martedì 3 agosto 2010




Repubblica 3.8.10

Il fisico che ammazza il tempo
"Dimenticatelo non è fondamentale"
di Marco Cattaneo

Si chiama Carlo Rovelli, lavora in Francia e ha conquistato premi negli Stati Uniti con una teoria rivoluzionaria Nata per superare le stringhe
"È evidente che esiste nella nostra esperienza, ma non come variabile indipendente"
"Semplicemente: su scala molto piccola non ci possiamo affidare agli orologi"

Partiamo dal titolo: Dimenticate il tempo. Èquello del saggio di Carlo Rovelli che ha vinto il primo premio al concorso sul tema promosso dal Foundational Questions Institute, in sigla FQXi, battendo un centinaio di colleghi di tutto il mondo. L´FQXi è un´organizzazione con sede a New York diretta da Max Tegmark, cosmologo del Mit: tra i suoi iscritti alcuni dei più autorevoli scienziati internazionali, con lo scopo di stimolare il dibattito sulle questioni fondamentali della fisica e della cosmologia. E nulla è fondamentale, in fisica, quanto la natura dello spazio e del tempo.
Cinquantaquattro anni, veronese, Rovelli è un fisico teorico di fama mondiale. Dopo una brillante carriera che lo ha portato dall´Italia agli Stati Uniti e poi alla Francia, oggi è responsabile di un attivo gruppo di ricerca all´Università del Mediterraneo di Marsiglia. Con lo statunitense Lee Smolin, ha elaborato la "gravità quantistica a loop", principale antagonista della teoria delle stringhe, che tenta di riconciliare le visioni contrapposte della relatività generale e della meccanica quantistica. E proprio da questo impegno nasce l´originale visione – condivisa da altri eminenti fisici teorici – secondo cui il tempo non esiste. «Già - dice - . Ma è un´affermazione che deve essere precisata. Perché il tempo della nostra esperienza quotidiana esiste. È il tempo come variabile fondamentale che non esiste. Deriva dall´interazione delle altre variabili fisiche. Prendiamo i colori, per esempio. Sono parte integrante della nostra esistenza, abbiamo dato loro nomi, ne abbiamo una percezione condivisa. Ma è solo la nostra percezione dei colori, a esistere. Perché la scienza ci insegna che sono il risultato dell´interazione della luce con i recettori della retina, che inviano informazioni al cervello. Ciò che chiamiamo colori sono radiazioni elettromagnetiche di una certa lunghezza d´onda, ma non ne abbiamo bisogno per descrivere la fisica della luce». E lo stesso vale per il tempo. «Tutti ne abbiamo una percezione, ma se vogliamo elaborare una descrizione della natura indipendente dalla nostra percezione io penso che dobbiamo ammettere che il tempo non esiste».
L´idea è rivoluzionaria, ma non è nuova. E il concetto di tempo è radicato in tutte le culture, eppure rimane inafferrabile, tanto che già sant´Agostino ne sottolineava l´ambiguità: «Se non mi chiedono che cosa sia il tempo lo so, ma se me lo chiedono non lo so». «In fisica – continua Rovelli – il dibattito nasce con Newton, prosegue con Einstein e muta ancora con la meccanica quantistica. Newton assume che c´è un tempo che scorre indipendentemente da tutto, inventandosi una variabile che rappresenta il parametro con cui tutto cambia. Da allora, tutta la fisica è descritta con equazioni che dipendono dal tempo. Ma il tempo si misura con gli orologi, e questi misurano il tempo con il moto di un pendolo».
La scoperta che il pendolo misura bene il tempo è di Galileo. «A questo proposito mi piace ricordare l´aneddoto secondo cui Galileo si accorge che le oscillazioni di un pendolo sono uguali nella Cattedrale di Pisa, osservando il movimento di un candelabro. Galileo misura la durata delle oscillazioni contando i battiti del suo polso, e si accorge che hanno tutte la stessa durata. Da allora, il moto regolare di un pendolo è sfruttato per misurare il tempo. Poi abbiamo cominciato a usare gli orologi per misurare i battiti del polso …».
I ruoli, insomma, si sono ribaltati, confondendo il senso di ciò che intendiamo quando parliamo di "misurare il tempo". «Quando misuriamo il tempo, in realtà, confrontiamo il ritmo del pendolo con quello del polso. Non c´è bisogno del tempo. Newton ne era consapevole, e lo scrive nei Principia. Dice che misuriamo sempre variabili fisiche, e vediamo come evolvono una rispetto all´altra. Però introduce il tempo, e scrive tutte le equazioni in funzione di esso, che gli serve per descrivere le relazioni tra le altre grandezze. Nella realtà, il tempo si elide».
Dopo che la relatività ha abbattuto l´idea newtoniana di tempo assoluto, e con l´avvento della meccanica quantistica, il dibattito si ripropone ai giorni nostri. «Negli anni Sessanta, combinando relatività generale e meccanica quantistica, John Archibald Wheeler e Bryce DeWitt hanno ottenuto un´equazione in cui il tempo scompare. Di fronte a questa equazione si possono avere due atteggiamenti. Uno è spaventarsi. L´altro è tornare a Galileo, al pendolo, ai battiti del cuore. Forse l´equazione ci sta dicendo che, quando unifichiamo relatività e meccanica quantistica, il gioco di postulare un tempo indipendente dalle variabili individuali non vale più. Restano le variabili fisiche, ed equazioni che ci dicono in che relazione stanno tra loro. La gravità quantistica descrive ciò che accade su scala molto piccola. Dire che il tempo non esiste è dire che su questa scala non possiamo più affidarci agli orologi».
Il tempo della nostra esperienza, in questo contesto, è qualcosa che emerge dai fenomeni, come i colori emergono dalla nostra percezione della luce. «Per capire che cos´è questo qualcosa, ho elaborato un´idea insieme ad Alain Connes, uno dei più grandi matematici viventi. La nozione di tempo nasce dal fatto che a scala macroscopica abbiamo una descrizione approssimativa del mondo: il tempo è effetto della nostra ignoranza. Infatti, mentre possiamo scrivere le equazioni della meccanica senza il tempo, non possiamo farlo con quelle della termodinamica. L´idea stessa di reversibilità e irreversibilità richiede una freccia del tempo. Ma ciò accade perché scegliamo poche variabili – pressione, volume, temperatura – per descrivere il sistema. E queste sono grandezze mediate, dalla cui evoluzione emerge in modo naturale il tempo».
Certo, non sarà facile verificarlo a livello sperimentale. «Non si tratta di verificare questa specifica idea sul tempo, ma se il nostro approccio alla gravità quantistica è corretto o no. Fino a pochi anni fa sembrava impossibile fare misure nei regimi estremi della gravità quantistica, ma ora non più. La teoria permette di fare i conti rispetto a quanto è accaduto poco dopo il big bang, ricostruendo gli scenari alle origini del cosmo, il che può condurre a previsioni sulle proprietà della radiazione cosmica di fondo o delle onde gravitazionali. Oggi sono anche possibili misure che ci danno informazioni sulla struttura dello spazio su piccolissima scala. La speranza è che fra non molto si possano confrontare le previsioni teoriche con le misure sperimentali. E se le previsioni si dimostreranno corrette forse potremo archiviare la nostra vecchia concezione del tempo. Ancora una volta, la fisica ci avrà insegnato che la realtà è diversa dalle idee ingenue che ne abbiamo, e ci avrà offerto una nuova immagine del mondo».

Corriere della Sera 3.8.10
1941 Hess e la pace fallita con Churchill l' ultima mossa di Hitler
Quando gli inglesi lo arrestarono, il Führer lo sconfessò
di Dario Fertilio

Il processo Norimberga Nel 1946, al Processo di Norimberga, Hess venne condannato all' ergastolo per crimini contro la pace. Fu rinchiuso nel carcere di Spandau, dove morì nel 1987 (nella foto sopra è il secondo da sinistra)

La follia di Rudolf Hess? Non fu autentica. Le somigliò, forse, per determinazione mistica e visionaria; per il modo in cui il vice di Hitler mise in gioco la vita, pensando di rispondere a una chiamata del destino. Quando, in quel fatidico 10 maggio 1941, in piena battaglia d' Inghilterra, riuscì a far montare un serbatoio supplementare sul suo aereo Messerschmitt Me-110, sigla di identificazione VJ-OQ, a decollare solo e indisturbato da Augsburg, in Germania, a volare per 1.400 chilometri oltre le linee difensive inglesi, e infine a paracadutarsi su una villa scozzese, a sud-est di Glasgow, realizzò effettivamente un' impresa che soltanto un pazzo, o un fanatico avrebbero potuto concepire. Presentarsi cioè a lord Douglas Hamilton, generale della Raf che era stato suo ospite anni prima, durante le olimpiadi di Berlino, e tentare di convincerlo a stipulare una pace separata con il Terzo Reich. Il seguito è noto: catturato dalla guardia nazionale, portato al cospetto del lord, arrestato. Poi sconfessato sia da Hitler che da Churchill, e da entrambi dichiarato «pazzo». In seguito, per tutta la durata della guerra, del successivo processo di Norimberga (dove venne condannato all' ergastolo per «crimini contro la pace») e dell' interminabile detenzione nel carcere berlinese di Spandau, dove morì nel 1987, il suo nome restò inestricabilmente associato al senso del «mistero». Lo alimentarono il suo ostinato silenzio, la devozione incrollabile per Hitler, frasi del tipo: «Se fossi stato al posto del Führer, avrei detto anch' io che ero fuori di senno». Tutto sembrava fatto apposta per suscitare l' interrogativo: agì su mandato di Hitler o di testa sua? La storia della seconda guerra mondiale e del mondo avrebbe davvero potuto essere diversa? E fino a che punto dietro al suo mancato interlocutore lord Hamilton, esponente comunque di un' influente élite britannica filotedesca, avrebbero potuto coagularsi forze più propense a un' intesa con i nazisti che con i bolscevichi (tenendo conto del fatto che l' attacco di Hitler all' Urss scattò meno di due mesi più tardi, il 21 giugno del ' 41?). Simili interrogativi spinsero lo storico Arrigo Petacco, che durante gli anni ottanta conduceva un' inchiesta per la televisione, a intervistare l' architetto Albert Speer nella sua ricca residenza di Heidelberg (poteva permettersela dopo il clamoroso successo dei suoi libri di memorie sul Terzo Reich). La ragione della scelta: Speer, architetto di Hitler e poi formidabile organizzatore della sua macchina militare, era stato anch' egli prigioniero a Spandau, per non meno di vent' anni, e aveva dunque incontrato molte volte l' ex compagno di partito Rudolf Hess. Da qui la decisiva domanda che pensò di rivolgergli Petacco: «Era o non era pazzo?». «Lo vedevo tutti i giorni - fu la risposta -, e posso testimoniare che non lo era. Forse, lo è diventato negli ultimi anni, certo non al tempo del suo volo sul Messerschmitt». «Fu quella rivelazione - spiega oggi Petacco - a orientare le mie successive ricerche e i libri che scrissi sull' argomento, soprattutto "La strana guerra" e "La nostra guerra 1940-45". Se Hess, come sospettavo, aveva agito in base a un calcolo politico preciso, per quanto avventato, era necessario avanzare una serie di ipotesi che andavano molto al di là della categoria del "mistero"». In breve, Petacco è convinto che «una spiegazione logica» del caso Hess ci sia, benché «rimossa per motivi politici». «Ripensiamo alla situazione del maggio ' 41. L' Europa dominata da una Germania alleata dell' Urss, e la sola Inghilterra che si oppone in armi. Si viene da una "strana guerra" combattuta a passo ridotto da Francia e Gran Bretagna contro il Reich dopo la spartizione della Polonia, cui pure aveva partecipato Mosca, che in più si era presa i paesi baltici e aveva aggredito la Finlandia. In simili circostanze, l' idea di una crociata anti-sovietica era molto popolare, soprattutto nei salotti dell' alta finanza anglosassone. In più Hitler, una volta conquistata la Francia, aveva lanciato un messaggio a Londra proponendo una specie di armistizio. Non sarebbe sembrato strano a nessuno mettere d' accordo due popoli germanici, inglesi e tedeschi, contro lo spauracchio slavo e bolscevico. L' idea di Hess avrebbe potuto avere successo, non fosse stato per le personalità dei due leader. Uno era l' ostinatissimo Churchill, che dichiarò d' essere pronto ad allearsi anche con il diavolo contro Hitler. E l' altro era lo stesso Führer, deciso a sconfessare il suo delfino se avesse fallito: così infatti avvenne». E se invece la missione fosse riuscita? «In quel caso si sarebbe preso il merito; l' idea di una spartizione del mondo con gli inglesi - "a loro il mare, a noi l' Europa" - era precisamente farina del suo sacco». Del resto, ricorda Petacco, il futuro Führer nel «Mein Kampf» aveva criticato i generali austro-tedeschi per aver aperto due fronti, a Est e Ovest, durante la prima guerra mondiale. Era logico che, potendolo, puntasse a non ricadere nell' errore». Ma sappiamo che la storia è andata diversamente, e i due grandi nemici Churchill e Hitler finirono per trovarsi d' accordo nel seppellire la missione di Hess sotto il mantello della «pazzia». È verosimile che lui, il protagonista della missione impossibile, abbia volontariamente indossato in seguito quella maschera di follia, arrivando a perdersi in letture di novelle bavaresi durante il processo di Norimberga, e a trincerarsi per il resto della sua esistenza nel riserbo e nel silenzio? Sì, è possibile, se pensiamo alla sua natura solitaria, visionaria, attratta dall' esoterismo, sensibile al potere carismatico di Hitler. Forse pensò di interpretarne medianicamente la volontà? Partì per la Scozia chiamato da una insistente voce del destino? Proprio mentre il mistero storico cessa d' essere tale, l' enigma umano di fondo resta: definitivo e insolubile. 3

Corriere della Sera 3.8.10
Presentata la traduzione dell' opera di Pietro Alfonsi: segnò il passaggio tra due mondi
Le novelle che «copiò» Boccaccio
La raccolta del XII secolo fece conoscere all' Occidente la sapienza indiana
di Cesare Segre

Tutti leggono novelle, tutti scrivono novelle. Ma da quando? La differenza dei termini denota scarsa unità nello sviluppo del genere: i francesi e gli spagnoli dicono «racconto» (conte, cuento), ma poi spagnoli e inglesi chiamano «novella» (novela, novel) ciò che noi chiamiamo «romanzo», e così via. Non serve neppure fare la storia della parola, e riscontrare che essa viene usata per la prima volta in Italia nel Novellino e nel Decameron. In precedenza c' è una molteplicità di termini che indica la molteplicità degli affluenti: favole, parabole, storie, aneddoti, ecc. Ma la narrazione breve risale alla notte dei tempi, e i Romantici, scoprendo i testi sanscriti, scoprirono anche che in essi si trovano per la prima volta raccolte insieme narrazioni autonome di tipo novellistico. Ora la tesi romantica, che indicherebbe un' origine unica della novella, è screditata, ma è indubbio che i testi sanscriti hanno «lanciato» molti dei temi che si ritrovano nelle narrazioni occidentali. Conosciamo benissimo i tramiti che portarono tra noi i testi dell' antica India, o meglio il loro contenuto. È una catena di traduzioni dal sanscrito al pahlavi, poi al siriaco, poi all' arabo e all' ebraico. Per il passaggio dalle lingue semitiche a quelle europee e al latino, c' era, nel Medioevo, un luogo deputato, la Spagna, data la convivenza di arabi, ebrei e cristiani di lingua spagnola; e c' era un gruppo impegnato nell' attività interlinguistica, quello ebraico, dato che esso maneggiava sia le lingue semitiche sia lo spagnolo, talora il latino. Si spiega allora perché uno dei primi e principali intermediari per la diffusione delle novelle di origine indiana sia la Disciplina clericalis - titolo che non ha nulla né di disciplinare né di clericale, ma significa piuttosto la «scuola dei letterati» - un' opera latina, scritta (dopo il 1109) da un ebreo di cultura araba. Si chiamava Moshè ed era un dotto predicatore biblico; si convertì al cristianesimo, assumendo il nome di Pietro Alfonsi, in onore del re Alfonso I il Battagliero, suo padrino di battesimo. Di professione medico, astronomo e astrologo, scrisse varie importanti opere di astronomia e, da buon rinnegato, un Dialogus contra Iudaeos che fu uno dei trattati più diffusi nel Medioevo. Visse molti anni nell' Inghilterra normanna, accreditandosi come astronomo, ma forse finì la sua vita in Spagna. La Disciplina clericalis non manca di pregi artistici, tra i quali una certa ampiezza delle narrazioni, che prima dell' invenzione della novella circolavano soprattutto nella versione compendiaria degli exempla, racconti usati dai predicatori per descrivere comportamenti virtuosi o più spesso peccaminosi. E poiché ha fornito i modelli per infinite nostre novelle, c' è da rallegrarsi di averla ora a disposizione nel testo latino e in una scorrevole versione italiana (Pietro Alfonsi, Disciplina clericalis. Sapienza orientale e scuola delle novelle, a cura di Cristiano Leone, presentazione di Laura Minervini, Salerno, pp. XCIV-188, 28). La parte più importante del volume è la nota finale su «Fonti e fortuna dei racconti», visto che è lunga la catena di narrazioni che confluiscono nella Disciplina clericalis, e ancora più lunga la catena che da quest' opera si dirama, sino ad oggi. Boccaccio conosceva benissimo questo testo, e ne trasse, abbellendoli, alcuni racconti. Si veda per esempio la storia di Tòfano (Decameron VII, 4). In questa, abbiamo un marito che chiude fuori di casa la moglie una notte in cui è uscita per raggiungere il suo amante. La moglie finge di gettarsi disperata nel pozzo, dove invece lascia cadere una grossa pietra, e appena il marito accorre per salvarla, chiude fuori lui, e organizza una chiassata che lo mette dalla parte del torto. Quasi uguale il racconto nella novella 14 di Pietro Alfonsi, con la differenza che quest' ultimo vuole soprattutto mettere in guardia contro l' astuzia femminile (la solita misoginia medievale), mentre Boccaccio, oltre a giocare come sempre sul contrasto fra marito vecchio e amante giovane, spiega e giustifica il tradimento come vendetta all' immotivata (in precedenza) gelosia del marito. La novella di Tito e Gisippo (Decameron X, 89) deriva dalla seconda di Pietro Alfonsi, che ha come teatro Bagdad. È una gara di generosità fra due amici, che poi Boccaccio ambienterà fra Atene e Roma. L' ateniese Gisippo cede al romano Tito la propria fidanzata, di cui questi s' è innamorato. Anni dopo, Gisippo, ridotto in miseria e desideroso di morire, ritorna a Roma, dove si denuncia autore di un delitto non commesso, proprio per essere giustiziato. A quel punto Tito lo riconosce, e si autodenuncia pure lui. La gara di generosità tra i due porta naturalmente al lieto fine. Boccaccio deve aver pensato che un ambiente classico fosse particolarmente adatto a esempi di magnanimità. Certo a buon diritto, se pensiamo al De amicitia di Cicerone e a Valerio Massimo.

il Riformista 3.8.10
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