martedì 31 agosto 2010
lunedì 23 agosto 2010
Repubblica 23.8.10
Con quale Dio parla Obama
di Vittorio Zucconi
La Repubblica fu fondata da un gruppo di fieri e convinti massoni
Insieme alla moglie e alle figlie il primo cittadino evita le funzioni domenicali
Su consiglio di Rove, Bush jr. cercava il voto dei cristiani fondamentalisti
La religiosità di Barack Obama è stata finora usata contro di lui: troppo tiepida, dicono i repubblicani. E il 19 per cento degli americani sospetta che sia musulmano. Così adesso il suo staff corre ai ripari, cercando di presentare l´immagine di un uomo più devoto
WASHINGTON. La voce professionale della centralinista della Casa Bianca scosse il reverendo Joel Hunter dalle devote meditazioni nella sua chiesa in Florida con la richiesta imperiosa di restare in linea e l´annuncio raggelante che il presidente degli Stati Uniti lo stava cercando dall´alto dei cieli, dai 15 mila metri di quota dove incrocia l´Air Force One, ben al di sopra del traffico commerciale.
Barack Hussein Obama aveva urgente bisogno di parlare con un pastore d´anime, con un uomo di Dio. «Hi, salve, Joel – risuonò la voce baritonale e pastosamente inconfondibile del capo della nazione – oggi è il giorno del mio compleanno, il 4 agosto, e sono qui da solo come un cane, un po´ depresso senza la moglie che è in vacanza e le figlie al campeggio estivo. Avrei voglia di pregare sull´anno passato, sui miei errori, su quello che ci attende in autunno, le dispiace?».
Al reverendo Hunter, suo vecchio amico, cappellano di fatto del Partito democratico i cui congressi ha benedetto, non poteva dispiacere. Con automatica premura, si lanciò immediatamente nel Padre nostro.
La voce professionale della centralinista della Casa Bianca scosse il reverendo Joel Hunter dalle devote meditazioni nella sua chiesa in Florida con la richiesta imperiosa di restare in linea e l´annuncio raggelante che il presidente degli Stati Uniti lo stava cercando dall´alto dei cieli, dai 15 mila metri di quota dove incrocia l´Air Force One, ben al di sopra del traffico commerciale.
Barack Hussein Obama aveva urgente bisogno di parlare con un pastore d´anime, con un uomo di Dio. «Hi, salve, Joel - risuonò la voce baritonale e pastosamente inconfondibile del capo della nazione - oggi è il giorno del mio compleanno, il 4 agosto, e sono qui da solo come un cane, un po´ depresso senza la moglie che è in vacanza e le figlie al campeggio estivo. Avrei voglia di pregare sull´anno passato, sui miei errori, su quello che ci attende in autunno, le dispiace?».
Al reverendo Hunter, suo vecchio amico, cappellano di fatto del Partito democratico i cui congressi ha benedetto, non poteva dispiacere. Con automatica premura, si lanciò immediatamente nel Padre nostro. Di questo piccolo episodio probabilmente autentico, almeno come autentici sono gli episodi che dagli uffici stampa dei governi sgocciolano sui giornali, non avremmo mai saputo niente se questa estate di tormenti politici, lapidazioni economiche e spinosi sondaggi che vedono crescere il numero di americani fuori di testa che sospettano Barack Hussein di essere musulmano (19 per cento, un po´ più di quelli persuasi che Elvis sia ancora vivo) non avesse prodotto quel miracolo che la politica americana sforna a intervalli regolari, e sempre quando le vele dei suoi leader si sgonfiano o sbattono contro tempeste brutali: il ritorno di Dio alla Casa Bianca.
La telefonata-confessione di Obama dalla solitudine del mastodonte alato al pastore protestante preferito (e poi anche ad altri due, tanto per stare nel sicuro) non ha raggiunto la deliziosa ipocrisia dei pastori protestanti, sacerdoti cattolici, rabbini, imam, spiritualisti New Age convocati a plotoni dal contrito, perché scoperto, Bill Clinton sul luogo dei suoi peccati carnali per penitenza dopo il piacere nello Studio ovale. Ma la riscoperta di Dio compiuta da Obama è un indice di difficoltà politiche più eloquente e sicuro di cento editoriali e di ogni listino di Borsa.
Il Dio della Casa Bianca è ormai da quasi due secoli e mezzo un ospite insieme permanente e precario, è un fantasma nel guardaroba che gli inqulini evocano o rinchiudono secondo convizioni personali che tendono a coincidere con le loro fortune politiche o ad alimentarle. Dalla fondazione della Repubblica, affidata a un gruppo di fieri e convinti massoni che alludevano a divinità ben lontane dalle visioni dei papi di Roma, degli arcivescovi di Canterbury o dei riformati luterani, Dio, per ora soltanto nell´edizione rigorosamente dopo Cristo, non è mai del tutto mancato nei governi di una nazione che si proclama la più cristiana del mondo (Stato del Vaticano escluso per dimensioni). Ma se per un Lincoln, che impose la scritta «In God we trust», in Dio confidiamo, sulle monetine da un centesimo, per un Kennedy che da bravo cattolico credeva profondamente nei preti preferibilmente porporati, per un Bush (quello giovane) ribattezzato e rinato nell´acqua del Giordano dopo troppe immersioni nel Bourbon, per un Carter insegnante di dottrina, il dono della fede sembrava sincero, la conversione di Barack Obama lascia qualche retrogusto di scetticismo.
Non si tratta naturalmente di dare credenza alla false biografie popolarissime nelle discariche indifferenziate di Internet, dove il suo essere un musulmano nero, soprattutto nero, è un dogma per i fanatici. Falsa e definitivamente screditata è anche la sua frequentazione di madrasse gestite dai fanatici islamisti wahabiti a Giakarta, dove visse bambino con la madre risposata con un indonesiano, una panzana ripetuta come prova della sua infamia, nonostante le incavolatissime smentite del preside della sua scuola elementare pubblica ripetute a chiunque lo abbia intervistato, per dire che nel suo istituto si fa storia di tutte le religioni, Islam incluso, ma nessun indottrinamento. E persino il padre, che lo scaricò infante a due anni per tornarsene in Kenya, risulta essere stato un musulmano per nascita, come indica quel nome di mezzo Hussein, ma morto ateo, come la mamma, che detestava tutte le religioni organizzate e, scrisse Obama stesso, «i panni e gli orpelli dietro i quali i preti nascondono il proprio potere e la propria ipocrisia».
La confessione protestante alla quale Obama, divenuto adulto, aderì è la Chiesa Unitaria di Cristo, la United Church of Christ, conosciuta per la moderazione e la ecumenicità del proprio milione di fedeli americani, più attenta all´apostolato sociale che al misticismo. Il suo avvicinamento ai ben più focosi templi battisti, divenuto inevitabile quando cominciò a fare servizio sociale nella Chicago nera, fu dettato dalla semplice realtà delle chiese come centro di aggregazione e di influenza nella comunità di colore. Un avvicinamento che gli procurò soltanto guai, con la amicizia per un revedendo afroamericano, Jeremiah Wright, esagitato predicatore e militante della "negritudine" rancorosa. Ma quando vinse e stravinse le elezioni del 2008, traslocando nella Casa del potere bianco, gli Obama, padre, madre e figlie, scelsero di evitare le funzioni domenicali, con la scusa di non voler stravolgere le vita dei fedeli con l´invadenza dell´apparato di sicurezza. Le ragazzine, Sasha e Malia, sono state iscritte in un liceo nominalmente quacchero, ma più noto per l´eccellenza accademica e per la forte rappresentativa femminile di soccer, di calcio, e di lacrosse che per l´apostolato.
Nonostante le proclamazioni di «grande nazione cristiana», ripetute con enfasi angosciata e un po´ truculenta soprattutto dopo il trauma del 9/11, questo garbato distacco fra il capo dello Stato e la religione organizzata è sempre stato più la norma che l´eccezione. Senza arrivare all´estremo di Theodore Roosevelt, che avrebbe voluto togliere dalle monete anche quel riferimento a Dio che considerava un doppo sacrilegio, per Dio associato ai quattrini e per la zecca associata a Dio, la fede cristiana dei presidenti nel XX secolo è sempre apparsa più un tributo al perbenismo da vestitino della domenica e alla generica moralità mosaica che un afflato irresistibile dell´anima.
Roosevelt, il cugino di Ted, aveva troppi problemi di mobilità da paralisi infantile, polio, alle gambe, per amare inginocchiatoi e riti. Eisenhower, cresciuto come testimone di Geova dalla madre, si rifugiò maturando nel piu mite ed elitario grembo dei presbiteriani. Per quasi due decenni, dal 1960 al 1976, il rapporto fra un presidente e Dio fu definito dal grande discorso di John Kennedy all´Università Rice di Houston, quando mise fine ai sospetti che lui, cattolico, avrebbe obbedito più alla curia romana che alla Costituzione, ricordando che la religione va «chiusa tra parentesi quadre» ed esclusa nel giudicare un candidato. Dovette irrompere Nixon, quacchero di formazione ma grandissimo devoto del potere e della politica, per riportare il penitenziere nazionale bigotto, Jimmy Carter, a ostentare la propria vocazione come riscatto nazionale dopo il torvo e scandaloso Dick. Carter, catechista di bambini nella natia Georgia, diacono e sacrestano, pagò questo accanito misticismo quando ammise non soltanto di avere libidinosamente sfogliato Playboy, ma di avere avuto un pericoloso incontro con un coniglio mannaro gigantesco negli acquitrini della Georgia. Un´apparizione che rischiò di screditare secoli di mistiche visioni e di messaggeri celesti, mai fino ad allora incarnati in roditori ciclopici.
Il furbissimo Reagan, che nella poco virtuosa Hollywood aveva appreso l´arte di recitare, faceva grande e retorico uso di citazioni bibliche - come l´America «luminosa città sulla collina» pescata direttamente dal discorso di Gesù sul «sale e la luce» nel Vangelo secondo Matteo - e arruolava volentieri Dio nelle orazioni funebri: «Gli astronauti del Challenger hanno oggi toccato il volto di Dio», morendo inceneriti. Ma soltanto nell´estrema vecchiezza annebbiata dall´Alzheimer lo si vide al braccio della fedele Nancy nelle chiese di Bel Air, sopra Hollywood.
Si dovette arrivare a Bush il Giovane per ascoltare un presidente dire, nel discorso più alto dell´anno, quello sullo stato dell´Unione, che lui seguiva le disposizioni di Dio andando a bombardare l´Iraq e che Gesù era il «mio filosofo preferito», un´investitura culturale importante, ma probabilmente un po´ riduttiva per il Creatore del cielo e della Terra. Ma Bush doveva radunare attorno a sé le armate angeliche dell´elettorato cristiano fondamentalista, come gli aveva consigliato il cinico e scarsamente pio Karl Rove, un elettorato che esige quel tributo ai valori conclamati e alla giaculatorie rassicuranti che Obama, neppure telefonando a migliaia di predicatori e uomini di Chiesa, potrà mai garantire. Dice, e fa dire, le orazioni della sera alle figlie. Ci fa sapere che prega sovente, nei momenti privatissimi, magari accendendosi una di quelle sigarette dalle quali non riesce del tutto a svezzarsi. E quando la dispensa del favore pubblico si svuota scatta, come nelle nostre nonne che cinicamente ricordavano di «pregare Gesù quando non ce n´è più», il bisogno di aprire il guardaroba. E invitare ad uscirne quel Dio paziente che aspetta la chiamata dei superbi che credevano di poter fare a meno del Suo aiutino.
Repubblica 23.8.10
Il verbo dell’autocrate
di Adriano Prosperi
«No a formalismi costituzionali, decide il popolo». Questo il verbo dell´autocrate populista, sordo a ogni richiamo alla correttezza delle forme. Nella cronaca avvelenata di questo agosto, sullo sfondo dello sfaldamento del conglomerato del "popolo della libertà", si punta a un regolamento di conti elettorale in barba alle emergenze economiche e sociali che il prossimo autunno fa ragionevolmente temere.
Su questa strada si presenta l´ostacolo costituito dal necessario passaggio formale della verifica che il presidente della Repubblica è tenuto a fare sull´esistenza o meno di una maggioranza politica in questo Parlamento. Dunque la frase di Berlusconi è in primo luogo una risposta ai richiami giunti in questi giorni proprio dal presidente della Repubblica: richiami fermi e quanto mai opportuni, se si pensa che perfino il ministro guardasigilli si è permesso di ritagliare a suo comodo il dettato dell´articolo primo della Costituzione là dove si fissa con esattezza il punto di contatto e di concordia tra forma e sostanza: «L´Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Sostanza è la sovranità del popolo: forme sono quelle previste dalla Costituzione per guidare entro limiti determinati il percorso attraverso il quale la sostanza della sovranità deve diventare il volto istituzionale e politico del Paese.
Tutt´e due, sostanza e forma, sono necessarie. Senza la sostanza del popolo sovrano la forma politica di un paese diventa una vuota maschera; senza il rispetto di adeguate forme costituzionali quella sovranità è una forza incontrollata e distruttiva, aperta agli esiti più disastrosi. Basta risalire alla storia della nascita delle moderne democrazie per scoprire che l´accordo preliminare sulle forme costituzionali è stato il passaggio necessario per dare vita alla sostanza della volontà popolare. Quelle regole, una volta fissate, devono essere sacre per tutti, in modo speciale per chi assume un potere di governo che gli viene delegato dal popolo attraverso il passaggio formale del giuramento di osservare la Costituzione. Giuramento che tutti i membri del governo attuale hanno fatto. Che poi abbiano finto di dimenticarlo quel giuramento e non perdano occasione per gareggiare nel dileggiare la Carta costituzionale è una delle cose che fa tristezza e vergogna a chi guarda a questo spettacolo indecente.
Ci chiediamo quanto dovremo aspettare per avere un governo fatto di persone capaci di sentirsi legati a qualcosa di superiore rispetto alla impellente necessità di togliere il premier dai suoi guai giudiziari. Perché questo avvenga proprio in Italia e per opera di un governo che ha promesso di "fare" e poi ha disfatto, e per la guida di un imprenditore che si dichiara estraneo alla politica, è un problema che richiederebbe attenzione. È un fatto che l´Italia ha da questo punto di vista una cattiva fama che dura da tempo. Il celebre storico e politico francese François Guizot scriveva nell´800 che in Italia, «gli uomini d´affari, i padroni della società non hanno mai tenuto quasi nessun conto delle idee generali; non hanno quasi mai provato desiderio di regolare, secondo certi principi, i fatti posti sotto la loro giurisdizione».
È una regola confermata dall´attuale governo, sempre più un governo degli affari privati di Berlusconi. E in fondo il disordine nato nella compagine governativa non è che la riprova che lo sprezzo delle forme produce il disordine avvilente di quella Prova d´orchestra di Federico Fellini: un´orchestra governativa che oggi produce solo rumore.
Repubblica 23.8.10
Alleanza Costituzionale, la sinistra frena il Pd
Giordano a Franceschini: non si sfugge alle primarie. Cacciari: un´ammucchiata
di Annalisa Cuzzocrea
L´Udc: dibattito prematuro. Il veltroniano Verini: sì al patto ma solo nell´emergenza
I vendoliani: organizziamo subito le consultazioni sul candidato premier
ROMA - L´Alleanza Costituzionale lanciata da Dario Franceschini non convince tutti coloro che dovrebbero farne parte. Non convince l´Udc, che parla di proposta prematura. Non convince Massimo Cacciari: secondo l´ex sindaco Pd di Venezia si tratterebbe di un´«ammucchiata improbabile». E non convince soprattutto i vendoliani di Sinistra Ecologia e Libertà, che più che soffermarsi sulla proposta di Franceschini - un´alleanza in difesa della Costituzione da contrapporre al centrodestra in caso di elezioni anticipate - si soffermano su un altro passaggio dell´intervista. Il capogruppo Pd alla Camera aveva parlato della necessità di scegliere subito un candidato premier, senza passare per le primarie, nel caso la crisi si avvitasse e portasse a rapide elezioni. «Dalle primarie non si sfugge - gli risponde Franco Giordano, certo pensando alla candidatura del leader di Sel Nichi Vendola - senza un coinvolgimento democratico del popolo si rischiano nuove delusioni e nuove fratture». «Piuttosto - rilancia Giordano - parliamo di come organizzarle subito, le primarie, nel caso si andasse a un voto anticipato». Più aperta - forse perché non in corsa per la poltrona di candidato premier - l´altra parte di quella sinistra «fuori dal Parlamento» evocata da Franceschini. Cesare Salvi dice: «Finalmente la piattaforma giusta: la costruzione di un´Alleanza Costituzionale che unisca tutte le forze di opposizione, dentro e fuori il Parlamento». «Queste forze - secondo il portavoce della Federazione della Sinistra - rappresentano la maggioranza degli italiani e, se unite, possono vincere le elezioni». Poi Salvi si offre di partecipare alla campagna d´autunno del Pd: «A quella mobilitazione - dice - dovrebbero partecipare tutte le forze chiamate a far parte dell´alleanza. La Federazione della Sinistra è pronta a fare la sua parte perché il Paese abbia di fronte un´alternativa seria e credibile all´asse Berlusconi-Bossi». Non fa mancare il suo appoggio alla proposta di Franceschini il capo della segreteria del Pd Filippo Penati: «Bisogna tenere insieme i problemi della crisi economica e sociale del Paese con quelli di un presidio per una migliore democrazia», dice. Poi - riecheggiando le parole di Pierluigi Bersani - spiega: «Il nostro impegno è di accorciare le distanze tra tutte le forze che si oppongono a questo stato di cose. In questo modo speriamo si riesca a costruire un progetto che trovi il più largo consenso tra le forze politiche di opposizione, e soprattutto nel Paese». Sembra l´abbandono della vocazione maggioritaria del Pd così come l´aveva pensata Walter Veltroni, questa necessità di allearsi «con chi ci sta» per costruire un´alternativa. Ma il deputato veltroniano Walter Verini non la pensa così: «Mi pare che Franceschini dica una cosa sensata - spiega - nel malaugurato caso in cui la situazione precipitasse, e non si potesse fare un governo di transizione che cambi la legge elettorale, è naturale che dovremmo chiamare a difendere la Costituzione tutti quelli che ci stanno». «Ma - avverte Verini - si tratterebbe di una misura d´emergenza, poi bisognerebbe riscrivere le regole e pensare a innovare. Il Pd non è nato per andare al governo, il Pd è nato per cambiare l´Italia». In tutto questo l´Udc invita alla calma, a non affrettare i passi: «Siamo ancora nella fase del dibattito parlamentare sui cinque punti del programma - dice il presidente dei senatori centristi Giampiero D´Alia - quando ci sarà la prova di fiducia si verificherà se c´è ancora una maggioranza in Parlamento».
l’Unità 23.8.10
5 risposte da Fausto Bertinotti
Lo Statuto ha 40 anni ma si è rovesciata l‘ispirazione della sua logica. E’ il figlio di una stagione di lotta che dalla fine degli anni ’60 voleva prendere il testimone della Costituzione Repubblicana per portarlo avanti e trasformare l’Italia in un Paese che avesse come centro motore i diritti.
2. Stagione infranta
Quella era la stagione della riforma, quella di oggi è la stagione della controriforma: ha vinto il logoramento della democrazia.
3. Terrorismo
Il movimento operaio è stato protagonista della lotta contro queste forme di violenza. Oggi mi pare si tenti di prosciugarne la forza. È scomparsa anche la stagione della lotta per i diritti e per l’eguaglianza sociale.
4 . Federalismo
Qualunque ipotesi di riforma istituzionale, sia la federalista sia delle forme di governo, risulta condizionata negativamente da una democrazia oligarchica che ha rovesciato e preso il posto di quella democrazia fatta dalla società civile, dai movimenti.
5. Nostalgie
Non ho alcuna nostalgia del lavoro parlamentare che ho svolto alla Camera dei Deputati nel precedente Governo, l’unico rammarico è che i lavoratori, sempre di più, stanno perdendo il potere, il potere delle loro faticose conquiste.
l’Unità 23.8.10
In Italia almeno mille minori vittime di tratta o sfruttati
di Felice Diotallevi
Save The Children L’allarme della Onlus nel rapporto annuale sulle nuove forme di schiavitù
Fenomeno allarmante che in Italia fra il 2001 e il 2008 ha riguardato più di 50mila persone
Presentato il rapporto annuale “Nuove schiavitù” a cura della Onlus Save The Children. La tratta e lo sfruttamento fanno nel mondo 2,7 milioni di vittime e generano un volume d’affari di oltre 32 miliardi di euro.
Cinquantamila almeno. È una cifra impressionante quella fornita dal ministero delle Pari Opportunità e citata nell’annuale rapporto di “Save The Children” sui numeri della tratta e dello sfruttamento in Italia. Secondo i dati del documento “Nuove schiavitù”, infatti, sarebbero almeno 50mila le vittime che in Italia hanno ricevuto protezione, assistenza ed almeno un primo aiuto fra il 2000 e il 2008. Di queste un migliaio almeno erano minori, a testimonianza del fatto che anche l’Italia è interessata da un problema che nel mondo riguarda 2,7 milioni di persone (l’80 sono donne e bambine) e che con i suoi 32 miliardi di euro di indotto genera un volume d’affari ricchissimo per le organizzazioni criminali.
Nel nostro paese le vittime di tratta e sfruttamento provengono per lo più da Nigeria, Romania, Moldavia, Albania, Ucraina e il fenomeno di contrasto delle forze dell’ordine ha portato alla denuncia di più di 5 mila persone, nei confronti delle quali sono scattate le accusa di riduzione o mantenimento in schiavitù e tratta di persone. Secondo il rapporto della Onlus, al momento, sono 4.466 i minori stranieri non accompagnati presenti in Italia, di questi 2.500 sono quelli seguiti dalla stessa “Save the children” tra il 2009 e il 2010. Afgani, egiziani bengalesi e romeni le nazionalità più rilevanti. Gli arrivi dall’estero delle vittime avvengono con l’aereo, il che comporta un debito più elevato da ripagare agli aguzzini, mentre su strada si continuano a intercettare le ragazze giunte in Italia via mare, per lo più in Sicilia, e poi spostatesi sull’intero territorio nazionale, ad esempio a Torino, Milano, Napoli o sulla costa adriatica. Un gran numero di queste è rappresentato dalle giovani romene, o comunque provenienti dell'Est Europa. E romeni sono anche buona parte dei minori coinvolti in attività illegali, ma tanti sono anche i bambini o adolescenti di origine nord-africana, alcuni con non più di 14 anni. Reclutati nei paesi di origine o in Italia, vengono costretti a compiere furti e scippi. Nel nord Italia, ad esempio, si sta radicando il fenomeno dello sfruttamento di minori senegalesi nello spaccio di stupefacenti. Fra i minori a rischio “Save the Children” segnala quelli bengalesi che, ospitati da connazionali, pagano fino a 250 euro al mese per un posto letto. Molti di loro, poi, ripagano l’ospitalità lavorando come venditori ambulanti di collanine, giocattoli, ombrelli, per conto di chi ha in affitto la casa. Per i minori afghani che fanno un lunghissimo e pericoloso viaggio per arrivare in Italia, il nostro paese è più di transito verso il Nord Europa che di destinazione: si stima che per arrivare illegalmente in Norvegia dall’Italia il costo sia di 2.500 euro. Per procurarsi i soldi necessari i minori afgani di solito si affidano ai genitori o a parenti che pagano i trafficanti con il sistema della hawala (il trasferimento del denaro avviene al di fuori del sistema bancario, sulla base di una rete di dealer e sulla fiducia).
Corriere della Sera 23.8.10
La commedia del Pd diviso fra Cota e Togliatti
Dagli anniversari all’attualità, un partito in cerca d’identità
di Paolo Franchi
Da pagina 1 Giulio Tremonti, Roberto Calderoli e Roberto Maroni hanno preso la palla al balzo per annunciare, per protesta, anche il loro forfait. Ma, quel che è peggio, la decisione crea trambusto anche nel Pd. Sergio Chiamparino l’ha contestata duramente, sostenendo che getta un’ombra sulla credibilità del partito specie in caso di elezioni, e provocando le ire di Nicola Zingaretti che lo ha accusato di subalternità alla destra. Piero Fassino ha criticato aspramente il gran rifiuto dei tre ministri, sì, ma prima ancora la scelta di non convocare il governatore, augurandosi che si riesca a correggerla in fretta e ricordando che della legittimità dell’elezione di Cota si devono occupare il Tar e il Consiglio di Stato, non gli organizzatori di una festa di partito per tradizione e per vocazione apertissima al confronto.
«Il Migliore» A lato, «I funerali di Togliatti» di Renato Guttuso (1972). Sotto, il leader del Pci (1893-1964)
Una polemica oziosa, come la maggior parte delle polemiche che ci affliggono? Sicuramente sì. Proprio per questo, però, si fatica a capire perché il Pd, anche a prendere per buona la versione lasciata trapelare, abbia provveduto con tanta solerzia a scatenarsela addosso. È vero che spira forte il vento delle elezioni anticipate. Ma, se c’è da confrontarsi, anche aspramente, sullo spirito (una volta si sarebbe detto: sulla linea) con cui affrontarle, forse sarebbe il caso di trovare occasioni e sedi più propizie.
E Palmiro Togliatti, che c’entra? C’entra, c’entra. Perché il 21 agosto ricorreva il cinquantaseiesimo anniversario dalla morte. E il Pd ha provveduto, seppure in sordina, a celebrare la ricorrenza. Suscitando anche in questo caso polemiche a destra, in cui si è distinto in particolare Maurizio Gasparri, ma pure qualche dissenso al proprio interno, come quello manifestato da Arturo Parisi. Una specie di caso Cota della memoria, se possibile ancora più ozioso sotto il profilo politico e intellettuale, che però in qualche modo chiama ancora una volta in causa, seppure in modi a dir poco abborracciati, quella che un po’ pomposamente (e sempre più stancamente) viene definita la questione della «identità» del Pd. Ancora negli a nni Ottanta , quando però non c’era il Pd e nemmeno il Pds o i Ds, ma il partito comunista, l’anniversario della morte a Yalta del Migliore, oltre che di sobrie commemorazioni al Verano con foto notizia sul quotidiano del partito, poteva benissimo essere occasione di confronto e anche di scontro politico: memorabile, all’inizio del decennio, un articolo sull’Unità in cui Giorgio Napolitano trasse occasione dalla ricorrenza per denunciare il pericolo che la politica del partito si stesse riducendo a propaganda.
Certo Togliatti, per quanto severo e anche feroce possa essere il giudizio su di lui, fu un politico di primissima grandezza, non certo un propagandista. Se il grosso del Pci e poi il Pds, a suo tempo, avessero scelto di incamminarsi sulla strada del revisionismo e della socialdemocrazia, di sicuro avrebbero dovuto fare con ben altra passione e con ben altro rigore i conti con la sua eredità. Ma, come è noto, la strada scelta è stata un’altra, quella che ha portato al Pd, un partito, per dirla con Nichi Vendola, che quasi per costituzione non è in grado di proporre una narrazione di sé, dell’Italia e del mondo, e forse non è nemmeno troppo interessato a costruirla. Ammesso e non concesso che il Pd abbia un albero genealogico e un Pantheon di padri nobili non da venerare, si capisce, ma ai quali ispirarsi, si fatica a capire non solo se Togliatti vi troneggi, ma, più in generale, chi altri (De Gasperi? Moro? Nenni? La Malfa? Fanfani? Berlinguer?) abbia titoli e meriti per farne parte: probabilmente, tutti e nessuno. La questione sarebbe seria, molto più seria delle polemicuzze sulla quantità di postcomunismo che circola nel poco sangue del Pd, suscitate da un anniversario e da una commemorazione frettolosa. Però, ne siamo certi, Cota, alla festa, Togliatti lo avrebbe invitato, e con tutti gli onori. Quanto meno per non privarsi della soddisfazione di vedere a casa sua, di fronte alla sua gente, il Cota medesimo, e più ancora Tremonti, Calderoli e Maroni cortesemente costretti a dare delucidazioni sulla crisi del loro governo e della loro maggioranza.
Corriere della Sera 23.8.10
L’ultimo requiem di Mozart e il segreto dei 400 fiorini
I discepoli completarono l’opera commissionata da un conte
di Edoardo Segantini
Da pagina 1 « Il caso del Requiem è uno dei segreti meglio custoditi di Mozart: la maggior parte del pubblico ama quella musica ma non sa che lui ne compose soltanto una parte». A Trivigliano, un paesino del Lazio a 800 metri di quota, lo storico Piero Melograni sta lavorando con l’amico giornalista e scrittore Pino Pelloni al suo racconto del Novecento, una biografia del «secolo lungo» vista attraverso i ricordi personali ma soprattutto attraverso i personaggi incontrati nella sua vita di intellettuale e, più brevemente, di politico. Melograni adora svelare i segreti, tanto che uno dei suoi libri più belli si intitola proprio «Le bugie della storia». Ma adora anche la musica. E non a caso ha scritto una biografia avvincente, dedicata proprio a Mozart, che ha fatto discutere. Sì, perché quello del Requiem K626 è veramente il mistero di un capolavoro incompiuto. Che nel corso del tempo ha diviso gli storici e i musicologi, ma ha anche alimentato congetture e acceso passioni. Ecco la vicenda. Nel luglio del 1791, all’età di 35 anni, Wolfgang Amadeus riceve da un intermediario non ben identificato l’incarico di scrivere una messa da requiem. Inizia a comporre, ma può continuare solo mesi più tardi, dopo aver completato «La clemenza di Tito» e «Il flauto magico» a cui già sta lavorando. Quando, intorno alla metà di settembre, torna a Vienna da Praga, però, la sua salute peggiora. Resta impresso nel ricordo il modo in cui il regista Milos Forman e l’attore protagonista Tom Hulce portano sullo schermo, nel magnifico film «Amadeus» del 1985, la creatività febbrile di quei giorni, nella caotica e gelida casa viennese. Mozart porta a termine infatti altre composizioni, ma quando infine potrebbe dedicarsi interamente al Requiem la malattia si aggrava. Inchiodato al letto a partire dal 20 novembre, continua a lavorare con le sue ultime energie. Ancora nel pomeriggio del 4 dicembre, rivede con alcuni cantanti suoi amici le parti già compiute del Requiem. La notte seguente muore e la sua messa rimane un frammento. E un mistero. In due secoli, questi pochi dati certi hanno dato luogo a cupe interpretazioni romantiche, in parte riprese dal cinema: lo spettrale messaggero mascherato (un invidioso Salieri, interpretato da uno strepitoso Murray Abraham), l’ipotesi dell’avvelenamento, la fatale sovrapposizione temporale tra il Requiem e la morte del giovane genio. «In realtà — dice Piero Melograni — l’intermediario era quasi certamente Johann Puchberg, commerciante e abituale creditore del maestro, che gli commissionò il Requiem su incarico del conte Franz Xaver Walsegg-Stuppach. La somma pattuita, 400 fiorini, era molto alta, quasi pari a quella ricevuta per "Le nozze di Figaro". Mozart sapeva che il committente avrebbe spacciato per propria la composizione, in una sorta di estremo omaggio alla moglie appena scomparsa, ma non poté rifiutarsi perché debitore verso Puchberg di una somma notevolmente più alta». «Il conte — scrive Volker Scherliess, critico della Hochschule für Musik di Lubecca — trascriveva di suo pugno le partiture che si era procurato di nascosto e per la loro esecuzione faceva ricopiare dal suo manoscritto le singole parti. Si racconta che gli esecutori avessero poi il compito di indovinare il compositore; anche se erano naturalmente a conoscenza dei retroscena, per senso di cortesia essi indicavano il conte come l’autore delle musiche, e il conte allora sorrideva compiaciuto». Volendo farla figurare come opera di un musicista dilettante, dice Melograni, il Requiem doveva essere credibile: Mozart perciò era indotto a frenarsi, a eliminare le soluzioni più geniali e quindi a lavorare con disagio. Di certo, nel corso della sua vita intera, non si era mai trovato in un pasticcio del genere. Il 5 dicembre, quando morì, lasciò l’opera incompiuta. Chi la completò? L’unica parte del Requiem che Mozart scrisse per intero — sostiene Melograni, d’accordo con Bernhard Paumgartner, lo studioso, compositore e concertista che per quarant’anni ha diretto il Mozarteum di Salisburgo — è l’Introitus Requiem Aeternam. Cioè cinque minuti dei cinquanta che dura il Requiem. E, solo in parte, il «Kirie» e il «Lacrimosa». Tutto il resto fu scritto o completato da altri, probabilmente sulla base di appunti e annotazioni lasciati dallo stesso autore. «Coloro che in fasi successive e con capacità diverse completarono l’opera — precisa Melograni — furono alcuni suoi allievi e assistenti come Franz Xaver Süssmayr, Franz Jacob Freystadtler e Joseph Eybler, radunati dalla moglie di Mozart, Constanze, che evidentemente temeva di dover restituire la somma già intascata se avesse consegnato un’opera incompiuta. Insomma, Constanze e i discepoli di Mozart finirono per confezionare un prodotto sostanzialmente falso. Ma era appunto questo, in qualche modo, lo scopo della commissione voluta dal conte Walsegg». La speranza di Süssmayr era di aver compiuto almeno un lavoro tale «che gli intenditori potessero scorgervi qua e là alcune tracce degli indimenticabili insegnamenti del maestro». E in effetti, malgrado le grossolanità e le banalità (ovviamente relative) che gli esperti hanno ravvisato nell’opera, quasi una «fusion» si potrebbe definirla con il linguaggio attuale, il Requiem contiene comunque, seppur diluito nell’acqua dei discepoli, un tasso di genio del maestro abbastanza forte da emozionare ancora a distanza di due secoli. Ed è questo, alla fine, il vero mistero della composizione: la musica stessa. «Da una parte — scrive ancora Scherliess — c’è una formidabile sintesi di antiche tradizioni di musica sacra, ad esempio nell’impiego della fuga e del canone. Dall’altra, elementi tipici dell’opera lirica sono intensificati in modo straordinario e indimenticabile, ad esempio in certi fraseggi d’ascendenza napoletana nel "Lacrimosa"». Ma a questi momenti — che rielaborano la musica del passato — il giovane e malato Mozart, ormai a pochi passi dalla fine, aggiunge accenti di profonda, inconfondibile e moderna intimità. Un’onda che ancora ci travolge, con intatta potenza.
domenica 22 agosto 2010
il Fatto 22.8.10
E adesso in piazza
di Paolo Flores d’Arcais
Berlusconi, con il suo discorso di rilancio del programma di governo, ha fatto “un bagno di realismo”, che Fini dunque non può che sottoscrivere, proclama con perfetta dabbenaggine il Corriere della sera nel suo editoriale di servo encomio. In realtà il capo di tutte le cricche ha solo recitato un comizio elettorale più mediocre del solito. Il cui unico messaggio concreto – e ultimativo – sono le tre leggi di impunità che pretende vengano votate al più presto. Se Fini fa poco poco il neghittoso, si va alle urne, perché – il diktat è per Napolitano – “non si può cancellare il premier scelto dagli elettori”. Interrogando i sondaggi, il suo “specchio delle mie brame” gli risponde infatti che più il tempo passa, più i consensi precipitano. E che l’unico a fare l’en plein, se si aspetta la primavera prossima, sarà Bossi. La verità è dunque che Berlusconi non è mai stato tanto debole come oggi. La sua sola forza – ancora gigantesca, purtroppo – è la pervicace inesistenza dell’opposizione. L’ascesa dell’aspirante Arturo Ui non è mai stata così resistibile. Resistibilissima. Al punto, anzi, che sarebbe l’ennesimo degli errori limitarsi a resistere contro il golpe quotidiano che vuole assassinare la Costituzione nata dalla Resistenza. L’Italia democratica deve – perché può – passare all’offensiva. Non lo farà il Pd, opposizione inesistente, lo dovrà perciò fare la società civile. Scendendo in piazza al più presto. Non per una ripetizione di ormai riduttivi no-B day, ma offrendo agli italiani l’alternativa della bandiera che dice “REALIZZAZIONE della Costituzione”. Integralmente, in tutte le sue straordinarie implicazione di “giustizia e libertà”.
I consensi di Berlusconi sono incominciati a franare non appena la voce “legalità” ha potuto bucare gli schermi, suggerendo l’ovvia risposta “giustizialista” alle ruberie delle cricche del padrone di Arcore. Il paradosso è che questa parola non è uscita dalla bocca dei D’Alema e Veltroni (a cui del resto non crederebbe più nessuno), ma da chi fino a ieri ha sostenuto Berlusconi. Meglio tardi che mai, lo diciamo senza un filo di ironia. Ma è evidente che senza la mobilitazione del Paese Berlusconi vincerà di nuovo, e non farà prigionieri. Tocca perciò alla società civile passare dal nobilissimo “resistere, resistere, resistere” di questi anni al progetto di risorgimento costituzionale che metta insieme – nel vivo delle lotte che selezioneranno i leader che mancano – la liberazione dell’Italia da poteri e governi criminali con una nuova stagione di giustizia sociale.
il Fatto 22.8.10
Il Pd alla guerra delle commemorazioni
di Caterina Perniconi
Ventuno agosto, ore nove e mezzo. Circa. Trenta gradi e neanche una nuvola amica. Il Partito democratico sfida la calura romana e commemora le sue radici dentro il cimitero monumentale del Verano. Ma nemmeno quando fa appello ai suoi “santi”, Palmiro Togliatti e Alcide de Gasperi, riesce a non litigare.
Mentre Silvio Berlusconi si prepara a tornare alle urne con proclami da comizio elettorale, il Pd va alla disperata ricerca della sintesi delle sue anime politiche. E, per ora, non la trova.
Ieri mattina, chi passava per caso attraverso piazza del Verano avrebbe visto una delegazione del partito di Pier Luigi Bersani con le corone celebrative del 46esimo anniversario della morte del politico comunista. “Ma per quale motivo il Partito democratico commemora Palmiro Togliatti?” si è chiesto l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi. Considerandola addirittura una questione “non da poco”.
La ragione va cercata indietro. La terza settimana di agosto, infatti, si è portata via, a dieci anni di distanza, i due esponenti della Dc e del Pci. Il 19 agosto ricorrevano 56 anni dalla morte di de Gasperi, e l’ufficio stampa ha comunicato che sarebbe stato ricordato con una messa celebrata a Roma nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura. Eppure dei big del partito, quella mattina, neanche l’ombra. Solo qualche esponente delle seconde file della democrazia cristiana che fu. In compenso a deporre i fiori sotto al colonnato che conserva le spoglie del politico c’erano il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta e l’ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Ghiotta occasione, per il ministro Gianfranco Rotondi di polemizzare con l’opposizione: “Non ho mai fatto celebrare una messa ad Alcide De Gasperi per rispetto al leader democristiano che aveva in odio l’uso politico della religione. Un peccato nel quale il Pd non ha perso occasione di cadere, raddoppiandolo con l’assenza dei suoi leader al rito di oggi”.
E allora come non pareggiare i conti con una commemorazione per Togliatti? Ma anche ieri, provati dall’umidità al cento per cento, spiccavano soltanto una decina di teste vicino alla tomba “di famiglia” del partito comunista, con a capo il tesoriere dei Democratici di Sinistra, Ugo Sposetti, che non si è dimenticato di realizzare una corona di fiori a nome dell’ex partito di via Nazionale, appoggiata accanto a quella del Pd. Ma l’annuncio dell’ufficio stampa, dato anche in questo caso in pompa magna, ha fatto infuriare chi non condivide le radici storiche degli esponenti del Partito democratico provenienti dai Ds. Perché polemizzare è più facile che ricordare.
il Riformista 22.8.10
per motivi tecnici i contenuti de il Riformista possono essere pubblicati solo in Flash, attraverso Scribd, ci scusiamo con i lettori che utilizzando macchine che non supportano la tecnologia Flash - come l’Pad e l’IPhone di Apple e altri - non possono leggerli.
E adesso in piazza
di Paolo Flores d’Arcais
Berlusconi, con il suo discorso di rilancio del programma di governo, ha fatto “un bagno di realismo”, che Fini dunque non può che sottoscrivere, proclama con perfetta dabbenaggine il Corriere della sera nel suo editoriale di servo encomio. In realtà il capo di tutte le cricche ha solo recitato un comizio elettorale più mediocre del solito. Il cui unico messaggio concreto – e ultimativo – sono le tre leggi di impunità che pretende vengano votate al più presto. Se Fini fa poco poco il neghittoso, si va alle urne, perché – il diktat è per Napolitano – “non si può cancellare il premier scelto dagli elettori”. Interrogando i sondaggi, il suo “specchio delle mie brame” gli risponde infatti che più il tempo passa, più i consensi precipitano. E che l’unico a fare l’en plein, se si aspetta la primavera prossima, sarà Bossi. La verità è dunque che Berlusconi non è mai stato tanto debole come oggi. La sua sola forza – ancora gigantesca, purtroppo – è la pervicace inesistenza dell’opposizione. L’ascesa dell’aspirante Arturo Ui non è mai stata così resistibile. Resistibilissima. Al punto, anzi, che sarebbe l’ennesimo degli errori limitarsi a resistere contro il golpe quotidiano che vuole assassinare la Costituzione nata dalla Resistenza. L’Italia democratica deve – perché può – passare all’offensiva. Non lo farà il Pd, opposizione inesistente, lo dovrà perciò fare la società civile. Scendendo in piazza al più presto. Non per una ripetizione di ormai riduttivi no-B day, ma offrendo agli italiani l’alternativa della bandiera che dice “REALIZZAZIONE della Costituzione”. Integralmente, in tutte le sue straordinarie implicazione di “giustizia e libertà”.
I consensi di Berlusconi sono incominciati a franare non appena la voce “legalità” ha potuto bucare gli schermi, suggerendo l’ovvia risposta “giustizialista” alle ruberie delle cricche del padrone di Arcore. Il paradosso è che questa parola non è uscita dalla bocca dei D’Alema e Veltroni (a cui del resto non crederebbe più nessuno), ma da chi fino a ieri ha sostenuto Berlusconi. Meglio tardi che mai, lo diciamo senza un filo di ironia. Ma è evidente che senza la mobilitazione del Paese Berlusconi vincerà di nuovo, e non farà prigionieri. Tocca perciò alla società civile passare dal nobilissimo “resistere, resistere, resistere” di questi anni al progetto di risorgimento costituzionale che metta insieme – nel vivo delle lotte che selezioneranno i leader che mancano – la liberazione dell’Italia da poteri e governi criminali con una nuova stagione di giustizia sociale.
il Fatto 22.8.10
Il Pd alla guerra delle commemorazioni
di Caterina Perniconi
Ventuno agosto, ore nove e mezzo. Circa. Trenta gradi e neanche una nuvola amica. Il Partito democratico sfida la calura romana e commemora le sue radici dentro il cimitero monumentale del Verano. Ma nemmeno quando fa appello ai suoi “santi”, Palmiro Togliatti e Alcide de Gasperi, riesce a non litigare.
Mentre Silvio Berlusconi si prepara a tornare alle urne con proclami da comizio elettorale, il Pd va alla disperata ricerca della sintesi delle sue anime politiche. E, per ora, non la trova.
Ieri mattina, chi passava per caso attraverso piazza del Verano avrebbe visto una delegazione del partito di Pier Luigi Bersani con le corone celebrative del 46esimo anniversario della morte del politico comunista. “Ma per quale motivo il Partito democratico commemora Palmiro Togliatti?” si è chiesto l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi. Considerandola addirittura una questione “non da poco”.
La ragione va cercata indietro. La terza settimana di agosto, infatti, si è portata via, a dieci anni di distanza, i due esponenti della Dc e del Pci. Il 19 agosto ricorrevano 56 anni dalla morte di de Gasperi, e l’ufficio stampa ha comunicato che sarebbe stato ricordato con una messa celebrata a Roma nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura. Eppure dei big del partito, quella mattina, neanche l’ombra. Solo qualche esponente delle seconde file della democrazia cristiana che fu. In compenso a deporre i fiori sotto al colonnato che conserva le spoglie del politico c’erano il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta e l’ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Ghiotta occasione, per il ministro Gianfranco Rotondi di polemizzare con l’opposizione: “Non ho mai fatto celebrare una messa ad Alcide De Gasperi per rispetto al leader democristiano che aveva in odio l’uso politico della religione. Un peccato nel quale il Pd non ha perso occasione di cadere, raddoppiandolo con l’assenza dei suoi leader al rito di oggi”.
E allora come non pareggiare i conti con una commemorazione per Togliatti? Ma anche ieri, provati dall’umidità al cento per cento, spiccavano soltanto una decina di teste vicino alla tomba “di famiglia” del partito comunista, con a capo il tesoriere dei Democratici di Sinistra, Ugo Sposetti, che non si è dimenticato di realizzare una corona di fiori a nome dell’ex partito di via Nazionale, appoggiata accanto a quella del Pd. Ma l’annuncio dell’ufficio stampa, dato anche in questo caso in pompa magna, ha fatto infuriare chi non condivide le radici storiche degli esponenti del Partito democratico provenienti dai Ds. Perché polemizzare è più facile che ricordare.
il Riformista 22.8.10
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sabato 21 agosto 2010
da il Riformista
Vendola batte Berlusconi su Facebook?
Corriere della Sera 21.8.10
In gara su Facebook, la «fabbrica» degli amici
Profili fasulli e agenzie di marketing virtuale: così si può «gonfiare» il numero dei fan
di Gabriela Jacomella
Una volta si combatteva a colpi di tessere e firme in calce a petizioni raccolte in piazza, dopo le manifestazioni o la messa della domenica. Poi è arrivata la tivù, e le battaglie le decidevano share e audience, sudditi fedeli di Nostra Signora l’Auditel. Oggi, la linea dello scontro si è spostata più in là. Il quarto d’ora di celebrità, nell’era del Web, è targato Facebook o Twitter.
Sul primo, l’obiettivo va sotto il nome di fan page, «pagina dei sostenitori»; il sogno proibito è sfondare il tetto del milione. Sul secondo, il target è far aumentare il numero dei followers, i «seguaci» in attesa delle nostre pillole di saggezza o ironia. L’interrogativo è sempre lo stesso: come far salire quella colonnina di mercurio virtuale che ci dice se e quanto il nostro nome — o il nostro prodotto, o il nostro programma — sia gradito al «popolo della Rete».
Che per qualcuno la questione stia diventando seria lo dimostra la scaramuccia che in questi giorni ha coinvolto i sostenitori di Nichi Vendola da un lato e i simpatizzanti del Pdl dall’altro. A scatenare la querelle, l’annuncio del sorpasso: il governatore della Puglia ha superato, quanto a numero di fan, il presidente del Consiglio. I dati arrivano dal sito di Daniele Baroncelli, che monitora la presenza dei politici nostrani sul social network; alle 17 di ieri, Vendola contava 230.937 fan contro i 227.139 di Berlusconi. Tanto è bastato per far sbottare Umberto Bossi, «basta dare un ordine alla sinistra e tutti votano, c’è sotto qualcosa » . Mentre Antonio Palmieri, responsabile Web del Pdl, precisa che «Berlusconi non ha una pagina ufficiale, per ottenere il numero dei fan dovremmo sommare quelli di tutte le pagine create…». Cosa che corrisponde a verità: a meno di essere interessati agli aggiornamenti delle pagine ufficiali (come quella di Vendola), per molti cliccare sul bottone like, «mi piace», e diventare fan, è un semplice gesto di appartenenza e come tale può disperdersi su pagine «secondarie» (come succede, del resto, sia nel caso di Berlusconi, che in quello di Vendola).
Resta, comunque, il quesito: è possibile «gonfiare» il gruppo dei sostenitori su Facebook o sugli altri social network? Premesso che in Rete quasi tutto si può, la realtà è più complicata: non circolano metodi automatici per aumentare a dismisura il numero di iscritti, come ad esempio è possibile fare per certi sondaggi online. Per diventare «fan» di qualcuno (e, detto tra parentesi, tra i fan possono celarsi anche semplici curiosi, o addirittura «nemici») è necessario registrarsi. Ed è vero che si può optare per un’identità fittizia, ma è difficile che qualcuno si prenda la briga di mobilitare migliaia di «complici» perché creino ciascuno 40, 50 profili fasulli. Ci sono, piuttosto, metodi (e agenzie specializzate) di marketing virtuale, strategie per attrarre nuovi contatti (dal restyling della pagina alla pubblicità in Rete), campagne «virali», catene di Sant’Antonio (forse la più usata nell’attivismo politico). Niente di irregolare, basta la volontà.
La battaglia, intanto, è tutto fuorché virtuale. E nessuno ha intenzione di mollare. Anche se certi risultati sembrerebbero inarrivabili per tutti: nella classifica delle «fan page» più amate dagli italiani (su www.famecount.com), la Nutella conquista 1° e 4° posto, con 4.232.583 e 1.810.453 sostenitori. La prima «persona fisica» è Valentino Rossi, medaglia di bronzo. Il punto è che per qualcuno Facebook è, si diceva, uno strumento di lavoro. Vedi Roberto Saviano, la cui «finestra» su Facebook serve anche da veicolo di informazione: al 35° posto con circa 770 mila «seguaci», ha una pagina aggiornatissima e gestita dallo stesso staff cui è affidato il sito ufficiale. Idem per Marco Travaglio, 38°, oltre 660 mila iscritti. Tra loro e i politici, un abisso: Vendola e Berlusconi si piazzano al 129° e 131° posto. La pagina ufficiale di Obama, ieri sera, contava 12 milioni 747 mila 916 fan.
Asca 21.8.10
Vendola: Bossi spaventato da Internet. Successo Facebook mi inorgoglisce
(ASCA) - Roma, 20 ago - ''C'e' sotto qualcosa'', dice Umberto Bossi riferendosi al risultato ottenuto dalla mia pagina su facebook, pensoso e preoccupato perche' il corpo del re e' stato intaccato, ed e' vero. Sbaglia solo nel ritenere che quel qualcosa sia sotto, inteso come luogo fisico; c'e' qualcosa in senso diffuso e orizzontale nel popolo, c'e' una volonta' e una richiesta precisa di partecipazione e di cambiamento che si esplicita e prende corpo anche attraverso internet, anche attraverso il web e i social media. E questo non e' per niente chiaro a buona parte del mondo politico italiano che percepisce internet con una buona dose di diffidenza, o al meglio, come una vetrina da sfruttare nelle tornate elettorali''. E' quanto dichiara Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia, sulla 'Fabbrica di Nichi', commentando cosi' lo stupore del Senatur per il sorpasso dei contatti su Facebook nei confronti del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.
''Probabilmente temono le potenzialita' della rete, il suo carattere libero, che sfugge al controllo di chi ha reso questo Paese una Repubblica televisiva fondata sul sondaggio e sul telecomando. Forse e' questa idea di liberta' che spaventa, forse e' la scarsa abitudine al confronto continuo a lasciare stupiti. Abituati come sono a giornali e telegiornali manovrati, che sempre piu' spesso trasmettono l'immagine immacolata del capo supremo e instillano quotidianamente l'ideologia del ghe pensi mi - continua il leader di Sinistra ecologia e liberta' -.
C'e' alla base una diversa concezione della politica, un modo antitetico di vivere il rapporto con il popolo, con i cittadini. Ci sono le comunita' del rancore create ad arte per individuare i nemici contro cui armare il braccio della propaganda a fini elettoralistici e ci sono comunita' consapevoli, libere, che vivono secondo il principio della condivisione e del confronto sulle esperienze di buon governo e di buona politica. C'e' chi parla all'ombelico delle persone e si adatta come una panciera al bassoventre degli interessi particolaristici del nostro paese, proteggendo tornaconti di bottega, affossando i codici civili, il senso della decenza, e scialacquando denaro pubblico per il pagamento delle multe delle quote latte; e c'e' chi invece guarda alle nuove generazioni e al loro futuro e pensa sia necessario iniziare a costruire collettivamente qualcosa di diverso, di migliore''.
''Il risultato ottenuto dalla mia pagina facebook () con oltre 230mila persone che hanno scelto di dialogare quotidianamente con me, mi inorgoglisce e penso non possa essere relegato a fenomeno marginale della vita politica del nostro paese, o peggio, a fenomeno di costume - continua Vendola -.
Questo risultato deve essere letto in maniera molto piu' approfondita, perche' e' il segno inequivocabile del cambiamento in atto nella societa'. Non certo perche' la mia persona e' oggetto di attenzioni: le adesioni alla mia fan page non riguardano esclusivamente Nichi Vendola. Si tratta piuttosto dell'espressione di un desiderio di partecipazione, dell'adesione a delle idee, a un universo valoriale e a un modo diverso di intendere la politica come impegno civile, come luogo di passioni e di cooperazione. E in tutto questo internet, la rete, la creazione spontanea di comunita' hanno un ruolo preciso, direi fondamentale per il futuro non solo dell'Italia, perche' catalizzatori di buone esperienze collettive e perche' portatori di idee di liberta' e di pace.
Questa convinzione mi ha spinto ad aderire, insieme a pochissimi altri politici italiani, alla campagna della rivista Wired per l'assegnazione a internet del Premio Nobel per la pace''.
Dagospia 21.8.10
Nichi e Tonino, Opa sulla CGIL
Nichi Vendola e Antonio Di Pietro fanno proseliti nella Cgil ai danni del Partito democratico di Pier Luigi Bersani, spiazzato dall'offensiva dei due «parenti serpenti» che conquistano sempre più posizioni nel sindacato di Guglielmo Epifani e Susanna Camusso.
Per esempio, meccanici e dipendenti pubblici stanno apertamente con Nichi. Punta di diamante dei vendoliani in Cgil è infatti Maurizio Landini, segretario generale della Fiom-Cgil. Anche a Rossana Dettori, neosegretaria della Fp-Cgil, batte un cuore rosso: è vendoliana come tre quarti della segreteria.
Landini e Dettori parlano spesso con Titti Di Salvo, responsabile lavoro di Sel, il partito di Vendola. Più sottile la strategia di Di Pietro: inaugura continuamente circoli dell'Idv accanto all e Camere del lavoro. A fare breccia per Tonino è il suo responsabile lavoro,Maurizio Zipponi, ex Fiom e Rifondazione comunista, che ha depositato in Parlamento una legge d'iniziativa popolare sulla democrazia sindacale forte di 50 mila firme. (Ettore Colombo)
Repubblica 21.8.10
Da Cartesio al pensiero debole quanta filosofia nella ripetizione
di Maurizio Ferraris
Il "Conosci te stesso" o il "Cogito ergo sum" sono passati dai banchi di scuola alle magliette Ma è nella natura della disciplina produrre una conoscenza anche di questo tipo
«Questa poi la conosco purtroppo», commenta Leporello quando, nel Don Giovanni, sente l´aria Non più andrai farfallone amoroso dalle Nozze di Figaro. Esistono i tormentoni mozartiani, perché non dovrebbero esserci i tormentoni kantiani? Certo, la filosofia, almeno nella sua versione più convenzionale (quasi un tormentone) che la concepisce come creazione geniale dovrebbe essere l´anti-tormentone per eccellenza. Come dire: lasciamo alle masse i miti e i riti, cioè anche i tormentoni (perché i tormentoni moderni sono gli eredi appunto dei miti e ancor più dei riti, del potere magico della ripetizione) e seguiamo le vie del logos e della originalità assoluta. Vasto disegno, ma tra il dire e il fare (dice il proverbio, ossia un altro antenato del tormentone) c´è di mezzo il mare. E dunque alla fine si trova che anche la filosofia pullula di tormentoni.
Non può essere altrimenti, se non altro perché è materia di insegnamento, e nell´insegnamento, quantomeno per ragioni mnemotecniche, il tormentone regna sovrano. Così, dai banchi di scuola alle magliette è tutto un "conosci te stesso" e un "cogito ergo sum". Il primo in realtà è un detto sapienziale ripetuto dai Greci e citato da Socrate, dunque è a pieno titolo un tormentone, il secondo è un conio di Cartesio, che oltretutto era convinto che l´unica cosa che conta in filosofia sia l´originalità. Eppure alla fine i due risultano perfettamente intercambiabili non solo l´uno con l´altro, ma con altri tormentoni filosofici quali "tutto scorre" e "l´essere è e il non essere non è", con fallacie logiche come "post hoc ergo propter hoc", con versetti biblici come "nulla di nuovo sotto il sole", con citazioni letterarie come "cherchez la femme", e persino con frasi celebri come "eppur si muove" o "alea iacta est" (l´avrà detto Socrate prima di bere la cicuta?).
E non si tratta solo di inerzia scolastica. Il filosofo è uomo (o donna), dunque è soggetto come qualunque altro essere umano alle sirene del tormentone. Il titolo del libro più famoso di Quine, From a logical point of view, deriva da un calypso di Harry Belafonte ("From a logical point of view Better marry a woman uglier than you", se ne trova su YouTube la versione cantata da Robert Mitchum). Ma Quine è stato capace a sua volta di creare un motto ontologico, "No entity without identity", non c´è entità senza identità, che non ha niente da invidiare a "No Martini no party". E in Italia non dimentichiamoci che Il pensiero debole di Vattimo e Rovatti è stato lanciato proprio come tormentone da Roberto D´Agostino in Quelli della notte.
C´è infine un senso in cui il tormentone non deriva dall´uso scolastico o dall´inclinazione del filosofo, ma diventa tema speculativo. Si prenda, ad esempio, Nietzsche, autentica fabbrica di tormentoni filosofici, da apollineo e dionisiaco alla volontà di potenza passando per Dio è morto e il Superuomo. In Così parlò Zarathustra propone la teoria dell´eterno ritorno: ogni nostro atto, ogni singolo evento, è destinato a ripetersi eternamente. Rassegnatevi a leggere infinite volte questo articolo. Non è un tormento? Certo, ma è anche e anzitutto un tormentone. Se ne accorge benissimo Nietzsche, facendo sbottare Zarathustra, contro gli uditori rei di averlo frainteso: «Oh voi maliziosi… - voi ne avete già ricavato una canzone da organetto?».
Ma può essere altrimenti? Nella vita l´automatismo regna sovrano anche là dove si pretende che ci sia originalità, ogni detto è un ridetto, ed è per questo che la letteratura pullula di automi e di bambole, e gli zombie hanno lasciato i film dell´orrore per diventare un rispettabilissimo tema filosofico. Senza dimenticare che due dei più antichi concetti filosofici, la mimesi, cioè l´imitazione, e l´anamnesi, cioè l´idea che conoscere sia ricordare ciò che si è già conosciuto, rientrano a pieno titolo in una teoria del tormentone. Essere originali, essere differenti, è solo apportare qualche variante alle ripetizioni di cui è pieno il mondo. Era la tesi di Gilles Deleuze in Differenza e ripetizione (1968), che si potrebbe tranquillamente ribattezzare Differenza e tormentone.
Il Sole 24 Ore 21.8.10
Per favore, salviamo la Nazionale
di Cesare Peruzzi
«Viviamo una lenta agonia». Ida Fontana, direttrice della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, una delle uniche due strutture di questo tipo in Italia (l'altra è a Roma), lancia l'allarme sulla situazione economica dell'istituto che guida da 14 anni, e che fa capo al ministero dei Beni culturali: «Stiamo arrivando al l'asfissia finanziaria – spiega – al punto che da luglio abbiamo dovuto introdurre la chiusura pomeridiana nei giorni di mercoledì, giovedì e venerdì. Di questo passo, nel 2011 potremo garantire l'apertura al pubblico solo metà giornata». Una prospettiva opposta a quella che nei giorni scorsi il sindaco Matteo Renzi ha proposto al ministro Sandro Bondi: il prolungamento dell'orario degli Uffizi a notte inoltrata.
Va in malora uno dei "luoghi del sapere" nazionale, nato per raccogliere, custodire e rendere consultabile (attraverso la catalogazione) tutto ciò che viene stampato nel paese. Prima, e ancora oggi più grande biblioteca a essere ospitata in un palazzo costruito appositamente per questa funzione (l'attuale edificio di Piazza dei Cavalleggeri, inaugurato nel 1935), la «Nazionale», come viene comunemente chiamata dai fiorentini, è arrivata a possedere 6 milioni di volumi a stampa, 2,7 milioni di opuscoli, 25mila manoscritti, 4mila incunaboli, 29mila edizioni del XVI secolo, oltre a un milione di autografi che vanno dagli scritti di Machiavelli all'opera di Galileo quasi per intero.
Tutto questo materiale occupa 120 chilometri di scaffalature (suddivise tra la sede principale e altre due secondarie), che aumentano al ritmo di due chilometri l'anno per effetto dei 70mila libri e dei 100mila giornali che (per legge) ogni 12 mesi vengono mandati dalle case editrici. «Riusciamo a catalogare meno della metà dei volumi e, grazie agli sponsor, appena il 10% dei quotidiani – racconta Fontana –. Ma abbiamo un arretrato di 200mila libri che, con il blocco del turnover e la progressiva emorraggia di personale, non riusciamo a smaltire».
I dipendenti della Nazionale sono 195, di cui 45 part-time, e ormai hanno un'età media di quasi 60 anni. Erano più di 500 negli anni 80 e 334 nel 1996, quando l'attuale direttrice arrivò a Firenze. «È stato un indebolimento progressivo e costante della struttura – commenta Fontana – basti dire che negli ultimi cinque anni il nostro budget è stato dimezzato». Per il 2010, il ministero dei Beni culturali mette a disposizione 1,6 milioni (oltre a pagare gli stipendi dei dipendenti) e altri 400mila euro circa arrivano dalle sponsorizzazioni, dai finanziamenti europei, dai diritti di riproduzione delle immagini, dall'affitto ai privati di alcuni spazi molto belli e suggestivi nei 40mila metri quadrati della Biblioteca.
«I costi generali della gestione sono altissimi», spiega la direttrice, che puntualizza come la richiesta al Ministero per il 2010 fosse di 5 milioni, necessari per mandare avanti i progetti di catalogazione e digitalizzazione dei materiali. Un gruppo di lettori, dei 600 che ogni giorno entrano alla Nazionale di Firenze, si è mobilitato dopo che da Roma è stato dimezzato anche l'ultimo trasferimento di denaro (da 200mila a 100mila euro), costringendo la Biblioteca alla chiusura pomeridiana tre giorni alla settimana. «Probabilmente è arrivato il momento di far pagare l'accesso ad alcuni servizi, come accade a Parigi e Londra, o il prestito dei libri antichi per le mostre, ma gli incassi non risolverebbero comunque il problema», dice la direttrice, che a novembre andrà in pensione. «Avrei anche l'idea per un bookshop e una caffetteria aperti ai turisti – aggiunge –. Per sistemare gli spazi, che pure abbiamo, servirebbero però 1,5 milioni. E dove li prendiamo tutti questi soldi?». Dopo l'alluvione del 1966, la Biblioteca nazionale diventò il simbolo della rinascita di Firenze, grazie soprattutto all'impegno delle migliaia di giovani arrivati da ogni parte del mondo per tirare fuori dalla melma dell'Arno i preziosi libri conservati nei suoi sotterranei. Oggi, quel simbolo rischia di affondare sotto il peso dei materiali che non riesce più a catalogare e archiviare, per mancanza di spazio, di personale, e per la progressiva riduzione dei budget. Questa volta, purtroppo, nell'indifferenza quasi generale.
Corriere della Sera 21.8.10
L’utopia del governo perfetto
Platone non fu totalitario, aspirava all’idea del Bene assoluto
di Giovanni Reale
Corriere Della Sera - 21 Ago 2010 - Page #53
venerdì 20 agosto 2010
Repubblica 20.8.10
E su Facebook Vendola ha più fan del premier
ROMA - Nichi Vendola su Facebook ha più sostenitori di Silvio Berlusconi. Il governatore della Puglia conta 228 mila fan e ha superato il premier, rimasto fermo a quota 227 mila, che da maggio ne ha persi 1700. Il sorpasso è stato comunicato dalle "Fabbriche di Nichi", ma non convince Umberto Bossi. Per il leader leghista «basta dare un´ordine alla sinistra e tutti votano, vanno in quella direzione. Se è così vuol dire che c´è sotto qualcosa; vedremo».
Repubblica 20.8.10
L’anteprima dell´ultimo libro dell’ex presidente della Camera "Chi comanda qui?"
"Hanno ucciso la Costituzione più bella" Bertinotti indaga su chi è il killer
"Sovranità popolare? Balle Siamo alla restaurazione Elettori traditi"
ROMA - Hanno ucciso la Costituzione. E Fausto Bertinotti indaga per scoprire il killer. Chi e perché l´ha fatta fuori, la "signora" della democrazia più bella che ci sia nel mondo occidentale? L´ex presidente della Camera, smessi i panni di leader comunista in servizio permanente effettivo, può dedicarsi all´analisi politica e all´investigazione storica, e dal ciclo di lezioni all´università di Perugia è così nato questo suo nuovo libro. Titolo: Chi comanda qui? (per la Mondadori, da martedì prossimo in libreria), citazione tratta da "Alice nel paese delle Meraviglie", quando Humpty Dumpty all´incredula protagonista rivela il suo dispotico esercizio del potere. Come Berlusconi, allora, l´assassino della Costituzione è proprio il Cavaliere? Troppo facile, come dire il maggiordomo nei gialli.
Silvio naturalmente c´entra, ma è l´ultimo a comparire sulla scena del crimine. E´ un piano che muove da lontano, e non riguarda solo il nostro paese, anche se da noi si avvertono i contraccolpi più forti e pericolosi. Bertinotti indaga sul passaggio che dalle costituzioni democratiche «che erano la promessa di una società più giusta» ci ha portato fino «alle costituzioni materiali che ritraggono una società basata sul mercato». Un gigantesco rivolgimento di sistema che è cominciato a partire dagli anni Ottanta: la globalizzazione. Si afferma il primato dell´economia sulla politica e sulla democrazia, la base dell´unificazione di tutti i mercati. Et voilà, l´articolo uno della Costituzione sparisce sotto i nostri occhi, e via via il resto. «Mi limito a far notare il radicale rovesciamento tra la dichiarazione della "Repubblica fondata sul lavoro" e il modello odierno fondato su bassi salari, flessibilità e la precarizzazione». La costituzione materiale prende il posto di quella formale, determina un nuovo ordine, un nuovo sistema di relazioni fra governati e governanti, tra le diverse classi sociali, tra l´impresa e il lavoro. Un modello a forte «vocazione totalizzante», tendenzialmente «demolitrice della democrazia», e che «non risparmia le istituzioni della democrazia rappresentativa in Italia».
Dove la "scomparsa" della costituzione ha un sovrappiù di patologico. Nel nostro paese una costituzione materiale regressiva «ha incontrato una rivoluzione conservatrice che sembra riannodare i fili scovati nella biografia della nazione, per poi tesserli nella trama leggera di una dittatura mediatica nella quale la politica evapora nella sua spettacolarizzazione». Il mercato risolve a suo favore la contesa storica con la democrazia, così come si era venuta costituendo in Europa dopo la vittoria contro il nazifascismo e attraverso gli sviluppi della lotta di classe e delle politiche del movimento operaio. «E oggi la crisi della democrazia europea, e quella particolarmente acuta della democrazia in Italia, sono sottoposte ad una nuova torsione». Ecco, siamo al cuore delle indagini: la restaurazione trionfa, e incontra in Italia l´uomo che perfettamente la incarna. Ma la sovranità popolare invocata come frutto nuovo di una costituzione di fatto, per giustificare il diktat il governo Berlusconi o le elezioni? Balle. Il killer, ricostruisce Bertinotti, ha ucciso sopratutto quella: è la fine della sovranità popolare e nazionale, inghiottita con la vecchia costituzione.
(u. r.)
Repubblica 20.8.10
Curarsi con l´Lsd, la medicina ci (ri)prova
Farmaci poco efficaci: gli psichiatri ricorrono alla droga della beat generation
di Elena Dusi
ROMA - Dove fallisce il Prozac potrebbe arrivare l´Lsd. Dalla Svizzera - paese dove l´acido lisergico nacque nel 1943 - lo psichiatra Franz Vollenweider propone oggi l´uso di Lsd, chetamine e psilocibina (il principio attivo dei "funghi magici") come antidoti contro depressione, ansia, dipendenze, comportamenti ossessivo-compulsivi, dolore cronico e come cura palliativa per i malati di tumore.
«Le sostanze psichedeliche possono riequilibrare i circuiti del cervello coinvolti nei disturbi dell´umore e ridurre i sintomi di queste gravi malattie» scrive Vollenweider, dell´ospedale psichiatrico di Zurigo, in uno studio denso di dettagli farmacologi su Nature Reviews Neuroscience. «Queste sostanze rafforzano l´autocoscienza, facilitano l´accesso ai ricordi carichi di emotività, aiutano i pazienti a valutare i loro problemi in una prospettiva diversa». Condizioni perché la cura funzioni: dosi molto basse, assunzione limitata a poche settimane e presenza di un medico che dello stato di "libera coscienza" sappia trarre profitto trasformando il trip in terapia.
Vollenweider in realtà non propone nulla di nuovo. L´Lsd e i suoi fratelli furono subito guardati con interesse dalla psichiatria. Nel 1965 esistevano già mille studi scientifici sulla sua efficacia contro ansia e depressione e il farmaco era stato sperimentato su 40mila volontari. La sua capacità di alterare la coscienza rappresentava una miniera per svelare i misteri delle psicosi, schizofrenia in primis. Eppure erano passati solo poco più di vent´anni da quando il chimico svizzero Albert Hofmann sintetizzò l´acido lisergico partendo da alcuni funghi che infestavano la segale e lo testò su se stesso. Quel giorno, in cui per la prima volta "gli parlò", l´Lsd divenne per Hofmann «il mio bambino difficile».
Gli "psichedelici" anni ‘60 e la messa al bando degli allucinogeni segnarono una battuta d´arresto per la ricerca. La curiosità è riaffiorata solo ora, con nuovi strumenti che offrono immagini vivide del cervello sotto l´effetto di allucinogeni e informazioni fresche sulla chimica della mente. Su queste nuove basi, e in un panorama che vede il fallimento di molti farmaci tradizionali contro le malattie psichiatriche, Vollenweider torna alla carica con l´arma antica degli allucinogeni. L´Lsd, scrive, è in grado di agire su neurotrasmettitori come il glutammato e la serotonina: è proprio il loro equilibrio a risultare alterato nei casi di depressione e ansia. «Bastano tre ore per avere un miglioramento dell´umore - scrive lo psichiatra - contro le 2-3 settimane dei farmaci tradizionali». E le cure palliative adottate contro il cancro, dimostra uno studio sul New England Journal of Medicine, oltre a migliorare la qualità della vita ne allungano la durata di circa tre mesi.
La proposta di Vollenweider arriva in un momento in cui la mancanza di nuovi farmaci in psichiatria è molto sentita. "Il cervello di Big Pharma è a corto di idee" titolava Science a fine agosto, in un dossier sul fallimento della ricerca nel campo delle malattie mentali e sulla chiusura di molti laboratori. E sempre Science - non sospetta di combine con la rivale Nature - dà enfasi oggi a una sperimentazione dell´università di Yale, che ha usato chetamine per combattere la depressione.
Repubblica Firenze 20.8.10
Oblate e Nazionale la cultura è differente
di Antonia Ida Fontana
Il sindaco Matteo Renzi, proponendo "un modello fiorentino della fruizione dei beni culturali", cita oltre agli Uffizi anche la Biblioteca Nazionale Centrale. Non può che far piacere l´attenzione manifestata ora dal Sindaco, a fronte del completo disinteresse dimostrato in precedenti occasioni, preoccupa tuttavia l´accostamento alle Oblate, biblioteca efficace ed attraente, ma con funzioni e pubblico completamente diversi. Le campagne per promuovere il piacere di leggere, le attività ludiche, l´animazione per le diverse età sono compiti indispensabili alla crescita culturale e sociale di un Paese, ma nulla hanno a che vedere con le funzioni di una Biblioteca Nazionale. Aderendo alla definizione dell´Unesco, la Bncf raccoglie quanto è edito nel Paese, ne dà notizia attraverso la pubblicazione della Bibliografia Nazionale, conserva il patrimonio antico e moderno, cartaceo e digitale a favore delle generazioni future e fornisce servizi ad un´utenza specialistica. Anche le manifestazioni culturali sono indirizzate a far conoscere il patrimonio o a promuovere studi di approfondimento. Sarebbe auspicabile un´apertura serale, ma non per offrire una cultura "ludiforme", che può trovare spazio in strutture più adeguate, meno costose e meno fragili, bensì per ampliare il servizio allo studio e alla ricerca.
Ben diverso il futuro che si prospetta: benché la Biblioteca, alla quale si accede gratuitamente, riesca, fra progetti europei, sponsorizzazioni, vendita di diritti eccetera, ad incrementare le entrate per circa un quarto del suo budget, tagli antichi e nuovi non consentiranno nel prossimo anno di far fronte alle spese correnti, non sarà possibile ricorrere all´aiuto dei giovani collaboratori che garantiscono una parte importante della distribuzione di libri e periodici, soprattutto giaceranno privi di catalogazione migliaia di volumi.
Infine i due più gravi problemi: la mancanza di spazio e la carenza di personale. Solo la realizzazione di un grande deposito nella ex Caserma Curtatone consentirà di collocare le nuove acquisizioni: ogni anno infatti pervengono circa 70.000 volumi e 350.000 fascicoli di periodici che richiedono per l´immagazzinamento circa due chilometri di scaffali. In pochi anni infine il pensionamento senza turn-over della quasi totalità del personale vanificherà il lavoro di generazioni di bibliotecari e comprometterà la storia e le tradizioni dell´Istituto che rappresenta la memoria e l´identità dell´Italia.
L´autrice è la direttrice della Biblioteca Centrale Nazionale di Firenze
Repubblica Firenze 20.8.10
S. Salvi come Auschwitz: tuteliamo la memoria del dolore
di Pietro Clemente
Le città sono macchine per dimenticare, dimenticare le campagne quando si viene da lì e ci si "affranca", dimenticare la storia quando non serve a fare turismo, le città ricordano con i nomi delle strade di cui nessuno sa nulla e col patrimonio che fa turismo.
Dimenticano più volentieri i traumi delle tecnologie, dislocano e così svuotano, e riempiono con ciò che aiuta a dimenticare: gasometri, manifatture tabacchi, officine Galileo, San Salvi eccetera.
La storia del moderno, che si pretende storia progressiva, è invece storia di contraddizioni e di traumi. Gli ospedali psichiatrici nascono con la nuova scienza medica, nascono come luoghi di salute e di speranza, nascono come città del benessere. Ma diventano, nell´esperienza che li rende visibile allo sguardo nuovo degli anni ´60, dei campi di sterminio, dei campi di concentramento e di segregazione, dove l´umano viene negato, dove i diritti vengono levati, e dei reclusi degli anni ‘60 e ‘70 si potrebbe ben dire con Primo Levi "Se questo è un uomo".
Non serve la memoria per evitare che succeda ancora, serve a capire la complessità, a vedere come funzionano le trasformazioni, come cambiano di segno, cosa ci insegnano. Come possiamo applicare la nostra comprensione al presente, a un disegno di futuro.
C´è un futuro per una connessione tra memorie di San Salvi e vissuti psichiatrici di oggi e di domani? C´è un futuro da insegnare ai giovani su come cambiano le ideologie nel tempo, come nascono trasformazioni dove non le immaginavamo, per guardarci agire senza dissennatezza? C´è uno spazio per connettere quelle vite segregate e poi dischiuse con le vite degli "altri" prodotti dai flussi del mondo mobile e liquido?
L´elogio dell´imprevisto è inscritto nella storia di San Salvi, non i medici "democratici", non i documentaristi della diversità hanno posto al centro la memoria della segregazione psichiatrica nello spazio che ne fu protagonista. Sono stati i Chille. Cosa c´è di più assurdo che un gruppo teatrale di un´altra città, per di più di Napoli, abbia messo in scena la memoria, i fantasmi del passato negato, delle storie insepolte a Firenze? Forse solo il teatro poteva dar vita così forte ai fantasmi che aleggiavano lungo le mura di San Salvi. Trasformare la memoria in teatro con la "passeggiata" in cui la cattiva memoria della città tornava alla luce, in cui il passato era ancora per un attimo dolore, angoscia, senso di colpa, anche della città verso se stessa, è stato un atto di vita del passato formidabile. San Salvi è un luogo di orrore, di dolore, di morte, ma anche di speranza, di sogno, di testimonianza, di lotta, di solidarietà. E´ questa complessità che produce vertigine al moderno.
Per l´orrore che si è consumato, e che sarà gridato finché abbiamo la capacità di ascoltarlo, San Salvi è come Auschwitz, occorre patrimonializzarlo come spazio per ricordare ai giovani, alle scuole, ai liberi testimoni del nostro tempo come nacquero nel nostro mondo insieme i diritti e la loro negazione, come il "nome dell´altro" continui a turbare e richiamare desideri di proscrizione.
Con il dolore e con l´epica della riscossa degli uomini insieme di scienza e di buona volontà San Salvi è diventata uno spazio sacro, e chiama e dà valore alla cultura dell´Occidente, e a chi ama Firenze, città di storia antica e anche moderna.
Quello spazio conserva il sacro conquistato dal dolore e dalla lotta, non è alienabile, è bene comune.
Come ne "Le vie dei canti" e nel dreaming australiano, in quei luoghi si forma la leggenda e il mitico dell´individuo, il valore dell´uomo. Lo spazio di San Salvi reso sacro da ciò che di terribile e fondativo vi è successo non può essere rimosso, anzi è ormai uno spazio di risveglio urbano. Lì si sentono i canti che ci danno il senso del mondo futuro, le passeggiate e i racconti, le tesi di tanti giovani, libri di tanti studiosi appassionati hanno fatto sì che San Salvi sia un luogo esemplare della storia di Firenze, interdisciplinare e interbuona volontà come nell´alluvione, unitario e molteplice. Un luogo dove il "patrimonio immateriale" tutelato dalla convenzione Unesco, è vitale ed ha un´anima unica in Italia.
E´ quindi evidente che qualsiasi progetto per San Salvi deve poter essere costruito intorno a un centro culturale, un asse di storia e di memoria della città, pubblico e ricco di associazioni di volontariato. Intorno a un uso pubblico e solidale della memoria del passato, del presente plurale come idea culturale di una città aperta, San Salvi può anche ritrovare un suo modo di servire la città e di esserne parte più di come oggi non sia.
L´autore è docente di Antropologia culturale all´Università di Firenze
Corriere della Sera 19.8.10
Il delitto del neonato bruciato che tormentava Majorana
La nuova teoria sul fisico scomparso: folle per un caso in famiglia
di Giovanni Caprara
Da pagina 1 Aveva 31 anni, i capelli corvini, gli occhi vivacissimi e tristi. Si imbarcò su una nave a Palermo per raggiungere Napoli è scomparve per sempre. Era la sera del 26 marzo 1938, un sabato. Da allora la storia di Ettore Majorana, il grande scienziato che lavorò con Enrico Fermi nella scuola di fisica di Via Panisperna a Roma, si dissolse in un mistero che il tempo ha reso ancora più impenetrabile. Persino Leonardo Sciascia indagò con il suo libro «La scomparsa di Majorana» nella strana vicenda di un uomo straordinario nella genialità quanto nella debolezza della sua natura. E ricostruendone i passi è attratto dall’ipotesi di un ritiro tra le mura di un convento. C’è, invece, chi ha immaginato una fuga in Argentina oppure un suicidio perfettamente studiato da non lasciare traccia. Questo è un mistero ben noto, scandagliato da libri e film. Ma che cosa ha scatenato in Majorana la decisione di eliminare la sua immagine dalla faccia della Terra? Ecco il mistero nel mistero nel quale si è immerso Joao Magueijo, un fisico portoghese che insegna teoria della relatività all’Imperial College di Londra e che, avendo frequentato per anni il «Centro Ettore Majorana» di Erice, in Sicilia, non ha potuto sottrarsi al fascino di una luce improvvisamente spenta. Esplorando tra documenti e persone ha infine scritto «La particella mancante» (Rizzoli) nelle cui pagine fa emergere soprattutto due eventi, uno umano e l’altro scientifico, forse all’origine della drammatica scelta. Il primo risale al 1924. Ettore ha 18 anni e lo zio Dante, al quale era molto legato, viene accusato di essere il mandante di un terribile omicidio: l’uccisione di un bimbo nella culla alla quale è dato fuoco. Il neonato è figlio dell’industriale Antonio Amato le cui due sorelle hanno sposato Dante e Giuseppe Majorana, illustri avvocati e zii di Ettore. La polizia raccoglie dalla sedicenne bambinaia Carmela, affetta da ritardo mentale, l’ammissione di essere stata lei a incendiare la culla. La vicenda però si complica come ogni storia siciliana che si rispetti. Le due sorelle di Amato erano appena state escluse da un’eredità di cui si appropria interamente Antonio. Dante e Giuseppe, avvocati, portano in tribunale la rivendicazione delle loro mogli e il giudice stabilisce un risarcimento da parte di Antonio. Qualcuno allora fa circolare l’ipotesi che le colpe ammesse dalla bambinaia non fossero credibili e che Dante e Giuseppe andassero indagati. Carmela ritratta la sua prima deposizione e accusa l’ex fidanzato, sua madre e il fratello di essere stati loro a indurla a compiere il folle gesto. E finiscono in carcere. Passano anni, il processo è riaperto e i colpevoli concordano una versione di difesa comune: loro avevano agito su mandato di Dante Majorana il quale viene subito imprigionato assieme alla consorte. Ettore scrive allo zio quasi ogni giorno e poi confida all’amico Gleb Wataghin: «Non mi fido degli avvocati, sono tutti degli idioti. Scriverò io stesso la difesa di mio zio: so che cosa è accaduto». Dopo otto anni la vicenda diventata sui giornali «Il delitto della culla» e il «Misterioso caso Majorana», si chiude con l’assoluzione favorita da una terza versione dei fatti della bambinaia e dalla prova dei testimoni minacciati dalla mafia. «Il caso del bambino bruciato produsse ferite permanenti in Ettore — sostiene Magueijo — la famiglia ristabilì l’onorabilità del proprio nome ma agli occhi di Ettore lo sporcò ancora di più. Ettore perse la fede nella razionalità. Nel 1933 precipitò nella follia, ed è innegabile che l’episodio del bambino arso vivo diede un contributo decisivo al suo crollo». Secondo evento. Nel 1932 Ettore Majorana pubblica una teoria sulla natura e il comportamento di alcune fondamentali particelle nucleari che si contrappone a quella già nota del fisico britannico Paul Dirac. «Rimarrà la sua sinfonia incompiuta», dice Magueijo. I rapporti con il gruppo di fisici di Via Panisperna non sono buoni. Ettore viene battezzato «il grande inquisitore». Nel gennaio 1933 parte per l’Istituto di fisica di Lipsia per lavorare con Wernher Heisenberg già famoso per il «Principio di indeterminazione». Appena arrivato la sua ritrosia e le difficoltà nei rapporti sembrano dissolversi. Manda alla famiglia lettere piene di insolito entusiasmo. Con lo scienziato tedesco, Ettore condivide ricerche importanti sull’interazione forte che tiene insieme i nuclei atomici, ma anche certe inclinazioni filosofiche che arricchiscono i loro incontri. In quei giorni il clima in Germania volge al peggio. Hitler ha appena conquistato il potere e nella notte del 27 febbraio il Reichstag è incendiato. Ettore si trasferisce momentaneamente a Copenaghen all’Istituto di Neils Bohr, uno dei creatori della meccanica quantistica, «il maggior ispiratore della fisica moderna — scriverà in una lettera — ora un po’ invecchiato e sensibilmente rimbambito». Dopo una breve vacanza pasquale romana, Ettore torna a Lipsia e precipita nella depressione. Non frequenta più nessuno, vede male persino Heisenberg. «Forse le radici di ciò che sarebbe successo nel marzo 1938 vanno cercate nel maggio 1933?» si chiede Magueijo. «Un evento si abbattè con forza su di lui. Era infatti a Lipsia quando cominciarono a giungere notizie che la sua critica alla teoria di Dirac, inclusa nel suo capolavoro del 1932, fosse sbagliata. Solo negli anni Sessanta il suo capolavoro sarà riscoperto e riconsiderato». In quei mesi aveva anche interrotto i rapporti con il gruppo di Via Panisperna e quando torna a Roma nell’agosto 1933 si isolerà per cinque anni dal mondo non uscendo quasi mai dalla sua camera senza nemmeno tagliarsi più i capelli. Solo Edoardo Amaldi manterrà un tenue filo di amicizia. Siamo nel 1938 e mentre Enrico Fermi inseguito dalle leggi razziali volava a Stoccolma per il premio Nobel e poi in America, Ettore architettava la scomparsa. «La maledizione del bimbo carbonizzato cambiò per sempre la sua visione del mondo — conclude Joao Magueijo —. E quando l’angoscia si attenuò nei mesi che precedettero la trasferta a Lipsia era probabilmente troppo tardi perché egli potesse trovare sollievo».
Corriere della Sera 19
La tratta dei piccoli schiavi italiani
Saltimbanchi, prostitute, manovali: una pagina nera che arriva al XX secolo
di Gian Antonio Stella
«È cosa da rabbrividire l’udire le sevizie, i maltrattamenti, ai quali il padrone sottopone quei fanciulli, ove ritornino la sera a casa senza portare il guadagno ch’esso sperava, o quella somma che aveva loro imposto il mattino; le percosse, la fame, i tormenti sono il frutto delle loro fatiche». Vincenzo Isacco e Carlo Salvarezza, scrivendo il loro «Commentario della legge di pubblica sicurezza del 20 marzo 1865» non trattenevano rabbia e compassione. Così come vibrava d’indignazione in Parlamento la voce di Teofilo Rossi parlando di quei bimbi «percossi a sangue, torturati con ferocia, di altri morti per mazzate, di altri svenuti per fatica e fatti rinvenire a staffilate per far loro riprendere il lavoro, di altri impazziti di dolore sotto i colpi della cinghia del negriero crudele, di altri morti di stenti e di fame e per calci nell’addome ricevuti dagli operai».
Fu quello il destino di tantissimi bambini italiani. A partire dalla metà dell’Ottocento fin dentro il XX secolo. È una storia terribile. In larga parte rimossa. Per pudore. Per vergogna. Per la scelta indecente di non fare i conti col nostro passato. Nonostante ci avesse già raccontato tutto, ad esempio, Edmondo De Amicis nel «Piccolo Patriotta padovano» di Cuore, scrivendo di un bimbo «di undici anni, mal vestito, solo, che se ne stava sempre in disparte, come un animale selvatico, guardando tutti con l’occhio torvo. E aveva ben ragione di guardare tutti con l’occhio torvo. Due anni prima, suo padre e sua madre, contadini nei dintorni di Padova, l’avevano venduto al capo d’una compagnia di saltimbanchi; il quale, dopo avergli insegnato a fare i giochi a furia di pugni, di calci e di digiuni, se l’era portato a traverso alla Francia e alla Spagna, picchiandolo sempre e non sfamandolo mai».
A quella dolorosa epopea la storica Maria Rosa Protasi ha dedicato un libro denso di numeri, storie, testimonianze. Si intitola I fanciulli nell’emigrazione italiana (Cosmo Iannone Editore, pagine 267, 14) e dovrebbe essere letto nelle scuole. Per capire quanto sia falsa la tesi che «noi eravamo diversi». E rendere giustizia almeno con la memoria a quei nostri bambini che vissero l’inferno.
Erano altri tempi? Vero. Nell’Europa di fine ’800 «l’età minima di ammissione al lavoro di fabbrica era: 10 anni in Spagna e Danimarca; 11 in Inghilterra; 12 in Russia, Austria, Olanda, Portogallo, Svezia, Belgio, Ungheria; 13 in Francia e Germania; 14 in Svizzera e Norvegia» e 9 da noi. La «tratta dei fanciulli», però, era soprattutto italiana. E in certe aree poverissime era una piaga. Come a Bagni di Lucca, «una delle località di reclutamento dei figurinai» dove soltanto fra il 1896 e il 1897 partirono «417 figurinisti, di cui 87 come padroni e 330 fra apprendisti». O a Mezzanego, Appennino ligure, dove secondo il procuratore del Re presso la Corte d’Appello di Genova «tre quarti delle famiglie affitta i propri ragazzi, come suonatori, espositori di bestie etc. Vi sono 17 incettatori di cotesti fanciulli ridotti a merce. Le notizie che di loro giungono al paese sono per lo più desolanti».
Venduti o affittati, i piccoli finivano sui mercati dell’agricoltura francese («A Barcellonette, in alta Provenza, il mercato dei bambini si teneva il 20 aprile e coinvolgeva annualmente dai 300 ai 400 minorenni»), nei cantieri edili svizzeri o tedeschi, nelle miniere, nelle vetrerie francesi... Quale fosse il loro destino ce lo spiega La Basilicata e il Nuovo mondo di Enzo Vinicio Allegro: «Per testimonianza di un medico napoletano, su 100 fanciulli dei due sessi che abbandonano i loro villaggi, 20 soltanto ritornano alle loro case, 30 circa si stabiliscono nelle diverse parti del mondo e 50 soccombono alle malattie, alle privazioni di ogni sorta ed ai cattivi trattamenti!».
Moltissimi, come denunciava il diplomatico Raniero Paulucci de Calboli («già fin dal 1873 il "New York Times", e più tardi, nel 1885, il "Philadelphia Times", calcolavano a 80.000 i fanciulli italiani d’ambo i sessi appartenenti a quella categoria di girovaghi da cui escono i delinquenti e le prostitute») finivano in America. «Nella folla molteplice che empie i transatlantici diretti a Boston c’è sempre una piccola porzione di giovinetti i quali pongono la Società in serio imbarazzo», spiegava nel 1906 un certo padre Roberto Biasotti descrivendo l’attività della società umanitaria San Raffaele. «Lo sfruttamento del minorenne esportato non è una privativa delle vetrerie francesi. Anche in America si pratica su larga scala e con mezzi tali che sfidano la legge perché coperti dal manto della legalità! La legge vieta lo sbarco ai giovani sotto i 17 anni compiti, se non siano accompagnati o diretti dai parenti. Ma qui i parenti si fabbricano con una velocità allarmante...». Era bestiale, il lavoro nelle vetrerie: «Questi ragazzi», spiegò in Parlamento il sottosegretario Scipione Ronchetti, «per nove decimi diventano tubercolotici e quelli che sopravvivono al guardarli fanno fremere d’orrore».
Per non dire delle «fanciulle e giovani donne italiane coinvolte nei circuiti illegali dell’emigrazione a scopo sessuale». Quelle del Nord finivano soprattutto nei bordelli europei, quelle del Sud venivano avviate sui mercati dell’Africa mediterranea: «Le province napoletane, specie quella di Benevento, rifornivano ad esempio l’Egitto, mentre quelle siciliane avevano rapporti privilegiati con la Tunisia». Il deputato toscano Ettore Socci era allarmatissimo: «Il maltrattato fanciullo d’oggi sarà il delinquente o l’anarchico di domani. Se il ragazzo cresciuto nel rigagnolo della strada esposto a tutte le intemperie del cielo e a tutta la brutalità degli uomini; se il piccino che non ha da dormire né da mangiare e in pieno inverno vede passare nella carrozza di una gran signora, un canino ravvolto nelle pellicce ed egli ha freddo, e trema e soffre, concepisce l’odio più feroce verso la società e viene il giorno in cui scaglia una bomba, parliamoci chiaro, siamo noi che gliela abbiamo fatta lanciare».
Il delitto del neonato bruciato che tormentava Majorana
La nuova teoria sul fisico scomparso: folle per un caso in famiglia
di Giovanni Caprara
Da pagina 1 Aveva 31 anni, i capelli corvini, gli occhi vivacissimi e tristi. Si imbarcò su una nave a Palermo per raggiungere Napoli è scomparve per sempre. Era la sera del 26 marzo 1938, un sabato. Da allora la storia di Ettore Majorana, il grande scienziato che lavorò con Enrico Fermi nella scuola di fisica di Via Panisperna a Roma, si dissolse in un mistero che il tempo ha reso ancora più impenetrabile. Persino Leonardo Sciascia indagò con il suo libro «La scomparsa di Majorana» nella strana vicenda di un uomo straordinario nella genialità quanto nella debolezza della sua natura. E ricostruendone i passi è attratto dall’ipotesi di un ritiro tra le mura di un convento. C’è, invece, chi ha immaginato una fuga in Argentina oppure un suicidio perfettamente studiato da non lasciare traccia. Questo è un mistero ben noto, scandagliato da libri e film. Ma che cosa ha scatenato in Majorana la decisione di eliminare la sua immagine dalla faccia della Terra? Ecco il mistero nel mistero nel quale si è immerso Joao Magueijo, un fisico portoghese che insegna teoria della relatività all’Imperial College di Londra e che, avendo frequentato per anni il «Centro Ettore Majorana» di Erice, in Sicilia, non ha potuto sottrarsi al fascino di una luce improvvisamente spenta. Esplorando tra documenti e persone ha infine scritto «La particella mancante» (Rizzoli) nelle cui pagine fa emergere soprattutto due eventi, uno umano e l’altro scientifico, forse all’origine della drammatica scelta. Il primo risale al 1924. Ettore ha 18 anni e lo zio Dante, al quale era molto legato, viene accusato di essere il mandante di un terribile omicidio: l’uccisione di un bimbo nella culla alla quale è dato fuoco. Il neonato è figlio dell’industriale Antonio Amato le cui due sorelle hanno sposato Dante e Giuseppe Majorana, illustri avvocati e zii di Ettore. La polizia raccoglie dalla sedicenne bambinaia Carmela, affetta da ritardo mentale, l’ammissione di essere stata lei a incendiare la culla. La vicenda però si complica come ogni storia siciliana che si rispetti. Le due sorelle di Amato erano appena state escluse da un’eredità di cui si appropria interamente Antonio. Dante e Giuseppe, avvocati, portano in tribunale la rivendicazione delle loro mogli e il giudice stabilisce un risarcimento da parte di Antonio. Qualcuno allora fa circolare l’ipotesi che le colpe ammesse dalla bambinaia non fossero credibili e che Dante e Giuseppe andassero indagati. Carmela ritratta la sua prima deposizione e accusa l’ex fidanzato, sua madre e il fratello di essere stati loro a indurla a compiere il folle gesto. E finiscono in carcere. Passano anni, il processo è riaperto e i colpevoli concordano una versione di difesa comune: loro avevano agito su mandato di Dante Majorana il quale viene subito imprigionato assieme alla consorte. Ettore scrive allo zio quasi ogni giorno e poi confida all’amico Gleb Wataghin: «Non mi fido degli avvocati, sono tutti degli idioti. Scriverò io stesso la difesa di mio zio: so che cosa è accaduto». Dopo otto anni la vicenda diventata sui giornali «Il delitto della culla» e il «Misterioso caso Majorana», si chiude con l’assoluzione favorita da una terza versione dei fatti della bambinaia e dalla prova dei testimoni minacciati dalla mafia. «Il caso del bambino bruciato produsse ferite permanenti in Ettore — sostiene Magueijo — la famiglia ristabilì l’onorabilità del proprio nome ma agli occhi di Ettore lo sporcò ancora di più. Ettore perse la fede nella razionalità. Nel 1933 precipitò nella follia, ed è innegabile che l’episodio del bambino arso vivo diede un contributo decisivo al suo crollo». Secondo evento. Nel 1932 Ettore Majorana pubblica una teoria sulla natura e il comportamento di alcune fondamentali particelle nucleari che si contrappone a quella già nota del fisico britannico Paul Dirac. «Rimarrà la sua sinfonia incompiuta», dice Magueijo. I rapporti con il gruppo di fisici di Via Panisperna non sono buoni. Ettore viene battezzato «il grande inquisitore». Nel gennaio 1933 parte per l’Istituto di fisica di Lipsia per lavorare con Wernher Heisenberg già famoso per il «Principio di indeterminazione». Appena arrivato la sua ritrosia e le difficoltà nei rapporti sembrano dissolversi. Manda alla famiglia lettere piene di insolito entusiasmo. Con lo scienziato tedesco, Ettore condivide ricerche importanti sull’interazione forte che tiene insieme i nuclei atomici, ma anche certe inclinazioni filosofiche che arricchiscono i loro incontri. In quei giorni il clima in Germania volge al peggio. Hitler ha appena conquistato il potere e nella notte del 27 febbraio il Reichstag è incendiato. Ettore si trasferisce momentaneamente a Copenaghen all’Istituto di Neils Bohr, uno dei creatori della meccanica quantistica, «il maggior ispiratore della fisica moderna — scriverà in una lettera — ora un po’ invecchiato e sensibilmente rimbambito». Dopo una breve vacanza pasquale romana, Ettore torna a Lipsia e precipita nella depressione. Non frequenta più nessuno, vede male persino Heisenberg. «Forse le radici di ciò che sarebbe successo nel marzo 1938 vanno cercate nel maggio 1933?» si chiede Magueijo. «Un evento si abbattè con forza su di lui. Era infatti a Lipsia quando cominciarono a giungere notizie che la sua critica alla teoria di Dirac, inclusa nel suo capolavoro del 1932, fosse sbagliata. Solo negli anni Sessanta il suo capolavoro sarà riscoperto e riconsiderato». In quei mesi aveva anche interrotto i rapporti con il gruppo di Via Panisperna e quando torna a Roma nell’agosto 1933 si isolerà per cinque anni dal mondo non uscendo quasi mai dalla sua camera senza nemmeno tagliarsi più i capelli. Solo Edoardo Amaldi manterrà un tenue filo di amicizia. Siamo nel 1938 e mentre Enrico Fermi inseguito dalle leggi razziali volava a Stoccolma per il premio Nobel e poi in America, Ettore architettava la scomparsa. «La maledizione del bimbo carbonizzato cambiò per sempre la sua visione del mondo — conclude Joao Magueijo —. E quando l’angoscia si attenuò nei mesi che precedettero la trasferta a Lipsia era probabilmente troppo tardi perché egli potesse trovare sollievo».
Corriere della Sera 19
La tratta dei piccoli schiavi italiani
Saltimbanchi, prostitute, manovali: una pagina nera che arriva al XX secolo
di Gian Antonio Stella
«È cosa da rabbrividire l’udire le sevizie, i maltrattamenti, ai quali il padrone sottopone quei fanciulli, ove ritornino la sera a casa senza portare il guadagno ch’esso sperava, o quella somma che aveva loro imposto il mattino; le percosse, la fame, i tormenti sono il frutto delle loro fatiche». Vincenzo Isacco e Carlo Salvarezza, scrivendo il loro «Commentario della legge di pubblica sicurezza del 20 marzo 1865» non trattenevano rabbia e compassione. Così come vibrava d’indignazione in Parlamento la voce di Teofilo Rossi parlando di quei bimbi «percossi a sangue, torturati con ferocia, di altri morti per mazzate, di altri svenuti per fatica e fatti rinvenire a staffilate per far loro riprendere il lavoro, di altri impazziti di dolore sotto i colpi della cinghia del negriero crudele, di altri morti di stenti e di fame e per calci nell’addome ricevuti dagli operai».
Fu quello il destino di tantissimi bambini italiani. A partire dalla metà dell’Ottocento fin dentro il XX secolo. È una storia terribile. In larga parte rimossa. Per pudore. Per vergogna. Per la scelta indecente di non fare i conti col nostro passato. Nonostante ci avesse già raccontato tutto, ad esempio, Edmondo De Amicis nel «Piccolo Patriotta padovano» di Cuore, scrivendo di un bimbo «di undici anni, mal vestito, solo, che se ne stava sempre in disparte, come un animale selvatico, guardando tutti con l’occhio torvo. E aveva ben ragione di guardare tutti con l’occhio torvo. Due anni prima, suo padre e sua madre, contadini nei dintorni di Padova, l’avevano venduto al capo d’una compagnia di saltimbanchi; il quale, dopo avergli insegnato a fare i giochi a furia di pugni, di calci e di digiuni, se l’era portato a traverso alla Francia e alla Spagna, picchiandolo sempre e non sfamandolo mai».
A quella dolorosa epopea la storica Maria Rosa Protasi ha dedicato un libro denso di numeri, storie, testimonianze. Si intitola I fanciulli nell’emigrazione italiana (Cosmo Iannone Editore, pagine 267, 14) e dovrebbe essere letto nelle scuole. Per capire quanto sia falsa la tesi che «noi eravamo diversi». E rendere giustizia almeno con la memoria a quei nostri bambini che vissero l’inferno.
Erano altri tempi? Vero. Nell’Europa di fine ’800 «l’età minima di ammissione al lavoro di fabbrica era: 10 anni in Spagna e Danimarca; 11 in Inghilterra; 12 in Russia, Austria, Olanda, Portogallo, Svezia, Belgio, Ungheria; 13 in Francia e Germania; 14 in Svizzera e Norvegia» e 9 da noi. La «tratta dei fanciulli», però, era soprattutto italiana. E in certe aree poverissime era una piaga. Come a Bagni di Lucca, «una delle località di reclutamento dei figurinai» dove soltanto fra il 1896 e il 1897 partirono «417 figurinisti, di cui 87 come padroni e 330 fra apprendisti». O a Mezzanego, Appennino ligure, dove secondo il procuratore del Re presso la Corte d’Appello di Genova «tre quarti delle famiglie affitta i propri ragazzi, come suonatori, espositori di bestie etc. Vi sono 17 incettatori di cotesti fanciulli ridotti a merce. Le notizie che di loro giungono al paese sono per lo più desolanti».
Venduti o affittati, i piccoli finivano sui mercati dell’agricoltura francese («A Barcellonette, in alta Provenza, il mercato dei bambini si teneva il 20 aprile e coinvolgeva annualmente dai 300 ai 400 minorenni»), nei cantieri edili svizzeri o tedeschi, nelle miniere, nelle vetrerie francesi... Quale fosse il loro destino ce lo spiega La Basilicata e il Nuovo mondo di Enzo Vinicio Allegro: «Per testimonianza di un medico napoletano, su 100 fanciulli dei due sessi che abbandonano i loro villaggi, 20 soltanto ritornano alle loro case, 30 circa si stabiliscono nelle diverse parti del mondo e 50 soccombono alle malattie, alle privazioni di ogni sorta ed ai cattivi trattamenti!».
Moltissimi, come denunciava il diplomatico Raniero Paulucci de Calboli («già fin dal 1873 il "New York Times", e più tardi, nel 1885, il "Philadelphia Times", calcolavano a 80.000 i fanciulli italiani d’ambo i sessi appartenenti a quella categoria di girovaghi da cui escono i delinquenti e le prostitute») finivano in America. «Nella folla molteplice che empie i transatlantici diretti a Boston c’è sempre una piccola porzione di giovinetti i quali pongono la Società in serio imbarazzo», spiegava nel 1906 un certo padre Roberto Biasotti descrivendo l’attività della società umanitaria San Raffaele. «Lo sfruttamento del minorenne esportato non è una privativa delle vetrerie francesi. Anche in America si pratica su larga scala e con mezzi tali che sfidano la legge perché coperti dal manto della legalità! La legge vieta lo sbarco ai giovani sotto i 17 anni compiti, se non siano accompagnati o diretti dai parenti. Ma qui i parenti si fabbricano con una velocità allarmante...». Era bestiale, il lavoro nelle vetrerie: «Questi ragazzi», spiegò in Parlamento il sottosegretario Scipione Ronchetti, «per nove decimi diventano tubercolotici e quelli che sopravvivono al guardarli fanno fremere d’orrore».
Per non dire delle «fanciulle e giovani donne italiane coinvolte nei circuiti illegali dell’emigrazione a scopo sessuale». Quelle del Nord finivano soprattutto nei bordelli europei, quelle del Sud venivano avviate sui mercati dell’Africa mediterranea: «Le province napoletane, specie quella di Benevento, rifornivano ad esempio l’Egitto, mentre quelle siciliane avevano rapporti privilegiati con la Tunisia». Il deputato toscano Ettore Socci era allarmatissimo: «Il maltrattato fanciullo d’oggi sarà il delinquente o l’anarchico di domani. Se il ragazzo cresciuto nel rigagnolo della strada esposto a tutte le intemperie del cielo e a tutta la brutalità degli uomini; se il piccino che non ha da dormire né da mangiare e in pieno inverno vede passare nella carrozza di una gran signora, un canino ravvolto nelle pellicce ed egli ha freddo, e trema e soffre, concepisce l’odio più feroce verso la società e viene il giorno in cui scaglia una bomba, parliamoci chiaro, siamo noi che gliela abbiamo fatta lanciare».
giovedì 19 agosto 2010
Unità 19.8 pp24-25
l’Unità 19.8.10
Ritratti di guerra. È una prassi tra i militari lo scatto in posa con il «trofeo umano» palestinese
Haaretz: una vicenda non meno grave di quella degli americani nel carcere di Abu Ghraib
Israele, bufera per le foto della vergogna su Facebook
Le foto della vergogna. Quelle che mostrano soldati israeliani in posa con palestinesi arrestati, umiliati e mostrati come trofei. La denuncia di una ong israeliana. Circolano su Facebook e sono anche fonte di commercio
di Umberto De Giovannangeli
Esibizione e commercio. C’è chi paga un prezzo per i video L’ultradestra approva
Le soldatesse. Costrette a mostrarsi più dure dei maschi nell’umiliare il nemico
La denuncia. È la logica perversa frutto dell’occupazione dei Territori
I video della vergogna. Le foto che umiliano il «nemico» ma che finiscono per umiliare gli autori. Lo scandalo corre su Facebook. Si propaga nei circuiti mediatici dell’ultradestra. Diviene anche commercio. Uno sporco commercio. Tutto, meno che un caso isolato. Il postare su Facebook foto di militari israeliani accanto a prigionieri palestinesi ammanettati e bendati rappresenta «la norma e non l'eccezione» per le forze armate dello Stato ebraico: a denunciarlo è l’organizzazione umanitaria israeliana Breaking the Silence (Rompiamo il silenzio) , smentendo quanto sostenuto in un comunicato dall’Idf (le Forze armate israeliane).
VERGOGNA IN RETE
L’ong che raccoglie le testimonianze dei militari in merito agli abusi commessi nei Territori sottolinea come quanto fatto dalla ex soldatessa Eden Abargil non rappresenta «il comportamento crudele di una sola persona», come sostengono invece
le Forze armate. «È diventata la norma per i soldati assumere questo tipo di stereotipo, che estrapola situazioni vissute nel quotidiano da loro e dai palestinesi», rileva Yehouda Shauel, rappresentante dell'ong , che ha messo in circolazione queste nuove immagini. Su queste nuove fotografie pubblicate su Facebook, si possono vedere militari che circondano una prigioniera in ginocchio o anche un soldato sdraiato accanto a un prigioniero seduto con le mani dietro la schiena o ancora un soldato in posa accanto a un palestinese ferito trasportato in ambulanza. Le fotografie mostrano generalmente i detenuti in situazioni umilianti, senza peraltro dimostrare sevizie. «La cosa più sorprendente è che anche in Israele queste fotografie hanno colpito l'opinione pubblica, mentre ci sono cose ben peggiori che passano» in occasione degli arresti e degli interrogatori, sottolinea ancora Shauel. L'ex soldatessa Abargil ha spiegato da parte sua di non comprendere l'emozione suscitata da queste immagini, ritenendo di non aver «danneggiato nessuno». Ha rivelato di aver subito una valanga di lettere minatorie e di insulti, ma anche di apprezzamenti dopo la pubblicazione su Facebook.
CULTURA DEL DISPREZZO
Durissima è la riflessione che Haaretz, il giornale progressista israeliano, affida a un editoriale: «Tutto questo traduce uno stato d'animo che prende le sue radici in anni di un’occupazione e che arriva a considerare i detenuti palestinesi come sub-umani».. «Quelle foto aggiunge Haaretz riflettono una “subcultura” che percepisce i prigionieri palestinesi come oggetti di divertimento e di abusi... È una “subcultura” che dà luogo a com-
La foto della soldatessa che per prima ha scatenato le polemiche.
Su Facebook nuove foto che dimostrano un fenomeno diffuso nell’esercito portamenti terribili come costringere con la forza e le minacce i detenuti a ballare, o cantare canzoni patriottiche israeliane e militari, o mettersi in posa come il cacciatore che ha catturato la sua bestia...». La conclusione è durissima: «Queste “esibizioni” filmate o fotografate non sono diverse, meno gravi, da quelle dei soldati americani che abusavano dei prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib. Quelle immagini, svelate nel 2004, sconvolsero il mondo....».
TESTIMONIANZE SHOCK
L’ong israeliana ha raccolto nel tempo le testimonianze di soldatesse sconvolte da ciò a cui avevano assistito, e che alcune avevano anche filmato con il cellulare: si parla di atti di umiliazione o di pestaggi inflitti ai palestinesi compiuti solo per mostrarsi “più dure” dei commilitoni maschi, del brivido provato da qualcuna nel poter schiaffeggiare impunemente un ragazzo arabo, ma anche di una mano rotta a un ragazzino fermo a un posto di blocco. Nel report dell’associazione sono circa 50 le donne soldato ad aver preso parola: tutte raccontano di come la violenza sia molto più brutale rispetto a quella dei loro colleghi. Si prendono i prigionieri e li si sbatte al muro, li si umilia facendoli cantare canzoncine, facendoli saltare al ritmo desiderato, deridendoli e schiaffeggiandoli anche per 6-8 ore di fila, senza alcuna ragione. Una soldatessa impiegata nell’unità di polizia militare Sachlav racconta di un bambino palestinese che ripetutamente avrebbe provocato i soldati e lanciato anche alcune pietre. Lo stesso bambino sembrerebbe aver causato la frattura di una gamba ad un soldato, perché spaventatosi dal lancio di una pietra, sarebbe caduto rompendosi l’arto. L’immediata ritorsione viene raccontata così: il bimbo viene preso da due soldati e caricato su una jeep per esser portato al check point, da dove esce con una mano rotta, rotta sulla sedia su cui era stato fatto sedere. Alcune di queste «imprese» sono state immortalate con foto e filmati. Una vergogna in rete.
il Fatto 19.8.10
La leggenda del picconatore
di Massimo Fini
Se attaccò mai qualcosa fra il 1990 e il 1992, quando era Capo dello Stato, fu proprio quello che allora veniva chiamato “il nuovo che avanza”: la Lega, la Rete, Leoluca Orlando, Mani Pulite
Che Francesco Cossiga sia stato “il picconatore” della Prima Repubblica, come han titolato ieri tutti i giornali, di destra e di sinistra, è una leggenda metropolitana che non si capisce come si sia potuta creare. Se “picconò” mai qualcosa fra il 1990 e il 1992, quando era Capo dello Stato, fu proprio quello che allora veniva chiamato “il nuovo che avanza”: la Lega, la Rete, Leoluca Orlando, Mani Pulite.
La telefonata a Miglio
PRIMA delle elezioni del 1990, violando ogni regola di imparzialità imposta dalla sua carica, attaccò pesantemente la Lega allora agli albori e qualche mese dopo definì i leghisti “criminali”. Inaudita è la telefonata intimidatoria che fece a Gianfranco Miglio, il principale consigliere di Bossi, come qualcuno ricorderà, il 26 maggio 1990, pochi giorni dopo le elezioni, e che lo stesso Miglio ha raccontato in un libro: “Rovinerò Bossi facendogli trovare la sua automobile imbottita di droga; lo incastrerò. E quanto ai cittadini che votano per la Lega li farò pentire: nelle località che più simpatizzano per il vostro movimento aumenteremo gli agenti della Guardia di Finanza e della Polizia, anzi li aumenteremo in proporzione al voto registrato. I negozianti e i piccoli e grossi imprenditori che vi aiutano verranno passati al setaccio: manderemo a controllare i loro registri fiscali e le loro partite Iva; non li lasceremo in pace un momento. Tutta questa pagliacciata della Lega deve finire” (Io, Bossi e la Lega, Mondadori, 1994, p. 28). E Miglio così proseguiva: “Confesso che la sorpresa provocatami in questa sfuriata mi lasciò senza parola. Cossiga era per me un amico ma era anche il Presidente della Repubblica! Mi avevano detto che piccoli operatori economici in odore di leghismo, avevano ricevuto insistenti ispezioni della Finanza; ma se addirittura il custode della Costituzione era pronto ad avallare atti illeciti a danno di cittadini colpevoli soltanto di avere un’opinione politica diversa da quella dominante,dove andavano a finirele garanzie dello Stato di diritto?”.
Cossiga non ha mai querelato Miglio per queste affermazioni gravissime che denunciavano atti (la telefonata intimidatoria con i suoi corollari) che andavano ben oltre la violazione clamorosa del galateo istituzionale ma che non possono essere definiti altrimenti che criminali e che non hanno precedenti, nella pur nebulosa storia dell’Italia repubblicana e che in qualsiasi altro Paese avrebbero provocato l’avvio immediato di un procedimento di impeachment. Ma gli scricchiolanti partiti della Prima Repubblica, che stavano per essere abbattuti dai colpi di maglio della Lega e di Mani Pulite, si guardarono bene dal muovere orecchia, plaudirono anzi alle iniziative antileghiste e anti-magistratura così come oggi altri partiti, diversi nei nomi ma non nella sostanza, e le più alte cariche dello Stato lo beatificano come “Padre della Patria” e definiscono “insigne costituzionalista” un uomo che ha sistematicamente violato, e nei modi più gravi, la Costituzione (sia detto di passata: docente di Diritto Costituzionale Francesco Cossiga non ha mai scritto un rigo in materia se non, nel 1950, una nota sulla Rassegna di diritto pubblico che conteneva un clamoroso errore sulle attribuzioni dei Pubblici ministeri e nel 1969, fatto credo unico, il Consiglio di Facoltà dell’Università di Sassari, su richiesta degli studenti, gli revocò la cattedra dopo che il futuro “Presidente emerito” era stato bocciato due volte agli esami per diventare ordinario, per salvarlo gli inventarono una cattedra di “Diritto costituzionale regionale”).
Il grande difensore
IN COMPENSO , se picconava “il nuovo che avanza”, Cossiga difese fino all’ultimo isocialisti che dell’ancien régime e delle sue sozzure, delle sue tangenti, delle sue prevaricazioni erano considerati l’emblema. “Perché li difende?” gli chiesi una volta che mi aveva invitato al Quirinale dolendosi per alcune critiche che gli avevo mosso. “Oh bella – rispose – perché i socialisti difendono me”. Che non mi sembra un bel modo di ragionare per un Presidente della Repubblica. Del resto nella Prima Repubblica, e proprio nel suo centro, la Democrazia Cristiana, aveva fatto tutto il suo “cursus honorum”. Lui stesso ammise, in un momento di rara lucidità, di essere “un puro prodotto dell’oligarchia”. Forse l’averlo confuso con un “picconatore” deriva dal fatto che negli ultimi due anni del suo settennato si mise a insultare, nel modo più gratuito e sguaiato, uomini politici e non, con cui aveva vecchie e nuove ruggini personali: “piccolo uomo e traditore” (il dc Onorato), “cappone” (il dc Galloni), “zombie con i baffi” (il pds Occhetto), “poveretto” (il dc Flamigni), “analfabeta di ritorno” (il dc Zolla), “mascalzone, piccolo e scemo” (il dc Cabras), “cialtrone e gran figlio di puttana”(Wallis,caporedattore della Reuter) e, infine, un onnicomprensivo “accozzaglia di zombie e di superzombie” appioppato all'intero Parlamento. Da allora si aprirono le cateratte e furono una serie di messaggi trasversali, cifrati, allusivi, intimidatori, secondo il suo miglior stile. Ricattò il governo con una grottesca e inapplicabile “autosospensione”, minacciò undici volte le dimensioni, minacciò una crisi perché due parlamentari si erano permessi di concedere un’intervista a La Repubblica, giornale a lui sgradito. Finito il suo mandato si sperò che di Francesco Cossiga non si sarebbe sentito parlare più. E invece ha continuato a mestare, a mandare messaggi trasversali, a creare partitini (l'Udr, l'Upr, l'Associazione XX settembre, il Trifoglio) che otterranno sempre percentuali di albumina, senza però dismettere mai quell’aria di arrogante superiorità che non si capisce bene su che si fondasse se non sul suo delirio narcisistico che tutto riportava a sé, tutto riferiva a sé, come se il mondo intero ruotasse intorno alla sua augusta persona. È stato un vecchio malvissuto. E noi non saremo così ipocriti da scrivere ora, perché è morto, cose diverse da quelle che scrivevamo quando era vivo.
il Fatto 19.8.10
Un appassionato di servizi e logge coperte
di Gianni Barbacetto
Fu a suo modo un anticipatore: le sue esternazioni hanno fornito il modello per gli attacchi a un potere dello Stato, la magistratura, che poi Silvio Berlusconi ha reso metodo di governo e programma politico
Francesco Cossiga non è stato, come molti vorrebbero farci credere, una simpatica lepre marzolina, un libero pensatore, un outsider della Repubblica, un coraggioso picconatore che ha aiutato il rinnovamento del Paese. No, Cossiga ha espresso perfettamente il senso profondo della politica italiana, è l’icona della Prima Repubblica che trapassa nella seconda e la legittima. È stato un anticipatore: dopo il rigoroso silenzio istituzionale dei primi anni al Quirinale, lo spirito del tempo si è impossessato di lui e lo ha spinto a forsennate esternazioni che hanno fornito il modello per gli attacchi a un potere dello Stato, la magistratura, che poi Silvio Berlusconi renderà metodo di governo e programma politico; e il suo linguaggio allusivo, violento e antistituzionale sarà in seguito la cifra politico-comunicativa di Umberto Bossi (e di tutti gli Sgarbi e gli Stacquadanii della variopinta scena italiana).
Doppia fedeltà
LA PRIMA REPUBBLICA , fino a Cossiga, riteneva che le cose sporche della politica italiana (rubare, avere doppie fedeltà, coprire logge segrete, impiegare l’eversione, utilizzare il terrorismo, ricorrere all’omicidio politico, fare le stragi, stringere patti con le mafie...) dovessero essere negate: si fa ma non si dice. L’ipocrisia era ancora il tributo che il vizio paga alla virtù. Dopo Cossiga, e compiutamente nella Seconda Rebubblica del Grande Corruttore, le cose sporche si rivendicano, il vizio vincente diventa virtù. Ecco perché Cossiga è il più postmoderno dei politici della Prima Repubblica, l’unico che potrà entrare nel Pantheon del nuovo regime. Giulio Andreotti ne ha fatte forse di peggio, ma si è mantenuto fedele allo stile del silenzio e del negare sempre anche l’evidenza. Ha mantenuto l’ordine dei valori, che pure ha tante volte trasgredito. Cossiga, forse aiutato anche dalle sue personalissime malinconie, quell’ordine l’ha sovvertito, rivendicando il lato oscuro della forza e diventando, al tempo stesso, il Grande Depistatore delle vicende nere che conosceva ma raccontava sempre a metà, mischiando verità e menzogna, con messaggi obliqui e avvertimenti inquietanti. Si dice: è stato un uomo dello Stato. Ma di quale Stato? Di quello segreto e sotterraneo che utilizzava le istituzioni democratiche come un simulacro entro cui impiantare i poteri reali che dovevano comunque condurre il gioco, al di là delle apparenze. Per questo è sempre stato un fan di Servizi segreti e logge massoniche, meglio se “riservate”. Perché erano (sono?) gli strumenti con cui la democrazia diventa apparenza, le istituzioni sono ridotte a mezzi. Una visione speculare a quella che della democrazia ha il comunismo, il Grande Nemico che Cossiga ha combattuto e che non a caso ha in più occasioni mostrato d’apprezzare: ma ciò che gli piaceva (come a Berlusconi) era quella volontà di potenza che riduce la democrazia a gioco di specchi. Quanti segreti porta con sé nella tomba. Non solo sul caso Moro. Era ancora un giovane e promettente sottosegretario alla Difesa con delega ai Servizi segreti, quando – con Andreotti ministro – trasformò il dossier sul golpe Borghese da “malloppone” a “malloppino”, decidendo gli omissis da apportare al rapporto sul progettato colpo di Stato da far scattare dopo la strage di piazza Fontana. Così fu coperto il ruolo degli apparati e furono salvati alcuni personaggi (tra questi, Licio Gelli, lasciato libero di far crescere la sua P2). Si tenne allenato sui rapporti tra eversione nera e Stato, andando poi a incontrare in Spagna, tra la fine del 1976 e l’inizio del 1977 (quando era ministro dell’Interno!) il latitante Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale e coinvolto (ma poi prosciolto, per carità) in ogni indagine sulle stragi, da piazza Fontana a Bologna.
Ordino e dispongo
DA PRESIDENTE della Repubblica, dopo gli anni del silenzio inaugurò la fase parossistica degli attacchi forsennati ai magistrati che osavano indagare sull’eversione e le stragi. Feroce contro Felice Casson (Gladio). Claudio Nunziata (bombe nere sui treni). Libero Mancuso (strage di Bologna). Al Csm, Cossiga si rivolgeva con la formula imperiale “Ordino e dispongo”, per chiedere provvedimenti disciplinari per le toghe colpevoli di aprire spiragli sui rapporti tra eversione e apparati di Stato. Grande Depistatore fino all’ultimo: ancora nell’agosto 2008 intorbida le acque e resuscita per Bologna la “pista internazionale”, in una lettera come al solito piena di allusioni, raccontando di valige palestinesi esplose per sbaglio. Per Cossiga, il golpista confesso Edgardo Sogno è “un patriota”. Chi invece chiede verità e giustizia merita solo disprezzo. Il 1° dicembre 1990, nelle stesse ore in cui i familiari delle vittime delle stragi sono davanti al Parlamento a manifestare in silenzio, con i nomi dei morti scritti sui loro cartelli, Cossiga va a rendere l’estremo omaggio a un altro morto, l’ex capo del Sid Vito Miceli, protagonista di quello Stato che continua a oscurare la verità e impedire la giustizia. L’ex presidente ha più volte proposto una strana pacificazione: il reciproco riconoscimento di brigatisti rossi e terroristi di sinistra da una parte, terroristi neri e combattenti anticomunisti dall’altra. Ma Cossiga sapeva bene che una “pacificazione” così congegnata è soltanto l’ultimo dei depistaggi. Non è stato tra loro il vero scontro in Italia: la guerra a bassa intensità è stata combattuta da gruppi armati e protetti dagli apparati dello Stato, da una parte; e dall’altra, a farne le spese, sono stati cittadini inermi e inconsapevoli che hanno avuto la sorte di trovarsi nel momento sbagliato nel salone di una banca, nello scompartimento di un treno, in una piazza, nella sala d’aspetto di una stazione; oppure sono stati servitori dello Stato, magistrati fedeli alla Costituzione, professionisti coraggiosi, eroi borghesi. Che pacificazione è mai possibile, allora, in questa asimmetria insanabile, quale scambio di prigionieri? Solo la verità potrebbe mettere davvero fine alla guerra che, in nome di legittime e nobili bandiere (la resistenza al comunismo) ha tradito la Costituzione e inferto ferite profonde alla democrazia. Cossiga ha scelto invece il silenzio. E attorno a lui ha vinto la rimozione e la cooptazione nel nuovo regime del personale politico protagonista di quella guerra. Così il non detto del passato, con i suoi segreti impronunciabili e i suoi ricatti, resterà a fare da trama al futuro e le vecchie ferite resteranno cicatrici nascoste, focolai di nuove infezioni.
Corriere della Sera 19.8.10
La tratta dei piccoli schiavi italiani
Saltimbanchi, prostitute, manovali: una pagina nera che arriva al XX secolo
di Gian Antonio Stella
«È cosa da rabbrividire l’udire le sevizie, i maltrattamenti, ai quali il padrone sottopone quei fanciulli, ove ritornino la sera a casa senza portare il guadagno ch’esso sperava, o quella somma che aveva loro imposto il mattino; le percosse, la fame, i tormenti sono il frutto delle loro fatiche». Vincenzo Isacco e Carlo Salvarezza, scrivendo il loro «Commentario della legge di pubblica sicurezza del 20 marzo 1865» non trattenevano rabbia e compassione. Così come vibrava d’indignazione in Parlamento la voce di Teofilo Rossi parlando di quei bimbi «percossi a sangue, torturati con ferocia, di altri morti per mazzate, di altri svenuti per fatica e fatti rinvenire a staffilate per far loro riprendere il lavoro, di altri impazziti di dolore sotto i colpi della cinghia del negriero crudele, di altri morti di stenti e di fame e per calci nell’addome ricevuti dagli operai».
Fu quello il destino di tantissimi bambini italiani. A partire dalla metà dell’Ottocento fin dentro il XX secolo. È una storia terribile. In larga parte rimossa. Per pudore. Per vergogna. Per la scelta indecente di non fare i conti col nostro passato. Nonostante ci avesse già raccontato tutto, ad esempio, Edmondo De Amicis nel «Piccolo Patriotta padovano» di Cuore, scrivendo di un bimbo «di undici anni, mal vestito, solo, che se ne stava sempre in disparte, come un animale selvatico, guardando tutti con l’occhio torvo. E aveva ben ragione di guardare tutti con l’occhio torvo. Due anni prima, suo padre e sua madre, contadini nei dintorni di Padova, l’avevano venduto al capo d’una compagnia di saltimbanchi; il quale, dopo avergli insegnato a fare i giochi a furia di pugni, di calci e di digiuni, se l’era portato a traverso alla Francia e alla Spagna, picchiandolo sempre e non sfamandolo mai».
A quella dolorosa epopea la storica Maria Rosa Protasi ha dedicato un libro denso di numeri, storie, testimonianze. Si intitola I fanciulli nell’emigrazione italiana (Cosmo Iannone Editore, pagine 267, 14) e dovrebbe essere letto nelle scuole. Per capire quanto sia falsa la tesi che «noi eravamo diversi». E rendere giustizia almeno con la memoria a quei nostri bambini che vissero l’inferno.
Erano altri tempi? Vero. Nell’Europa di fine ’800 «l’età minima di ammissione al lavoro di fabbrica era: 10 anni in Spagna e Danimarca; 11 in Inghilterra; 12 in Russia, Austria, Olanda, Portogallo, Svezia, Belgio, Ungheria; 13 in Francia e Germania; 14 in Svizzera e Norvegia» e 9 da noi. La «tratta dei fanciulli», però, era soprattutto italiana. E in certe aree poverissime era una piaga. Come a Bagni di Lucca, «una delle località di reclutamento dei figurinai» dove soltanto fra il 1896 e il 1897 partirono «417 figurinisti, di cui 87 come padroni e 330 fra apprendisti». O a Mezzanego, Appennino ligure, dove secondo il procuratore del Re presso la Corte d’Appello di Genova «tre quarti delle famiglie affitta i propri ragazzi, come suonatori, espositori di bestie etc. Vi sono 17 incettatori di cotesti fanciulli ridotti a merce. Le notizie che di loro giungono al paese sono per lo più desolanti».
Venduti o affittati, i piccoli finivano sui mercati dell’agricoltura francese («A Barcellonette, in alta Provenza, il mercato dei bambini si teneva il 20 aprile e coinvolgeva annualmente dai 300 ai 400 minorenni»), nei cantieri edili svizzeri o tedeschi, nelle miniere, nelle vetrerie francesi... Quale fosse il loro destino ce lo spiega La Basilicata e il Nuovo mondo di Enzo Vinicio Allegro: «Per testimonianza di un medico napoletano, su 100 fanciulli dei due sessi che abbandonano i loro villaggi, 20 soltanto ritornano alle loro case, 30 circa si stabiliscono nelle diverse parti del mondo e 50 soccombono alle malattie, alle privazioni di ogni sorta ed ai cattivi trattamenti!».
Moltissimi, come denunciava il diplomatico Raniero Paulucci de Calboli («già fin dal 1873 il "New York Times", e più tardi, nel 1885, il "Philadelphia Times", calcolavano a 80.000 i fanciulli italiani d’ambo i sessi appartenenti a quella categoria di girovaghi da cui escono i delinquenti e le prostitute») finivano in America. «Nella folla molteplice che empie i transatlantici diretti a Boston c’è sempre una piccola porzione di giovinetti i quali pongono la Società in serio imbarazzo», spiegava nel 1906 un certo padre Roberto Biasotti descrivendo l’attività della società umanitaria San Raffaele. «Lo sfruttamento del minorenne esportato non è una privativa delle vetrerie francesi. Anche in America si pratica su larga scala e con mezzi tali che sfidano la legge perché coperti dal manto della legalità! La legge vieta lo sbarco ai giovani sotto i 17 anni compiti, se non siano accompagnati o diretti dai parenti. Ma qui i parenti si fabbricano con una velocità allarmante...». Era bestiale, il lavoro nelle vetrerie: «Questi ragazzi», spiegò in Parlamento il sottosegretario Scipione Ronchetti, «per nove decimi diventano tubercolotici e quelli che sopravvivono al guardarli fanno fremere d’orrore».
Per non dire delle «fanciulle e giovani donne italiane coinvolte nei circuiti illegali dell’emigrazione a scopo sessuale». Quelle del Nord finivano soprattutto nei bordelli europei, quelle del Sud venivano avviate sui mercati dell’Africa mediterranea: «Le province napoletane, specie quella di Benevento, rifornivano ad esempio l’Egitto, mentre quelle siciliane avevano rapporti privilegiati con la Tunisia». Il deputato toscano Ettore Socci era allarmatissimo: «Il maltrattato fanciullo d’oggi sarà il delinquente o l’anarchico di domani. Se il ragazzo cresciuto nel rigagnolo della strada esposto a tutte le intemperie del cielo e a tutta la brutalità degli uomini; se il piccino che non ha da dormire né da mangiare e in pieno inverno vede passare nella carrozza di una gran signora, un canino ravvolto nelle pellicce ed egli ha freddo, e trema e soffre, concepisce l’odio più feroce verso la società e viene il giorno in cui scaglia una bomba, parliamoci chiaro, siamo noi che gliela abbiamo fatta lanciare».
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