martedì 10 agosto 2010




l’Unità 10.8.10

«Dal Pd meno tattica. Chiamparino-Vendola per sfidare Berlusconi»
Il sindaco di Bari: «Governo di transizione? La gente non capirebbe» «Sergio non vende aria fritta ha le idee chiare. Nichi porta le emozioni»
di Cesare Buquicchio

Il sindaco di Bari e presidente del Pd pugliese, Michele Emiliano, non smentisce la sua fama di uomo che parla chiaro: “Io le chiavi di casa mia ad uno come Sergio Chiamparino gliele darei senza problemi. Sono sicuro che si ricorderebbe di annaffiare le piante. Con Veltroni, D’Alema, Franceschini e gli altri leader Pd non starei così sicuro”. Sarà il Ferragosto alle porte e, appunto, la ricerca comune a tanti, di un parente o un amico “fidato” a cui lasciare le incombenze di casa, ma la metafora di Emiliano rende l’idea.
Se a questo ci aggiungiamo quello che il sindaco di Bari dice su Nichi Vendola pochi passaggi dopo, ecco esposto in bella copia il tema del “ticket Chiamparino-Vendola” (o Vendola-Chiamparino) per battere Berlusconi”. Ma conviene fare un passo indietro e seguire il ragionamento dell’ex magistrato.
Chi sarà, secondo lei, il prossimo presidente del consiglio? “Nella situazione attuale nessuno ci libera di Berlusconi. Ma non è una questione di tempo è una questione di idea del paese da costruire. Se il Pd non propone la sua idea chiara, alternativa e, soprattutto, comune a tutti, e continua a rimanere nella sua Torre di Babele in cui ognuno dice la sua, ognuno porta la sua idea di politica e la sua concezione della storia e del futuro dell’Italia, non riuscirà a battere Berlusconi e ad affrancarsi dal berlusconismo”.
Serve un nuovo Lingotto, una nuova costituente, per sciogliere i nodi del Pd? “No, non c’è tempo. Non si può fare una costituente ogni settimana. Serve che qualcuno prenda delle decisioni. Altrimenti c’è l’impressione che il Pd non abbia una visione chiara sui cui chiedere il consenso degli elettori. Ci sono dei problemi su cui si può trovare un punto comune in poco tempo.
Stiamo dalla parte delle banche o dei cittadini? Dalla parte delle grandi industrie o degli operai? Dalla parte delle partite iva o dei precari?”.
Non è chiaro, tra queste scelte, dove sta il Pd? “No, spesso e volentieri non è chiaro. Io sto dalla parte di chi non ha tutele, dalla parte di chi si sente solo a confrontare le proprie aspettative di vita con il mercato. E sentirsi abbandonati al mercato, senza nessuno (senza la politica, senza il sindacato, senza la tutela reale delle leggi e di chi le fa rispettare) che ti aiuta a difenderti, non è bello”. Perché il Pd finora non l’ha fatto? “Perché vuole stare da tutte le parti. Vuole difendere la Fiat e nello stesso tempo il piccolo carrozziere. Il Pdl è chiaramente il riferimento politico di chi è più ricco e vuole pagare meno tasse. E che per questo è disposto anche a ridiscutere l’organizzazione del nostro Stato”.
Se Berlusconi prendesse solo i voti dei più ricchi non avrebbe la maggioranza... “Perché noi non siamo competitivi, finora non abbiamo rappresentato una alternativa. Io dico sempre che sono il sindaco di chi non conta nulla. E siccome poi faccio quello che dico, il Pd a Bari, città storicamente di destra, arriva al 45%. Se mi chiedessero qual è la proposta che oggi ha Bersani, D’Alema, Franceschini o Veltroni per la nazione non saprei rispondere”.
Vale lo stesso per il sindaco di Torino Sergio Chiamparino? “Beh, no. Con lui siamo colleghi, ci incontriamo spesso e ci scambiamo idee per risolvere problemi concreti. Lui non parla mai di ’aria fritta’, lui ha le idee chiare”.
Quasi superfluo a questo punto chiederle di governi di transizione e delle altre opzioni che il Pd sta esaminando in queste ore.
“Lo so che la politica deve avere una sua parte di tattica e di strategia, ma non fa per me. Si è visto anche quando ci sono state le ultime elezioni regionali, e il partito mi aveva chiesto di sfidare Nichi Vendola, come è andata a finire... Ma, tornando alle ipotesi di governi di transizione, io vedo solo pastrocchi che la gente non capirebbe e che darebbero l’occasione a Berlusconi di fare una delle sue solite campagne mediatiche dipingendosi come uno ’solo contro tutti’, solo contro i nemici, contro il sistema, ecc... E rivincerebbe ancora. Non è più di moda il politicismo, così come non sono più di moda i partiti vecchio stampo come ilPciolaDcdiunavolta...Neho parlato chiaramente con D’Alema”. Allora come si batte Berlusconi? “Avendo il coraggio e la forza di dire come faremmo noi le cose al posto suo. La destra in Italia è scarsa. È scarsa di idee, di ragionamenti, di visioni efficaci del futuro, di narrazioni...”.
Fermo. Ora ha citato esplicitamente Vendola... “Sì. Io non sono tecnicamente un vendoliano. Sul modo di amministrare abbiamo idee diverse, ma ho la netta impressione che l’unico finora che nel nostro paese stia facendo lo sforzo per trovare parole e idee nitide e chiare per immaginare un futuro sia lui. Lo sta facendo anche esponendosi al rischio di non essere condiviso, di non cercare a tutti i costi il consenso di tutti. Ma almeno la gente lo trova chiaro, capisce il suo sforzo e lo segue”.
Quindi il Pd deve stare con lui?
“Mi sembra normale. È normale qui in Puglia dove il Pd e Vendola ora sono la stessa cosa pur avendo storie e idee diverse su alcuni punti, ma la destinazione è comune. Ambiente, lavoro, sviluppo, un patto tra generazioni, il modello di potere che deve stare alla base delle istituzioni. Su queste cose, su questi temi prioritari, Vendola ha idee chiare”. Insomma, Vendola o Chiamparino? O tutti e due insieme?
“Io penso che un segretario del Pd come Bersani che riuscisse a creare una proposta di questo tipo con una collaborazione tra i due, con un patto tra nord e sud, tra un amministratore serio, concreto e preparato come Chiamparino e un politico capace di suscitare nuove emozioni, nuove visioni del futuro come Vendola, e magari, riuscisse anche a coinvolgere su questo progetto gli altri partiti di opposizione, potrebbe entrare nella storia della politica italiana. Quindi sì a tutti e due insieme, candidato premier e vicepremier a seconda di chi prende più voti alle primarie, ma con un patto di collaborazione siglato prima del voto”. Con gli altri partiti? Quali? Non c’è il rischio “gran calderone”?
“Non credo che gli altri possano aspirare ad essere gli sfidanti di Berlusconi. Se poi l’alleanza avesse come programma quello di far ripartire il paese e fare quelle riforme su cui ormai sono tutti d’accordo (tranne Berlusconi), a cominciare dalla legge sul conflitto elettorale e dalla riforma elettorale, allora penso che ci potrebbe stare dentro sia Casini che Di Pietro, e forse anche Fini”.

l’Unità 10.8.10
Francia 1893: gli italiani? Immigrati da linciare
di Anna Tito

Che sia il benvenuto il monito in favore della tolleranza e del dialogo internazionali, pervenuto a Grimaldi di Ventimiglia, cittadina della Provincia di Imperia al confine con la Francia, in memoria delle vittime in memoria della violenza xenofoba. L’episodio, per un secolo e più rimosso dalle memorie storiche sia dell’Italia sia della Francia, a Aigues-Mortes, in Provenza, costò la vita nell’agosto del 1893 a una decina di operai italiani immigrati e provocò il ferimento di un centinaio di essi. Si trattò forse del «più grande pogrom della storia contemporanea francese», che rischiò di portare i due Paesi sull’orlo della guerra.
In ricordo dell’avvenimento, il Presidente della Repubblica Napolitano ha fatto appositamente coniare una medaglia, e a Sète è in preparazione un lavoro teatrale sull’eccidio da parte di una compagnia parigina, mentre l’attore francoitaliano Pierre Lucat ha in preparazione una pièce. La mattina del 17 agosto del 1893 cinquecento e più francesi inferociti attaccarono i capanni che ospitavano un centinaio di italiani, ed ebbe inizio una colossale caccia all’italiano, che devastò la cittadina e i suoi sobborghi. Al grido di «A morte gli italiani! Viva la Francia e morte all’Italia! Fuori gli orsi italiani!», la folla, armata di pietre, bastoni e forconi diede l’assalto agli improvvisati rifugi dei nostri connazionali, scoperchiando il tetto e massacrando a più non posso operai italiani liguri, piemontesi e toscani, facendo, oltre ai morti, un centinaio di feriti.
Gli italiani avevano trovato occupazione nelle saline di Peccais, e li si preferiva ai colleghi francesi perché meno sindacalizzati e disposti ad accettare paghe inferiori pur di lavorare in salina, in maniera dura, scarsamente remunerata, in un ambiente paludoso, con in agguato le febbri malariche. Da secoli l’estrazione del sale era occupazione riservata quasi esclusivamente agli ex-galeotti, ma proprio nel 1893 la Compagnia delle saline aveva assoldato 600 italiani e i francesi vedevano negli italiani coloro che portavano via non solo il loro spazio del dormire e del mangiare, ma anche il lavoro. I francesi vedevano, sul finire dell’Orttocento, negli immigrati italiani un elemento di corruzione dell’identità francese.
Di recente, due libri hanno ricostruito questa feroce caccia all’italiano, e si sono interrogati sulle cause e le loro conseguenze: Le Massacre des Italiens. Aigues-Mortes, 17 août 1893 di Gérard Noiriel, docente all’Ecole Normale Supérieure di Parigi (ed. Fayard 2010), e Morte agli italiani! dell’insegnante e scrittore Enzo Barnabà (ed. Infinito, 2008), che da anni anima sull’argomento un sito bilingue. Dio sa «quanto vi sarebbe bisogno, in Italia, di recuperare la memoria», ricorda Gian Antonio Stella nell’introduzione al volume di Barnabà: esso «è una boccata di ossigeno, perché solo ricordando che siamo stati un popolo di emigranti si può evitare che oggi, domani o dopodomani si ripetano altre cacce all’uomo. Mai più Aigues-Mortes».

Repubblica 10.8.10
Se il mondo perde il senso del bene comune
di Stefano Rodotà

Pochi giorni fa l´Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che riconosce l´accesso all´acqua come diritto fondamentale di ogni persona. L´anno scorso il Parlamento europeo ha parlato di un diritto fondamentale di accesso ad Internet. Apparentemente lontane, queste due importanti prese di posizione di grandi istituzioni internazionali si muovono sullo stesso terreno, quello dei beni comuni, attribuiscono il rango di diritti fondamentali all´accesso di tutti a beni essenziali per la sopravvivenza (l´acqua) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza).
Nell´ottobre del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto dei comunisti, Alexis de Tocqueville gettava uno sguardo presago sul futuro, e scriveva: «Ben presto la lotta politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà». Quella lotta è continuata ininterrotta e il campo di battaglia, che per Tocqueville era sostanzialmente quello della proprietà terriera, si è progressivamente dilatato. Oggi sono appunto i beni comuni – dall´acqua all´aria, alla conoscenza, ai patrimoni culturali e ambientali – al centro di un conflitto davvero planetario, di cui ci parlano le cronache, confermandone la natura direttamente politica, e che non si lascia racchiudere nello schema tradizionale del rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata.
Tra India e Pakistan è in corso una guerra dell´acqua; in Italia la questione dell´acqua è divenuta ineludibile dopo che un milione e quattrocentomila persone hanno firmato la richiesta di un referendum; il parlamento islandese ha deciso che Internet debba essere il luogo di una libertà totale, uno sterminato spazio comune dove sia legittimo rendere pubblici anche documenti coperti dal segreto. Il tema dei beni comuni segna davvero il nostro tempo, e non può essere affrontato senza una riflessione culturale e politica.
Un misero esempio italiano di questi giorni ci mostra l´inadeguatezza degli schemi tradizionali e i rischi che si corrono. Da poco dichiarate dall´Unesco patrimonio dell´umanità, le Dolomiti sono oggetto di una mortificante contabilità, che sarebbe ridicola se dietro di essa non si scorgesse lo sciagurato "federalismo demaniale" che, trasferendo agli enti locali beni importantissimi, mette questi beni nella condizione di poter essere più agevolmente destinati a usi mercantili o privatizzati o comunque destinati "a far quadrare i conti". E proprio questa eventualità mostra la debolezza dell´argomento, usato per l´acqua, secondo il quale basta che un bene rimanga in mano a un soggetto pubblico perché venga salvaguardato. Non è questione di etichette. È la natura del bene a dover essere presa in considerazione, la sua attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l´attuazione di diritti fondamentali. I beni comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell´interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero "patrimonio dell´umanità".
Nel pensare il mondo, e le sue dinamiche, non possiamo sottrarci alla "ragionevole follia" dei beni comuni. Questo ossimoro, che dà il titolo a un bel libro di Franco Cassano, rivela un compito propriamente politico, perché mette in evidenza il nesso che si è ormai stabilito tra beni comuni e diritti del cittadino. Un bene come l´acqua non può essere considerato una merce che deve produrre profitto. E la conoscenza non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l´argomento della crescita della produttività della terra. Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l´oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l´accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare. La conoscenza da bene comune a merce globale?
Così i beni comuni ci parlano dell´irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall´innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale "la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude". E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l´effetto ben può essere quello di "un´erosione delle basi morali della società", come ha scritto Carlo Donolo. In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il bene comune, di cui s´erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell´estrema individualizzazione degli interessi, s´incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell´uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze. Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo. Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell´eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell´accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, sono più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d´ogni persona.
Spostando lo sguardo sui beni comuni, dunque, non siamo soltanto obbligati a misurarci con problemi interamente nuovi. Dobbiamo sottoporre a revisione critica principi e categorie dei passato. Dobbiamo rileggere in un contesto così mutato la stessa Costituzione, quando stabilisce che la proprietà dev´essere resa "accessibile a tutti" e quando, nell´articolo 43, indica una sorta di terza via tra proprietà pubblica e privata. Qui è l´ineludibile agenda civile e politica non di un solo paese, ma di tutti coloro che vogliono affrontare con consapevolezza e cultura adeguate le questioni concrete che ci circondano.

Repubblica 10.8.10
Il centrosinistra scomparso
di Guido Crainz

La crisi del centrodestra illumina in modo impietoso anche le gravi difficoltà del centrosinistra. Impedisce di rimuovere l´appannarsi, se non la scomparsa, di un progetto riformatore riconoscibile e convincente. Costringe a fare i conti con quel sostanziale isolamento del Partito democratico da ampie parti del paese che le elezioni di aprile hanno mostrato in modo chiaro.
Aver eluso a lungo questi nodi rende oggi acuta, quasi drammatica, la tensione fra due aspetti: da un lato l´urgenza delle scelte da compiere, dall´altro la necessità di costruire una risposta adeguata e di ampio respiro. Non può esser sottovalutata da nessuno la pericolosità della situazione, con un premier estraneo se non ostile allo stato di diritto e con differenti scadenze che possono portare a nuove elezioni: e in esse Berlusconi cercherebbe disperatamente una affermazione «contro tutti» capace di consegnargli per intero, senza più vincoli o freni, la scena nazionale. E´ evidente l´importanza vitale di opporsi a questo esito ma ogni alternativa priva di reale credibilità appare destinata alla sconfitta. O a una vittoria di Pirro ancor più disastrosa di quella ottenuta per un soffio dalla disomogenea e rissosa coalizione del 2006.
Giova ripensare meglio, forse, all´esperienza del nostro e di altri paesi. Occorsero dieci anni a François Mitterrand per portare a compimento una vittoria di cui aveva posto le basi nel 1971, rifondando il partito socialista e mirando al tempo stesso ad un´unità più larga. Quel rimodellarsi della sinistra partiva dalla consapevolezza che una fase era ormai alle spalle ed era necessario progettare il futuro con grande coraggio e capacità di innovazione.
Le sconfitte, gli smarrimenti, le miopie, gli errori e più ancora la progressiva perdita di identità della sinistra e del centrosinistra nell´Italia degli ultimi quindici anni pongono all´ordine del giorno uno sforzo non inferiore. Suggeriscono al tempo stesso di riflettere meglio sulla fase che abbiamo vissuto, a partire dalla unica legislatura governata per intero dall´Ulivo. Governata, più esattamente, da tre diversi premier che facevano comunque riferimento alla coalizione che aveva vinto nel 1996. Occorre forse prender avvio da alcune domande: come si è passati da quella vittoria alla sostanziale scomparsa dell´Ulivo come soggetto unitario, evidente già nel corso di quella legislatura? E come mai non hanno pesato adeguatamente nell´opinione pubblica alcuni risultati positivi di assoluto rilievo, a partire dal risanamento dei conti pubblici - dopo le voragini degli anni Ottanta - e dal quasi insperato ingresso nell´euro? Nel rispondere a queste domande dobbiamo fare i conti con un paradosso sorprendente: il crollo dei consensi al centrosinistra non si ebbe nella primissima fase, quella in cui aveva imposto al paese sacrifici durissimi, ma in quella successiva. Ancora alle amministrative del novembre del 1997, infatti, il Polo subì una nuova e inequivocabile sconfitta mentre il centrosinistra confermò sostanzialmente le importanti conquiste di quattro anni prima (quando Berlusconi non era ancora sceso in campo). Già in quella prima fase, però, il consenso nei confronti della maggioranza aveva iniziato a incrinarsi, e non solo per i colpi inferti ad essa da Rifondazione comunista (ben prima di quello che affosserà poi irresponsabilmente il governo Prodi). Altri segni di crisi erano avvertibili sin dall´inizio e rinviavano tutti alla fragilità e alle contraddizioni interne dell´Ulivo, così come si era concretamente delineato. Alla sua sostanziale «mancanza d´anima», che condizionò persino il suo punto di maggior forza, l´ingresso in Europa: poco sostenuto da un orientamento culturale generale e coniugato spesso alla necessità di sacrifici più che al visibile progetto di un futuro comune. Pesò, anche, la sua crescente difficoltà nel misurarsi con le nuove realtà e inquietudini del paese, difficilmente comprensibili con gli schemi tradizionali della cultura di sinistra e di quella cattolica. E pesò l´incapacità di dare esempi di «buona politica» in un Paese ancora devastato dalla agonia e dalla fine drammatica della «Repubblica dei partiti».
Ebbe conseguenze profondamente negative l´incapacità di dar realmente vita a un nuovo soggetto politico riformatore: al suo posto gli elettori videro sempre più all´opera «una coalizione elettorale fuori tempo e fuori luogo» (questo giornale lo scriveva già allora). A completare il quadro venne il fallimentare cammino della Bicamerale, con il prevalere di mediazioni logoranti e tutte interne a schieramenti poco animati da un vero spirito costituente. E con un centrodestra poco disposto al rispetto degli accordi e delle regole, come confermò la fine di quell´esperienza Nell´autunno del 1998 la caduta del governo Prodi favorì la definitiva rivincita delle vecchie pratiche, e il coinvolgimento di Cossiga e Mastella ne fu il simbolo estremo. Stefano Rodotà osservava allora che nell´«infinita transizione italiana» continuava a «impazzire la maionese di una politica confinata nelle mani di ristrettissimi e talora improbabili stati maggiori»: ne derivavano lo svaporare della sinistra, l´emarginazione delle voci laiche e l´incombere di una sorta di «partitocrazia senza partiti». Di qui, insomma, il precipitare di una deriva, con il crollo sancito nel 2000 dalle elezioni regionali che portarono alle dimissioni di D´Alema (che pure aveva guidato bene il paese nella crisi del Kosovo e, superata la fase dei sacrifici, aveva visto avviarsi la ripresa economica). Un crollo che acquisterà poi, per il cumularsi di altri errori, dimensioni ancor più rilevanti e riporterà trionfalmente in campo il centrodestra e Silvio Berlusconi.
Queste e altre vicende possono certo essere lette in modo meno sommario e unilaterale ma è difficile illudersi che a quei guasti -tenacemente rimossi- si possa porre facilmente rimedio. Ed è evidente invece che le urgenze attuali impongono al centrosinistra il rapidissimo avvio di una reale inversione di tendenza: in primo luogo con la delineazione di un programma essenziale e trasparente, di cui da tempo si sono smarrite le tracce. Un programma capace di parlare anche a quelle vastissime aree culturali e sociali che gli sono apparse talora ignote ed estranee. Appare altrettanto essenziale, infine, un rigoroso impegno a innovare le modalità della politica: dando concreta prova di esso sin da ora e privilegiando poi nella scelta del candidato premier e della possibile «squadra di governo» figure realmente autorevoli, capaci di ridurre al minimo i condizionamenti della «partitocrazia senza partiti». Sembra davvero il libro dei sogni ma imboccando altre strade il centrosinistra non sembra avere molte speranze. E sarebbe un vero disastro per il paese.

Corriere della Sera 10.8.10
La vittoria con il ministero dei genitori atei
La figlia aveva dovuto frequentare l’ora di religione perché non c’erano i corsi alternativi
di Ni. M.

PADOVA — Il Tribunale Civile di Padova ha condannato a un risarcimento danni di 1.500 euro una scuola di Padova e il ministero dell’Istruzione: la somma sarà versata a una coppia di genitori che aveva protestato perché la figlia è stata costretta a seguire l’ora di religione.

La vi c e nda è i ni ziatalo scorso anno scolastico. La coppia padovana, atea, sceglie di non far partecipare la loro bambina all’ora di religione. Ma all’elementare Zanibon del quartiere Sacra Famiglia, l’insegnamento alternativo alla religione non è previsto. L’alunna è così costretta a partecipare alle lezioni sulla storia del Cristianesimo: ogni giovedì dalle 8,15 alle 10,15. Ma dopo alcune diffide, nel novembre 2009 i genitori ottengono che la bambina non sia in classe durante quella lezione. Ma i corsi alternativi non partono. Così i due genitori presentano ricorso in Tribunale. La prima sentenza dà loro torto: per il giudice monocratico non esisteva un diritto ad avere l’ora alternativa e la scuola poteva dunque organizzare liberamente il tempo di chi non sceglie religione, compatibilmente con le risorse disponibili.

La coppia ricorre in appello. I giudici di secondo grado ribaltano il verdetto. Secondo il Tribunale gli insegnamenti alternativi sono «facoltativi, ma devono essere offerti obbligatoriamente per rendere effettiva la scelta compiuta dallo studente». Inoltre, «la disponibilità economica non influisce sulla posizione giuridica soggettiva della persona che rimane tale pure a fronte dell’inesistenza di mezzi economici». Insomma, la scuola avrebbe avuto il dovere di programmare l’utilizzo di fondi regionali per l’attivazione di corsi alternativi, «ciò che non ha fatto. Si deve ritenere che la scuola abbia posto in essere un comportamento che indirettamente ha prodotto l’effetto di discriminare nell’esercizio del diritto all’istruzione e alla libertà di religione», si legge nel verdetto. «In un primo momento, fino al 12 novembre 2009, la bambina ha dovuto assistere all’ora di religione, cosa che integra una lesione della libertà di religione». Mentre per il resto dell’anno scolastico, la piccola «ha comunque subito una discriminazione rispetto ai propri compagni che hanno potuto usufruire di un apporto conoscitivo di tipo confessionale, mentre lei non ha fruito di alcun apporto conoscitivo, determinando così una limitazione del suo diritto all’istruzione tutelato dall’articolo 34 della Costituzione». Libertà di culto e diritto all’istruzione, capisaldi della Costituzione che, scrive la sentenza, «sono stati inibiti».

Corriere della Sera 10.8.10
Amendola, il testamento censurato
Il Pci chiese di non pubblicare l’ultima lettera: «Troppo intimista»
di Edoardo Segantini

Della biografia di Giorgio Amendola (21 novembre 1907 - 5 giugno 1980) si è occupato ampiamente lo storico Giovanni Cerchia, che ne ha analizzato in tre volumi la complessa figura umana e politica, al crocevia tra liberalismo, comunismo e ideali risorgimentali. Mentre Piero Melograni, autore nel 1976 di una provocatoria Intervista sull’antifascismo (Laterza) con il dirigente comunista, si è detto convinto che il presunto filosovietismo di una certa fase dell’itinerario amendoliano fosse solo «strumentale» e che Amendola si battesse — in polemica con Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao — per un più netto e radicale «strappo» da Mosca. E per un più netto posizionamento riformista del Pci.

Ma se molto conosciuto è l’Amendola politico, molto meno noto è l’Amendola privato. Oggi, a trent’anni dalla sua morte, i familiari rivelano al «Corriere della Sera» un episodio inedito, che da un lato fornisce un elemento di dettaglio in più sui rapporti interni e lo stile del Pci di quegli anni e dall’altro contribuisce a illuminare il profilo umano del leader comunista. E — soprattutto — a meglio misurare la profondità totalizzante dell’amore che lo legò per quasi cinquant’anni alla moglie francese Germaine Lecocq, morta a Roma poche ore dopo di lui: quei cinquant’anni furono la lunga epopea che passò dall’espatrio a Parigi (dove la conobbe all’uscita di un cinema nel 1931) al confino sull’isola di Ponza (dove si sposarono tre anni dopo), dalla Resistenza alla Costituente, dalla lotta politica nel Pci fino all’ultimo periodo, il più appartato, in cui Giorgio scrisse i suoi due libri di memorie, Una scelta di vita e Un’isola (editi da Rizzoli).

L’episodio è questo. «Dopo la morte di Amendola — racconta Camillo Martino, che ne sposò la figlia Ada e per quarant’anni fu il medico della sede del Pci in via delle Botteghe Oscure — l’allora segretario del partito Enrico Berlinguer chiese a noi familiari di non rendere noto il "testamento" di Giorgio. Una lettera di cinque pagine scritta a penna. Berlinguer giudicava la sua pubblicazione inopportuna, in quanto il testamento era troppo intimista. Fu proprio questa la parola che usò, intimista, perché nel suo scritto finale Giorgio effettivamente dedicava tutte le sue parole alla moglie Germaine. La cosa, confesso, sorprese anche me, anche noi: non una riga sul partito, sulla politica, sul Paese. Neppure sull’unica figlia, morta a 38 anni. Ogni singola parola era per lei, Germaine. Lei che era stata la parte centrale e fondante della sua vita, lei che aveva reso possibile, sacrificandosi, il suo stesso impegno politico e civile».

L’incontro con gli Amendola si svolge a Roma, nella casa in cui vissero Giorgio e Germaine: vi partecipano, con Camillo Martino, le sue due figlie, Elena e Sandra, e Giovanni Amendola, economista ed esperto di telecomunicazioni, figlio di Pietro (fratello di Giorgio), che porta il nome del nonno, il grande giornalista del «Corriere della Sera», poi ministro delle Colonie nel governo Facta e leader dell’opposizione liberale a Mussolini, che morì a Cannes nel 1926 in seguito a una violenta aggressione subita l’anno prima in Toscana da parte dei fascisti.

L’appartamento, in cui oggi vive Elena, è all’ultimo piano di un palazzo sulla Cristoforo Colombo, la grande arteria che conduce all’Eur. Verde chiaro, finestre larghe e rettangolari in stile anni Cinquanta, lo stabile venne costruito dalla cooperativa dei parlamentari «Montecitorio 1» e nel quartiere è noto come «la casa dei presidenti» perché vi abitarono, tra gli altri, i capi dello Stato Sandro Pertini e Giovanni Leone.

Ed è rimasto grosso modo com’era quando ci abitava «Giorgione», come lo chiamano in famiglia e lo chiamavano gli amici per la mole imponente e il vocione baritonale: arredamento sobrio, scaffali pieni di libri, pareti ricoperte di quadri. Sopra un divano campeggia il ritratto che Renato Guttuso fece all’amico Giorgio, il volto ormai scavato dalla malattia; su un’altra parete un’opera di Corrado Cagli e, accanto, il gallo che Carlo Levi dipinse in onore del cognome di Germaine (Lecocq, appunto «il gallo» in francese). In posizione centrale sta, oggi come allora, la televisione, che Amendola adorava: non solo i telegiornali, ma anche i varietà. Le nipoti ricordano il giorno in cui, nello sconcerto di via delle Botteghe Oscure, al suo ufficio arrivò un enorme mazzo di fiori da parte di Raffaella Carrà, il cui talento e la cui simpatia lui aveva pubblicamente, e forse per qualcuno inopportunamente, lodato.

I ricordi riaffiorano man mano che le fotografie vengono estratte con cura dagli scatoloni, dove sono catalogate anno per anno. In uno quelle politiche: Amendola con Palmiro Togliatti e Nilde Iotti, Amendola accanto a Ingrao, Amendola con l’amico Giancarlo Pajetta. In un altro quelle private: in una, scattata a Ponza nel 1936 durante il confino, lui è seduto, circondato dalle quattro donne della sua vita: Germaine, la suocera «Madame Lecocq», sua madre, l’intellettuale lituana Eva Kuhn, e sua figlia Ada, biondissima come la nonna.

«Germaine — racconta Martino— era tutt’altro che una persona facile. Intelligente e sensibile, era capace di fargli terribili scenate di gelosia, spesso ancheretro attiva, te mpestandolodido mandeediso - spetti sul periodo in cui loro, già sposati, erano costretti a vivere separati: lei in Francia, lui a Roma, dirigente dei Gap. Più che una coppia li ricordo come un’inestricabile simbiosi vivente: come la loro fine ha dimostrato, non potevano vivere l’uno senza l’altra».

Nella casa all’ultimo piano, dov’erano rigorosamente bandite le tende, raccontano le nipoti Elena e Sandra, intorno al nonno regnavano tre donne: Ada, Germaine e sua madre, in famiglia chiamata Madame Lecocq. A volte, per fortuna di rado, scoppiavano discussioni che degeneravano in liti furibonde, parte in italiano e parte in francese, a cui, esaurita la pazienza, la voce potente del nonno metteva fine con un «Basta!» o un «C’est trop!».

Ma ricordano anche momenti di estrema tenerezza. «Germaine sapeva essere dolcissima e aveva una fantasia inesauribile, di cui godevamo noi bambine. Come quando, con l’aiuto del nonno che scriveva disciplinatamente sotto la sua dettatura, inventava commedie ambientate nella stanza da bagno: di solito erano storie di oggetti che si animavano, ad esempio la saponetta che litigava con il portasapone». Germaine Lecocq era una brava pittrice ed era convinta che il marito sarebbe stato bene con la barba, desiderio che lui si guardò bene dall’assecondare. Allora lei si accontentò di fargli un bellissimo ritratto, con la barba. Di cui risero insieme.