giovedì 12 agosto 2010




Repubblica 12.8.10

L’intellettuale? È diventato inorganico
L´ultima metamorfosi al tempo del web
di Maurizio Ferraris

Oggi nasce al di fuori dei tradizionali organismi di legittimazione e sta in habitat quasi immateriali
Internet è sia la fonte da cui trae alimento sia il destinatario a cui si indirizza
La sua figura non morirà finché ci sarà un mondo fatto di scrittura e di registrazioni

Umberto Eco, nel suo Alfabeto per intellettuali disorganici che apriva Alfabeta2 (e che è uscito su la Repubblica dell´8 luglio) sostiene che "intellettuale" è chi svolge una attività non manuale accompagnata da ragione critica. Certo, ma vorrei sottolineare che questa attività si esercita necessariamente in pubblico e per iscritto, o con qualche altra forma di registrazione, cioè comporta l´uso di documenti.
Se Zola non avesse avuto un giornale su cui pubblicare il J´accuse, e un editore che stampasse i suoi romanzi, non sarebbe stato un intellettuale. Gli intellettuali dell´Ottocento, quelli che costituiscono l´emblema della categoria, erano anzitutto scrittori. A loro volta, erano gli eredi di chierici e di scribi, di mandarini e di notai. Per essere intellettuali non basta essere intelligenti: nessuno direbbe che un campione di scacchi è un intellettuale (e in più casi si può essere intellettuali senza essere intelligenti). E non basta nemmeno coltivare in privato un pensiero critico: bisogna esprimerlo, altrimenti resta nella sfera della coscienza, non in quella della opinione pubblica, come sapeva bene Federico il Grande, illuminato quanto si vuole, ma tiranno, che ai suoi sudditi diceva "Pensate come volete, ma ubbidite!". Ecco perché per essere intellettuali è necessario produrre documenti, ossia con testi che riguardano almeno due persone, un autore e un lettore.
Se cambiano i documenti e i loro luoghi di produzione (stampa, televisione, web) cambia l´intellettuale. L´evoluzione è pressappoco la seguente: l´intellettuale nasce organico, in un convento, in una scuola, e comunque in una società di cui condivide riti e miti. Diventa disorganico (ha la possibilità di farlo) solo a un certo punto, con un determinato sviluppo dei sistemi di scrittura e diffusione, cioè dei media. Ora, che cosa accade nel momento in cui - come è avvenuto negli ultimi trent´anni - si assiste a una esplosione della scrittura, dei documenti e dei sistemi di registrazione in generale (di ciò che propongo di chiamare "documentalità"), e in cui l´estensione ". doc" invade ogni angolo della nostra vita?
La mia ipotesi è che si faccia avanti un intellettuale inorganico, non nel senso che sia l´espressione di una "intelligenza collettiva" e disincarnata come quella profetizzata all´apparire del web. E neanche perché sia il frutto di quella "società della conoscenza" di cui tanto si è parlato, ma che è poco più che una figura retorica. Ma perché sorge almeno in parte al di fuori dei tradizionali organismi di formazione e di legittimazione della funzione intellettuale che sono stati l´università, i giornali e le case editrici. Il suo habitat è quella specie di biblioteca di Babele che è il web, ed è a quel luogo che fa essenzialmente riferimento. La rete è sia la fonte da cui trae alimento sia il destinatario a cui si indirizza, e in cui i commenti al blog e il numero dei contatti prendono il posto di ciò che nella tradizione moderna si chiamava "opinione pubblica", e di ciò che nel postmoderno sono diventati i sondaggi, le classifiche e l´auditel. L´intellettuale inorganico ha tre caratteristiche principali.
La prima è che si tratta di un intellettuale sans papier, sia nel senso che non scrive più, essenzialmente, su carta, sia nel senso in cui non riceve più dalla carta il riconoscimento del proprio status. Julian Assange, che ha diffuso sul web i documenti segreti sull´Afghanistan, si presenta agli occhi del mondo dietro al suo Apple, proprio come Paul Valéry si faceva fotografare dietro al tavolo ingombro di carte. Non è solo questione di forme: l´esplosione della documentalità trasforma radicalmente il mondo intellettuale, che non è più strettamente localizzato né è strettamente urbano, e soprattutto è molto più esteso che in precedenza. Certo, ancora per parecchio tempo continueranno a coesistere, magari nella stessa persona, i due mondi, quello dell´intellettuale cartaceo e quello dell´intellettuale sans papier, esattamente come giornali e libri hanno continuato a convivere con la televisione, ma questo non tocca la sostanza della trasformazione.
La seconda caratteristica dell´intellettuale inorganico riguarda una diversa maniera del far testo, dell´essere autorevoli e autoriali. Molto concretamente, ci si potrà domandare che cosa "faccia testo" veramente, tra un blog molto seguito e un libro stampato per scopi concorsuali e che nessuno (forse nemmeno i commissari del concorso) ha letto, fatta salva, beninteso, la circostanza che tanto il blog quanto il libro possono essere completamente stupidi o perfettamente geniali. I dibattiti, di cui non si può sottostimare l´importanza, sull´autorevolezza di Wikipedia, sull´attendibilità delle fonti web, sull´avvenire dell´università sono intimamente collegati alla trasformazione del "far testo" comportata dalla evoluzione della documentalità.
La terza è che l´intellettuale inorganico ha a che fare con una trasformazione radicale, e relativamente imprevista, dei rapporti tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Scrivere, non dimentichiamolo, è sempre stato un lavoro manuale. Ma nel web non c´è più la stenografa, il tipografo, la tipografia, che nel blog si riassumono tutti nella figura del blogger, un po´ come adesso la persona che fa il check-in è anche quella che strappa i biglietti all´imbarco - biglietti che peraltro ci siamo stampati da soli. Si abbatte la differenza tra il letterato e il "vile meccanico", e - per venire all´altro lato di ciò che i Greci chiamavano techne, ossia l´arte - oggi l´artista usa il più delle volte lo stesso strumento espressivo dell´intellettuale, il computer.
La morale è molto semplice. Non ci sono più gli intellettuali di una volta, e forse se tornassero non li riprenderemmo: oggi Cinecittà non rivorrebbe Fellini (troppo costoso e bizzoso), il Corriere della sera non riprenderebbe Montale (troppo salomonico, e poi incline a farsi scrivere gli articoli da altri), e Cambridge licenzierebbe Wittgenstein (poco assiduo a lezione e sgarbato con gli allievi: inoltre pubblicava poco e non correggeva le bozze). Ma gli intellettuali non moriranno, perché per farli morire sarebbe necessario un mondo senza scrittura e registrazioni come quello, puramente radiofonico e televisivo, di cui fantasticava McLuhan nel secolo scorso. Ma un mondo del genere non può darsi, per il banale motivo che non ci può essere una società senza memoria, cioè senza burocrati, che possono diventare intellettuali, come è successo al notaio Jacopo da Lentini, o a Kafka nelle assicurazioni di Boemia e Moravia, e come alla fine succede persino a Bouvard e Pécuchet, quando si fa strada nella loro mente la percezione della stupidità umana.

Corriere della Sera 12.8.10
Da Karl Marx a Oscar Wilde, le sorprendenti eredità dei grandi
L’autore del «Capitale» il più povero, Darwin il più ricco
di Fabio Cavalera

LONDRA — «Quel che distingue un comunista è l’abolizione della proprietà borghese». Karl Marx fu coerente fino all’ultimo. Quando morì, il 14 marzo 1883 a Londra, lasciò un’eredità ridotta all’osso. Né case, né patrimoni. Aveva scritto «Il Capitale», una delle opere che avrebbero segnato la storia del pensiero moderno, ma non ne aveva ricavato una cospicua fortuna privata. Pur non campando in modo disprezzabile nella capitale britannica, Karl Marx non aveva avuto modo di arricchirsi. Profitto e accumulazione non avevano caratterizzato la sua vita materiale. Dunque, alla figlia Eleanor, il testamento non riservò clamorose sorprese: in tasca le finirono beni per un valore di 250 sterline (oggi sarebbero all’incirca 23 mila euro).
250 sterlineL’eredità lasciata dal filosofo tedesco e autore del «Capitale» Karl Marx (1818-1883) alla figlia minore Eleanor (23 mila euro)

E non andò meglio alla famiglia di Oscar Wilde. Lui, genio della poesia e della prosa, aveva visto lontano: «Per acquistare popolarità bisogna essere una mediocrità». Non appartenendo all’esercito dei mediocri ma all’élite dei talenti più elevati e a causa della sua omosessualità dichiarata, fu vittima del pregiudizio perbenista che gli costò carcere e povertà. Sul finire della tormentata esistenza, costretto persino all’accattonaggio, Oscar Wilde non possedeva che un pugno di 250 sterline, stessa sorte di Karl Marx. «Coloro che hanno molto, spesso, sono avidi». Il dublinese abbondava nella virtù della mente. Era stato, anche, un uomo coraggioso. E il coraggio delle idee e delle azioni spesso non paga.

Ad esempio, l’esploratore Ernest Shackleton, che all’inizio del Novecento si avventurò nell’Antartide, meritò fama, gloria e riconoscimenti ma s’impantanò nella miseria. Spirò che aveva appena 556 sterline.

Di certo, non tutte le figure più eminenti della letteratura e delle scienze, nel Diciannovesimo e nel Ventesimo secolo, lamentarono condizioni al limite della sopravvivenza nella loro epoca. Come dimostra il sito Internet «ancestry.co.uk», che ha reso disponibile un archivio di documenti sui lasciti patrimoniali di sei milioni di cittadini e residenti in Inghilterra e nel Galles fra il 1861 e il 1941, ci furono prodigi delle arti, delle accademie e delle lettere che resero benestanti i loro eredi.

Charles Dickens era figlio di John, che per debiti era finito in galera e aveva costretto il suo ragazzo a rifugiarsi in una fabbrica di lucidi per scarpe. Esperienza che lo segnò e che lo aiutò a tirare fuori il meglio della sua prolifica creatività intellettuale. Con «David Copperfield», «Il Circolo Pickwick», «Le avventure di Oliver Twist» mise da parte una bella fortuna: 80 mila sterline del 1870, quando morì, equivalgono a 7 milioni di sterline oggi.

Non navigò nell’oro David Herbert Lawrence, quartogenito di un minatore, che con «L’amante di Lady Chatterley» ricavò e passò agli eredi 2.438 sterline (al cambio attuale, 113 mila sterline) ma ben poco ebbero da lamentarsi i discendenti di Charles Darwin, il padre dell’evoluzionismo, che incamerarono beni immobili per 146 mila sterline (15 milioni di euro) e Arthur Conan Doyle al quale l’invenzione di Sherlock Holmes regalò, a lui ed eredi, un patrimonio di 63.491 sterline (all’incirca tre milioni nel 2010).

In quell’archivio monumentale consultabile online, c’è anche qualche sportivo. Il barbutissimo William Gilbert Grace fu un campione di cricket. Anzi, ancora a desso è celebrato come una delle leggende del cricket. Nel 1915 i cinque figli si ritrovarono con 7.278 sterline: circa 600 mila, il controvalore nei nostri tempi.

Corriere della Sera 12.8.10
Platone è totalitario, va corretto
Popper ha ragione: filosofi e politici non possiedono la verità
di Dario Antiseri

Sebbene la caduta del Muro di Berlino abbia ormai sepolto, tra cose di gran lunga più importanti, anche gli insulti al Popper «critico di Marx», continua però a non placarsi, e di continuo riemerge, la disputa sul Popper «interprete di Platone» (si vedano, al riguardo, le riflessioni di Mario Vegetti sul «Corriere della Sera» del primo agosto e, sullo stesso giornale, la nota del 6 agosto a firma di Mario Andrea Rigoni).

Popper è esplicito nel considerare Platone il più grande di tutti i filosofi. Ma è altrettanto chiaro nel ritenere che grandi uomini possono commettere grandi errori. E il grande errore di Platone fu quello di offrire «argomenti seducenti e profondi a favore del perenne attacco contro la libertà e la ragione». Questa è la tesi sostenuta da Popper nel primo volume de La società aperta e i suoi nemici dedicato, appunto, a Platone totalitario. Il filosofo-re di Platone sa che cosa è il Bene e cosa è il Male ed è pertanto divorato dallo zelo di eliminare il Male e di imporre il Bene con ogni mezzo e a ogni costo — con la soppressione del libero pensiero, la difesa della menzogna, l’intrusione dell’autorità politica anche nei più remoti angoli della vita privata e, alla fine, con il ricorso alla violenza. In breve: «Il programma politico di Platone è un programma che, lungi dall’essere moralmente superiore al totalitarismo, è fondamentalmente identico ad esso». Il sapiente di Socrate è colui che sa di non sapere; il sapiente di Platone, invece, è colui che sa di sapere. Platone, insomma, tradì Socrate, fu il suo Giuda.

Già subito dopo la sua pubblicazione, il Platone totalitario di Popper fu fatto bersaglio di attacchi anche durissimi da parte di eminenti studiosi di filosofia. Sarà qui sufficiente ricordare l’Antisthenes redivivus di G. J. D. de Vries (1952); le 645 fittissime pagine del lavoro In Defence of Plato di R. B. Levinson (1957); o anche il libro Plato’s Modern Enemies and the Theory of Natural Law (1953) di J. Wild, la cui conclusione è che «la diffusa opinione secondo cui il pensiero platonico sia sostanzialmente un pensiero avverso a tutti i moderni ideali progressisti è il risultato di una tragica incomprensione».

Da noi, in Italia, se per Margherita Isnardi Parente «l’antidemocrazia della Repubblica è metapolitica e metempirica» e la concezione di Popper è «una deformazione modernizzante di Platone», per Giovanni Reale, se si pretende di leggere la Repubblica in funzione delle categorie delle moderne ideologie politiche, «si tradisce il significato più autentico del discorso politico di Platone, che non è soltanto ideologico, ma è soprattutto filosofia, metafisica e perfino escatologia dello Stato. Dunque la corretta prospettiva di lettura della Repubblica resta la seguente: Platone vuole conoscere e formare lo Stato perfetto per conoscere e per formare l’uomo perfetto».

Ora, però, dinanzi a siffatta conclusione, non può non sorgere una domanda che, con la più sincera stima e con ormai antica amicizia, rivolgo a Giovanni Reale: non ti pare che voler conoscere e formare lo «Stato perfetto» per conoscere e formare «l’uomo perfetto» costituisca il nucleo di quella presunzione fatale che è a base di ogni concezione totalitaria?

In ogni caso, fu nel 1983 che Gadamer, nel saggio Il pensiero di Platone nelle utopie, ha sostenuto che Popper non ha compreso Platone per la ragione che non si sarebbe reso conto del genere letterario — che è quello della «costruzione satirico-utopica» — in cui sono scritte sia la Repubblica sia le Leggi. Non è possibile comprendere Platone se non si capisce che il genere letterario dell’utopia, il «pensare nelle utopie», non equivale alla progettazione, in vista di una sua realizzazione, di un ideale Stato perfetto, ma è piuttosto una critica indiretta, una «allusione da lontano» allo stato di cose esistente. In altri termini, si fantastica degli Stati della Luna per criticare situazioni insoddisfacenti sulla Terra. Questa, dunque, la ragione principale per cui, ad avviso di Gadamer, l’interpretazione di Platone proposta da Popper sarebbe errata. Ma, in ogni caso, Gadamer è pronto a riconoscere — sempre ne Il pensiero di Platone nelle utopie — che «il contributo di Popper rientra in una grande tradizione che da Hobbes e Grozio attraverso il positivismo e Hegel e i filologi viennesi del livello di Theodor e Heinrich Gomperz (ma pure Toynbee rientra in questa linea) porta sino a Popper».

In realtà, nel Compendio di storia della filosofia greca, Eduard Zeller asserisce che «la costituzione dello Stato platonico è aristocratica, governo assoluto degli intendenti, dei filosofi, non limitato da alcuna legge». Da parte sua, Theodor Gomperz, nella monumentale opera Pensatori greci, fa notare che alla classe dei dominatori Platone accorda «una potenza senza limiti». E sarà Max Pohlenz a dire ne L’uomo greco che, «poiché i filosofi sono i soli a disporre anche del sapere necessario all’uomo di governo per assicurare a tutta la cittadinanza prosperità, pace ed eudaimonia, sarebbe assurdo limitarli nell’esercizio delle loro mansioni con un corpo di leggi». Interpretazioni analoghe a queste richiamate le ritroviamo in altri studiosi di Platone come G. Grote, R. H. Crosman e A. D. Winspear. E se Werner Fite ( Platonic Legend, 1939) ha condotto una interessante analisi sulla volontà di potenza che emerge dagli scritti di Platone, tale analisi trova sviluppi di sorprendente acutezza e durezza in tre saggi di Hans Kelsen: La giustizia platonica (1933); L’amore platonico (1933) e La verità platonica (1936). «La mistica di Platone — scrive Kelsen — costituisce la giustificazione della sua politica antidemocratica, l’ideologia di ogni autocrazia». Il filosofo-re «è il solo a conoscere la giustizia», ragion per cui «può e deve guidare i suoi sottoposti ed esigere da loro un’obbedienza incondizionata».

Tutto ciò semplicemente per ribadire che l’interpretazione popperiana di Platone si situa all’interno di una consolidata e rispettabilissima tradizione di storiografia filosofica. Certo, si tratta pur sempre di una interpretazione e, quindi, in quanto tale, falsificabile, contestabile, come ogni altra teoria scientifica. Ma viene da chiedere: è solo un puro caso che a Mosca, nella stele in cui vengono elencati i grandi pensatori comunisti, Platone figuri al primo posto? Ed è davvero irrilevante il fatto che influenti intellettuali nazisti come H. A. Grunsky, H. Guenther e Theodor von der Pfordten abbiano visto in Platone — e non, per esempio, in Locke, Hume o Kant — la sorgente delle loro nefaste idee sulla razza e sullo Stato onnipotente? E, da ultimo, una domanda a un altro mio vecchio amico, noto studioso di filosofia antica, Enrico Berti: è davvero priva di ogni fondamento, campata per aria, l’interpretazione che Marino Gentile, il tuo maestro, dette di Platone nel 1940 nel suo libro La politica di Platone?