mercoledì 11 agosto 2010




Repubblica 11.8.10
Quei legami famigliari "scritti" nel cervello
di Massimo Ammaniti

La figura materna è l´archetipo della vita: madre che protegge, che si prende cura e che rinuncia a se stessa per i propri figli. Forse per questo motivo è difficile attribuire alle madri sentimenti negativi come l´odio e il risentimento, che in alcuni momenti possono essere emergere e che possono interferire nel rapporto coi figli soprattutto se questi stati d´animo, come scrive lo psicoanalista inglese Donald Winnicott, vengono ignorati e soprattutto negati. Come è ben noto per diventare madri si va incontro a grandi cambiamenti: in primo luogo fisici, basti pensare alla gravidanza, e poi trasformazioni psicologiche dell´identità femminile fino al nuovo ruolo sociale che viene ad assumere la donna.
Ma anche il cervello delle madri va incontro a grandi cambiamenti proprio perché una madre deve essere particolarmente capace di proteggere il figlio, di anticipare e prevenire i possibili pericoli, di provvederne alla cura e all´alimentazione. E madri non si nasce ma si diventa, come affermano due neurobiologi, Craig Kinsley e Kelly Lambert, che hanno studiato gli effetti della gravidanza e della maternità sul cervello materno in campo animale. Mettendo a confronto topoline madri che avevano da poco figliato con topoline vergini, si è visto che le prime erano in grado di trovare il cibo nascosto in un labirinto in 3 minuti, mentre queste ultime riuscivano a trovarlo solo dopo 7 giorni. Da questo studio è evidente la superiorità delle topoline madri nell´orientarsi nello spazio e nel ricordare gli indizi ambientali per trovare il cibo per la propria prole.
Ma che cosa succede nel cervello delle madri? In gravidanza si verifica un vero e proprio bagno di ormoni, estrogeni e progesterone, che non solo inducono le trasformazioni dell´utero e della placenta ma influenzano la stessa struttura del cervello. In primo luogo i neuroni cerebrali assumono dimensioni maggiori e si modificano anche sul piano biochimico con l´attivazione di determinate aree cerebrali, un vero circuito cerebrale materno. Si tratta delle regioni limbiche, ipotalamiche e del tronco cerebrale che influenzano il comportamento materno per cui le madri sono più attente e recettive ai segnali e ai comportamenti del figlio.
Se si potesse guardare dentro la testa delle madri si potrebbe constatare la particolare attività dell´emisfero cerebrale destro nell´accudimento e nell´amore per i figli. Infatti se si osserva come le madri tengono in braccio il figlio, lo prendono prevalentemente col braccio e con la mano sinistra, molto più dei padri e delle donne che non hanno ancora avuto un figlio. Questa particolare posizione viene assunta in modo istintivo e permette di tenere il figlio nella parte sinistra dello sguardo, ossia quella che comunica direttamente con l´emisfero cerebrale destro, maggiormente coinvolto nell´attaccamento al figlio e nelle risposte emotive.
L´amore che la madre prova per il figlio è una specie di innamoramento, che comporta un intenso compiacimento quando si sta insieme e si comunica. Due ricercatori dell´University College di Londra, Bartels e Zeki, hanno studiato con la Risonanza Magnetica il cervello delle madri e quello delle persone innamorate ed hanno scoperto che sono attivate aree cerebrali sovrapponibili. Si tratta di aree cerebrali in cui sono presenti recettori del sistema di ricompensa, ossia legati al neuro-ormone dopamina che suscita quelle sensazioni piacevoli tipiche di chi è innamorato, ma anche di altre aree ricche di ossitocina e di vasopressina, neuro-ormoni che influenzano il legame di attaccamento. Ma quello che stupisce di più è il fatto che in entrambi i casi avviene una disattivazione delle zone cerebrali legate al giudizio sociale e al riconoscimento delle emozioni negative, la spiegazione scientifica del detto napoletano "ogni scarrafone è bello a mamma sua".
Anche le recenti ricerche da noi effettuate ci consentono di comprendere il rapporto empatico fra madre e figlio. Quando le madri osservano le diverse espressioni emotive del proprio figlio si attivano le zone cerebrali in cui sono presenti i neuroni specchio che permettono di rivivere l´esperienza dell´altro anche soltanto osservandola. In questo modo le madri sono in grado di mettersi nei panni del figlio e comprenderne gli stati d´animo e le motivazioni. E´ indubbio che queste nuove ricerche in campo neurobiologico siano in grado di andare aldilà dello "strato roccioso", che secondo Freud costituirebbe il limite biologico all´esplorazione della mente umana.

La Stampa 11.8.10

1907, guerra civile per i preti pedofili
Uno scandalo a Varazze infiamma d'anticlericalismo l'Italia giolittiana
di Mario Baudino

Ci furono moti di piazza, assalti alle chiese, portoni date alle fiamme, altari saccheggiati, l'esercito per le strade a Milano alla Liguria, e persino un morto, a la Spezia. Nell'Italia giolittiana d'inizio Novecento uno scandalo di preti pedofili scoppiato a Varazze e dilagato per tutto il Nord Ovest evocò spettri di guerra civile. Scatenò addirittura la corsa al porto d'armi da parte di sacerdoti che non si sentivano troppo sicuri, e uno di loro, a Savona, sparò per disperdere un gruppo di giovanotti che sembravano volerlo schernire. I giornali cattolici usarono toni violentissimi contro il «complotto massonico» e le presunte vittime, quelli liberali non furono da meno quanto a fair play. Tutti pubblicarono dettagli quanto meno scabrosi, approfittando della loquacità degli inquirenti e delle parti in causa.

Furono i torridi mesi della orge in Riviera, anzi «orgie» come scrivevano preferibilmente allora, prima che il processo più importante venisse cautamente insabbiato e la grande indignazione collettiva scivolasse verso l'oblio. Di quanto avvenne nell'estate del 1907 non si è serbata memoria, anche perché i documenti chiave sono spariti. Ora uno studioso, Pier Luigi Ferro, ha ritrovato il memoriale che fu al centro dello scandalo, scritto da Alessandro Besson, un convittore dei salesiani di Varazze, e ricostruisce la vicenda in Messe nere sulla Riviera (Utet), con prefazione in forma di intervista a Edoardo Sanguineti, il critico e poeta scomparso di recente. Al centro, il diario che accusa: è una sorta di racconto gotico, morboso e fantastico, dove la verità è coperta e resa obiettivamente incredibile dalla furia visionaria. L'aspetto più romanzesco dell'intera vicenda è che questo scritto è tornato alla luce tra le carte di un poeta molto caro a Sanguineti, Gian Pietro Lucini, che all'epoca frequentava Varazze e voleva trarre un libro dallo scandalo.

Anche lui non ne fece poi nulla, come se gravasse una sorta di maledizione, o una coazione a lasciar perdere. Lucini era un animo critico e ribelle (Revolverate si intitola significativamente la sua raccolta di versi più nota) e ne voleva ricavare un fremente atto d'accusa, forse alla Zola. La denuncia del ragazzo Besson (o meglio della madre) era del resto molto grave, e toccava un tema che era insieme tabù e attualissimo. Perché i fatti di Varazze non erano un fenomeno isolato. Lanciò la notizia il quotidiano savonese Il Cittadino, edizione del 30 luglio 1907. Strillava il titolo: La scoperta di turpitudini nel Collegio Salesiano di Varazze, e il catenaccio completava: Frati e monache compromessi. Il giorno prima un nutrito gruppo di carabinieri, col «sottoprefetto» Domenico Silva, erano infatti piombati nel collegio, «a seguito d'una denuncia anonima», avevano interrogato tutti, sottoposto alcuni adolescenti a visita medica e arrestati sei «reverendi, che negarono naturalmente ogni cosa». Il giornale sembrava specificava gli addebiti: «atti di corruzione su allievi minorenni» commessi «sulla spiaggia del mare, nella camerate, ovunque», ma anche «fatti osceni» che «si consumavano fra i reverendi istitutori colla partecipazione delle reverende suore di un convento vicino», messe nere «con scene conseguenti, degne del più turpe lupanare».

La scintilla divenne subito un incendio: non solo volò lontano, fino al New York Times, ma deflagrò in Liguria. Nella socialista Savona un migliaio di persone scesero in piazza minacciose, dirigendosi verso il locale oratorio salesiano. All'inizio di agosto a La Spezia, dove socialisti e anarchici erano ovviamente ben radicati, la folla assalì una Chiesa, venne respinta, tornò il giorno dopo e la saccheggiò. Venne incendiato un oratorio dei cappuccini, mentre a Genova sfilavano 25 mila persone. E ancora a La Spezia, alla fine, un carabiniere perse la testa e sparò sui manifestanti che, dopo aver liberato a sassate alcuni compagni arrestati, assediavano una chiesa salesiana; un giovane operaio fu colpito a morte. La situazione pareva ingovernabile, mentre i cattolici reagivano con altrettanta energia. A Varazze, considerata città «clericale», mille donne sfilarono in segno di solidarietà con i preti accusati e contro madre e figlio Besson. Un giornale cattolico, scoperto che il ragazzo era in realtà stato adottato, si chiese a caratteri cubitali come si potesse dar credito «a un bastardo».

I medici avevano diagnosticato lesioni inequivocabili su alcuni convittori, ma nel corso delle indagini i genitori, per i più svariati motivi, cominciarono a ritirare le querele. Il codice Zanardelli prevedeva che per i reati sessuali si potesse procedere solo su querela di parte. L'indignazione nasceva dal fatto che scandali simili erano già emersi: ora sembravano tutti confluire in un solo affresco. Un anno prima ad Alassio, ancora in un convitto salesiano, un sacerdote era stato accusato dai ragazzi perché «si dilettava di produrre godimento manuale», ma venne subito allontanato. A Milano, dove una suora torinese - in dissidio col vescovo sabaudo - aveva trasferito la sua comunità di assistenza, l'Asilo della Consolata, si erano scoperte ogni genere di violenze e maltrattamenti sulle bambine lì accolte. Il terreno era pronto, le «orgie» della Riviera scatenarono gli animi: l'intero sistema educativo religioso sembrava ormai in discussione.

Alessandro Besson scriveva nel suo memoriale che preti e suore, a Varazze, non solo si davano al sesso ma celebravano messe nere punzecchiando simulacri del Re, di Cavour e di Garibaldi; narrava di ragazze svestite in presenza dei loro compagni, per premiarli dei buoni risultati scolastici; e dell'annuncio piuttosto esilarante che il parroco di Altare, «se staremo buoni», «si spoglierà nudo». Nei convitti le fantasie - e non solo quelle - dovevano andare a mille, aiutate dalla frustrazione sessuale e certo da romanzetti che evidentemente circolavano alla grande. Il memoriale era buffo, pornografico e grottesco; poco credibile, e infatti non venne creduto. Nel giro di pochi mesi tutti furono prosciolti, salvo due sacerdoti troppo compromessi che però erano spariti dalla circolazione. Il sottoprefetto Silva venne trasferito, Besson e la madre, accusati di calunnia - ma prosciolti anche loro - fuggirono all'estero. E il poeta Lucini si ritrovò messo fuori gioco dai velocissimi tempi italici. Il suo lavoro era ancora lontano dall'essere concluso, e già lo scandalo che aveva fatto tremare il Paese non sembrava più interessare nessuno.

l’Unità 11.8.10
Pd, l’attacco di Rossi: «Basta con la girandola di nomi e candidati»
Messaggio su Facebook a Vendola e Chiamparino: «Resto a fare quello per cui sono stato eletto». Bindi: il candidato è Bersani
di Vladimiro Frulletti

Stop alla «girandola» di nomi e autocandidature. Al presidente della Toscana Enrico Rossi non piace proprio il toto-nomi che, in vista delle possibili (probabili) elezioni anticipate, sta catalizzando l’attenzione dei dirigenti del centrosinistra. E lo fa sapere dalla sua pagina di Facebook con un messaggio contro «il partito delle candidature e delle autocandidature».
Nelle parole che il governatore ha digitato dalla sua tastiera si legge una critica netta ai protagonisti del dibattito su chi dovrà guidare il centrosinistra. A quelli che fin qui si sono fatti avanti per la leadership. Prima il presidente della Puglia Nichi Vendola, poi il sindaco di Torino Sergio Chiamparino. Che, secondo il primocittadino di Bari Michele Emiliano, come ha spiegato ieri su l’Unità, sarebbero una coppia vincente. Un ticket che «potrebbe entrare nella storia politica italiana» dice Emiliano. Ma Rossi ce l’ha anche con coloro che sono in stand by in attesa di una chiamata (e qui l’elenco da fare sarebbe troppo lungo). Del resto per Rossi il candidato naturale del Pd (lo ha ribadito anche recentemente a l’Unità) è il segretario Pierluigi Bersani e non solo perché così prevede lo statuto democratico, ma soprattutto perché è stato scelto da milioni di persone con le primarie. Stessa convinzione di Rosy Bindi che fa notare che il Pd è pronto al voto perché «Berlusconi si presenta con un bilancio fallimentare dal punto di vista politico, governativo e persino dal punto di vista morale. E questa volta ha tutto da temere», Ma prima serve cambiare la legge elettorale (stessa convinzione del coordinatore della segretaria Pd Filippo Penati), Quanto ai nomi, Bindi, puntualizza che il candidato c’è già ed è Bersani. «Abbiamo abbondanza di classe dirigente ha spiegato la vicepresidente della Camera a Sky Tg24-. Noi abbiamo eletto un anno fa un segretario con tre milioni di voti. Non abbiamo nessun timore a fare le primarie di coalizione con il nostro segretario candidato». Uno stop al toto-nomi lo invoca anche il senatore Ignazio Marino che chiede a Bersani di convocare la direzione spiegando che l’intesa con Idv e sinistra è assai più naturale di quella col Terzo polo.
Rossi («a chiare lettere» come scrive lui stesso) fa sapere: «Non mi iscrivo al partito dei candidati o autocandidati alle primarie. Non mi iscrivo nemmeno al partito di quelli che sembra aspettino gli venga chiesto di candidarsi». E poi continua «Io ho preso un impegno con tutti i Toscani, anche quelli che non mi hanno votato, e i prossimi anni le mie energie saranno tutte dedicate a questa regione. Non ho chiesto di essere votato a Marzo per poi voler fare altro ad Agosto». E qui l’affondo è diretto a Vendola che come Rossi è stato (ri)eletto ai vertici della Puglia solo qualche mese fa, ma ha già deciso di concorrere per la guida del centrosinistra alle prossime elezioni indipendentemente dalla data del voto. «Non ce l’ho con nessuno precisa poi al telefono il presidente toscano ma non mi piace che invece di parlare con la gente di lavoro, disoccupazione, di una manovra che taglia il futuro ai giovani siamo fermi a discutere di nomi. Anzi siamo addirittura già arrivati all’ars combinatoria fra nomi. Mi sbaglierò ma alle persone questa girandola di nomi e autocandidature non piace». E probabilmente ha ragione a vedere i commenti su Facebook. «In questo clima commenta Cristina Di Sandro è una boccata di aria pulita,che dice a tante persone non sono tutti uguali...». «Si chiama coerenza e tanti politici dovrebbero imparare». fa notare Maschera Bionda. «Diciamo che ti ho votato proprio perché mi aspettavo questogli fa sapere Claudio Romolini . E non mi sono sbagliato». «Vorrei sentire queste parole anche da altri» si augura Lura Burberi.

il Fatto 11.8.10
“Mettete da parte i personalismi e cercate un candidato forte”
Flores d’Arcais scrive a Di Pietro e Vendola: “Non si vince né con Chiamparino, né con Bersani, né con lo stesso Nichi”
di Paolo Flores d’Arcais

Cari Di Pietro e Vendola, forse sono io che prendo lucciole per lanterne, ottenebrato da un pessimismo ingiustificato. Alcune cose, tuttavia, continuano ad apparirmi terribilmente chiare.
Quella fondamentale, per cominciare: se Berlusconi vince le elezioni anticipate diventa il prossimo presidente della Repubblica, trasforma la Corte costituzionale in una privatissima “corte dei miracoli”, cambia la Costituzione come più gli piace, e per sfregio nomina Previti e Dell’Utri senatori a vita. Vi chiedo perciò una volta di più: avete un solo argomento (argomento razionale, non “pio desiderio”) per convincermi che esagero? Sarei felicissimo di ascoltarlo e darvi credito, ma empiricamente parlando Berlusconi ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che appena può fa strame di democrazia senza il minimo ritegno e con ogni mezzo. Se vince attuerà il suo programma originario, confessato a suo tempo per interposto Previti: non farà prigionieri. Trovo perciò agghiacciante la “normalità” con cui le forze politiche non berlusconiane stanno affrontando la situazione. Neppure da irresponsabili ma da allucinate, in una cecità volontaria (e dunque più che mai colpevole) di fronte all’esito che il loro piccolo cabotaggio rende scontato: l’assassinio delle democrazia italiana nata dalla Resistenza.
Secondo elemento: Berlusconi vuole le elezioni al più presto perché sa tutti i crimini che ha commesso (o che hanno commesso i suoi più stretti sodali e complici), e che ogni giorno potrebbero venire scoperti, malgrado la rete ormai evidente (perché nella punta dell’iceberg intercettata) di toghe di regime che ha approntato. Deve perciò strangolare definitivamente la possibilità che la legge possa valere “eguale per tutti”, prima che il disvelamento giudiziario di ennesime ruberie o mafiosità faccia traballare e tracollare i suoi consensi. Inoltre, vuole andare alle urne con questa legge elettorale, e soprattutto con l’attuale dominio totalitario sul sistema televisivo.
È il tempo di lottare, non di guardare
Di fronte a una situazione di così cristallina tragicità, possibile che le forze non berlusconiane continuino a cincischiare? Possibile che – pur continuando a restare divise su tutto il resto – non vogliano trovare subito quel minimo comun denominatore capace di togliere a Berlusconi gli strumenti (legge elettorale e monopolio tv) di un eccidio costituzionale annunziato?Possibile che abbiano tutte la vocazione delle vittime sacrificali? Perché Berlusconi offre a tutti monili ghirlande e tappeti di fiori, al culmine dei quali per chi non obbedisce perinde ac cadaver ci sarà però sempre e solo il coltello affilato dell’officiante. Fini sembra alla fine averlo capito, che con il dominus del Giornale sarà un mors tua vita mea, e un sussulto di istinto di sopravvivenza potrebbe accadere anche agli altri, se noi cominciamo a fare la nostra parte: a lottare anziché stare a guardare.
E dunque, cari Di Pietro e Vendola, perché non cominciate (cominciamo) ad incalzare tutte le forze politiche con proposte adeguate? Perché tanto il Pd non ci starà mai, mi risponde Antonio. E dobbiamo puntare sulla manifestazione della Fiom di novembre, mi ammonisce Nichi. Al primo vorrei ricordare che il Pd non sa quello che vuole, e comunque quello che vorranno e faranno gli altri dipende sempre, almeno in parte, da quello che vogliamo e facciamo noi (da quanto e come lottiamo). Altrimenti sarebbe più logico accoccolarsi fatalisticamente sulla riva del fiume. Se in questi anni non ci fosse stato chi nel paese (i movimenti) e in Parlamento (Di Pietro) ha tenuto alta la bandiera della legalità, credo che la “rottura” di Fini su questo tema non sarebbe mai avvenuta. Al secondo vorrei suggerire il timore – niente affatto campato in aria – che se non impediamo a Berlusconi di vincere le elezioni quella di novembre potrebbe essere l’ultima manifestazione della Fiom.
Una strategia d’azione su 3 linee
E cco perché credo sia molto più che urgente, sia – alla lettera – improcrastinabile, una strategia d’azione che si muova contemporaneamente su tre linee: preparare per fine settembre una grande manifestazione nazionale di tutta la società italiana ancora civile, con l’obiettivo “Fuori Berlusconi, elezioni democratiche, basta criminali al potere, governo di legalità”; proporre una nuova legge elettorale a tutte le forze non berlusconiane; lanciare una martellante campagna informativa e propagandistica sulla sicurezza dei cittadini, dimostrando come le leggi di Berlusconi (ma purtroppo anche tante del centrosinistra) la mettano vieppiù a repentaglio favorendo ogni genere di criminalità. E come i diritti dei lavoratori, oggi calpestati, siano l’altra faccia della liberazione dalle cricche. È possibile che tutto ciò non serva. Che malgrado un’ondata di passione civile, e di resipiscenza e intelligenza delle forze politiche, Berlusconi riesca a imporre le elezioni secondo il quando e il come della sua volontà. In tal caso le affronteremo, anche se non democratiche. Ma aver dispiegato il massimo di lotta per impedire elezioni truccate avrà intanto accresciuto le chance dell’opposizione. Mezzo secolo fa, contro la legge truffa, le opposizioni non si dedicarono a minuetti, mobilitarono il Paese. Ma soprattutto si tratterà di andare alle urne senza ripetere gli errori del passato. Per parlarci chiaro: si tratta di trovare un candidato da contrapporre a Berlusconi che non regali all’aspirante duce la carta dell’antipolitica,risorsa strategica sulla quale dal 1994 si vincono e si perdono le elezioni (e che poi “antipolitica” non è, ma sacrosanta voglia di una politica autentica, non più sequestrata dalle nomenklature.

Repubblica 11.8.10
Il club delle cattive mamme
Sempre più donne si ribellano al modello della "madre perfetta". Rivendicando i propri limiti e il diritto alla felicità
di Anais Ginori

C´è anche chi tiene corsi sul tema per rafforzare l´autostima e combattere lo stress Sui siti si accendono i dibattiti: "Spesso certe accuse di inadeguatezza vengono mosse da altre donne"

PARIGI. Alla fine si è arresa all´evidenza. Perché il pediatra l´ha fulminata quando ha confessato di mettere poche verdure nel menù di casa, perché la maestra si è indignata scoprendo che i suoi bambini ogni tanto passano il pomeriggio davanti alla tv, perché al parco, quando perde la pazienza, viene sepolta dagli sguardi accusatori delle altre mamme. Silvia Crema ha dovuto ammettere che forse non era fatta per questo mestiere. Come quando fai un tirocinio e ti dicono che non hai il profilo adatto. «Peccato che non ti puoi dimettere da mamma», scherza ora nella sua casa vicino a Bergamo, guardando i pargoli di 5 e 7 anni, altrimenti detti "Duracell", soprannome piuttosto comune. «Chiariamo subito. Adoro i miei figli, ai quali dedico la vita. Però non sento nel sangue la "mammitudine"».
«Quella canonica, fatta di comprensione, saggezza, sollecitudine, buona memoria, spirito organizzativo». È in buona compagnia. Il suo Club della Cattive Mamme riunisce online tante donne come lei che non si rispecchiano più nella maternità tradizionale.
Blog, libri, spettacoli. Le mamme imperfette escono allo scoperto. Una volta si accontentavano di essere «sufficientemente buone», secondo la definizione di Winnicott, ora rivendicano anche limiti ed errori. È un piccolo movimento sovversivo iniziato con confidenze, complicità segrete, ma che ora ha una vera e propria elaborazione teorica. «Sono una madre mediocre» dice la filosofa Elisabeth Badinter. Il suo libro Le Conflit, tra i più venduti in Francia, è diventato un manifesto delle mamme che non corrispondono al mito della perfezione. Badinter attacca la "dolce tirannia" dei doveri materni, sempre più rigidi e pressanti. In Gran Bretagna, il mito della buona maternità è stato demolito in molti saggi, tra cui Confession of a Bad Mother di Stephanie Calman. Negli Usa, sono nati blog, come il popolare "badmotheranonymous", da sempre oggetto di lodi e proteste. Non c´è argomento più esplosivo tra le donne. «La prima volta che ho confessato la voglia di scappare dalla mia bambina per andare a prendermi un aperitivo con le amiche sono stata coperta di insulti» ricorda Chiara Cecilia Santamaria, che ha appena pubblicato Quello che le mamme non dicono per Rizzoli.
Scrive Badinter: «Dopo la gioviale e innovatrice libertà degli anni Settanta, a partire da metà degli anni Ottanta i compiti della madre sono diventati sempre più ambiziosi, più pesanti, alimentando ansia e nervosismo». Rispetto al passato, la maternità non comprende più solo la cura fisica e affettiva dei piccoli, ma anche l´attenzione per lo sviluppo psicologico, sociale e intellettuale dei bambini. Secondo la filosofa francese, una madre di oggi dedica a due figli il tempo che mezzo secolo fa veniva spartito per sei bambini. E ancora: «Ogni paese e cultura è dominato da un modello materno ideale che varia a seconda delle epoche. È un modello che pesa su tutte le donne, che ne siano consapevoli oppure no. Si può accettare o cercare di aggirare, si può cercare un compromesso o rifiutarlo. Ma comunque sarà un modello che ci definisce in un senso o nell´altro». Il mito della "buona madre", conclude la filosofa francese, non è mai stato così forte nella storia dell´umanità e sarebbe direttamente collegato al fenomeno della denatalità. Proprio nei paesi dove questo modello è dominante, come l´Italia o il Giappone, le donne hanno smesso di fare figli.
«Appena sono rimasta incinta, ho capito che non mi potevo rispecchiare nell´immagine delle mamme sempre serene, appagate, nelle quali non traspaiono dubbi o incertezze». Durante la gravidanza, Chiara ha aperto un blog intitolato "Ma che davvero"», la prima cosa che ha detto quando ha saputo che sarebbe diventata madre a 28 anni. «Dentro di me ospito continue guerre civili psicologiche - spiega - . Mi prendo cura della mia bambina e voglio farlo, davvero. Ma allora com´è che al tempo stesso vorrei scappare, far finta che nulla di questo sia successo, ricominciare la mia vita com´era prima?». Il suo racconto della maternità è ironico e dissacrante. «Fare la mamma è una cosa seria, ma a volte ci prendiamo un po´ troppo sul serio. Gran parte della vita col bambino, se guardata dal verso giusto, è piena di spunti esilaranti». L´autoironia accomuna molte madri imperfette. In Francia, ha avuto grande successo un monologo della comica Florence Foresti, mentre da noi Teresa Mannino è andata in scena con Mamma che ridere, gioie e dolori di un neo-genitore.
Ogni volta, però, queste donne si scontrano con critiche e pregiudizi. "La guerra delle mamme", ha titolato qualche settimana fa il Guardian. Nei forum online, intorno a temi come l´allattamento al seno, la conciliazione con il lavoro, la custodia dei piccoli, si scatenano discussioni incandescenti. E quasi sempre una parte accusa l´altra: «Sei una mamma cattiva». «Spesso l´accusa viene da altre donne, sono loro le giudici più severe» osserva Luisa Ercoli, bolognese, manager in un´azienda agroalimentare. Anche lei membro del club della madri "cattive", e autrice dell´omonimo blog. «Adottare questa definizione serve a smitizzare questo ruolo della madre perfetta. Il nostro è un movimento liberatorio». Luisa lavora a tempo pieno, si fa molto aiutare dal marito in casa. «Per me la maternità non è un ruolo totalizzante, ho bisogno di conservare i miei spazi».
Il Devoto-Oli scrive alla voce madre «simbolo di dedizione e affetto incondizionato». L´impressione è che oggi la definizione andrebbe rivista, con nuove sfumature. «Certo, che mia madre era più tradizionale - aggiunge Chiara Cecilia Santamaria - però anche lei ammette che aveva tanti dubbi e contraddizioni interiori, solo che non poteva dirlo». Tutte queste nuove giovani madri anticonformiste rifiutano l´idea dell´infallibilità. «Se non accetti di poter fare degli errori, rischi di soffocare» spiega Silvia Sacchetti, 35 anni, di Reggio Emilia, che al suo essere imperfetta dedica un diario online. «Nella maternità c´è sempre il rischio di universalizzare le proprie esperienze, ma ogni donna è una storia a parte». Silvia fa un elenco dei cliché della mamma perfetta. Quella che non conosce il baby blues perché "cosa c´è da deprimersi", che ha figli che dormono da quando sono nati, che non urla mai ma dialoga, non ordina ma invita, non ha mai alzato una mano per una pacca sul pannolone perché lo trova inconcepibile, che non ha mai desiderio di stare sola, senza figli. «Ma queste madri - si chiede Silvia - esistono veramente o fingono anche un po´ con se stesse e con le altre?».
Di sicuro, mettere al mondo un figlio significa andare incontro a sfide e scelte molto più complesse che in passato. Elisabeth Badinter parla di un triplice conflitto. Quello sociale, per cui una madre che vuole continuare a lavorare è colpevolizzata sia dai partigiani della famiglia tradizionale che dalle aziende. Un conflitto affettivo: il peso dei doveri materni è spesso incompatibile con l´esigenza moderna di stare in coppia con una vita sessuale e sentimentale appagante. Infine, conclude Badinter, una contraddizione interiore, perché non ci si sente più realizzate solo nell´accudire i figli e si vorrebbero inseguire anche altre ambizioni personali. Anna Lo Piano, 43 anni, dice che bisogna allenarsi al gioco dei "Piattini cinesi". «Anche io ho vissuto il conflitto tra l´essere madre e donna. Non riuscivo a conciliare tutto» spiega. «Il lavoro, l´amore, i figli, i genitori, i fratelli, gli amici, la forma fisica, la scrittura, e ancora e per sempre il lavoro. Li devi far girare tutti insieme stando attenta a non tralasciarne nessuno per troppo tempo. Se ti distrai, cade!». Anna ha due bambini, pubblica delle storie per bambini. «Per me la scrittura è importante. Tra le priorità della mia vita, la metto ex equo con i miei figli. Quando lo dico alle altre mamme mi guardano come fossi un mostro. Ma io mi tappo le orecchie, non sono gli altri che ti devono dire come essere madre».
Flavia Rubino non si considera né brava né cattiva. Solo una "vera mamma". Ha lavorato in una multinazionale, ora è consulente aziendale e ha fatto un monitoraggio dei nuovi modelli di maternità che si esprimono in rete. «La "vera mamma" di oggi ha un titolo di studio generalmente elevato, è curiosa, ha interessi culturali eterogenei. Ha molta fiducia in sé anche se spesso viene messa a dura prova dai suoi ritmi sfrenati, ma si salva con un buon senso dell´umorismo». Flavia, che ha due bimbi di 6 e 3 anni, organizza anche un "coaching per vere mamme". «Cerchiamo di rafforzare l´autostima - spiega - e di far prendere consapevolezza della pressione che ci circonda. L´importante è capire cosa si vuole veramente anche nel rapporto con i figli. Seguire il proprio modello, non quello delle altre». Mamme, voce femminile plurale.

Repubblica 11.8.10
L’ultimo Tolstoj
Liti, lettere e telegrammi la sua fuga è un romanzo
di Sandro Viola

Due libri ripercorrono i giorni fatali del maestro russo e la scelta di andarsene da casa
"Delirò, si svegliò, diede ordini, si commosse, svenne: soffrì come si soffre morendo"
La seconda opera è di Pozner: collage spassionato di materiali autentici sul tema
Cavallari ci racconta le incertezze e i dubbi dello scrittore: così il suo itinerario prese "un disegno a zig-zag"

Nell´autunno di trentun anni fa, a Parigi, andavo spesso a colazione con Alberto Cavallari. Lui prediligeva un eccellente lionese dalle parti dell´Assemblèe Nationale, io "Lipp", e quindi s´andava una volta dall´uno e la volta dopo dall´altra. Quel che non cambiava in quegli incontri erano invece i discorsi di Cavallari, che parlava ogni volta e senza posa di Leone Tolstoj. Ma non dei romanzi e racconti dello scrittore russo. Di questi avevamo lungamente conversato l´anno prima a Mosca, intrappolati nella neve di novembre e nelle inesorabili, letargiche lentezze della Novosti. Ai tempi dell´Urss, la Novosti era l´agenzia che combinava gli appuntamenti dei giornalisti stranieri con qualche grigio, insulso personaggio del regime sovietico. Noi eravamo lì, ciascuno per il proprio giornale, da almeno una settimana. Ma quando al mattino telefonavamo all´agenzia per sapere se fosse stato fissato un appuntamento, la risposta era sempre la stessa : "Oggi niente, forse domani".
Per la verità, quelle giornate moscovite non erano niente male. La vita del giornalista è infatti una delle delizie terrestri. Nell´inverno di Mosca, Cavallari e io non avevamo nulla, assolutamente nulla, da fare. Così, ogni mattina decidevamo se tornare al museo Pushkin per rivedere Poussin, Corot e Gauguin, o alla Tetrjakova per soffermarci ancora una volta su Repin, la Goncharova e Denika, aspettando l´ora di metterci a tavola dietro una delle grandi finestre del "National" che danno sul Maneggio e la piazza Rossa. Ma tre o quattro volte ci avventurammo sino all´ "Isba russa", l´unico ristorante passabile della Mosca d´allora, cui s´approdava dopo un lungo tragitto nella campagna tra isbe sbilenche e muri di neve. Dall´ "Isba" uscivamo poi accalorati e allegrissimi per la molta vodka bevuta, già pronti per un lungo sonno pomeridiano.
Ma, come ho detto, l´anno dopo, nell´autunno del ´79, i discorsi non erano quelli che avevamo fatto a Mosca su Natascia e Pierre, sulla Karénina e Vronskij, sui Racconti del Caucaso e La sonata a Kreutzer, le divagazioni tipiche dei dilettanti che danno giudizi approssimativi e strampalati sui libri di questo o quel grande scrittore. A Parigi Alberto Cavallari parlava infatti soltanto degli ultimi mesi del conte Tolstoj. Citava in lungo e in largo i Diari, mi spiegava la differenza tra i Diari e i Taccuini (Tolstoj aveva dovuto ricorrere a dei piccoli bloc-notes da nascondere negli stivali, per evitare che la moglie frugasse nei cassetti leggendo di nascosto le pagine dei Diari). Mi descriveva il conflitto familiare apertosi da anni a Jasnaja Poljana, e sempre più avvelenato dalla questione economica: il timore cioè della moglie e dei figli che lo scrittore avrebbe confermato sino all´ultimo il testamento in cui dichiarava le sue opere di pubblico dominio, "patrimonio dell´umanità", privando così la famiglia dei cospicui diritti d´autore che venivano dai suoi tanti capolavori.
Nei grigi dell´autunno parigino, avvolti nel fumo delle nostre sigarette, la narrazione fluviale, nervosa, che Cavallari faceva delle ultime fasi della vita di Tolstoj, i nitidi dettagli sui giorni della fuga e della morte dello scrittore nella stazioncina di Astapovo, erano avvincenti. Pendevo dalle sue labbra. Come mai, gli chiedevo, s´era accesa in lui quella passione per lo scorcio finale della vita di Tolstoj? Cavallari non disse mai che stava pensando a un libro sull´argomento, e mi lasciava credere che si trattasse d´un interesse lì per lì casuale che poi aveva finito per assorbirlo. Una specie di fissazione che durava già da qualche tempo, e che ad un certo punto si sarebbe esaurita. Ma non era così, come vidi alcuni anni dopo quando ricevetti una copia del suo La fuga di Tolstoj nell´edizione Einaudi.
Agli amici che come me lo avevano subito letto, Guido Ceronetti tra questi, con cui ne parlavamo durante le nostre passeggiate a Cetona, il libro di Cavallari suggerì una sola possibile definizione: era, come dicono i francesi, un "petit chef d´oeuvre". Uno di quei libri perfetti anche se un po´ marginali rispetto al gusto e al contesto letterario del loro tempo, che escono dalla penna d´uno scrittore senza un sovrappiù, un errore di gusto, una banalità, bensì asciutti, essenziali, e scritti in modo appunto perfetto. E adesso che lo rileggo nella bella riedizione di Skira (pagg. 110, 15 euro), sono sempre più convinto che si tratti d´un libro con pagine indimenticabili. L´asfissiante atmosfera che s´era creata già dal 1904 a Jasnaja Poljana (Tolstoj che scrive della moglie Sof´ja : "E´ velenosa per l´aria che respiro"), il seguito ininterrotto di "scene isteriche, pacificazioni, scontri, perdoni" che punteggiavano le giornate, l´impulso dello scrittore, sempre più profondo e irresistibile, ad abbandonare la casa e la famiglia.
La decisione della fuga fu presa nella notte del 27 ottobre 1910. Ma partire per dove? Il vecchio era incerto, s´arrovellava: "Fuggire o non fuggire", scrive Cavallari, "andare lontano ed anche vicino. Perciò il suo itinerario prese un disegno a zig-zag, diventò quello d´un uomo che gira intorno alla sua trappola". In ogni caso, il viaggio avverrà in treno, dove su un fornello a spirito il compagno di fuga dello scrittore, il suo medico personale Dusàn Makovickij, riscalda di quando in quando un po´ di tè.
Nel secondo treno su cui sale, Tolstoj guarda dai finestrini il paesaggio: "La luce del giorno era grigia ma coloriva lontane betulle, olmi, dove volavano i corvi". Nel terzo treno si profila l´epilogo. Nevica, lo scompartimento è freddo, Tolstoj è colto da forti brividi. Il medico gli prende la febbre, che è molto alta, e decide che alla prossima fermata bisognerà arrestarsi. E la prossima fermata è nella stazioncina di Astapovo, dove l´autore di Guerra e pace, ospitato alla meglio in una stanza della casa del capostazione, il bravo Ivan Ivanovic Ozolin, giacerà agonizzante per sei giorni. "Delirò, si svegliò, spedì telegrammi, diede ordini, si commosse, svenne, delirò ancora, soffrì ciò che si soffre morendo". Nel gran numero delle biografie tolstojane, il più bel racconto sulla fine del massimo romanziere russo.
Il caso ha voluto che mentre rileggevo il libro di Cavallari sia uscito da Adelphi un altro libro affascinante, Tolstoj è morto (pagg. 274,18 euro), di Vladimir Pozner. Pozner era un "émigré" che negli anni Venti potè tornare nella Russia sovietica, dove raccolse un vasto materiale sui giorni di Astapovo. I due libri non potrebbero essere più diversi. Tanto il testo di Cavallari è penetrante nei pensieri di Tolstoj, nella ricerca delle vere cause della fuga, nella descrizione dei personaggi che vi prendono parte o sopraggiungono più tardi ad Astapovo (il medico, le figlie Alexandra e Tatjana, la moglie e gli altri otto figli che non verranno però ammessi nella stanza dove giace lo scrittore), ed è dunque un vero romanzo, tanto il libro di Pozner è un anti-romanzo. Un "collage" spassionato, vagamente sarcastico, di materiali autentici sulla morte di Tolstoj, brani dei diari di quest´ultimo o della moglie, e soprattutto i telegrammi che attraversano la Russia nei giorni della sosta fatale nella stazioncina di Astapovo.
Telegrafano tutti: il capo della Gendarmeria ferroviaria, generale Lvov, "che non apprezza affatto il trambusto creato da questa fuga", i capi della polizia, i giornalisti accorsi sul luogo e le direzioni dei giornali ai loro inviati, il pope della stazione, Gracianski, ai suoi superiori, il monaco Varsonofij direttamente al Sinodo. Tutti vogliono notizie sulla salute dello scrittore, e i gendarmi alla gendarmeria, i giornalisti ai giornali, i figli di Tolstoj ai parenti e amici, telegrafano il po´ che sanno.
Temperatura tot (un giorno 38,il giorno dopo 39 o 40), polso tot, ha dormito, non ha dormito, ha bevuto un po´ di latte, un altro letto è stato aggiunto nella stanza del malato, la famiglia è riunita nel buffet della stazione. Ma il governatore della regione, la polizia, si scambiano telegrammi più concreti : "Prego Vostra Eccellenza di prendere le misure necessarie onde evitare manifestazioni e insurrezioni antigovernative o antireligiose". Tolstoj è infatti personaggio sgradito dalla corte imperiale, è scomunicato dalla chiesa ortodossa russa, insomma ritenuto una testa calda idolatrato da migliaia di altre teste calde.
Sei giorni dopo, il 7 novembre, è la fine. I giornalisti telegrafano : "Lev Tolstoj deceduto ore cinque e sei del mattino. L´agonia è durata pochi minuti". Il capostazione avverte: "Preparate vagone bagagliaio" per il trasporto della salma, la compagnia ferroviaria offre un vagone a prezzo ridotto, la moglie Sof´ja Andreevna viene per la prima volta fatta entrare nella stanza del morto. A mattina inoltrata, la salma ormai composta, nella stanza dove la bara è stata innalzata su un semplice catafalco, entrano gli abitanti di Astapovo a rendere omaggio. I mugiki non conoscono bene il nome di Tolstoj, lo chiamano Tolstov.

Corriere della Sera 11.8.10
Pazienti legati al letto e senza cure. Bocciati gli ex manicomi giudiziari
Blitz della Commissione Marino: il 40% può essere dimesso
di francesco di Frischia

ROMA — Un «ergastolo bianco». Un autentico inferno per 1.500 dimenticati. Stanze sovraffollate e fatiscenti che puzzano di urina. Alcuni malati senza vestiti legati al letto per giorni. Molti altri imbottiti di tranquillanti per tenerli sotto controllo. Quasi tutti senza neanche un barlume di approccio terapeutico. Gravissime carenze di personale sanitario. È il quadro drammatico degli ospedali psichiatrici giudiziari (opg) quello che è emerso nella relazione della Commissione d’inchiesta del Senato, presieduta da Ignazio Marino (Pd), che ha effettuato sopralluoghi a sorpresa in sei strutture: Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Aversa (Caserta), Napoli Secondigliano, Montelupo Fiorentino (Firenze), Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere (Mantova). Solo quest’ultima, secondo i senatori che l’hanno visitata, ha superato l’esame. «Le altre andrebbero tutte chiuse — taglia corto Marino — e questa non è una mia considerazione, ma un giudizio di tutta la Commissione. I malati sono costretti a vivere in condizioni vergognose, inaccettabili». E la Regione Toscana ha già preso l’impegno di chiudere entroiprossi mi 1 2 me s i l’ospedale di Montelupo Fiorentino.
Una camerata dell’ospedale psichiatrico di Montelupo Fiorentino, in provincia di Firenze. Nelle due foto a sinistra, sporcizia a Napoli (sopra) e ancora a Montelupo

Tra i casi estremi la storia di un uomo che dopo essere stato condannato a due anni «è detenuto nell’ospedale di Napoli, in proroga, da 25 anni perché non si sa dove metterlo — spiega Marino —. Ma questa situazione, che di fatto priva senza motivo un cittadino della libertà, non è isolata: secondo i dati raccolti dai carabinieri del Nas, che collaborano con la Commissione d’inchiesta, il 40% di tutti gli internati potrebbe essere dimesso. Purtroppo le Asl non hanno centri specializzati dove assisterli». Per questo i senatori hanno chiesto agli ospedali l’elenco dei malati che hanno scontato la pena, sono stati riconosciuti come non più pericolosi per la società: «Entro agosto, appena avremo questi nominativi — promette Marino — usando i poteri speciali ingiungeremo alle Asl di accogliere questi pazienti in strutture idonee».

Altra storia allucinante , sempre nell’ospedale di Napoli: un uomo aveva una cancrena in stato avanzato a un piede a causa del diabete. I senatori lo hanno fatto trasferire nei giorni scorsi in un reparto di diabetologia di Napoli. Tra gli impegni della Commissione è stato deciso di fare trasferire in ospedali tradizionali tutti quei pazienti che presentano patologie diverse da quella psichiatrica e che non possono essere curati negli opg per mancanza di apparecchiature, personale e terapie adeguate.

Le situazioni più estreme sono state trasmesse alla magistratura che accerterà l’esistenza di eventuali reati. L’obiettivo dei senatori «era quello di sensibilizzare i ministeri di Grazia e Giustizia e della Salute, oltre alle Regioni, ad affrontare e superare una situazione non più procrastinabile — sottolinea Marino —. Abbiamo il dovere di fare rispettare la dignità di questi essere umani e di garantire loro un’assistenza appropriata. Solo così potremmo cancellare questi ergastoli bianchi».