martedì 17 agosto 2010




Il Fatto 17.8.10

Il Dio d’America
di Furio Colombo

La decisione sarà ricordata negli Stati Uniti e nel mondo. Barak Obama, presidente di quel Paese, ha detto sì alla richiesta di un gruppo islamico che intende costruire una moschea nell'area di New York detta “Ground Zero”. È stato dato questo nome all'immenso cumulo di macerie di due grattacieli e alcuni edifici colpiti da aerei dirottati ed esplosi in volo da terroristi islamici. I due grattacieli erano i più alti del mondo. Erano il simbolo della forza e della potenza americane. Sono stati colpiti e distrutti con un'operazione tanto criminale quanto riuscita. E con una forte intenzione politica e religiosa: colpire, uccidere, morire, pregando un Dio – Allah – eletto a nemico del Dio d'America. Il Dio d'America è il Dio cristiano. Molti cristiani nel mondo lo pensano come il vendicatore della loro fede unica e vera. E cercano sempre un condottiero che li guidi alla guerra santa. Barak Obama, presidente del Paese più cristiano del mondo, ha fatto sapere subito che lui non può essere quel condottiero. Non può perché la Costituzione americana non glielo permette. Non solo quella Costituzione prevede una rigorosa separazione tra Stato e Chiesa. Prescrive anche, con altrettanta precisione e rigore, che non potranno mai esservi distinzioni a favore di un credo contro un altro credo. Nel confermare la sua fedeltà alla Costituzione, Obama ha intercettato e offeso i sentimenti fortemente contrari (tutti sanno che l'attacco ha voluto essere “islamico”) della maggioranza dei cittadini americani. Ma anche i nervi tesi e scoperti delle famiglie delle vittime. La risposta di Obama non è stata: “Molti islamici lavoravano nelle Torri e sono morti con ebrei e cristiani in quell'attacco”. La risposta è stata: “Questa è l'America, come è stata pensata dai suoi Padri fondatori. Questa è la sua Costituzione. Questo è il suo presidente”. Obama avrà pensato, in quel momento, al bel libro con cui John Fitzgerald Kennedy si era presentato alla campagna presidenziale del 1960. Il libro “Profili nel coraggio” era l'elogio dei pochi grandi leader della storia capaci di decisioni non volute dai cittadini, però necessarie e giuste. Oggi Barak Obama si è aggiunto alla breve lista di eroi della politica compilata da Kennedy. L'imprudenza politica di Obama è grande. È il rischio di perdere il favore che finora l'ha sostenuto. Ma con lui l'America fa un altro passo avanti nella Storia.

Repubblica 17.8.10
Come s’inventa un sogno
Da Shakespeare a Freud, l'inconscio della letteratura
di Antonia S. Byatt

Io posso narrare certe cose solo entrando in uno stato di vacuità assoluta
La scrittrice inglese racconta il rapporto tra l´immaginazione artistica e l´attività onirica
I surrealisti fanno un tentativo sistematico di attingere alla realtà irrazionale

Pubblichiamo parte di un testo apparso su The Times della scrittrice inglese autrice di Possessione (Einaudi)

Questa mattina, quando mi sono svegliata, ho cercato di afferrare il sogno che si andava dissolvendo. Ho avuto quella familiare sensazione per la quale si cerca di restare addormentati per scoprire ciò che sta per succedere, come accade allorché si cerca di restare svegli per leggere ancora un po´. Ero accovacciata in cima a un alto armadio, e sapevo che se solo avessi potuto restare addormentata per un po´ avrei trovato il modo di scenderne. (...) Una delle caratteristiche della maggior parte dei sogni sembra essere proprio il fatto che chi sogna è e al contempo non è la persona coinvolta. Io mi trovavo sull´armadio e al tempo stesso osservavo qualcuno che era sull´armadio per capire che cosa sarebbe accaduto. Secondo alcune teorie, ricordiamo i sogni in maniera temporanea in quanto il cervello li utilizza per riorganizzare e far piazza pulita di emozioni e ricordi non necessari. Secondo altre ipotesi, invece, - dai sogni dei profeti biblici alla pratica di Sigmund Freud - ciò è vero a partire dal presupposto che in sogno si rivelano le cose che hanno un significato molto importante nella vita reale. Ho un amico che per anni ha preso nota dei propri sogni, collezionandoli e conservandoli in una valigetta, per arrivare infine alla conclusione che in essi non vi era alcun significato o ordine evidente. (...)
Le forme della letteratura e le forme dei sogni si assomigliano e si modificano reciprocamente, in entrambi i sensi. Molti grandi testi medievali furono "visioni oniriche", nelle quali chi si abbandonava al sogno entrava in paesaggi allegorici - giardini, luoghi rocciosi - pieni di significati interpretabili, nei quali si potevano incontrare angeli e spiriti, le cui azioni erano di fatto messaggi relativi al mondo reale. Io sono certa che i sognatori medievali in qualche caso plasmarono i loro sogni reali per adeguarsi a queste forme. Le due commedie di Shakespeare - più sue di altre, meno ispirate da altre fonti - sono Sogno di una notte di mezza estate e La tempesta. In entrambe il mondo onirico e le metafore ispirate dai sogni sono efficaci e potenti in modo peculiare. Il bosco magico nel quale si aggirano i personaggi della prima, trasformati e blanditi da fate irresponsabili, è di per sé un mondo onirico, all´interno del quale Bottom il Tessitore, trasformato in un somaro, ha un sogno all´interno di un altro sogno: «Ho avuto una mirabile visione. Ho fatto un sogno, tale che non basta il senno umano a spiegare com´era: c´è da fare una figura da somari a tentar d´interpretare questo sogno». Nella Tempesta, invece, Prospero fornisce la classica descrizione dell´eterno sentire umano, secondo cui tutta la realtà altro non è che sogno: «Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno».
I surrealisti effettuarono un tentativo sistematico di attingere all´"altra" realtà irrazionale del mondo dei sogni, registrando nei minimi particolari i sogni che facevano, realizzando immagini di fusioni impossibili tra animali e umani, macchine e carne. Si ispirarono molto alle nuove ricerche della psicanalisi, anche se Freud rimase poco interessato - in maniera quasi deludente - allorché André Breton cercò di fargli visita a Vienna. (...)
Io ho scoperto di poter inventare sogni per i miei personaggi se mi calo in uno stato di vacuità assoluta, se non osservo assolutamente nulla tramite i presunti occhi dei miei personaggi. Ciò è ben diverso dall´"inventare" un sogno per sostenere la trama alla quale si sta lavorando. Quel genere di attenzione, priva di concentrazione specifica e tuttavia intensa, necessaria a creare immagini per scrivere, ha una peculiare relazione con l´immaginario onirico, e può effettivamente immaginare sogni irreali, credo. L´attività onirica - come ci ha insegnato Freud - è molto vicina alla creazione di metafore concentrate e all´invenzione linguistica dell´arte.
Freud è molto interessante per quelli che egli definisce Traüme von Oben, sogni dall´alto, "grandi sogni". Si tratta di sogni che racchiudono un significato, in modalità non così lontane dalle visioni oniriche medievali inventate. Il 10 novembre 1619 Cartesio ebbe tre sogni che a suo dire cambiarono la sua vita. Nel primo, pur facendo di tutto per entrare in una chiesa, era respinto indietro da terribili e dolorose folate di vento. Nel secondo si trovava in una stanza piena di lampi e scintille luminose. Nel terzo gli era proposto di scegliere tra due libri: il primo era un succinto dizionario, l´altro - gli fu riferito - conteneva invece tutta la poesia e la scienza della conoscenza. Egli riconobbe due citazioni latine - Est et non ("È e non è") e Quod vitae sequabor iter ("Quale vita intendo seguire"). Egli preferì il volume di scienza e poesia in luogo del dizionario e affermò che quella visione confermò la sua scelta di dedicare la propria vita alla ricerca filosofica e matematica. Nel 1929 Maxime Leroy, che studiava Cartesio, inviò la descrizione di questi sogni a Freud, chiedendogli di interpretarli. Freud rispose che si trattava di sogni dall´alto, sogni che pensavano, nei quali l´interpretazione stessa dell´individuo sognante era quella giusta.
(...) Nel quinto libro del Preludio, Wordsworth descrive un sogno nel quale colui che sogna - solo e nel deserto - vede la figura di un arabo con una lancia in groppa a un cammello. Quel personaggio offre al sognatore una pietra e una conchiglia, che egli definisce "elementi di geometria euclidea" e un libro di poesia divinatoria. Egli intende seppellire questi "libri" perché la distruzione è prossima, ma il sognatore avvista una linea argentata avvicinarsi impetuosa: è la linea "dell´acqua di un mondo in esondazione".
Questo sogno racchiude molteplici significati, la scelta di Cartesio, Don Chisciotte e la sua lancia, l´idea di Notti arabe, con un gioco di parole rispetto a Cavalieri arabi (gioco di parole in inglese tra Night/Knight, notte/cavaliere, che hanno la medesima pronuncia, NdT). Il quinto libro si intitola Libri e le Notti arabe sono già citate come elemento fondamentale nella formazione della mentalità del poeta. Questo sogno è un "grande sogno", nel quale persone e cose sono una forma di pensiero intenso. Si tratta anche di grande letteratura, in forma onirica.
Traduzione di Anna Bissanti
segnalazione di Rosalba Zubcich

Repubblica 17.8.10
"Non sapevo fare altro sono diventato giornalista"
I 90 anni di Bocca il provinciale che racconta l'anomalia Italia
intervista di Marco Cattaneo

Ha attraversato la storia d´Italia raccontandola con articoli e libri che hanno segnato un´epoca A fine mese compie 90 anni: "Oggi mi sento rassegnato siamo un Paese senza redenzione"
"C´era da fare la guerra partigiana e l´ho fatta ma ho un lato grigio: sono attaccato ai soldi"
"Dio? Ci sarà anche ma se devo fare una fatica così grande per cercarlo ne faccio a meno"

MILANO. A fine mese Giorgio Bocca compirà 90 anni. Sul lungo tavolo del suo studio intravedo le bozze del nuovo libro che uscirà a settembre per la Feltrinelli. Sbircio il titolo: Fratelli Coltelli, l´Italia che ho visto e ho raccontato, 1945-2010. Le mani di Bocca sfiorano quel grosso plico. È come se lì dentro si raccogliesse la parte fondamentale della sua vita, nelle diverse espressioni: come provinciale, partigiano, giornalista, scrittore, moralista. Quante cose ci sono in quest´uomo che ha conservato lucidità di ragionamento, amarezza, indignazione per il modo in cui le cose sono andate a finire e quel tanto di nostalgia che nel nostro lungo incontro torna come una donna che non si riesce a dimenticare.
Siamo più fratelli o coltelli?
«Nei momenti difficili, quando tutto sembra perduto, l´italiano ritrova la solidarietà e la partecipazione alla vita civile. Siamo un popolo che riscopre il valore nell´eccezione. Mettilo nella normalità ed è il peggiore della terra».
Perché?
«Abbiamo forse una soglia dell´etica molto alta. Io ho avuto la fortuna di scoprirla grazie all´impegno partigiano e al Partito d´Azione. Era l´epoca dei condannati a morte della resistenza. Gente che scriveva alle famiglie dicendo: "domani mi fucilano, ma state tranquilli ce la faremo a realizzare un´Italia migliore". È incredibile cosa veniva fuori da quelle esistenze».
Cos´è per lei l´etica?
«Semplice: non rubare, non mentire, insomma essere onesti. Sono virtù evangeliche da applicare nello studio, nella professione, nella vita».
Lei ha studiato giurisprudenza.
«Non l´ho finita, mi mancavano tre esami».
Voleva fare l´avvocato?
«Era una scelta provinciale. Ma cosa avrebbe dovuto fare uno di Cuneo? Poi arrivò la guerra partigiana che scompigliò i progetti».
C´era il fascismo.
«A Cuneo non fu una cosa feroce. Sembrava di vivere in un piccolo mondo di cartapesta e la sensazione che provai nel momento in cui mi si offrì l´opportunità di uscire da questa Italia finta fu straordinaria».
Come maturò la sua decisione?
«Fu un processo lento che iniziò con il corso del 1939 di allievo ufficiale alpino. Lì incontrai i primi intellettuali antifascisti e scoprii improvvisamente il significato delle parole democrazia e libertà».
Quella democrazia alla quale aspirava si è realizzata?
«Solo in parte. Se guardo l´Italia di oggi, mi appare irriconoscibile rispetto a quella che uscì dai valori della resistenza».
Non c´è un po´ di retorica?
«La memoria si serve anche di un pizzico di retorica. Arrivo a dire che quella Italia era povera e onesta perché c´era poco da rubare. L´Italia del capitalismo avanzato e dei giochi della finanza è una fabbrica di beni, un emporio di mercanzie che in molti vogliono saccheggiare».
Trova detestabile il consumismo?
«Nella maniera più assoluta. La provincia e la guerra partigiana mi hanno insegnato ad essere essenziale».
Anche la sua prosa giornalistica è asciutta, essenziale appunto.
«Il giornalismo è quello che vedi, ma anche quello che hai già nella testa».
Perché ha scelto questo mestiere: per vocazione, per caso, per necessità?
«Fu vocazione totale. Ma nel senso peggiore. Cioè di chi non sa fare nulla di diverso. Quindi fu anche una necessità e il caso, infine, ha voluto che io diventassi giornalista».
Quanto conta il caso nella vita delle persone?
«Il caso fortunato ti arriva due o tre volte nella vita e devi essere pronto a riconoscerlo. Altrimenti starai fino alla fine dei tuoi giorni a pentirti. Io lo incontrai con il giornalismo e il Partito d´Azione. Se non coglievo l´occasione sarei rimasto a Cuneo tutta la vita, a giocare a bigliardo e a fare, se mi andava bene, l´avvocato».
Cos´è scrivere per lei?
«Eseguire un compito senza orpelli».
Chi sono gli scrittori che le piacciono?
«Hemingway, Calvino, Fenoglio. Non mi piace Pavese».
Ha mai desiderato scrivere un romanzo?
«Non ne sarei capace. Ho anche, in un paio di occasioni, provato a scriverne, ma alla seconda pagina mollavo. Non capisco la finzione. Per quanto io possa aver praticato una scrittura saggistica, vicina alla forma del romanzo, non sono mai riuscito a entrare nel genere».
Scrivere è raccontare quello che si vede?
«Sì, non credo all´inventato».
Non prova nessuna attrazione per l´invisibile?
«Se resta tale no».
Anche se l´invisibile prende il nome di Dio?
«Per il mio spiccato senso pratico mi ha sempre infastidito questo Dio nascosto che non si fa vedere. Ma fatti vedere! Fatti riconoscere! Mi verrebbe da dirgli».
Un credente le replicherebbe che è un problema di fede.
«La fede è un sentimento poco razionale e difficilmente difendibile con argomenti fondati. Quando vedo nell´universo rotolare senza alcun senso dei globi, la disperazione mi avvinghia. E mi chiedo: "ma che razza di mondi ha creato questo Dio?" E non hai nessuna risposta convincente davanti alla scoperta che solo da noi c´è vita, mentre in tutto il resto dell´universo c´è solo ammoniaca e metano».
Che definizione darebbe di sé?
«Oscillo tra alcuni aspetti di me che ritengo nobili e altri abitudinari e provinciali».
Concretamente cosa significa?
«Sono uno che quando c´era da fare la guerra partigiana l´ha fatta. Ma sono anche attaccato ai soldi e al mangiar bene. Sono abitato da piccole pigrizie mentali. Insomma c´è in me un lato grigio col quale convivo».
Non è colorabile?
«Direi di no, visto che non ci sono riuscito in tutti questi anni».
Ma questo attaccamento ai soldi è un po´ curioso in una persona che non si è mai lasciata condizionare da niente. Non trova?
«Per i soldi sono semplicemente prudente. Però vedo anch´io la contraddizione: sono un mix di alte qualità e di mediocrità».
Abbiamo tutti qualcosa di mediocre.
«Ma io parlo per me. Non ho scelto di essere eroico quando l´occasione si è presentata. Sono stato costretto a comportarmi da eroe. Voglio dire che l´occupazione tedesca è stata per me una manna, mi ha obbligato ad essere coraggioso».
È stata dura la guerra partigiana?
«Dura e insieme una straordinaria e meravigliosa vacanza».
Che cosa le ha insegnato?
«Ho capito che ero negato al comando degli uomini. Ho fatto molte missioni rischiose. Alcune le ho dirette. Ma è stata una grande sofferenza sapere che da una tua decisione dipendeva la vita di altre persone».
Cos´è che non le piace del comando?
«La finzione e i rituali che il potere innesca. Sono sempre fuggito dal potere, dai suoi condizionamenti, dai suoi compromessi. Meglio la libertà dai vincoli».
Quanta anarchia c´è in questa affermazione?
«Molta. L´intollerabilità alla disciplina era in me un fatto spontaneo. Il che non mi ha impedito, da buon piemontese, di fare sempre il mio dovere, anche nelle situazioni più difficili».
Ha mai provato il sentimento della paura?
«Tantissime volte. Sia nella guerra partigiana che in quelle in cui andavo come inviato. Ricordo che durante la "Guerra dei sei giorni", nel bel mezzo di una tregua, ci spingemmo con una camionetta sino al Canale di Suez. Dormivamo sulla sabbia in un freddo terrificante, quando gli egiziani, dall´altra parte del Canale, cominciarono a spararci colpi da mortaio. Non è stato piacevole».
Cosa prova oggi davanti a quegli episodi?
«Mi fanno ripensare soprattutto alla mia immoralità. Avevo una moglie e una figlia. Ma per il giornalismo ero disposto a piantare tutto e andare via per mesi. Rischiando la pelle, spesso inutilmente. Quando ero a Saigon, uscivo la sera. Il portinaio dell´albergo cercava di dissuadermi: "non esca, o perlomeno non si porti molti soldi, in giro ci sono solo ladri, puttane e assassini" diceva. Ma io sono sempre stato un uomo di rischio e il gioco per me era di non avere paura della paura».
Lei ha raccontato questo paese in lungo e in largo. Con speranza, delusione, rabbia. Si può dire che con gli anni Sessanta comincia la grande trasformazione?
«Per me l´Italia è cambiata nel momento in cui sono diventato vecchio. Prima di allora ho sempre coltivato la speranza che questo paese attraverso i suoi uomini migliori ce la potesse fare. Ora ho l´impressione che siamo finiti nella merda. Gente che ruba, gente che sta al governo ed è intrinseca al potere mafioso. I romanzi spesso raccontano di dannati che alla fine si redimono. Qui non vedo nessuna redenzione».
La causa?
«Il fattore principale è l´abbondanza. C´è ancora molto da rubare».
La scopriamo pauperista?
«Non sono religioso, ma come insegna il Vangelo la povertà non è un difetto. Un po´ di castità e di risparmio farebbe bene alla nostra società. E anche un po´ meno televisione, che ha contribuito a questa mutazione antropologica, per cui gli italiani sono diventati irriconoscibili».
Lei guarda la televisione?
«Purtroppo sì, la sera mi metto davanti allo schermo».
Si indigna?
«No, provo un senso di schifo. Se fossi più giovane troverei le ragioni di combattere e di sperare nuovamente. Ma sono vecchio e mi sento molto rassegnato».
Ma cos´è questa vecchiaia che la incatena?
«È non avere più la forza necessaria. Il che per uno che è stato sempre molto attivo è una bella seccatura».
Tutto qui?
«È anche il prosciugarsi dei desideri. Quando ero giovane prima di addormentarmi conquistavo sempre un impero. Adesso al massimo conquisto un po´ di sonno».
Sogna?
«No, almeno non ricordo e quelle poche volte che accade sono sogni strani, quasi degli incubi. Ma non mi preoccupo più di tanto. La sola cosa che rimpiango è l´assenza del desiderio. Non sono più giovane, non ho appetito, le donne non mi interessano più. Capisce? Tutto è diventato molto noioso».
Però scrive.
«È vero, almeno da quel lato mi è andata bene. Non mi sono rincoglionito».
E Dio - per tornare sull´argomento - lo ha proprio escluso del tutto?
«È lui che ha escluso me. Capisco il bisogno di cercarlo. Ma non capisco tutta la fatica che ci vuole. Sono amico di alcuni teologi, ma non mi hanno convinto della necessità di cercare questo Dio nascosto. Ci sarà anche, ma se devo fare una fatica così grande per trovarlo, ne faccio a meno».
Cosa prevede per i suoi novant´anni?
«Ho un po´ paura dei festeggiamenti. Li trovo ridicoli. E poi non sai mai se quello che ti accade intorno sia sincero oppure no. Di cosa dovrei rallegrarmi? Sono un giornalista al tramonto, il cui mestiere - per come lo svolgevo - è morto. Non avrei del resto più la forza per giustificarlo».
Senza retorica, lei rimane un grande giornalista.
«Sa, il giornalismo non è come la filosofia o la religione, alle quali ti puoi attaccare anche quando sei sul letto di morte. Comunque meglio che se mi dicessero: sei stato un fesso».
Lei è davvero così burbero e di poche parole come pensa larga parte di chi la conosce?
«Nell´intimo, diciamo affettivamente, mi sento un napoletano. Se appaio burbero e di poche parole è perché a volte mi sento a disagio».
Un timido?
«Diciamo un piemontese dal carattere un po´ difficile».

Corriere della Sera 17.8.10
L’agenda bioetica del governo trova consensi tra i cattolici del Pd
L’apertura di Fioroni e altri tre. No dal finiano Della Vedova

ROMA — «Sono convinto che anche l’agenda biopolitica possa entrare nella verifica di governo» ha detto ieri il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, in un’intervista ad «Avvenire», quotidiano della Conferenza episcopale italiana. Mettendo accanto a giustizia, fisco, federalismo e Mezzogiorno anche «la tutela della vita umana, dal momento in cui si forma, nelle condizioni di massima disabilità e nella sua fase conclusiva, i problemi dell’uso dell’umano come materiale biologico e il rapporto tra ricerca scientifica ed etica». Oltre al principio di sussidiarietà per una società che deleghi sempre meno compiti allo Stato.

E dall’opposizione partono commenti positivi. «Se la politica non fosse dominata da urla e ricatti, una simile riflessione dovrebbe entrare a pieno titolo non solo nella verifica di maggioranza ma nel dibattito parlamentare» dice Giorgio Merlo del Pd. Segue il collega Tommaso Ginoble: «I cattolici democratici sono pronti a raccogliere l’appello di Sacconi, torniamo a occuparci delle questioni centrali del nostro Paese». Per il senatore Pd Lucio D’Ubaldo «il dialogo suggerito da Sacconi sui temi etici e sul riordino del welfare è una sfida per tutti, specie per coloro che ispirano il proprio impegno ai valori cristiani». Dall’Udc l’onorevole Luca Volontè si augura che «i buoni propositi di Sacconi sui temi eticamente sensibili trovino seguito nei calendari d’aula».

Un trend confermato anche da Giuseppe Fioroni: «Credo che sui temi di biopolitica e di politica etica non si debbano fare speculazioni o campagne elettorali, ma occorra cercare con serenità un dibattito aperto in Parlamento a cui il Pd parteciperà attivamente». Su questo versante appare dunque meno probabile una condivisione di idee con l’ala finiana di Futuro e Libertà per l’Italia, orientata su posizioni più laiche. «I finiani sono ancora oggetti misteriosi, che penserà questo nuovo gruppo parlamentare lo vedremo poi. Andiamo per gradi. Prima di pensare a nuove maggioranze pensiamo a quella che c’è, sconvolta da faide interne. Vediamo come si mette per loro, poi tra l’Udc e Fini, e solo allora potremo occuparci del rapporto tra Fini e il Pd». Ma una cosa già la sa: «Le mie posizioni lui le ha sempre considerate troppo rigide».

Convergenze e divergenze vengono confermate dalle parole di Beatrice Lorenzin. «Su questi temi fondamentali c’è un’evidente maggioranza a favore della vita pronta ad esprimersi, dal biotestamento alle forme di aborto far macologi co», dichiara l’onorevole Pdl. Mentre il molto finiano Benedetto Della Vedova ribatte che «se vogliamo fare, da persone responsabili, un patto tra ex amici, parlo di Fini e Berlusconi, per dare al Paese un semestre di riforme, dobbiamo comportarci da persone serie e non mettere in campo temi che non sono nel programma di governo e che dividono».

Della Vedova, che ha appena proposto una riforma che comprende eutanasia, riconoscimento delle coppie omosessuali e smantellamento della legge 40 sulla fecondazione assistita, aggiunge che «accettare che questi temi entrino nella verifica di governo risponde alla logica dell’ autoribaltone, del cercare lo scontro e non l’incontro, per forzare la mano». E ricambia l’appello di Sacconi con un altro: «Confrontiamoci su fisco, sviluppo, liberalizzazioni, sul federalismo come disegno nazionale, sulla riforma degli ammortizzatori sociali e sull’attuazione del libro bianco. Il resto è un fuor d’opera».

Corriere della Sera 17.8.10
«Dialogo sulla bioetica» Cattolici pd con Sacconi
L’apertura di Fioroni e altri tre. No dal finiano Della Vedova
di Giovanna Cavalli

«Sono convinto che anche l’agenda biopolitica possa entrare nella verifica di governo» ha detto ieri il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, in un’intervista ad «Avvenire», quotidiano della Conferenza episcopale italiana. Mettendo accanto a giustizia, fisco, federalismo e Mezzogiorno anche «la tutela della vita umana, dal momento in cui si forma, nelle condizioni di massima disabilità e nella sua fase conclusiva, i problemi dell’uso dell’umano come materiale biologico e il rapporto tra ricerca scientifica ed etica». Oltre al principio di sussidiarietà per una società che deleghi sempre meno compiti allo Stato.

E dall’opposizione partono commenti positivi. «Se la politica non fosse dominata da urla e ricatti, una simile riflessione dovrebbe entrare a pieno titolo non solo nella verifica di maggioranza ma nel dibattito parlamentare» dice Giorgio Merlo del Pd. Segue il collega Tommaso Ginoble: «I cattolici democratici sono pronti a raccogliere l’appello di Sacconi, torniamo a occuparci delle questioni centrali del nostro Paese». Per il senatore Pd Lucio D’Ubaldo «il dialogo suggerito da Sacconi sui temi etici e sul riordino del welfare è una sfida per tutti, specie per coloro che ispirano il proprio impegno ai valori cristiani». Dall’Udc l’onorevole Luca Volontè si augura che «i buoni propositi di Sacconi sui temi eticamente sensibili trovino seguito nei calendari d’aula».

Un trend confermato anche da Giuseppe Fioroni: «Credo che sui temi di biopolitica e di politica etica non si debbano fare speculazioni o campagne elettorali, ma occorra cercare con serenità un dibattito aperto in Parlamento a cui il Pd parteciperà attivamente». Su questo versante appare dunque meno probabile una condivisione di idee con l’ala finiana di Futuro e Libertà per l’Italia, orientata su posizioni più laiche. «I finiani sono ancora oggetti misteriosi, che penserà questo nuovo gruppo parlamentare lo vedremo poi. Andiamo per gradi. Prima di pensare a nuove maggioranze pensiamo a quella che c’è, sconvolta da faide interne. Vediamo come si mette per loro, poi tra l’Udc e Fini, e solo allora potremo occuparci del rapporto tra Fini e il Pd». Ma una cosa già la sa: «Le mie posizioni lui le ha sempre considerate troppo rigide».

Convergenze e divergenze vengono confermate dalle parole di Beatrice Lorenzin. «Su questi temi fondamentali c’è un’evidente maggioranza a favore della vita pronta ad esprimersi, dal biotestamento alle forme di aborto far macologi co», dichiara l’onorevole Pdl. Mentre il molto finiano Benedetto Della Vedova ribatte che «se vogliamo fare, da persone responsabili, un patto tra ex amici, parlo di Fini e Berlusconi, per dare al Paese un semestre di riforme, dobbiamo comportarci da persone serie e non mettere in campo temi che non sono nel programma di governo e che dividono».

Della Vedova, che ha appena proposto una riforma che comprende eutanasia, riconoscimento delle coppie omosessuali e smantellamento della legge 40 sulla fecondazione assistita, aggiunge che «accettare che questi temi entrino nella verifica di governo risponde alla logica dell’ autoribaltone, del cercare lo scontro e non l’incontro, per forzare la mano». E ricambia l’appello di Sacconi con un altro: «Confrontiamoci su fisco, sviluppo, liberalizzazioni, sul federalismo come disegno nazionale, sulla riforma degli ammortizzatori sociali e sull’attuazione del libro bianco. Il resto è un fuor d’opera».

Corriere della Sera 17.8.10
I novecentomila «invisibili» senza studio né lavoro
Un giovane su sei risulta fuori da ogni attività
di Sergio Rizzo

Il 18 per cento nella fascia tra 15 e 29 anni ufficialmente non studia e non cerca lavoro
Invisibili per la scuola o l’università, l’Inps, il fisco, gli uffici di collocamento. Sono i 641 mila giovani italiani fra i 15 e i 24 anni che non studiano, non lavorano ma nemmeno lo cercano, il lavoro. E la cifra arriva fino a quota 908 mila, se si estende la fascia di età fino a 29 anni. E’ quanto emerge da uno studio di Confartigianato. ROMA — Pure loro sono tecnicamente «invisibili». Ancora più degli esponenti di quelle tante categorie di lavoratori autonomi che non hanno protezione sociale. Invisibili per la scuola o l’università, l’Inps, il fisco. Perfino per gli uffici di collocamento. Sono i 641 mila giovani italiani fra i 15 e i 24 anni che non studiano, non lavorano ma nemmeno lo cercano, il lavoro. Un numero impressionante, considerando che si tratta del 10,5 per cento di tutte le persone di quell’età. E il bello è che di questi «invisibili» i due terzi circa sono al Sud: 415 mila, ovvero il 16,2 per cento di tutti i giovani meridionali. Quasi tre volte rispetto al Nord. Nelle regioni settentrionali coloro che si trovano in questa condizione sono 157 mila, ovvero il 6,5% del totale. Ancora meno, il 6,3 per cento, nel Centro: dove il loro numero non raggiunge i 70 mila, un sesto nei confronti del Mezzogiorno. Per un Paese sviluppato qual è il nostro si tratta di un fenomeno decisamente rilevante. Se poi la fascia d’età «giovanile» di estende dai 24 ai 29 anni, ecco che gli «invisibili» diventano addirittura 908 mila. E il loro peso sale ancora al 18,7% dell’intera popolazione italiana compresa in quella fascia d’età. Ciò significa che fino ai 29 anni è «invisibile» un giovane su sei.
Pure loro sono tecnicamente «invisibili». Ancora più degli esponenti di quelle tante categorie di lavoratori autonomi che non hanno protezione sociale. Invisibili per la scuola o l’università, l’Inps, il fisco. Perfino per gli uffici di collocamento. Sono i 641 mila giovani italiani fra i 15 e i 24 anni che non studiano, non lavorano ma nemmeno lo cercano, il lavoro. Un numero impressionante, considerando che si tratta del 10,5 per cento di tutte le persone di quell’età. E il bello è che di questi «invisibili» i due terzi circa sono al Sud: 415 mila, ovvero il 16,2 per cento di tutti i giovani meridionali. Quasi tre volte rispetto al Nord. Nelle regioni settentrionali coloro che si trovano in questa condizione sono 157 mila, ovvero il 6,5% del totale. Ancora meno, il 6,3 per cento, nel Centro: dove il loro numero non raggiunge i 70 mila, un sesto nei confronti del Mezzogiorno. Per un Paese sviluppato qual è il nostro si tratta di un fenomeno decisamente rilevante. Se poi la fascia d’età «giovanile» di estende dai 24 ai 29 anni, ecco che gli «invisibili» diventano addirittura 908 mila. E il loro peso sale ancora al 18,7% dell’intera popolazione italiana compresa in quella fascia d’età. Ciò significa che fino ai 29 anni è «invisibile» un giovane su sei.

Un segnale chiaro, secondo l’ufficio studi della Confartigianato che ha elaborato questi dati: con la crisi si è ancora accentuato nel nostro Paese il fenomeno della concorrenza sleale nei confronti delle piccole imprese regolari. Segnale che troverebbe conferma in altri dati preoccupanti. Per esempio la diminuzione del tasso di attività fra gli italiani della fascia d’età 25-54 anni. Fra il primo trimestre del 2008 e lo stesso periodo di quest’anno è calato dell’1,2 per cento, passando dal 78,2 al 77 per cento. E questo mentre negli altri Paesi europei, dove il tasso di attività dei cittadini non più considerati in età scolare né ancora pensionabili è superiore a quello nostrano, si registravano aumenti pur modesti. Anche qui, se il peggioramento ha riguardato tutta Italia, è al Sud che il fenomeno si è sentito di più: nel Mezzogiorno la flessione è stata del 2,5 per cento. La Confartigianato ha stimato che durante la crisi economica ben 338 mila adulti fra i 25 e i 54 anni siano usciti dalla forza di lavoro, e di questi ben 160 mila donne: categoria che da noi ha il poco invidiabile primato europeo del minore tasso di attività (appena superiore al 46 per cento). Ben 230 mila sfortunati, pari al 68 per cento dell’intera platea, sono meridionali: 143 mila uomini e 97 mila donne.

Considerando tutto il Paese, nel primo trimestre di quest’anno i maschi «inattivi» non più in età scolare ma non ancora pensionabili erano un milione 361 mila, contro 4 milioni 628 mila donne. Totale: 5 milioni 989 mila persone, il 10 per cento dell’intera popolazione italiana. Più di un milione dei quali (esattamente un milione 69 mila) nella sola Campania. In questa regione i maschi fra 25 e 54 anni «inattivi» sono 277 mila, il 21 per cento del totale.

Per non dire poi dell’aumento del lavoro «autonomo» irregolare o «abusivo», come lo definisce l’organizzazione degli artigiani. La quale ha calcolato, sulla base dei dati dell’Istat, che tra il 2008 e il 2009 il numero degli occupati indipendenti non regolari è aumentato dal 9,2 al 9,4 per cento del totale della forza di lavoro autonoma, raggiungendo 639.900 unità. Parliamo di una cifra pari al 62 per cento di tutti gli occupati indipendenti nel settore manifatturiero. Si tratta anche di una quantità di persone pressoché identica a quella dei giovani «invisibili» fra i 15 e i 24 anni. Una semplice coincidenza, ma significativa.

Secondo la Confartigianato il flusso del lavoro irregolare viene alimentato anche da politiche del welfare profondamente distorsive. L’indagine porta l’esempio dei sussidi di disoccupazione in agricoltura che spettano a chi ha lavorato in un anno almeno 51, 101 o 151 giornate secondo i casi. E non manca di citare il Rapporto di monitoraggio delle politiche occupazionali di due anni fa nel quale il ministero del Lavoro denuncia apertamente «distorsioni e comportamenti collusivi». Nel 2007 hanno goduto delle varie indennità di disoccupazione, secondo l’Inps, ben 504.377 individui, cioè il 48,9 per cento di tutti gli operai agricoli attivi in Italia. Ma se nel Nord Ovest la quota dei beneficiati non è andata oltre il 14,4 per cento, al Sud è arrivata a uno stratosferico 65,4 per cento del totale. Dei 504.377 operai agricoli sussidiati dall’Inps, ben 422.337, ossia l’83,7 per cento, è nel Mezzogiorno.

I ltop sitocca i n Cal a br ia , con 100.757 disoccupati: numero pari quasi ai tre quarti (il 74,3 per cento) di tutti gli operai agricoli calabresi. Su livelli paragonabili anche la Sicilia, dove i destinatari di trattamenti di disoccupazione sono stati nel 2007 ben 116.589, il 74,2 per cento del totale. Seguono la Puglia, con 111.049 beneficiati (il 60,3 per cento), e la Campania, con 63. 982 di s occupati (65,7 per cento). All’opposto, la Lombardia, dove nel 2007 sono state corrisposte appena 5.024 indennità (l’11,1 per cento).

Ma se le cose stanno così, come meravigliarsi se proprio la Calabria è l’area della penisola dove l’illegalità nel mercato del lavoro raggiunge i livelli più elevati? Sempre nel 2007, ha stimato l’Istat, i lavoratori «irregolari» erano i n quella regione il 27,3 per cento di tutti quanti gli occupati. E quel che è più grave, il loro numero risultava superiore dell’1,3 per cento rispetto a quello del 2001, anno nel quale il governo (allora presieduto da Silvio Berlusconi) aveva approvato una legge con l’obiettivo di favorire l’emersione delle attività in nero. Provvedimento che si sarebbe però rilevato un sostanziale fallimento, come dimostrano proprio questi dati.