intero Parlamento. Da allora si aprirono le cateratte e furono una serie di messaggi trasversali, cifrati, allusivi, intimidatori, secondo il suo miglior stile. Ricattò il governo con una grottesca e inapplicabile “autosospensione”, minacciò undici volte le dimensioni, minacciò una crisi perché due parlamentari si erano permessi di concedere un’intervista a La Repubblica, giornale a lui sgradito. Finito il suo mandato si sperò che di Francesco Cossiga non si sarebbe sentito parlare più. E invece ha continuato a mestare, a mandare messaggi trasversali, a creare partitini (l'Udr, l'Upr, l'Associazione XX settembre, il Trifoglio) che otterranno sempre percentuali di albumina, senza però dismettere mai quell’aria di arrogante superiorità che non si capisce bene su che si fondasse se non sul suo delirio narcisistico che tutto riportava a sé, tutto riferiva a sé, come se il mondo intero ruotasse intorno alla sua augusta persona. È stato un vecchio malvissuto. E noi non saremo così ipocriti da scrivere ora, perché è morto, cose diverse da quelle che scrivevamo quando era vivo.

il Fatto 19.8.10
Un appassionato di servizi e logge coperte
di Gianni Barbacetto

Fu a suo modo un anticipatore: le sue esternazioni hanno fornito il modello per gli attacchi a un potere dello Stato, la magistratura, che poi Silvio Berlusconi ha reso metodo di governo e programma politico
Francesco Cossiga non è stato, come molti vorrebbero farci credere, una simpatica lepre marzolina, un libero pensatore, un outsider della Repubblica, un coraggioso picconatore che ha aiutato il rinnovamento del Paese. No, Cossiga ha espresso perfettamente il senso profondo della politica italiana, è l’icona della Prima Repubblica che trapassa nella seconda e la legittima. È stato un anticipatore: dopo il rigoroso silenzio istituzionale dei primi anni al Quirinale, lo spirito del tempo si è impossessato di lui e lo ha spinto a forsennate esternazioni che hanno fornito il modello per gli attacchi a un potere dello Stato, la magistratura, che poi Silvio Berlusconi renderà metodo di governo e programma politico; e il suo linguaggio allusivo, violento e antistituzionale sarà in seguito la cifra politico-comunicativa di Umberto Bossi (e di tutti gli Sgarbi e gli Stacquadanii della variopinta scena italiana).
Doppia fedeltà
LA PRIMA REPUBBLICA , fino a Cossiga, riteneva che le cose sporche della politica italiana (rubare, avere doppie fedeltà, coprire logge segrete, impiegare l’eversione, utilizzare il terrorismo, ricorrere all’omicidio politico, fare le stragi, stringere patti con le mafie...) dovessero essere negate: si fa ma non si dice. L’ipocrisia era ancora il tributo che il vizio paga alla virtù. Dopo Cossiga, e compiutamente nella Seconda Rebubblica del Grande Corruttore, le cose sporche si rivendicano, il vizio vincente diventa virtù. Ecco perché Cossiga è il più postmoderno dei politici della Prima Repubblica, l’unico che potrà entrare nel Pantheon del nuovo regime. Giulio Andreotti ne ha fatte forse di peggio, ma si è mantenuto fedele allo stile del silenzio e del negare sempre anche l’evidenza. Ha mantenuto l’ordine dei valori, che pure ha tante volte trasgredito. Cossiga, forse aiutato anche dalle sue personalissime malinconie, quell’ordine l’ha sovvertito, rivendicando il lato oscuro della forza e diventando, al tempo stesso, il Grande Depistatore delle vicende nere che conosceva ma raccontava sempre a metà, mischiando verità e menzogna, con messaggi obliqui e avvertimenti inquietanti. Si dice: è stato un uomo dello Stato. Ma di quale Stato? Di quello segreto e sotterraneo che utilizzava le istituzioni democratiche come un simulacro entro cui impiantare i poteri reali che dovevano comunque condurre il gioco, al di là delle apparenze. Per questo è sempre stato un fan di Servizi segreti e logge massoniche, meglio se “riservate”. Perché erano (sono?) gli strumenti con cui la democrazia diventa apparenza, le istituzioni sono ridotte a mezzi. Una visione speculare a quella che della democrazia ha il comunismo, il Grande Nemico che Cossiga ha combattuto e che non a caso ha in più occasioni mostrato d’apprezzare: ma ciò che gli piaceva (come a Berlusconi) era quella volontà di potenza che riduce la democrazia a gioco di specchi. Quanti segreti porta con sé nella tomba. Non solo sul caso Moro. Era ancora un giovane e promettente sottosegretario alla Difesa con delega ai Servizi segreti, quando – con Andreotti ministro – trasformò il dossier sul golpe Borghese da “malloppone” a “malloppino”, decidendo gli omissis da apportare al rapporto sul progettato colpo di Stato da far scattare dopo la strage di piazza Fontana. Così fu coperto il ruolo degli apparati e furono salvati alcuni personaggi (tra questi, Licio Gelli, lasciato libero di far crescere la sua P2). Si tenne allenato sui rapporti tra eversione nera e Stato, andando poi a incontrare in Spagna, tra la fine del 1976 e l’inizio del 1977 (quando era ministro dell’Interno!) il latitante Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale e coinvolto (ma poi prosciolto, per carità) in ogni indagine sulle stragi, da piazza Fontana a Bologna.
Ordino e dispongo
DA PRESIDENTE della Repubblica, dopo gli anni del silenzio inaugurò la fase parossistica degli attacchi forsennati ai magistrati che osavano indagare sull’eversione e le stragi. Feroce contro Felice Casson (Gladio). Claudio Nunziata (bombe nere sui treni). Libero Mancuso (strage di Bologna). Al Csm, Cossiga si rivolgeva con la formula imperiale “Ordino e dispongo”, per chiedere provvedimenti disciplinari per le toghe colpevoli di aprire spiragli sui rapporti tra eversione e apparati di Stato. Grande Depistatore fino all’ultimo: ancora nell’agosto 2008 intorbida le acque e resuscita per Bologna la “pista internazionale”, in una lettera come al solito piena di allusioni, raccontando di valige palestinesi esplose per sbaglio. Per Cossiga, il golpista confesso Edgardo Sogno è “un patriota”. Chi invece chiede verità e giustizia merita solo disprezzo. Il 1° dicembre 1990, nelle stesse ore in cui i familiari delle vittime delle stragi sono davanti al Parlamento a manifestare in silenzio, con i nomi dei morti scritti sui loro cartelli, Cossiga va a rendere l’estremo omaggio a un altro morto, l’ex capo del Sid Vito Miceli, protagonista di quello Stato che continua a oscurare la verità e impedire la giustizia. L’ex presidente ha più volte proposto una strana pacificazione: il reciproco riconoscimento di brigatisti rossi e terroristi di sinistra da una parte, terroristi neri e combattenti anticomunisti dall’altra. Ma Cossiga sapeva bene che una “pacificazione” così congegnata è soltanto l’ultimo dei depistaggi. Non è stato tra loro il vero scontro in Italia: la guerra a bassa intensità è stata combattuta da gruppi armati e protetti dagli apparati dello Stato, da una parte; e dall’altra, a farne le spese, sono stati cittadini inermi e inconsapevoli che hanno avuto la sorte di trovarsi nel momento sbagliato nel salone di una banca, nello scompartimento di un treno, in una piazza, nella sala d’aspetto di una stazione; oppure sono stati servitori dello Stato, magistrati fedeli alla Costituzione, professionisti coraggiosi, eroi borghesi. Che pacificazione è mai possibile, allora, in questa asimmetria insanabile, quale scambio di prigionieri? Solo la verità potrebbe mettere davvero fine alla guerra che, in nome di legittime e nobili bandiere (la resistenza al comunismo) ha tradito la Costituzione e inferto ferite profonde alla democrazia. Cossiga ha scelto invece il silenzio. E attorno a lui ha vinto la rimozione e la cooptazione nel nuovo regime del personale politico protagonista di quella guerra. Così il non detto del passato, con i suoi segreti impronunciabili e i suoi ricatti, resterà a fare da trama al futuro e le vecchie ferite resteranno cicatrici nascoste, focolai di nuove infezioni.

Corriere della Sera 19.8.10
La tratta dei piccoli schiavi italiani
Saltimbanchi, prostitute, manovali: una pagina nera che arriva al XX secolo
di Gian Antonio Stella

«È cosa da rabbrividire l’udire le sevizie, i maltrattamenti, ai quali il padrone sottopone quei fanciulli, ove ritornino la sera a casa senza portare il guadagno ch’esso sperava, o quella somma che aveva loro imposto il mattino; le percosse, la fame, i tormenti sono il frutto delle loro fatiche». Vincenzo Isacco e Carlo Salvarezza, scrivendo il loro «Commentario della legge di pubblica sicurezza del 20 marzo 1865» non trattenevano rabbia e compassione. Così come vibrava d’indignazione in Parlamento la voce di Teofilo Rossi parlando di quei bimbi «percossi a sangue, torturati con ferocia, di altri morti per mazzate, di altri svenuti per fatica e fatti rinvenire a staffilate per far loro riprendere il lavoro, di altri impazziti di dolore sotto i colpi della cinghia del negriero crudele, di altri morti di stenti e di fame e per calci nell’addome ricevuti dagli operai».
Fu quello il destino di tantissimi bambini italiani. A partire dalla metà dell’Ottocento fin dentro il XX secolo. È una storia terribile. In larga parte rimossa. Per pudore. Per vergogna. Per la scelta indecente di non fare i conti col nostro passato. Nonostante ci avesse già raccontato tutto, ad esempio, Edmondo De Amicis nel «Piccolo Patriotta padovano» di Cuore, scrivendo di un bimbo «di undici anni, mal vestito, solo, che se ne stava sempre in disparte, come un animale selvatico, guardando tutti con l’occhio torvo. E aveva ben ragione di guardare tutti con l’occhio torvo. Due anni prima, suo padre e sua madre, contadini nei dintorni di Padova, l’avevano venduto al capo d’una compagnia di saltimbanchi; il quale, dopo avergli insegnato a fare i giochi a furia di pugni, di calci e di digiuni, se l’era portato a traverso alla Francia e alla Spagna, picchiandolo sempre e non sfamandolo mai».
A quella dolorosa epopea la storica Maria Rosa Protasi ha dedicato un libro denso di numeri, storie, testimonianze. Si intitola I fanciulli nell’emigrazione italiana (Cosmo Iannone Editore, pagine 267, 14) e dovrebbe essere letto nelle scuole. Per capire quanto sia falsa la tesi che «noi eravamo diversi». E rendere giustizia almeno con la memoria a quei nostri bambini che vissero l’inferno.
Erano altri tempi? Vero. Nell’Europa di fine ’800 «l’età minima di ammissione al lavoro di fabbrica era: 10 anni in Spagna e Danimarca; 11 in Inghilterra; 12 in Russia, Austria, Olanda, Portogallo, Svezia, Belgio, Ungheria; 13 in Francia e Germania; 14 in Svizzera e Norvegia» e 9 da noi. La «tratta dei fanciulli», però, era soprattutto italiana. E in certe aree poverissime era una piaga. Come a Bagni di Lucca, «una delle località di reclutamento dei figurinai» dove soltanto fra il 1896 e il 1897 partirono «417 figurinisti, di cui 87 come padroni e 330 fra apprendisti». O a Mezzanego, Appennino ligure, dove secondo il procuratore del Re presso la Corte d’Appello di Genova «tre quarti delle famiglie affitta i propri ragazzi, come suonatori, espositori di bestie etc. Vi sono 17 incettatori di cotesti fanciulli ridotti a merce. Le notizie che di loro giungono al paese sono per lo più desolanti».
Venduti o affittati, i piccoli finivano sui mercati dell’agricoltura francese («A Barcellonette, in alta Provenza, il mercato dei bambini si teneva il 20 aprile e coinvolgeva annualmente dai 300 ai 400 minorenni»), nei cantieri edili svizzeri o tedeschi, nelle miniere, nelle vetrerie francesi... Quale fosse il loro destino ce lo spiega La Basilicata e il Nuovo mondo di Enzo Vinicio Allegro: «Per testimonianza di un medico napoletano, su 100 fanciulli dei due sessi che abbandonano i loro villaggi, 20 soltanto ritornano alle loro case, 30 circa si stabiliscono nelle diverse parti del mondo e 50 soccombono alle malattie, alle privazioni di ogni sorta ed ai cattivi trattamenti!».
Moltissimi, come denunciava il diplomatico Raniero Paulucci de Calboli («già fin dal 1873 il "New York Times", e più tardi, nel 1885, il "Philadelphia Times", calcolavano a 80.000 i fanciulli italiani d’ambo i sessi appartenenti a quella categoria di girovaghi da cui escono i delinquenti e le prostitute») finivano in America. «Nella folla molteplice che empie i transatlantici diretti a Boston c’è sempre una piccola porzione di giovinetti i quali pongono la Società in serio imbarazzo», spiegava nel 1906 un certo padre Roberto Biasotti descrivendo l’attività della società umanitaria San Raffaele. «Lo sfruttamento del minorenne esportato non è una privativa delle vetrerie francesi. Anche in America si pratica su larga scala e con mezzi tali che sfidano la legge perché coperti dal manto della legalità! La legge vieta lo sbarco ai giovani sotto i 17 anni compiti, se non siano accompagnati o diretti dai parenti. Ma qui i parenti si fabbricano con una velocità allarmante...». Era bestiale, il lavoro nelle vetrerie: «Questi ragazzi», spiegò in Parlamento il sottosegretario Scipione Ronchetti, «per nove decimi diventano tubercolotici e quelli che sopravvivono al guardarli fanno fremere d’orrore».
Per non dire delle «fanciulle e giovani donne italiane coinvolte nei circuiti illegali dell’emigrazione a scopo sessuale». Quelle del Nord finivano soprattutto nei bordelli europei, quelle del Sud venivano avviate sui mercati dell’Africa mediterranea: «Le province napoletane, specie quella di Benevento, rifornivano ad esempio l’Egitto, mentre quelle siciliane avevano rapporti privilegiati con la Tunisia». Il deputato toscano Ettore Socci era allarmatissimo: «Il maltrattato fanciullo d’oggi sarà il delinquente o l’anarchico di domani. Se il ragazzo cresciuto nel rigagnolo della strada esposto a tutte le intemperie del cielo e a tutta la brutalità degli uomini; se il piccino che non ha da dormire né da mangiare e in pieno inverno vede passare nella carrozza di una gran signora, un canino ravvolto nelle pellicce ed egli ha freddo, e trema e soffre, concepisce l’odio più feroce verso la società e viene il giorno in cui scaglia una bomba, parliamoci chiaro, siamo noi che gliela abbiamo fatta lanciare».

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